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Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia
Seminario nazionale "Carcere e salute" Padova, 17 maggio 2003
Pietro Buffa, direttore Carcere “Le Vallette” di Torino
Io ho particolarmente apprezzato l’intervento del professor Meluzzi, soprattutto su due questioni. Una sul fatto sacrosanto di come questo carcere accolga sempre più patologia mentale e cose affini, l’altra è la questione della relazione e della reciprocità. Il primo fatto secondo me è fondamentale per ragionare in termini di cosa fare, perché oggi in carcere ci troviamo con un tale insieme di problematiche spiccatamente psicopatologiche e, intorno a queste, una nuvola di comportamenti disturbati, anomali, abnormi. Il problema è che tutto questo si localizza in un contesto, appunto quello penitenziario, che è anche un contesto amministrativo. Apparentemente questa sembra una cosa molto distante, ma in realtà è molto importante, almeno secondo il mio pensiero, in termini di cosa fare per la prevenzione. Perché quello che generalmente succede in una pubblica amministrazione è che gli operatori, in genere, ragionano in termini di responsabilità personale e quindi, subito dopo, in termini di auto tutela, amministrativa o personale. Si parlava, stamattina, di autoreferenzialità, ed è una cosa che ha a che fare con questo. Questa è una frase che io ho trovato, circa due anni fa, e che vi voglio leggere: "Davanti ad ogni morte per suicidio, poco o niente ci sentiamo di poter dire, o addirittura di fare, se non il districarci nella affannosa ricerca e ostentazione di ogni possibile elemento utile a ripulirci la coscienza dal fastidiosissimo ronzio dell’inevitabile voce del dubbio… se avessi fatto, se mi fossi accorto, se avessi ascoltato… ci propina. Ma quale sostegno percepisce chi, una volta evidenziata la propria eccessiva fatica a reggere il confronto con le azioni commesse si vede relegato in un regime osservatorio, unicamente finalizzato a coprire le spalle ai suoi carcerieri in caso di tentativo di porre fine al proprio dolore? I penitenziari hanno trasfigurato l’obiettivo della rieducazione nel mero e inconcludente diritto – dovere della contenzione di chi è colpevole e, in virtù di ciò, eleggono perennemente a principale oggetto di discussione il come e in che misura garantire asettiche misure buone solo a scrollarci di dosso la polvere dei dubbi circa l’essere o meno intervenuti". Il bello è che questa frase non me la scrive un professore universitario, ma me la scrive una persona che era soggetta a quelle misure. Questo ci deve fare, secondo me, molto riflettere, almeno a me ha fatto molto riflettere. In effetti, un carcere come quello di Torino, vede in un anno 7 – 8.000 ingressi e vedeva centinaia di casi di autolesionismo che, in genere, venivano trattati in modo uniforme, burocratico. Cosa si fa, quando qualcuno si fa male? In termini di autotutela, si comincia a fare una serie di comunicazioni a 360°, comunicando tutto a tutti, e chiedendo a nessuno, perché poi non viene fatto un incarico particolare, a questo o a quell’operatore, di andarlo a sentire e di occuparsene. Ma non ci si occupa anche, poi, di riportare ad un qualcuno i risultati di questa osservazione. È un classico esempio di autotutela amministrativa. Quindi vengono trattati praticamente nello stesso modo casi di autolesionismo e casi di tentativo di suicidio, ad esempio, casi di sciopero della fame e casi particolarmente complessi. Allora, ci siamo chiesti, innanzi tutto, cosa fosse e come si distribuisse l’autolesionismo e che cosa avevamo di fronte. Da un’indagine sugli atti di autolesionismo, fatta nell’ultimo quadrimestre del 2002 alle Vallette, la prima cosa che emerge è che non tutte le sezioni (il carcere ne ha in tutto 47) esprimono lo stesso disagio. Ci sono sezioni che sono particolarmente segnate da questo fenomeno e ci siamo chiesti cosa poteva voler dire questa cosa. Allora siamo andati a vedere che cosa si fa in quelle sezioni, dividendole tra quelle ad alto regime e quelle a basso regime. Per alto grado trattamentale, o di vivibilità, come lo abbiamo chiamato, intendiamo un maggior numero di ore fuori dalla cella, un maggior numero di operatori attivi in quel reparto, la presenza di opportunità di lavoro, studio, o altro, una prevalenza di condannati definitivi, un maggior livello di stanzialità del detenuto, nel senso che non è un "transito" e un’integrazione di quella sezione nel tessuto sociale del carcere, cioè una sorta di approvazione sociale. Non tutte le sezioni sono valutate allo stesso modo, da chi in carcere ci vive. Ci sono sezioni che sono apprezzabili e sezioni che non sono apprezzabili, da un punto di vista sociale. Per basso grado trattamentale, l’opposto, ossia il contrario di quello che abbiamo visto. In ultimo ci sono le sezioni che sono disapprovate socialmente, sezioni per collaboratori, etc., etc.. Siamo andati a fare dei conti, per cercare di capire come si distribuisce l’autolesionismo non solo sulle sezioni, ma sulle sezioni lette per grado trattamentale o di vivibilità: laddove esistono condizioni migliori, i casi di autolesionismo sono solo il 15% del totale. Se entriamo nel dettaglio, questi casi diventano ancora più comprensibili perché alcuni di questi, pur essendo nelle sezioni migliori, sono in quelle che si occupano del disagio psichico, o psichiatrico, quindi falsano un po’ la statistica. Però è evidente che, dove ci sono le condizioni peggiori, là avremo un maggior numero di autolesionismi, o comunque di comportamenti anomali. Questo, in termini carcerari, non è una novità. Nel senso che è abbastanza ovvio che, laddove si sta peggio, ci si fa anche più male. Ma quello che abbiamo scoperto è un’altra cosa: andando a fare un conto, ci siamo inventati una "soglia di povertà" che, secondo le nostre previsioni, sono 15 euro al mese. È un dato assolutamente opinabile, nel senso che potrebbe essere di più o di meno, ma a noi interessava fissare un limite. Quindi il livello di povertà, a parere nostro, sono 30 mila lire al mese a individuo. Ma laddove, in una sezione, almeno il 25% delle persone sono in quella condizione noi riteniamo che la sezione sia povera, perché secondo i meccanismi carcerari finisce che c’è una presa in carico complessiva della povertà della sezione. Succede che i poveri stanno prevalentemente nelle sezioni dove c’è un pessimo regime. La povertà non può determinare il regime, evidentemente, né tantomeno l’istituzione ragiona in termini di povertà, per allocare le persone. Quindi questo significa un’altra cosa, significa che nel mondo sociale penitenziario, come nel mondo sociale libero, ci sono quartieri alti e quartieri alti e, chi sta nei quartieri bassi, difficilmente riesce ad andare nei quartieri alti. Ma se non si accede ai quartieri alti non si ha un buon livello di vita e, se non si ha un buon livello di vita succede quello che succede… che poi ci si fa male. Perché ci si fa male? Le motivazioni sono scritte nei rapporti che vengono redatti nell’immediatezza del fatto, che sono poi quei rapporti che attivano l’attenzione del carcere a chi si fa male. Su 107 autolesionismi, sempre nell’ultimo quadrimestre del 2002, un quinto non riporta motivazioni. Ma sicuramente su quei casi si sarà attivato un processo di attenzione, senza nemmeno sapere per quale motivo. Questo è singolare, perché chi va dovrebbe sapere più o meno orientarsi su che problema ha di fronte, ma questo non succede. Ci sono motivi che possono essere largamente ascritti a questioni più personali, psicologiche, famigliari. Poi vengono i motivi legati alla giustizia, ai trasferimenti, a questioni sanitarie, palesemente dimostrativi, etc.: quindi questa seconda parte fa riferimento a motivi molto più pragmatici. Questo ci dice che ci stiamo avvicinando a un fenomeno che non ha a che fare con la psicopatologia, che è sicuramente un fenomeno abnorme ma, altrettanto sicuramente, non è psicopatologico, neanche lontanamente, ma noi lo trattiamo ugualmente come tale. Cioè noi prendiamo delle risorse mediche, psichiatriche, psicologiche, e le mettiamo in questo calderone enorme avendone pochissime. Esistono delle vere e proprie strategie autolesive e, quando c’è una strategia, vuol dire che siamo in un quadro di comprensione e non in un quadro di confusione. Se una persona in carcere vuole evitare all’ultimo momento un trasferimento non gradito è inutile che dichiari uno sciopero della fame, l’unica cosa che può fare è ingoiare qualche cosa o, al limite, tagliarsi. Se un ragazzo tossicodipendente che alle sette di sera ha già visto passare la terapia e chiede insistentemente all’agente in sezione di andare dal medico per averne altra, di terapia, è inutile che dichiari uno sciopero della fame. Deve arrivarci, in infermeria, per cominciare a trattare con il medico. E allora, anche in questo caso, si deve tagliare, o ingoiare qualche cosa. Quindi siamo di fronte a strategie, non siamo di fronte a raptus incontrollabili, ma noi li trattiamo come fossero, in realtà, fatti psicopatologici, disperdendo risorse… questo è il concetto. Sulla base di queste considerazioni, ci siamo dedicati a capire come, amministrativamente, noi sbagliavamo, perché avendo poche risorse è opportuno che queste vengano collocate esattamente là dove servono, decidendo che su altre questioni non servono. L’autolesionismo che vi ho descritto è il tentativo di riacquisizione di un potere da parte di una fascia di persone che in carcere sta nei quartieri bassi, di persone che non hanno risorse personali e che tentano disperatamente, attraverso questi gesti, di riavere pezzi di potere che altrimenti non avrebbero. Quindi è un problema di potere, non è un problema di patologie. Allora, cosa si può fare su questo? Vengo al concetto che è stato detto sia da Meluzzi sia da Pegoraro poco fa, cioè la questione della relazione e della reciprocità. Questo tipo di fenomeno chiede non aiuto medico, chiede aiuto. Come diceva Pegoraro prima, la sofferenza non è, di per sé, malattia. La prima cosa che ci è venuta da dire è che, avendo noi individuato con una certa esattezza i quartieri bassi del carcere, verrebbe naturale dirsi: facciamo in modo che almeno una variabile che fa abbassare l’indice di vivibilità in quelle sezioni venga modificato in meglio. Cioè facciamo in modo che vengano maggiormente presidiate. Da chi? Sicuramente non da psicologi o da medici, ma da persone che ascoltano. Nelle maglie dell’Ordinamento, nelle maglie della volontà delle persone, abbiamo individuato negli assistenti volontari le persone che possono fare questo. Non è stato semplice, fare questo, perché a fronte di 70 - 80 assistenti volontari, che più o meno stabilmente frequentano Vallette, dopo molte discussioni, solo 15 - 20 persone hanno deciso che se la sentivano di presidiare queste sezioni. Cosa significa presidiare? Significa starci dentro. Significa starci dentro e parlare, che non è un’attività terapeutica particolarmente evoluta, ma è un’attività umana. Quindi una prima cosa è stata di presidiare queste sezioni. Un’altra cosa ce la siamo posta all’ingresso nel carcere. Per esempio ho scoperto una cosa, dei 15 esperti che lavorano al presidio nuovi giunti, alla precisa domanda: "voi sapete quali sono gli obiettivi del presidio nuovi giunti?", una decina non sapevano che nel 1987, quando era Direttore generale Niccolò Amato, fece una circolare, criticabilissima, opinabile, discutibile, rivedibile, ma che fissava il mandato degli esperti al presidio nuovi giunti. C’è una elencazione di cose, che può essere messa in discussione benissimo, ma che comunque è il mandato. Sapete perché questi esperti non lo conoscevano? Per un fatto banalissimo, che sembra molto lontano dalle questioni che discutiamo, ma la cosa che voglio dire è che non penso servano stanziamenti miliardari per modificare l’attenzione in carcere. Sicuramente ci deve essere un grosso investimento in attenzione, anche nelle minute cose. È sufficiente che la segreteria civile di Vallette non pinzi, attaccata alla convenzione dell’esperto, la circolare del 1987, e l’esperto non conosce la circolare del 1987. Per cui va lì e agisce la propria personalità secondo criteri e modalità proprie. Ma questo significa avere 15 operatori che, in un presidio che dovrebbe essere particolarmente coeso, in realtà portano avanti 15 scuole di pensiero. E questo è un problema. Quindi questa pinzatura è stata fatta. Poi siamo andati a vedere la copertura di questo presidio. Torino, come poche altre carceri, ha un presidio abbastanza costante. Non così tantissime altre carceri, che non hanno neanche il presidio. Ma, andando a vedere l’orario di accesso dei detenuti arrestati, rispetto alla presenza degli esperti, ci siamo accorti che eravamo sfasati nell’ordine del 70%, cioè che noi intercettavamo l’ingresso solo nel 30% dei casi. E questo è sicuramente un altro problema, quindi adesso stiamo modificando gli orari. Gli orari d’ingresso non dipendono dal caso, dipendono ad esempio dalla disponibilità delle volanti, o delle gazzelle dei carabinieri che, in genere alla fine dei turni di servizio, quando sono più libere, portano i detenuti dentro. Ma questo vuol dire portarli alle ore più tarde, invece che nel pomeriggio, o nella mattina. Quindi bisognerebbe attivare tutto un discorso con la questura e con il comando provinciale dei carabinieri, in modo che le cose avvengano diversamente, cosa che faremo. C’è stata, a un certo punto, una disposizione che ha detto, all’ispettore della sorveglianza generale, al medico del presidio, e all’esperto, parlatevi, perché stando in tre uffici diversi, anche se uno dietro l’altro, succede che la discussione del caso non è detto che avvenga, nel senso che ognuno compila la sua parte, dà le indicazioni del caso, e poi l’ultimo decide cosa fare. Anche qui ho detto: allorquando almeno uno dei tre abbiamo un motivo di dubbio convochi gli altri due e ne discuta, ha il diritto di farlo. Su questo, anche, si sono accese molte discussioni, perché paradossalmente un’attività collettiva che dovrebbe deresponsabilizzare è sempre percepita come una responsabilità maggiore e, quindi, su questo stiamo ancora trattando. Un’altra cosa che è stata fatta è stata di chiarire ai medici, a Torino ne abbiamo parecchi, che cosa fossero i provvedimenti di grande o di massima sorveglianza, cioè in che cosa si differenziassero e a che cosa dovessero servire.
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