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Atti della Giornata di Studi “Carcere: La salute appesa a un filo” Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione (Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)
Giuseppe Pilumeli
Io non ho tantissime cose da dire, quindi non vorrei tradire le aspettative. Sono venuto volentieri per molte ragioni e per una in particolare: perché a questo tavolo non c’è mai nessuno della Polizia penitenziaria. Questa è la vera ragione che mi ha spinto a venire e ho colto con piacere l’invito di Ornella Favero. In maniera molto semplice, anche perché l’orario è quello che è, volevo semplicemente fare una riflessione che è oggetto di quello che è il lavoro di tutti i giorni, che si fa, o meglio, che cerco di fare per quello che è il mio incarico istituzionale. Io lavoro a Prato, sono un funzionario direttivo da quasi due anni e sono un vice commissario. Svolgo la funzione di comandante dal 1997: nessuno mi aveva detto cosa voleva dire fare il comandante di un penitenziario. Ho 22 anni di servizio e mi sono accorto strada facendo che era una cosa seria, perché i problemi in carcere, a seconda della prospettiva dai quali li guardi, assumono una veste differente. Io sono rientrato in servizio attivo da 45 giorni perché sono stato un anno in formazione a Roma, una formazione che mi ha lasciato l’amaro in bocca e ne parlo perché il problema della formazione, secondo me, è forse il principale problema che ha il corpo di Polizia penitenziaria. Quello che io voglio dire credo che sia attinente con il problema della salute appesa ad un filo, perché poi mutuando qualcosa che ha detto il professor Concato, è un po’ l’obiettivo del lavoro che io sto cercando di fare: non da solo certamente, lavoro che vede coinvolti tutti gli operatori delle altre aree dell’istituto. Educatori, psicologi, gli altri esperti, gli assistenti sociali, le altre figure professionali dell’area sanitaria, il personale di base al quale personalmente riservo una particolare attenzione, personale di base del corpo che sono gli agenti, agenti ai quali secondo me va restituita una dignità professionale che nel corso dei decenni è stata sempre più sottratta, anche e soprattutto dopo la riforma del 1990. Noi non siamo più militari però, per tutta una serie di ragioni, oggi all’interno degli istituti, guardando un po’ il panorama nazionale, si fa molto poco e quel poco che si fa lo facciamo anche male rispetto a quello che si dovrebbe fare. Può sembrare una criminalizzazione del personale, ma non lo è. Il personale di polizia, per quella che è la mia esperienza, svolge un buon lavoro, però non sempre riesce ad intercettare il disagio – proprio per rientrare nel tema – perché non ha gli strumenti, perchè ha una cultura professionale che deve essere cambiata. Nel corso degli anni, grazie ad una serie d’interventi nel corso dei quali io sono stato aiutato tantissimo dal direttore, ma anche da altri funzionari capi-area, dal direttore dell’area trattamentale, dai singoli operatori che mi hanno aiutato per cercare di cambiare questa cultura della professione. Io tornando da Roma ho iniziato un lavoro che potrebbe sembrare un po’ ambizioso, ma ho riflettuto su questo: l’obiettivo è quello di arrivare man mano a una cultura di salvaguardia dei diritti, non nelle carte ma nella prassi, perché il problema secondo me è quello di avere tanti testi che parlano di diritti, di parlarne anche in questa occasione e poi si spengono i microfoni, si spengono le luci e i detenuti continuano a non avere diritti. Dico al mio personale, e lo ripeto ai colleghi che sono presenti, che rispettare i diritti degli altri, e mi riferisco al lavoro all’interno delle sezioni, significa rispettarsi e significa, a parte il dovere di lavorare con questa prospettiva, significa rispettarsi professionalmente. Avere una cultura aperta al dialogo non significa erodere competenza agli altri, significa comunque colmare, perché la legge lo dice, quella vacanza laddove c’è un agente che pensa solo a fare sicurezza, che poi sul concetto di sicurezza vorrei spendere due parole. Parlare significa conoscere il problema, parlare non significa avvantaggiare questo o quello, significa fare il proprio lavoro con intelligenza, intercettare il disagio, spesso salvare la vita. Io ripeto in questi giorni al mio personale che il primo problema, che in parte è attenzionato, in parte ha trovato soluzioni, è soddisfare il bisogno di ascolto dei detenuti, perché questo ritengo sia il primo problema. Io non voglio farla lunga qui sui massimi sistemi, sulle derive della politica perché ci sono il doppio dei detenuti in carcere a distanza di 15 anni, so perfettamente che non ci posso fare niente. Nel 1990 erano 30.000, oggi sono quasi 60.000. Le ragioni sono essenzialmente due ma credo siano legate a tematiche che vanno al di la a questo punto, addirittura della competenza nazionale perché siamo in prossimità di una ratifica del trattato di costituzione per l’Europa quindi siamo a tutti gli effetti quasi in una federazione Europea. Ci sono la legge sulla droga e le politiche di immigrazione: l’Italia per altro è zona di frontiera e quindi patisce prima e più degli altri il problema dei migranti. Questi sono i due problemi che ci troviamo ad affrontare, e se è vero come dice il Presidente Margara che quasi il 63% delle persone che sono in carcere sono tossicodipendenti e migranti, allora ci sarà pure una ragione del perché sono raddoppiati i detenuti. L’interrogativo a questo punto è: “Il carcere cambia, ma gli agenti sono adeguatamente formati?”. Noi 15 anni fa avevamo la metà dei detenuti, quindi ora i carichi di lavoro sono assolutamente abnormi rispetto a quelle che sono le forze, che sono distribuite malissimo in campo nazionale. Bisogna dirlo perché c’è una condizione sperequativa soprattutto tra Nord e Sud che non va assolutamente bene: detto questo che facciamo? Cerchiamo di rientrare nei nostri compiti e cerchiamo di lavorare con dignità professionale, guardando a che cosa? A due obiettivi di fondo che non dobbiamo andare a cercare tanto lontano. Sono scritti nella carta costituzionale: umanizzare la pena, che deve tendere alla rieducazione. Ora io come cittadino e come operatore ritengo di non essere in grado di rieducare altri perché è un problema molto serio e diffido di chi mi parla proprio a spada tratta di rieducazione, perché molto spesso significa vivere solo tra un volo pindarico e l’altro ed a me invece interessa salvare, cioè andare a risolvere i problemi spiccioli che poi rimangono dentro le celle che i detenuti hanno. Quindi poche cose fatte bene, guardando ai bisogni di base. Il problema di umanizzare la pena credo che siamo in grado di farlo. Ci sono problemi negli istituti metropolitani, e sono problemi seri, ma la maggior parte degli istituti non ha una condizione di sovraffollamento come ci può essere a San Vittore o a Napoli Poggioreale o da qualche altra parte, quindi perché c’è una condizione detentiva deficitaria? Perché i detenuti continuano a ricorrere al gesto autolesionistico? Molto spesso perché l’interlocutore in quel momento non è adeguato. Ecco perché io mi riferisco al personale di polizia, personale di polizia del quale va definito, e non è facile, il ruolo. Qual è il ruolo della Polizia penitenziaria oggi a quindici anni dalla riforma? Noi abbiamo una norma che è abbastanza chiara: assicurare l’ordine e la sicurezza nell’istituto penitenziario, collaborare alle attività trattamentali. A me va bene, la norma c’è però non è stata recepita nella sua interezza, perché per quanto mi riguarda quello che stiamo facendo oggi qua dentro fa molta più sicurezza di un raddoppio di agenti nelle sezioni. La partita di pallone inserita in un progetto, oppure il torneo di calcio, che interessa l’istituto dove io lavoro, tra chi studia all’interno e chi studia fuori, scuole superiori oppure universitari, fa sicurezza, e non c’è quel gran bisogno di personale che uno si può immaginare. Non ci vogliono venti agenti per gestire una partita di calcio di tre ore doccia compresa, invece questo fa sicurezza perché la persona quando entra in carcere, questo lo sapete perfettamente, è inutile che ve lo dico io, già dopo che ha varcato il cancello d’ingresso si innesca un meccanismo di spersonalizzazione. La perquisizione, l’immatricolazione, l’assegnazione in una cella che non ti sei scelto, con persone che non ti sei scelto, i problemi che ti sei lasciato dietro, tanto che a volte io penso: ma di detenuti se ne ammazzano troppo pochi probabilmente. Quindi, andiamoci verso una depenalizzazione, ma seria, perché è vero che il codice del 1930 è un codice buono per l’epoca, ma probabilmente è un po’ stantio ai bisogni di questa comunità. Concludo semplicemente con un’osservazione: i detenuti vanno trattati da adulti, perché non sono deficienti e nemmeno bambini, e solo se li trattiamo da adulti – nei limiti delle nostre possibilità perché non siamo in grado di fare politica – li rispettiamo perché hanno delle responsabilità. Non la voglio far lunga sulla filosofia della pena, sui problemi del perché le persone vanno in carcere. Guardo esclusivamente a quello che è il mio compito e il compito del personale che mi viene assegnato. Per quanto mi riguarda lavorerò a un progetto di formazione che anziché guardare a quelle che io goliardicamente ho definito “le chimere professionali di altri”, perché noi facciamo cose diverse rispetto agli altri corpi di polizia, a noi gli elicotteri non ci servono, francamente, nemmeno i sommozzatori, abbiamo i cinofili, ce li teniamo ormai, ma gli elicotteri non ci servono, ci serve di capire perché dentro la sezione ci si lavora con disagio, perché questo agente che ha a che fare con sessanta-settanta persone che hanno un problema per capello, deve essere rispettato e non deve più lavorare da solo, quindi se io fossi in grado di dare un consiglio al ministro direi: facciamolo questo atto di clemenza, anche perché 30.000 detenuti che vanno fuori, che non sono dentro al 4 bis, sono 243 milioni di euro di cui la società ha bisogno.
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