Donatella Zoia

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Donatella Zoia, medico penitenziario a San Vittore (Milano)

 

Cercherò di parlare un po’ per punti. Tengo a sottolineare che il problema della tossicodipendenza in carcere è legato all’illegalità delle sostanze e non alla gravità del problema della tossicodipendenza. Cioè, le persone entrano in carcere perché le droghe sono illegali, non perché c’è un problema legato alla gravità della malattia, tanto è vero che gli alcolisti entrano in carcere molto meno dei tossicodipendenti ma non è vero che è un problema meno rilevante socialmente.

Dal punto di vista normativo credo che il collega che mi ha preceduto, Sandro Libianchi, abbia fatto un quadro abbastanza chiaro di quella che è la situazione del passaggio dal servizio sanitario penitenziario al servizio sanitario nazionale.

Io preciso solo due cose. La prima è che attualmente la situazione normativa prevede che ci sia, da una parte il cosiddetto Servizio per le tossicodipendenze garantito dal ministero di grazia e giustizia, che è un servizio distribuito a macchia di leopardo nelle varie carceri, tendenzialmente in relazione al numero dei detenuti, e che prevede degli operatori, che sono psicologi, medici e infermieri, con dei contratti di consulenza oraria.

Dall’altra, con la legge 230/99, l’unica realtà che è stata passata ai Ser.T. è quella della tossicodipendenza. Quindi, di fatto, a tutti i titoli, non c’è bisogno di una convenzione, il Ser.T è titolare, in questo momento, del servizio per i tossicodipendenti in carcere.

Su questo faccio due riflessioni. La prima è che la problematicità della tossicodipendenza in carcere era già stata rilevata in maniera pressante nel 1993, da personalità come Luigi Daga, che aveva evidenziato come, con la nuova normativa, sarebbe diventata una problematica esplosiva, da una parte, e dall’altra non si garantiva nessuna cura per le persone tossicodipendenti in carcere, stante la realtà che c’era allora. Siamo nella stessa identica situazione, a dieci anni di distanza.

La seconda osservazione è che, a tre anni dalla possibilità di ingresso per i Ser.T. in carcere, a pieno titolo, le cose non sono molto cambiate, non dico che non sono cambiate, ma non sono molto cambiate.

Il trattamento metadonico per i tossicodipendenti detenuti, ancora un anno e qualche mese fa, dati ufficiali del ministero, era di circa l’8,9% della popolazione tossicodipendente. Questo quando, già da più di un anno, doveva essere attiva a pieno titolo la presa in carico da parte dei servizi territoriali della persona tossicodipendente detenuta. Quindi, questo per fare un quadro della situazione attuale e di cosa si sta muovendo.

La mia osservazione su tutto questo è che, evidentemente, il problema non è solo quello del passaggio al servizio sanitario nazionale, il problema è di che politica si fa per il trattamento della tossicodipendenza, per la gestione dei problemi di abuso di sostanze e, di conseguenza, per il trattamento della tossicodipendenza in carcere, che sono strettamente correlati ma che comunque chiedono un ragionamento di tipo politico, delle scelte precise su questi temi.

Secondo punto. Il quadro europeo, definito dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, dei problemi sanitari emergenti in ambito penitenziario, evidenziava che questi problemi sono: uno quello dell’uso e dell’abuso di sostanze, definendo che è un problema sia per l’elevata percentuale di persone tossicodipendenti in carcere (in alcuni istituti raggiunge il 50%); due che l’abuso e l’uso di sostanze continua e resta in carcere per circa per circa il 50% di questa popolazione tossicodipendente. Questo a fronte di un pool di operatori, quelli penitenziari, che non sono in grado di trattare e di gestire questo problema.

Il secondo punto evidenziato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità e anche da organizzazioni statali analoghe, che si occupano quindi di salute e di interrelazioni con gli altri stati, è quello dei problemi psichiatrici, che sono stati ampiamente evidenziati questa mattina. E il terzo, a pari livello, quello della prevenzione e trasmissione di malattie infettive e quello dei problemi della comunicazione, legati al fatto che sempre più la popolazione carceraria è una popolazione mista, per cultura e per provenienza.

Riguardo al trattamento in carcere della persona tossicodipendente faccio brevemente qualche osservazione. Il carcere è un’istituzione totale, come ha precisato benissimo stamattina il professor Meluzzi e quindi, per definizione, non è in grado di approntare il trattamento di una patologia come la tossicodipendenza. Il tossicodipendente già vive su di sé la percezione di un altro onnipotente e di un’assoluta incapacità personale a gestire le situazioni. Il carcere conferma a pieno titolo questa percezione: in carcere, è vero, c’è un altro onnipotente, che è il carcere stesso, che è l’operatore, che è l’agente di custodia, e c’è il detenuto che è assolutamente privo di qualsiasi potere, quindi questo conferma in assoluto la percezione negativa della tossicodipendenza.

Il secondo problema è quello dei trattamenti farmacologici. Come abbiamo visto solo al 9% della popolazione viene garantita una continuità del trattamento farmacologico e questo, secondo studi anche pubblicati su riviste importanti come "Giano" è un problema grossissimo per il trattamento della tossicodipendenza, definita come tutti sapete come malattia cronica.

E il terzo problema grossissimo è quello dell’uscita dal carcere, il salto nel vuoto, perché è di fatto questo, della scarcerazione.

Il carcere, quindi, non è un luogo di trattamento, io credo però che alcune cose possano essere fatte e debbano essere fatte. Le cose che possono essere fatte sono, comunque, la presa in carico, questo lo sottolineo, proprio perché io credo che sia compito dei Servizi territoriali prendere in carico le persone, già quando sono in carcere, proprio per mantenere questa continuità di trattamento. Ma va fatta al momento dell’ingresso in carcere, non può essere sporadico.

In carcere io credo si possa partire affidando dei percorsi di autonomia e di autodeterminazione, realizzando spazi, attività, situazioni, progetti, e il dottor Buffa ci ha dato un quadro di quello che si può fare anche con poche risorse. È necessario, attraverso queste strutture, attivare i Servizi territoriali, perché è importante la presa in carico al momento dell’uscita e attivare, soprattutto, e lo sottolineo anche questo, percorsi alternativi alla detenzione che non devono prevedere l’astinenza dall’uso di sostanze elemento per la valutazione del programma giuridico.

Cosa vuol dire? Vuol dire che io posso utilizzare il monitoraggio dell’astinenza, o dell’uso di sostanze, dal punto di vista terapeutico, per capire come sta andando questa persona, per capire come la devo prendere in carico e capire come modificare il progetto, ma non può essere, questo criterio, quello di valutazione per dire che la persona deve restare fuori dal carcere o ci deve rientrare.

Questi sono due problemi che vanno tenuti separati: quello che deve garantire alla persona tossicodipendente in misura alternativa la possibilità di rimanere fuori è solo il fatto di seguire un programma trattamentale. Se lo segue e, quindi, si adegua, ragiona con gli operatori, si rivaluta, viene monitorato di nuovo che cosa fare, ha senso che la persona resti fuori del carcere.

Le risposte alternative al carcere, visto tutto quello che abbiamo detto, e soprattutto visto che si tratta di proposte di politiche alternative e di politiche trattamentali, è che ci siano progetti mirati (a Milano ce n’è uno, che si chiama "la cura vale la pena", in cui alla persona, al momento del processo, viene proposta immediatamente un’alternativa, quindi senza passare dal carcere, o passandoci per 4 o 5 giorni nel caso non sia possibile stabilire subito le cose – però nei processi per direttissima questo viene fatto) nei quali si propone un trattamento alternativo, che solitamente è comunitario, almeno per i primi tempi, ma può essere anche una detenzione domiciliare.

L’altro problema è quello della depenalizzazione, di un diverso approccio alla penalizzazione dell’uso di sostanze. Il terzo, sono tutte le possibili sperimentazioni sulla somministrazione controllata delle sostanze.

 

 

 

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