Giovanni Maria Pavarin

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Giovanni Maria Pavarin, giudice di sorveglianza di Padova

 

Ringrazio il professor Meluzzi, che con la sua relazione ci ha fatto un affresco davvero illuminante. La sua relazione è finita andando a fare le pulci alla traduzione di quel termine "visitare", per concludere che visitare i carcerati non significa spostarsi dalla città per andare dentro il carcere ma significa accoglienza, significa reinserimento, significa riscatto, significa inglobamento.

Saremmo tutti felici, noi che siamo qui oggi, io credo, di vivere in una società in cui fossero realizzate tutte le tensioni morali che abbiamo sentito vibrare nel discorso del professor Meluzzi, il quale, consapevole di quella circostanza, dice: "alla gente conviene pensare che il carcere è inutile, anche se non ha una dimensione di fede".

È un discorso immanente: conviene allo Stato, conviene alla società, che sia così. Io condivido le sue idee, dico però che su questi problemi il pensiero umano si è già tante volte misurato. Noi abbiamo oggi un Codice penale, un insieme di leggi, che risente di una filosofia diversa da quella che soggiace alle tesi che abbiamo sentito esporre e che io condivido in pieno, ma siccome sono una persona realista prendo amaramente atto che, nella società moderna, oggi come oggi, le cose non stanno così.

Noi dovremmo veramente cambiare tutto, io mi auguro che questo avvenga, ma fino a quando questo non avverrà noi dobbiamo gestire le norme esistenti. La grande spinta, la grande tensione morale che sta dietro tutte le riflessioni di oggi deve orientare le nostre scelte, ma dobbiamo sempre fare attenzione a capire il sistema com’è. Il sistema, oggi, va sempre più in una direzione diversa da quella che noi oggi abbiamo sentito: la gente invoca la pena, la certezza della pena, l’effettività della pena, la rapidità del processo.

La gente invoca, ancora, la distinzione tra la malattia fisica e quella psichica, che abbiamo sentito essere sempre più criticabile: il nostro Codice è fermo a questa idea secolare per cui c’è il corpo e c’è la mente. C’è la malattia del corpo che, se è tale da rendere la tua condizione di salute incompatibile con il carcere, legittima a sospendere la pena, o a dare altri benefici, come la detenzione domiciliare. E c’è la malattia della mente e dello spirito che, sino a qualche anno fa, sospendeva l’esecuzione della pena: se nel corso dell’esecuzione della pena sopravveniva una malattia psichica, la pena veniva sospesa. Poi è intervenuta la Corte costituzionale a dire: no, non è vero niente, la pena continua, magari uno va nell’ospedale psichiatrico giudiziario, però la pena continua. Che cosa significa? Anche se il condannato non la sente, non l’avverte sulla propria pelle, perché è pazzo, non è giusto che la pena sia sospesa e dunque il magistrato di sorveglianza fa la pubblica udienza, sente il difensore, il pubblico ministero, il consulente e lo psichiatra, e quindi lo manda in ospedale psichiatrico giudiziario.

Il nostro Codice dunque è fermo ad una soluzione vecchia di secoli, nella quale c’è la malattia del corpo e c’è quella dello spirito. Queste sono le categorie mentali classiche sul quale è impiantato il nostro sistema giuridico.

Quindi io richiamo l’attenzione alla realtà com’è ed ai pericoli che possono esistere. Continuità della terapia, ha detto il professor Meluzzi. Io penso alla distinzione tra la pena e la misura di sicurezza: noi abbiamo l’area della imputabilità – sei libero, sei capace di intendere e di volere, commetti un delitto e paghi con la pena – e quella della non imputabilità – non sei capace di intendere e di volere, oppure sei parzialmente incapace, e allora hai una misura di sicurezza. Io ti assolvo, cioè non ti condanno, non dico che paghi con il carcere, però ti applico una misura di sicurezza, ti considero pericoloso, e la misura di sicurezza dura tanto quanto voglio io, che sono lo Stato, perché ti tengo lì fino a quando ti considererò pericoloso.

Un’idea che potrebbe sembrare bellissima, e che forse lo è, ma che è tipica degli stati totalitari, dove si è affermata questa filosofia della durata indeterminata nel tempo della sanzione, o meglio della conseguenza sfavorevole, che noi vogliamo applicare a una persona che si è resa "colpevole", tra virgolette, di certi reati.

Questo per dire che ci sono dei pericoli, insiti nelle scelte filosofiche di fondo che noi facciamo in ordine alla circostanza se l’uomo sia o non sia libero, se debba o meno soggiacere ad una pena, in cosa consista questa pena, se nel raccoglimento immediato nella società, in un esperimento che è bellissimo: in questo particolare momento storico - più vivo e più me ne convinco - la società, invece di agitarsi per gli altissimi ideali sottesi a queste cose, va alla deriva e allo sbando morale.

Io sono contento di essere qui oggi, ho sentito discorsi che mi hanno scaldato il cuore e fatto respirare l’anima, però ho l’impressione che questa sia benzina che deve ancora accendersi, che le cose non stanno, nel momento in cui stiamo parlando, in modo tale per cui io abbia una speranza.

Anche Meluzzi ha detto: se scriveranno la nostra storia, tra due secoli, citeranno Basaglia, perché aveva ragione e anch’io ne sono convinto: giustamente, però, passeranno duecento anni prima che qualcuno si accorga che sarebbe questo il modo giusto. Noi abbiamo uno spazio che si riferisce, dal punto di vista concreto, nell’esperienza degli O.P.G. – sono solo cinque in tutta Italia e non ne ho mai visto uno – e posso dire che come ci mando un detenuto – basandomi sulle carte, perché le carte dicono che devo mandarcelo – dopo 30 o 40 giorni torna in carcere, sedatissimo. Ho capito che la cura in genere è di carattere farmacologico, perché uno scalpita, si agita, quindi in O.P.G. fanno questo per rimettere le cose a posto.

Per concludere, io penso che nello scambio tra medici, psichiatri e magistrati, sta la risoluzione dei problemi pratici che ogni giorno si pongono. Questo è quello che possiamo fare perché il carcere faccia meno danni possibili.

Ripeto, sono convinto che il nostro orizzonte culturale e politico, cioè la prossima meta alla quale la civiltà umana dovrà approdare, consiste in questo ideale, che ci è stato rappresentato tante volte, in particolare oggi dal professor Mosconi e dal professor Meluzzi, ed è quello di una società che si convinca che il carcere è inutile.

Ma forse non basterà la storia dell’uomo per arrivare a questo prologo, perché se ti do un calcio la prima reazione è che tu me lo restituisca. L’idea della retribuzione, della risposta immediata alla tua offesa, forse è incancellabile nella coscienza e nella struttura dell’uomo, mi auguro di assistere al momento in cui non sarà più così. Arriverà il momento nel quale l’uomo avrà un tale grado di evoluzione della sua coscienza, della sua sensibilità, per cui capirà che, se uno gli dà un calcio, lui deve non rispondere subito nei termini classici, ma ideare subito quella risposta che ci ha detto il professor Meluzzi.

 

 

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