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Atti
della Giornata Nazionale di Studi “Sto
imparando a non odiare” Quando
autori e vittime di reato provano a dialogare Sotto
l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Associazione
di Volontariato “Granello di Senape Padova” Redazione
di Ristretti Orizzonti “Sto
imparando a non odiare”, ha detto, in una recente intervista, Antonia Custra,
figlia di un poliziotto, ucciso il 14 maggio 1977 a Milano da manifestanti che
aprirono il fuoco contro le forze dell’ordine. Abbiamo deciso di dare questo
titolo alla Giornata di studi, che si svolgerà il 23 maggio all’interno della
Casa di Reclusione di Padova, per indicare un percorso di sofferenza che però
ha un punto di arrivo fondamentale: smettere di odiare. Imparare
a non odiare è fondamentale per le vittime di reati violenti, perché nutrirsi
di odio per anni significa rinunciare a vivere; fondamentale per le vittime dei
reati “di allarme sociale” come i furti o gli scippi, perché comunque c’è
una forte spinta a trasformare l’allarme sociale in odio, che significa
coltivare un clima di angoscia e insicurezza che peggiora enormemente la qualità
della vita di tutti; fondamentale per i famigliari delle persone detenute, che
arrivano a detestare la loro condizione, quel paradosso per cui sono vittime
trattate spesso allo stesso modo degli autori di reato. La
scelta di un tema complesso come il rapporto tra autori e vittime di reato è
nata nella redazione di Ristretti Orizzonti in modo molto limpido: prima di
tutto, durante un incontro in cui Olga D’Antona ha accettato di venir lì a
parlare, in mezzo a persone che si sono macchiate di reati di sangue, del suo
dolore e della “fortuna di non saper odiare”; poi, quando in un incontro con
gli studenti una ragazza si è alzata in piedi e ha spiegato che cosa vuol dire
essere rimasta vittima di un reato come il furto in appartamento e aver perso il
coraggio di tutto, di uscire ma anche di restare in casa, nel luogo che dovrebbe
essere per eccellenza quello dell’intimità e della sicurezza. I reati, anche
quelli meno gravi, non possono essere “monetizzati”, non è la perdita
materiale ciò che angoscia chi li subisce. Ma
imparare a non odiare è una strada obbligata anche per chi sta in carcere:
perché tanti reati nascono proprio da una incapacità di controllare i propri
“cattivi sentimenti” e da una mancanza di rispetto, un odio autentico per la
vita degli altri, e in fondo anche per la propria. E
il carcere, poi, spesso si trasforma in un moltiplicatore di odio, perché rende
gli autori di reato a loro volta vittime di una carcerazione, nella quale spesso
non è garantito neppure il rispetto della dignità delle persone. Il
23 maggio sarà dunque prima di tutto una “Giornata di ascolto” di chi ha
subito un reato e di confronto “severo” su questo tema. Vi parteciperanno più
di 100 detenuti della Casa di Reclusione e circa 500 persone provenienti dal
mondo “libero”, magistrati, avvocati, operatori penitenziari, operatori
sociali, docenti, studenti.(sommario) In occasione della Giornata di studi “Sto imparando a non odiare, quando autori e vittime di reato provano a dialogare”, il Presidente della Repubblica esprime vivo apprezzamento per una iniziativa che si inserisce nell’ambito dei significativi progetti sulla realtà carceraria elaborati dall’associazione “Granello di Senape” e dalla rivista “Ristretti Orizzonti”. Il tema del rapporto tra gli autori e le vittime del reato accoglie in sé una pluralità di implicazioni etiche e giuridiche che riflettono l’esigenza di coniugare la certezza della pena, la funzione rieducativa della detenzione, il rispetto e la tutela della parte offesa. A tali questioni la giornata di studi saprà offrire un contributo di riflessione e di aperto confronto tra istanze diverse che necessitano di segnali forti di responsabilità e speranza. Nell’augurare il pieno successo dell’incontro, il Capo dello Stato invia ai curatori e a tutti gli intervenuti un cordiale saluto, cui unisco il mio personale.(sommario) Donato
Marra, Segretario Generale Presidenza Repubblica Salvatore
Pirruccio
(direttore della Casa di reclusione di Padova) Buongiorno
a tutti, io sono Salvatore Pirruccio, il direttore di questa Casa di reclusione,
e desideravo prima dell’inizio del convegno ringraziare e dare il benvenuto a
tutti gli ospiti all’appuntamento che ormai è diventato annuale, e
quest’anno di particolare importanza per tutti noi. Ringrazio ovviamente tutti
coloro che hanno contribuito alla riuscita di questo convegno, in particolare
Ristretti Orizzonti e la Rassegna stampa, la nostra redazione e un particolare
grazie a tutti i relatori che sono intervenuti questa mattina. Il ringraziamento
proviene anche dal nostro Capo Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria, il presidente Ferrara, che purtroppo per impegni già assunti in
precedenza non ha potuto essere presente tra noi, e anche il nostro Capo del
personale De Pascalis ha mandato un messaggio augurando buon lavoro, ma anche
lui da Roma purtroppo non ha potuto venire. Io non rubo ancora tempo e ringrazio
ancora tutti, e consentitemi una piccola raccomandazione: siccome siamo
veramente tanti questa mattina, se possiamo stare un po’ in silenzio ed
evitare di girare per la palestra, che per l’occasione si è trasformata in
aula, sarebbe meglio. Adesso vorrei chiedere di intervenire al vicesindaco di
Padova, il dott. Claudio Sinigaglia, che porta il saluto dell’amministrazione
comunale, e successivamente ci sarà l’assessore Massimo Giorgetti che porta
il saluto dell’amministrazione provinciale. Grazie.(sommario) Claudio
Sinigaglia
(vicesindaco del Comune di Padova) Buona
giornata a tutti, porto il saluto del sindaco Flavio Zanonato, che si scusa di
non essere presente. È una giornata importante questa, volevo complimentarmi e
ringraziare chi l’ha organizzata, e cioè la redazione di Ristretti Orizzonti,
Ornella Favero, il direttore del carcere Salvatore Pirruccio per la disponibilità
che sempre dimostra, in tante e tante occasioni, in tanti percorsi che assieme
stiamo portando avanti. Circa sei mesi fa abbiamo approvato il Piano cittadino
sul carcere, un progetto che cerca di fare un po’ il punto della situazione su
tutta una situazione di percorsi e di progetti, che riguardano la vita dei
detenuti, che riguardano il reinserimento sociale, le attività lavorative, che
riguardano i famigliari dei detenuti, insomma tutti gli aspetti complessi che
hanno a che fare con il carcere. Per noi il carcere non è un luogo “altro”
della città, ma è un luogo della città, quindi abbiamo cercato di coordinare
tutte le presenze con questo Piano cittadino sul carcere, e tutti i progetti, in
modo tale che nel coordinamento e nella regia ci sia migliore efficacia. Qual è
l’obbiettivo principale di questo Piano cittadino sul carcere, vi chiederete? È
quello di ridurre la recidiva, perché voi sapete che se i detenuti sono
inseriti all’interno di percorsi di reinserimento, occupazionale, di
formazione, la recidiva scende da un 70 per cento a un 15-20 per cento, e sono
risultati importanti, però per fare questo c’è bisogno dell’aiuto di
tutti, della competenza di tutti, delle motivazioni forti che ognuno di voi
porta avanti. Vedo tanti operatori dell’associazionismo, del privato sociale,
delle cooperative presente, c’è bisogno di mettere assieme appunto tutte
queste energie per rendere questi percorsi più efficaci possibili; c’è un
progetto importante che portiamo avanti da alcuni anni, e che ha portato anche a
questo convegno sostanzialmente, che è il progetto “Il carcere entra nelle
scuole. Le scuole entrano nel carcere”, è un percorso alla legalità che
ormai ha coinvolto migliaia di studenti delle medie e delle superiori, e da un
anno a questa parte anche le medie inferiori, ed è uno dei momenti importanti
di questa serie di percorsi che stiamo facendo, e l’iniziativa di oggi, è
scritto anche nel depliant, nasce anche da una ragazza che durante uno di questi
incontri con i detenuti dice: “Sono venuti i ladri a casa mia, abbiamo subito
un furto, io da quel momento mi sono sentita violata nella mia intimità, è
cambiata completamente la mia vita…”, ecco quindi che porre l’attenzione
sulle vittime dei reati è una cosa importante, ma il taglio del convegno di
questa mattina, io credo sia il taglio dell’ascolto, non parlare delle vittime
ma parlare con le vittime, e io le ringrazio innanzitutto della loro
disponibilità di testimonianza di questo momento importante. Non
so cosa ne uscirà, forse nessuno di noi lo sa, ma sappiamo che è un momento
importante, ascoltare è importante per attivare percorsi che servano a tutti,
che servano alle vittime di reato, che servano anche ai detenuti, è
fondamentale anche negli incontri veri e sinceri che avvengono tra scolaresche e
detenuti, perché molto spesso è il detenuto che prende coscienza, ed è
fondamentale per la rieducazione prendere coscienza, è fondamentale considerare
l’altro sempre come persona. Finisco questa mia breve presentazione, questo
mio breve saluto, ricordando anche che come città il sindaco ha compiuto un
atto importante, di riconciliazione più o meno un anno fa, il 17 giugno con la
commemorazione di Mazzola e Giralucci, vittime di un atto terroristico del 17
giugno 1974, le prime vittime di terrorismo di quegli anni bui di violenza e di
terrorismo, ed è stata compiuta questa commemorazione ufficiale per la prima
volta, ed abbiamo anche qui presente Silvia Giralucci, ed è stato un atto
importante di riconciliazione, un atto per dire che anche la città, tutta, sta
imparando a non odiare. Ecco, questo è il tema, che non è “Ho smesso di
odiare”, ma “Sto imparando a non odiare”, un percorso che ha alti e bassi
che però è importante affrontare. Grazie e buona giornata.(sommario) Massimo
Giorgetti
(assessore della Provincia di Padova) Buona
giornata a tutti, con piacere porto il saluto dell’amministrazione provinciale
e del presidente Vittorio Casarin. Intanto un ringraziamento, i complimenti a
tutti gli organizzatori di questo convegno per il coraggio, perché in un tempo
un po’ difficile parlare di carcere, parlare di giustizia, è un tema che
forse richiede il coraggio di risalire i torrenti in piena come fanno i salmoni,
e se qui dentro, magari per chi soggiorna per un periodo della propria vita
all’interno di un carcere il torrente è molto piccolo, i torrenti che stanno
fuori sono sempre così lunghi e interminabili e quindi c’è anche bisogno di
coraggio per ogni cosa. Detto
ciò, il carcere viene definito, viene percepito fuori come un “non luogo”,
ovvero il carcere è sempre distante dall’immaginario dal concreto collettivo,
dalla percezione della gente, delle persone, perché se non tocca direttamente o
indirettamente la propria sfera affettiva e personale, non viene considerato e
quindi è emarginato. Poco si sa del carcere, della vita che avviene qui dentro,
delle persone, delle loro attività e del loro percorso per espiare la pena, per
riconciliarsi con la società, per cui anch’io condivido quello che diceva il
vicesindaco di Padova Sinigaglia prima; io ho partecipato all’inizio, in
occasione di qualche visita qua dentro, anche alla percezione di quella storia
reale di quella ragazza che aveva subito un furto, mi pare che il giorno in cui
sono entrato qui dentro nella redazione di Ristretti Orizzonti ne stavate
parlando, e condivido pienamente quello che mi diceva prima Ornella Favero, e
cioè che il reato non è solo una monetizzazione, non è solo il portare via
qualcosa di materiale, di concreto, di soldi. Molte
volte il rischio è quello di una percezione, di una considerazione che il
proprio reato sia solo questo, invece il reato sconfina anche nella sfera della
persona che il reato lo subisce e spesso lascia dei segni, quindi questo
discorso va affrontato, va affrontato per una percezione all’esterno dove i
torrenti sono più lunghi, ma va affrontato anche per una consapevolezza, per
una percezione anche qui all’interno del carcere, affinché nel percorso della
propria vita poi, ci sia un pieno riconoscimento delle proprie responsabilità,
delle proprie azioni, del proprio passato, per continuare poi a risalire quel
torrente, i torrenti come salmoni. Grazie e buona giornata.(sommario) Ornella
Favero (direttore
di Ristretti Orizzonti) Oggi
sono davvero emozionata, e lo dico perché è importante spiegare quanto poco
“rituale” è questa Giornata, e quanto invece densa di emozioni, paure,
ansia. Vorrei iniziare allora raccontando brevemente come abbiamo pensato questo
convegno, e vorrei che due detenuti della redazione spiegassero molto
rapidamente come siamo arrivati a questa giornata, perché non è che sia stata
proprio una cosa facile, e non è che abbiamo deciso “Bene, adesso parliamo
anche delle vittime”, no, è stato un percorso faticosìssimo. In realtà, la
preparazione di questo convegno è da un anno e mezzo che è iniziata, da quando
è venuta nella nostra redazione Olga D’Antona. Ecco, credo che sia stata una
grande fatica, e dico la verità, non so che cosa ne verrà fuori, non so se
rispetteremo la scaletta, non so che cosa diranno le persone, perché credo che
non sia possibile procedere come negli altri convegni, dove si affronta un tema
preciso di cui si può parlare in modo freddo, tecnico, distaccato, no questo è
un tema che ci fa stare male, deve farci stare male, credo. E
a proposito di star male, vorrei aggiungere che quando è venuta Olga D’Antona
nella nostra redazione ci ha suggerito di leggere un libro, il libro di Giovanni
Fasanella, “I silenzi degli innocenti”. Allora io credo che da quella
lettura sia venuta la percezione chiara che questa giornata non è importante
solo per le persone detenute, per le quali senz’altro confrontarsi con la
propria responsabilità dovrebbe essere un momento fondamentale; no, questa
giornata è importante anche per il volontariato, è importante per tutti noi,
che a volte, venendo in carcere, occupandoci magari di garantire alle persone
detenute una carcerazione dignitosa, dimentichiamo che cosa vuol dire subire un
reato. Per me è stato sconvolgente, oltre alla lettura del libro di Giovanni
Fasanella, anche parlare con le persone che avevano subito un lutto per reati di
sangue per invitarle a venire qui, e per spiegare loro questa giornata, e a
questo proposito devo ringraziare in particolare Silvia Giralucci, perché mi ha
fatto capire una cosa fondamentale: che ci sono dolori che non passano, ci sono
lutti che non si chiudono dopo venti o trent’anni, e quando parli con lei, o
con Benedetta Tobagi, o con Antonia Custra, ti accorgi che è come se tutto
fosse successo ieri, capisci che un lutto dovuto a una morte violenta non si
rielabora mai, non si chiude, non passa. Allora
prendere consapevolezza di cosa vuol dire subire un reato ci ha fatto ragionare
anche sulle parole, “le parole per dirlo”, per ragionare su questi temi. Mi
colpisce in particolare, e credo che le persone detenute debbano fare i conti
con questa questione, una frase che sento dire spesso, “abbiamo pagato il
nostro debito con la giustizia”. Ecco, io credo che il debito con la giustizia
è una cosa, il male e la responsabilità rispetto al male è un’altra. Allora
chi mi conosce sa che io non voglio pene più lunghe, al contrario penso che le
pene nel nostro Paese siano anche troppo pesanti, però una assunzione di
responsabilità rispetto al dolore provocato, questo mi sembra importante. Perché
la pena di Silvia, o di Olga D’Antona o di tanti altri non si esaurisce, uno
non può dire “ho chiuso, ho finito di soffrire”, e credo che questa
consapevolezza debba restare anche in chi il reato lo ha commesso, e quella
frase non dovrebbe dirla. Penso allora che oggi ne parleremo, sarà uno degli
argomenti di cui credo dovremo parlare: il fatto che bisogna scegliere anche le
parole per capire che assumersi la responsabilità del male fatto va al di là
degli anni di pena scontati. Ritengo che questa sia una delle riflessioni che
dobbiamo portare avanti in questa giornata. E, lo ripeto, penso che sia
importante che lo facciamo anche noi volontari, a volte distratti, troppo
distratti rispetto a questa questione. Una
seconda osservazione che vorrei fare riguarda ancora le parole: quando noi
incontriamo le scuole, centinaia di studenti che entrano in carcere in piccoli
gruppi di una o due classi, questi incontri credo siano momenti importantissimi
perché le persone che stanno in carcere comincino a capire che cosa vuol dire
la responsabilità, a capire che cosa produce il reato nella vita di chi lo
subisce. I ragazzi delle scuole e gli insegnanti tante volte pongono veramente
delle domande forti, chiedono di raccontare il reato, e come si può arrivare a
commetterlo. Io so che è faticoso farlo, però credo che sia importante farlo,
ed é importante anche capire come si parla del proprio reato: io invito proprio
a fermarsi a riflettere su ogni parola. Ho sentito per esempio dire “è
successa una rissa, c’è scappato il morto”. No guardate, non si può usare
le parole così, se una persona guida una macchina ubriaco, se una persona gira
con un coltello, e poi succede qualcosa, non si può dire che c’è scappato il
morto. Allora assumersi la propria responsabilità significa capire che ci sono
dei comportamenti, e ci sono delle conseguenze di quei comportamenti, e sono
conseguenze con cui io credo che le persone debbano fare i conti: se guidi
ubriaco e provochi un incidente e qualcuno muore, non c’è “scappato il
morto”, no, hai ucciso una persona. Vorrei
concludere con una riflessione sul carcere e sul senso della pena: io credo che
questo carcere sia un esempio che il carcere chiuso, chiudere una persona in
carcere e buttare la chiave come si vorrebbe tante volte oggi, non serve a
niente. Un carcere aperto invece significa il confronto, significa anche
imparare ad assumersi le proprie responsabilità, perché se una insegnante, che
oggi tra l’altro è presente qui, racconta, durante uno di questi incontri tra
scuole e detenuti, cosa vuol dire essere stata presa in ostaggio durante una
rapina, e lo racconta con grande coraggio, la persona che sta qui e sa di avere
tante volte minacciato con un’arma non può trincerarsi dietro al discorso
“Ma io non ho mai sparato, ma io non ho mai fatto del male”, no, perché la
paura, l’angoscia di un’arma puntata alla tempia uno non se la dimentica
cinque minuti dopo, quando esce dalla banca. Ecco io credo che più il carcere
è aperto al confronto, più costringe a riflettere su se stessi: la pena allora
da una parte è anche più dura, perché assumersi la responsabilità del male
fatto è una fatica credo, ma dall’altra è più importante e più
significativa. C’è
un’ultima riflessione che voglio fare: ci sono anche altre vittime di cui
dobbiamo parlare oggi, che sono i famigliari dei detenuti. Io credo che ci sia
un legame, un piccolo filo sottile che unisce chi ha subito un reato, e le
famiglie di chi questo reato lo ha commesso, e anche di questo bisognerà tener
conto, perché i famigliari vivono una condizione molto simile a quella dei loro
cari detenuti, e però sono quasi sempre innocenti come le vittime. Io
non so come finirà questa giornata, però vorrei invitare a pensare ad altri
momenti, ad altre occasioni di confronto, perché questa non può essere una
giornata che si chiude qui, non possiamo sentirci soddisfatti perché per una
volta abbiamo parlato delle vittime: no, io penso che oggi debba essere anche un
inizio di un modo diverso di pensare alla pena. Abbiamo
dato al convegno questo titolo, “Sto imparando a non odiare”, anche per
questo, perché in una società in cui c’è una continua istigazione
all’odio, ci hanno colpito le parole di Olga D’Antona, quando ha esordito
nella nostra redazione dicendo “Io ho una fortuna, non sono capace di
odiare”; ecco, io credo che le persone che hanno subito un reato hanno anche
il diritto di odiare, però noi che non abbiamo dentro questa sofferenza
dovremmo avere la capacità di lavorare per spezzare la catena dell’odio. Finisco
con una piccola dedica di questa giornata a Stefano, un detenuto della redazione
che non c’è più, che ci ha insegnato tante cose sulla sofferenza, perché
non dimentichiamolo, anche qui dentro c’è sofferenza forte, perché il
carcere è comunque luogo di solitudine, dolore, paura. Stefano era
tossicodipendente e ci ha fatto capire che dovremmo imparare di più a
rispettare la sofferenza, che non bisogna avere paura della sofferenza, bisogna
parlarne, bisogna dialogare, bisogna imparare a non voltarci dall’altra parte.(sommario) Marino
Occhipinti (detenuto
della redazione di Ristretti Orizzonti) Grazie
a tutti per essere qui. Se era emozionata Ornella, figuriamoci noi che i reati
li abbiamo commessi. L’argomento è delicato e veramente, almeno da parte mia,
c’è molta paura che anche solo una virgola o una frase detta male o il tono
di voce possa ferire qualcuno, e quindi è tutto molto, molto difficile. Il
nostro intervento, il mio e quello di Elton, non erano neanche previsti, perché
volevamo lasciare il massimo spazio agli ospiti, però poi abbiamo pensato che
fosse necessaria la nostra introduzione per spiegare almeno come siamo arrivati
a questa giornata, dove nasce e anche dove vorrebbe portare. Per
quanto riguarda la nostra storia, ma per nostra storia intendo di Ristretti
Orizzonti, indipendentemente dai percorsi di ognuno, questa giornata non nasce
all’improvviso, ma fonda le sue radici almeno tre o quattro anni fa,
nell’ambito di tutte le attività che facciamo: infatti, il primo contatto
vero che abbiamo avuto con una vittima di reato, sempre parlando come redazione,
è stato quando Alberto mandò un messaggio sul nostro sito, dicendo “Egregio
signor ladro (proprio queste parole, egregio signor ladro) io sono già stato
derubato quattro volte, e vorrei parlare un po’ con te per capire meglio”.
Ecco questa forse è stata la prima volta che ci siamo trovati a dialogare con
una vittima, e ne è nata una corrispondenza, tanto che Alberto viene a tutti i
nostri convegni, è venuto in redazione ed è presente anche oggi. Poi
c’è stato il progetto con le scuole, ragazzi che ci mettono di fronte alle
nostre responsabilità, ragazzi che non fanno tanti complimenti, ed è giusto
così perché ci obbligano a confrontarci non solo con loro ma anche con noi
stessi, e nell’ambito di questi incontri ci sono stati due episodi importanti:
uno, di una studentessa vittima di un furto in casa che ci ha spiegato come la
sua vita fosse cambiata enormemente dopo quel fatto, di come da allora non
avesse solo la paura di uscire alla sera, ma anche di rientrare in casa, in
quello che era il suo luogo di sicurezza per eccellenza, e poi c’è stato il
racconto di una insegnante, anche lei è qui oggi, che ci ha spiegato cosa vuol
dire trovarsi ostaggio di una rapina in banca. Se leggete l’ultimo Ristretti
troverete una sua lettera, e oltre alla sua testimonianza la risposta di due
detenuti, che dicono “Io non avevo mai pensato che facendo una rapina in banca
potevo poi creare tutto questo, credevo che la rapina si risolvesse in cinque
minuti di paura per tutti quanti, invece adesso mi rendo conto che nella vita
delle persone, nelle vittime queste cose non passano in fretta”. Queste
testimonianze ci hanno portato con forza a riflettere su come certi gesti
segnano la vita delle persone, dunque anche chi aveva delle difficoltà a
capirlo ha dovuto arrendersi di fronte al fatto che qualsiasi reato lascia dei
segni indelebili nella vita di qualcuno, spesso lascia il dolore, la
distruzione, quindi siamo stati costretti a fare queste riflessioni. Infine
c’è stato un incontro fondamentale senza il quale noi oggi non saremmo qui,
in questa giornata, che è stato quello con Olga D’Antona, il 4 gennaio
dell’anno scorso. Olga D’Antona è venuta con un coraggio incredibile, con
una sofferenza forte che ci ha trasmesso e ci ha lasciato, e questo è stato un
punto di svolta, un punto di svolta delle attività della redazione, perché noi
prima avevamo organizzato il convegno sugli affetti, il convegno sulle misure
alternative, il convegno sulla riforma del Codice penale, ma nelle discussioni
successive all’incontro con Olga D’Antona abbiamo deciso che era ora di
organizzare un convegno sulle vittime, poi però i ragionamenti sono andati
avanti, il convegno sulle vittime è diventato il convegno con le vittime, fino
a diventare il convegno di ascolto delle vittime, quindi crediamo che questo sia
un percorso in fondo coraggioso anche da parte nostra, di tutti i componenti
della redazione e di chi ha partecipato a queste attività. È stato davvero
l’incontro con Olga D’Antona lo snodo cruciale, ha cambiato davvero qualcosa
questo incontro, è stato fondamentale. In
conclusione vorrei soltanto citare una poesia che non ho scelto io, ma che ho
trovato in un articolo di Federica Brunelli su Dignitas del 2003, è una poesia
di Biagio Marin del 1968, quindi quarant’anni fa, che spiega come solo con il
dialogo si può sperare di ricucire un legame altrimenti irrimediabilmente
spezzato: “La parola non detta lascia in aria il vuoto, è difetto di vita,
non fa nessun nodo. Non c’è realtà senza parole, hanno battezzato la pietra,
le donne più dolci, il mattino e la sera, la parola dà un viso anche a chi non
ce l’ha, fa nascere il fiordaliso, appena fa estate. Il silenzio che tace è
solo un deserto, senz’albero né case, solo di morte esperto”. Credo che
questa poesia racchiuda veramente il significato di questa giornata.(sommario) Elton
Kalica (detenuto
della Redazione di Ristretti Orizzonti) È
motivo di orgoglio per noi essere qui oggi, e vedere quanta strada abbiamo
fatto, strada di cambiamento, perché siamo qui desiderosi di ascoltarvi, siamo
qui pronti ad ascoltare le vostre storie, di vite che forse abbiamo distrutto
noi, siamo qui ad ascoltare e vedere le vostre sofferenze, perché è proprio
quello che ci manca qui, vedere le vostre sofferenze. Quando si finisce in
carcere, io ci sono finito che ero giovanissimo, avevo poco più di vent’anni,
l’assurdo del carcere è che, da qualsiasi ambiente si provenga, si impara
subito a non parlare delle vittime. In carcere, all’aria, in cella, si parla
di processi, si parla di condanne, si parla dei nostri problemi, delle nostre
famiglie distrutte, ma delle vittime non si parla mai, mentre là fuori, nella
società libera, a scuola, a casa si parla delle vittime, perché
quotidianamente quando si va per le strade, nei negozi, si incontrano le
vittime, si incontrano i famigliari delle vittime e si parla con loro, si parla
di loro, si pensa a loro. Io
mi trovo qui dentro da undici anni, e la lezione che ho tratto da questa
esperienza è che quel muro di cinta che ci circonda, oltre ad impedirci di
scappare da qui, ci impedisce di vedere le sofferenze, di vedere il dolore, quel
muro ci divide anche dal dolore, quindi per noi è difficile, da qui dentro,
vedere le sofferenze che spesso abbiamo causato. Ecco io credo che sia una cosa
unica, che sia la prima volta che dal carcere emerge questa forte necessità di
dialogo, e questo è stato possibile perché noi qui siamo fortunati ad avere un
volontariato capace di educarci al dialogo, capace di insegnarci a parlare, a
confrontarci, qui abbiamo avuto prima Ornella Favero che è venuta dentro e ci
ha tirato fuori dalle celle e ci ha detto “Dai parliamone, ragioniamoci su”,
poi lei ci ha portato Olga D’Antona, che è venuta a raccontarci che cosa vuol
dire essere vittima di un reato, e così anche noi abbiamo cominciato a
conoscere, a vedere da vicino che cosa significa la sofferenza. La
speranza che abbiamo noi della redazione è che questa giornata di dialogo non
rimanga un episodio isolato, un caso eccezionale, ma abbia una continuità,
perché proprio questo dovrebbero fare i mediatori penali, insomma le persone
competenti, perché noi dentro e voi fuori ci siamo barricati dentro le nostre
sofferenze, allora i mediatori penali, secondo noi, dovrebbero andare a tirare
fuori dai gusci del proprio dolore le persone che hanno subito reati,
convincerle a venire qui dentro a raccontare le proprie storie, raccontarle ai
detenuti per far vedere, per far conoscere la loro sofferenza, perché solo così
il detenuto può prendere coscienza del male fatto e assumersi le proprie
responsabilità. Io, o meglio noi speriamo che ci sia una continuità in questa
direzione, perché il processo che viene fatto in tribunale, una volta che la
giustizia ha punito il colpevole, è finito lì, ma è dopo che si dovrebbe
cominciare a parlare, si dovrebbe cominciare a dialogare con le vittime, perché
soltanto così si può arrivare a capire che cosa significa davvero misurarsi
con le proprie responsabilità e conoscere da vicino la sofferenza che abbiamo
provocato.(sommario) Daniela
De Robert(1)
(moderatrice della Giornata) “Sto
imparando a non odiare. Quando autori e vittime provano a parlarsi”, è quello
che proveremo a fare qui oggi, c’è però un percorso che già si sta
tracciando per provare a far parlare, a fare incontrare vittime e autori di
reato, allora di questo proviamo a parlare adesso dando la parola a Maria Pia
Giuffrida, che è dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria, ed è presidente della Commissione di studio sulla mediazione
penale e la giustizia riparativa.(sommario) Maria
Pia Giuffrida
(Dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e presidente
della Commissione di studio sulla mediazione penale e la giustizia ripartiva) Vorrei
iniziare con un grazie al direttore, dottor Salvatore Pirruccio, che mi ha
subito contattato, per invitarmi a partecipare a questo convegno e un grazie a
Ornella Favero, che ha avuto il coraggio di lanciarsi in questa avventura, e di
lanciare tutti noi in questa avventura, perché non ha lanciato solo se stessa
ma tutti noi in questa avventura. Io
credo che oggi sia una giornata molto particolare, ho sentito molta emozione in
tutti quelli che hanno parlato prima di me, e non vi nascondo che anche io, che
sono sufficientemente abituata a parlare ormai nell’Amministrazione
penitenziaria, anche di questa tematica, ho qualche difficoltà a intervenire
perché credo di sentire come tutti, una altissima tensione emotiva. Oggi
parliamo di significati profondi, di emozioni profonde, che ci hanno visti
contrapposti troppe volte, e quindi credo che bisogna cercare di entrare nel
vivo del convegno veramente in punta di piedi, con molta delicatezza, nel
rispetto del sentire di tutti. Vi
porto il saluto del capo del Dipartimento che ha confermato gli obbiettivi della
Commissione da me presieduta, e della prospettiva che l’Amministrazione
penitenziaria vuole oggi darsi con l’affermare che la mediazione è possibile,
ma che la mediazione deve essere resa possibile concretamente, soltanto avendo
la certezza del rispetto dei diritti di ciascuno: del reo e della vittima. È
su queste tematiche che ormai dal 2000-2002 la Commissione si è avventurata in
una serie di riflessioni sulla giustizia riparativa. Vedete, io sono
nell’Amministrazione penitenziaria dal ‘79, quindi sono tra i primi
“operatori del trattamento” entrati con la legge penitenziaria del ‘75, e
credo di poter affermare che il problema dell’Amministrazione penitenziaria è
in qualche modo quello di non aver saputo gestire appieno il mandato
trattamentale. Mi interrogo su questo giornalmente e cerco risposte che ci
aiutino a dare attuazione al dettato normativo. Credo che tutti gli operatori
penitenziari ma anche tutti coloro che ci aiutano come comunità esterna si
interroghino sul trattamento, e su quale è stato il limite del trattamento, sul
perché l’Amministrazione non è riuscita a dimostrare il valore della norma
penitenziaria che, accanto al modello retributivo, inseriva con il paradigma
trattamentale questa spinta al reinserimento del condannato, obiettivo sancito
dalla nostra Costituzione all’articolo 27. Riflettere sulla giustizia
riparativa ci ha portato a capire che forse nei primi trent’anni noi abbiamo
trascurato una parte, anzi senza forse, nei primi trent’anni
l’Amministrazione penitenziaria ha trascurato un soggetto, la vittima. Noi
operatori del trattamento, entrando nel ‘79, abbiamo avuto il compito di
parlare con il detenuto, per trattarlo, per risolvere i problemi che avevano
causato il reato, e per rimuovere gli ostacoli a un reinserimento. Una posizione
che oggi mi sento di definire retroattiva, difensiva, sicuramente di significato
per il detenuto, ma che non risolveva quella frattura creata dal reato, quella
frattura che vedeva dall’altro lato un soggetto vittima, e in qualche maniera,
scusatemi la franchezza, noi operatori penitenziari, io stessa ho contribuito
alla “cancellazione della vittima” durante il tempo della pena. Noi infatti
non abbiamo parlato molto spesso con i detenuti della vittima, abbiamo avuto un
pudore, una incapacità, un senso di impotenza, ma forse il limite dei percorsi
di vita nuovi, socialmente accettabili che avremmo voluto contribuire a far fare
al detenuto è proprio quello. Noi
operatori dell’Amministrazione penitenziaria dobbiamo oggi prendere nelle
nostre mani il compito che è stato ben ridefinito dall’articolo 27 del nuovo
regolamento di esecuzione che, rinnovando il significato dell’osservazione e
trattamento, ci richiama tutti a “sostenere” il condannato durante il
percorso di osservazione e trattamento in una “riflessione sulle condotte
antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e conseguenze negative delle
stesse per l’interessato medesimo, e sulle possibile azioni di riparazione
delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento delle persone offese”. Quindi
in realtà c’è una norma nel nostro Ordinamento penitenziario in cui è oggi
ben chiara la prospettiva riparativa, che sposta il focus da una attenzione
rivolta soltanto al soggetto che deve scontare una pena attenendosi a delle
regole penitenziarie e deve essere aiutato a fare un progetto di vita per sé,
all’attenzione a una dimensione relazionale dove il detenuto ha diritto,
passatemi il termine forte, ha il diritto di essere incoraggiato a riflettere
sul danno provocato a un altro, alla vittima. Senza questo pezzo di strada che
gli operatori devono fare, io credo che non avremo risposto a quanto la norma
affida come compito all’Amministrazione penitenziaria. Qui
si aprono due problemi, perché se è vero da un lato che la vittima deve essere
presa in considerazione, se è vero che l’operatore deve con il detenuto fare
una rivisitazione del percorso criminale, e deve pertanto porsi nella
prospettiva di rendere di nuovo “visibile” la vittima, di far rifletter il
reo sul dolore della vittima, questo non significa che la vittima deve essere
compulsata, per far fare un percorso significativo al reo. In
questi ultimi anni abbiamo, ahimè, assistito invece anche a delle situazioni
che, malgrado la spinta positiva che si voleva dare con il dedicare una nuova
attenzione a quest’altro soggetto, hanno però imposto nei fatti, attraverso
le prescrizioni dell’affidamento in prova al servizio sociale, alla vittima di
essere compulsata – suo malgrado – nel percorso di reintegrazione del reo. Molti
di voi sapranno che l’affidamento al servizio sociale all’articolo 27 comma
7, impone all’affidato di “riparare – ove possibile – nei confronti
della vittima, e adempiere agli obblighi di assistenza familiare”. Alcuni
Tribunali di Sorveglianza hanno prodotto – direi coraggiosamente – ipotesi
di applicazione di tale prescrizione, talvolta però senza pensare, che di fatto
coinvolgevano un terzo soggetto, la vittima. Imponendo al reo di riparare, di
risarcire il danno, di fatto implicitamente o esplicitamente hanno agito una
forma di “imposizione” nei confronti della vittima che per far fare al reo
un’azione di valenza riparatoria, veniva improvvisamente chiamata in causa. Va
detto peraltro che la riparazione “prescritta” al reo perde di fatto il suo
significato e diviene strumentale all’ottenimento o mantenimento dei benefici
di legge e la declaratoria di fine affidamento. Non
posso non richiamare a questo punto come prima di pensare ad ogni altro aspetto
lo Stato italiano deve compiere un atto di assoluta necessità, sul quale le
Nazioni Unite hanno peraltro recentemente ammonito il nostro governo. La
risoluzione internazionale del 2006 invita gli stati membri a contribuire a
sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo ai bisogni della vittima, e
lavorare per la comprensione e il riconoscimento degli effetti dei reati, in
maniera tale da prevenire la vittimizzazione secondaria, e facilitare il
reinserimento delle vittime. È
vero noi dobbiamo aiutare il reo a comprendere il danno fatto, il dolore
provocato, le ferite inferte, l’odio che ha suscitato, occorre che il
Ministero della Giustizia, il governo italiano porti avanti una legge, che
recepisca la risoluzione internazionale del 2006, e definisca la vittima come
soggetto, non di bisogni ma di diritti. Io credo che questo sia un passaggio
importantissimo che non possiamo eludere e sul quale la nostra Commissione sta
lavorando con il Dipartimento Affari di Giustizia, e con il Dipartimento per la
Giustizia minorile. C’è
un disegno di legge – come molti di voi sanno – in Parlamento, presentato da
un gruppo di associazioni delle vittime, e che secondo me va ripreso e va
attualizzato alla luce della risoluzione del 2006. La vittima ha diritto
all’informazione, ha diritto ad una protezione ed assistenza adeguata, ha
diritto a un risarcimento che è l’unico aspetto al momento valorizzato dalle
leggi già emanate in Italia: mi riferisco alle leggi sulle vittime del
terrorismo e del reato di usura. La vittima ha diritto alle informazioni
relative al proprio procedimento giudiziario, ha diritto all’integrità fisica
e psicologica, ha diritto alla tutela contro la vittimizzazione ripetuta, ha
diritto alla tutela della vita privata. Perché la vittima, questo soggetto
senza voce se non nel momento degli attacchi mediatici, e uso attacchi non a
caso, sappiamo tutti che non viene tutelata rispetto alla propria privacy, non
può dire di no, e questa si chiama vittimizzazione secondaria. La vittima ha
diritto alla riservatezza, ha diritto di poter dare o rifiutare il suo consenso
per gli atti e le azioni, che altri vogliono compiere anche in suo favore. Se
un reo vuole riparare deve chiedere il permesso prima alla vittima, se la
magistratura impone ai condannati di attivarsi in un percorso riparatorio,
bisogna chiedere il permesso alla vittima. Se è vero – come oggi qui diciamo
– che tutti dovremmo imparare a non odiare, è vero anche che la vittima deve
avere uno spazio di parola, la vittima deve avere la possibilità, se vuole, di
vedere in faccia il reo che l’ha ferita, ma tutto questo non può accadere in
maniera così assolutamente improvvisata, perché provocherebbe una sorta, anzi
una sicura vittimizzazione secondaria. La
vittima ha diritto di avere servizi sul territorio, e mi permetto di dire ha il
diritto anche a ricevere proposte di mediazione, secondo modalità però che
vanno scritte, e procedure di garanzia e di tutela della vita privata e dei dati
sensibili, che stiamo cercando lentamente di rendere chiare, di ipotizzare e di
condividere con gruppi di vittime. Nessuno,
né l’Amministrazione penitenziaria né la Magistratura, né il semplice
cittadino, né l’avvocato del condannato, né il volontario può usare i dati
delle vittime, anche se a fin di bene, senza un chiaro riferimento di cornice di
regole che garantisca le vittime. Questo è un punto su cui la Commissione ha
voluto rendersi garante, frenando nel far questo tutte le iniziative
estemporanee, ma cercando nel contempo di avviare delle sperimentazioni caute,
attentamente monitorate, perché lo sviluppo sperimentale del paradigma
riparativo, perché la spinta verso un cambiamento di prospettiva per i detenuti
avvenga nel pieno rispetto delle vittime. Ecco,
queste sono le cose che in questa mia introduzione al convegno, a nome mio e
dell’Amministrazione penitenziaria, ritenevo di dirvi. Prima di lasciare
spazio a tutti coloro che devono parlare, voglio dire un grazie a quelle vittime
che oggi sono qui con noi, a tutti coloro che si sentono vittime e che sono
disposti a mettere in gioco con noi queste prospettive. E credo che tutto quello
che ho detto presume necessariamente un percorso di riflessione critica
dell’Amministrazione penitenziaria, che deve farsi carico di far compiere ai
condannati un percorso di responsabilizzazione vera, non un percorso di
assunzione di buoni comportamenti strumentali all’ottenimento dei benefici, ma
una riflessione sulla propria responsabilità, verso di sé, verso i propri
famigliari, verso la vittima e verso la comunità. Per
finire vorrei dare anche un senso di prospettiva. Questo è un momento
importante, vede riunito un grande numero di persone, ed io almeno dal mio
osservatorio ho la certezza che non è stato l’unico momento, né sarà
l’ultimo, ci sono tante storie, tante esperienze, che come Commissione veniamo
a conoscere, monitoriamo, anzi chi fa iniziative in questo ambito ce le porti a
conoscenza, perché possiamo creare dei percorsi, possiamo veramente creare una
casistica, possiamo monitorare quelle situazioni più delicate. Accade già oggi
che un condannato, o una vittima, ci chieda un incontro, e questo già lo
facciamo a piccoli e prudenti passi, con delle sperimentazioni molto attente,
singolarmente ponderate in varie realtà, come qui a Padova e con la
Magistratura di Sorveglianza di Milano. Abbiamo
realizzato anche tante iniziative riparatorie cosìddette “indirette”: là
dove il condannato non può incontrare la vittima, ci sono tante iniziative,
condivise con il volontariato, promosse con gli enti locali, ci sono
investimenti seri ed importanti di alcuni soggetti in esecuzione di pena in
azioni di significato riparatorio nei confronti della collettività. Il
dato di prospettiva è che la Commissione, nel continuare a lavorare su queste
tematiche, nel tenere in vita questo osservatorio sempre più attento, nel
muoversi anche sul piano delle proposte normative, ha inteso recentemente
lanciare un appello a tutti i mediatori d’Italia a dare all’Amministrazione
penitenziaria la disponibilità a collaborare “gratuitamente” alle caute
sperimentazioni che intendiamo continuare. Abbiamo già avuto 167 risposte di
persone che offrono spontaneamente e gratuitamente la loro collaborazione e
questo ci sostiene nell’impegno di continuare. Non so se tali percorsi
porteranno a incontri tra rei e vittima, so comunque che avremo fatto un pezzo
di strada insieme, ancora nella prospettiva di una diffusione della cultura
della riparazione, della cultura di pace.(sommario) Daniela
De Robert(2) Nell’introduzione i redattori di Ristretti Orizzonti ci hanno spiegato il percorso che hanno fatto, dall’idea di fare un convegno sulle vittime, a un convegno con le vittime, a un convegno in ascolto delle vittime. Cominciamo allora ad ascoltare – e mi aggiungo anch’io ai ringraziamenti a chi ha accettato, ha scelto, ha voluto venire qui, a parlare e a mettersi in gioco, a rimettersi in gioco un’altra volta – le testimonianze, quindi darei la parola a Manlio Milani, presidente della associazione famigliari delle vittime di Piazza della Loggia. Ecco, tra i diritti di cui si parlava, i diritti delle vittime, forse c’è un diritto “primo”, il diritto alla verità, che non sempre c’è. A Manlio Milani chiedo di aprire questo primo confronto.(sommario) Manlio
Milani (presidente
dell’associazione famigliari delle vittime di Piazza della Loggia) Io
vi ringrazio molto, ringrazio molto i detenuti che sono intervenuti per questo
invito, ho sentito delle cose importanti che possono esserci estremamente utili
e opportune, solo che, come dire?, io mi trovo in una situazione un po’
imbarazzante, nel senso che una delle prime reazioni che ho avuto,
immediatamente dopo quella strage, o meglio se volete il giorno dopo, è stata
quella che si vede in un filmato, dove sono purtroppo ripreso che continuo a
picchiarmi un pugno in testa, perché continuavo a dirmi che era assurdo, era
tutto assurdo ciò che stavo vivendo. E la cosa che, dopo 34 anni dal fatto, mi
succede è ancora questa, che io non conosco nessun colpevole. La strage di
Piazza della Loggia che avviene il 28 maggio del 1974, non ha ad oggi alcun
colpevole, non esiste, siamo alla vigilia di un ennesimo processo, che inizierà
il 25 novembre, ma a tutt’oggi il fatto è completamente cancellato. E questo
ha un peso enorme su noi stessi, ce l’ha in senso generale, e ce l’ha perché
a volte mi trascino anche dei sensi di colpa. Avevo
vicino a me questa mattina Silvia Giralucci, e le dicevo una battuta di questo
genere: noi non ci siamo mai conosciuti, eppure siamo legati da quel fatto,
perché suo padre, assieme ad un’altra persona, pochi giorni dopo la strage di
Piazza della Loggia, viene ucciso, e io credo, so da quello che ho letto, che la
cosa avviene come vendetta nei confronti della strage di Piazza della Loggia. In
una certa misura ci siamo trovati vicini, la differenza di fondo è che lei può
avere una possibilità di parlare, se lo riterrà opportuno, al termine di una
sua ricerca, di un suo percorso, di potersi anche confrontare direttamente con
chi ha prodotto quel fatto, e quindi affrontare dentro di sé un percorso
preciso, io invece sono costantemente costretto a continuare a cercare di
spiegarmi quell’assurdo che prima dicevo. Dov’ero
io quel giorno? La sera prima ero a cena con mia moglie, aveva 32 anni, e con
alcuni amici, tra cui i coniugi Trebeschi, carissimi amici che sono morti,
lasciando un ragazzo di un anno e mezzo, la sera prima dunque eravamo a cena
come capita ad un gruppo di amici che fanno tante cose insieme, e per esempio
quella sera dovevamo anche parlare del giorno dopo, perché il giorno dopo a
Brescia era una giornata particolare. La strage di Brescia, infatti, avviene nel
corso di una manifestazione antifascista, organizzata da tutti i partiti
dell’arco costituzionale. C’è inoltre lo sciopero generale che faciliterà
questa partecipazione, è un evento estremamente importante che è stato dettato
dalla necessità di respingere la violenza che si respirava in quei giorni,
quindi andare in piazza significava scegliere di esserci, partecipare, e
affermare con la nostra presenza un dato fondamentale: la violenza la si
sconfigge con la democrazia, e la democrazia è sempre più forte nella misura
in cui è partecipata e sa riconoscere quanto sta avvenendo. La
mattina dopo noi andiamo in piazza, io e mia moglie, contenti di esserci, e
responsabili per ciò che tutto questo significava, vediamo i nostri amici,
stiamo andando da loro, in quel luogo dove era posta la bomba, nel momento in
cui siamo a pochi metri, io vengo fermato per una casualità, una domanda a cui
dovevo dare una risposta, lei si avvicina ai nostri amici, io saluto chi mi
aveva bloccato, mi avvicino a loro, ci guardiamo in faccia, ci salutiamo, in
quel momento lo scoppio, e quindi mi trovo immerso immediatamente nella ricerca
di una persona, perché in realtà mi dimentico di tutti gli altri, di quella
persona che fino ad un minuto prima era insieme a me, e insieme continuavamo a
sognare i nostri progetti. Cosa
avviene in quel momento, qual è la reazione che io ho avuto in questa
situazione? Il primo momento è un senso egoistico, quando tu vedi una persona
colpita, o tante persone colpite, ciò che speri è che la tua persona, chi era
con te non sia colpita, e dimentichi completamente gli altri. Quello a cui in
sostanza quest’egoismo ti porta è ad avere l’istinto di dire: devo
difendere solo ed esclusivamente quello che riguarda me stesso e interessa me
stesso. Il secondo elemento che io ho provato è stata la perdita di fiducia,
perché, consapevole ormai di quanto era avvenuto, ho provato proprio una
perdita di fiducia nell’altro. La perdi totalmente, perché perdi il senso
della vita, il senso comune, perdi soprattutto il senso del valore della
relazione con gli altri. Il terzo elemento è un senso di colpa, ti viene il
senso di colpa che è duplice, e dici: perché è accaduto proprio a lei e non a
qualcun altro? Quindi scarichi, cerchi di scaricare il problema sugli altri,
ignorando la realtà che stai vivendo, nello stesso tempo la paura di dover
affrontare una nuova dimensione di vita ti porta a pensare, o mi ha portato a
pensare: ma perché doveva morire proprio lei, e invece non morire io? È la
presa di coscienza in quel momento di quanto sei stato profondamente e
radicalmente trasformato nella tua vita, nelle tue modalità di vita, ecco
questi sono i punti di partenza di un percorso che ho seguito nel tempo.
Intendiamoci bene, io sto parlando anche di un reato particolare, il reato di
strage, quindi un reato profondamente politico, che ha immediatamente
conseguenze non solo sulle soggettività, ma sulla società nel suo insieme,
quindi immediatamente tu hai questo tipo di dimensione. Lì
ho iniziato un percorso dentro questo fatto, e la prima svolta l’ho avuta
praticamente poche ore dopo, io ero all’obitorio, a un certo punto nel
pomeriggio, la strage avviene alla mattina, nel pomeriggio io non posso più
restare in quell’obitorio, davanti a questi corpi con cui fino alla sera prima
avevo trascorso tante ore della mia vita recuperando tanti progetti e tanti
sogni. Io devo rientrare, e non voglio rientrare a casa, a casa ci rientrerò,
starò anni con la luce accesa, perché non potevo dormire da solo, ritornerò
invece in piazza, e qui avrò un problema molto importante. Nel momento in cui
rientro in piazza e sono riconosciuto, che cosa avviene? Avviene che intorno a
me si sviluppa una solidarietà, ma che ha un duplice senso, una solidarietà di
te persona particolarmente colpita, ma una solidarietà che esprime nuovamente
il senso di esserci trovati insieme, di essere nuovamente pronti a rispondere,
in quel caso specifico a quel tipo di violenza, ecco questo sarà per me un
elemento di svolta, perché da quella solidarietà comprenderò il mio nuovo
ruolo, il ruolo di un testimone, che ha trovato poi nel senso e
nell’indispensabilità del “trasferire memoria” di una esperienza le forme
di una ripresa della vita. Ecco, questi io credo siano stati gli elementi più
importanti, però questo non può bastarmi, e non mi basta assolutamente. Io
credo che oggi il mio percorso sia la ricerca di qualche cosa di più, di
qualche cosa per capire quali sono i meccanismi che portano qualcuno ad uccidere
e gli altri a subirne le conseguenze, per questo ci siamo riuniti come
famigliari delle vittime delle stragi in particolare in associazioni, per questo
conduciamo una certa lotta. Noi
recentemente abbiamo presentato al Parlamento la modifica dell’articolo 111
della Costituzione, dove viene inserita la figura della vittima, ma abbiamo
anche proposto una modifica al Codice di Procedura penale, che a mio avviso è
estremamente importante, e cioè abbiamo posto il tema della uguaglianza, della
parità all’interno del processo penale della parte civile con l’accusa.
Oggi la parte civile è completamente esclusa, e questo badate bene è un
elemento di straordinaria importanza, perché io mi sono convinto nei vari iter
processuali, che il primo luogo dove avviene il confronto, o può avvenire il
confronto, tra vittima e colpevole è il processo, ma questo reclama appunto
parità dei soggetti. Se io ho parità anche con il colpevole, posso, nel corso
del processo, partire dal concetto che lui non è colpevole, o posso accettare
un presupposto di questo tipo, e questo deve avvenire in termini diversi e
rovesciati, cioè anche il colpevole può partire dal presupposto che potrà
essere assolto, ma potrà essere condannato, questa parità in sostanza che cosa
determina nel dibattito pubblico? Il primo confronto vero, io credo, tra vittima
e presunto colpevole o colpevole, io credo che questo sia uno dei principi
fondamentali che noi dobbiamo portare avanti. Questo chiude il cerchio, o meglio
no, non chiude il cerchio. Io
sono convinto oggi che innanzi tutto c’è un percorso da seguire e c’è
soprattutto da rompere un clima, che corre il rischio di coinvolgere anche i
famigliari delle vittime, o le vittime stesse, nel senso che oggi si sta sempre
di più affermando un principio, attraverso la questione della certezza della
pena che è intesa come una sorta di slogan, in realtà passa un discorso in cui
si dice “prendiamo la chiave e buttiamola via”, e quindi si nega quel
principio profondamente costituzionale del recupero dei soggetti, recupero dei
soggetti che a mio avviso è assolutamente fondamentale, guai se noi impostiamo
una società che rifiuta questa possibilità di recupero. Credo
che i recenti avvenimenti, anche di questi giorni, con le relative proposte che
vengono avanti, esprimano invece un concetto in cui davvero la società sta
scivolando sempre di più verso una idea di separazione, di esaltazione del
nemico, con tutte le conseguenze che da essa emergono. Abbiamo però bisogno che
chi è stato condannato per questi reati, sappia assumersi alcune responsabilità
fino in fondo. Io sono personalmente d’accordo nel dire che la pena non può
essere intesa solo ed esclusivamente come una sorta di monetizzazione, e quindi
non vorrei più sentire quella frase “Ho pagato il mio debito”. La pena
ovviamente deve essere conforme a quelle che sono le indicazioni della legge, e
quindi, a mio avviso, va in questo senso specifico affidata alla responsabilità
dello Stato e alle sue leggi, ciò che vorrei eventualmente sempre sentire è
l’assunzione di responsabilità da parte di chi ha commesso il reato, il quale
può pagare attraverso la pena, ma non può mai dimenticare ciò che ha
prodotto, perché per le vittime dei fatti che prima ricordavo, nella tragicità
di questi fatti politici, per noi davvero il fine pena non esiste mai, questo è
il dato di fondo. Però
se io sento che, al di là della pena subita e scontata, esiste in chi ha
commesso il reato quel senso di responsabilità di ciò che è accaduto, davvero
si aprono strade nuove per un confronto, che deve avere come presupposto di
fondo il capire perché determinate cose avvengono, quali sono i meccanismi, che
non sono solo ed esclusivamente meccanismi di natura personale. Ma il capire
attraverso questo dialogo, questo confronto, ciò che è avvenuto, ciò che
l’ha determinato, permette alla società nel suo insieme di potersi evolvere. Ecco
io faccio un esempio, quando si parla di Sergio D’Elia che è stato in
Parlamento, io sono completamente d’accordo che sia stato eletto, non sono
stato d’accordo però quando, dopo aver assunto quella responsabilità (e
gliel’ho scritto, ma non mi ha risposto), chiedevo che cinque minuti dopo aver
assunto una responsabilità di quel genere si dimettesse, lui doveva dimettersi
dicendo: io mi devo dimettere da questa funzione particolare per rispetto di
quanto ho prodotto. Credo che questo sarebbe stato un gesto di straordinaria
importanza e di straordinario valore, e avrebbe aperto strade nuove, strade
nuove alle quali io comunque non voglio rinunciare. Io sono alla ricerca di
poter dialogare, so che non posso dialogare con chi ha commesso la strage di
Piazza della Loggia, ma sono pronto a discutere, a dialogare, a cercare di
capire con altre persone che hanno commesso quei delitti, che hanno prodotto così
tante conseguenze. E ripeto, sul piano personale e sul piano sociale, io questo
percorso voglio percorrerlo, voglio percorrerlo fino in fondo, nella reciprocità
del rispetto e nelle rispettive assunzioni di responsabilità. Voglio
semplicemente capire, e per me capire significa anche capire le ragioni e il
perché qualcuno ha operato determinate scelte. Grazie.(sommario) Daniela
De Robert(3) Grazie
a Manlio Milani per questa prima testimonianza e per i tanti spunti che ha
offerto. Spesso, molto spesso, le vittime chiedono attenzione, chiedono diritti,
chiedono parola, spesso chiedono anche il silenzio di chi ha commesso il reato,
il silenzio sociale, o un rispetto, un rispetto per il dolore provocato.
Sull’ultimo numero di Ristretti c’è stato anche un dibattito tra i detenuti
e tra altre persone su questo tema, il diritto delle vittime a non essere
sommerse dalle parole di chi ha commesso il reato. Io adesso darei la parola ad
Andrea Casalegno, figlio di Carlo Casalegno, primo giornalista assassinato dalle
Brigate Rosse, per raccontarci la sua testimonianza, il suo dolore, le sue
richieste.(sommario) Andrea
Casalegno (giornalista
del Sole24ore, le Brigate Rosse nel 1977 gli uccisero il padre, Carlo Casalegno,
giornalista del quotidiano “La Stampa”) Io
sono un giornalista, quindi mi occupo essenzialmente di parole, allora partirò
da questo: parlare di vittime è un po’ come parlare di detenuti, è un
concetto un po’ vago; le vittime sono una categoria, le persone colpite da un
reato, i detenuti invece sono le persone che stanno in carcere o in attesa di
giudizio per scontare una pena, queste persone sono accumunate da questa loro
condizione ma sono tutte diverse, profondamente diverse, io confesso per esempio
che mi sento pochissimo vittima. La difficoltà è mettere insieme i casi
individuali che sono tutti diversi, e certe volte l’esperienza può essere
addirittura opposta. Io penso ad esempio all’esperienza di una persona che ha
perso il padre quando aveva 3/4 anni, penso all’esperienza di una persona che
ha perso il suo compagno, o la sua compagna di vita: queste sofferenze, usiamo
pure la parola giusta, queste sofferenze sono completamente diverse dalla mia,
che ho perso il padre a 33 anni, quando ero un adulto, avevo una mia famiglia,
due figli. È evidente allora che le sofferenze non si possono paragonare,
ciascuno ha le sue. Mio
padre è stato ucciso nel novembre del ‘77, io fino ai primi mesi del ‘77
facevo parte di un gruppo della sinistra extraparlamentare, Lotta Continua,
quindi pur non condividendo i modi usati da coloro che hanno ucciso mio padre,
che appunto avevano scelto questa caricatura di rivoluzione che chiamavano lotta
armata, facevo parte di un gruppo che, essenzialmente, faceva politica
intervenendo davanti alle fabbriche, distribuendo volantini agli operai, nel mio
caso gli operai di Mirafiori, discutendo con gli operai la vita della fabbrica e
le lotte che andavano fatte, e partecipando a queste lotte dall’esterno, per
esempio ai picchetti, quando c’era uno sciopero, noi eravamo il picchetto. Il
picchetto è in se una cosa violenta naturalmente, perché impedisce di entrare
con la forza, però può essere una violenza che si limita a sbarrare la via,
allora pur facendo parte di un gruppo che non aveva come suo strumento
principale atti di violenza, in un certo senso condividevo con il gruppo armato
che erano le Brigate Rosse la meta finale, la rivoluzione comunista. Che cosa
fosse poi questa meta finale non lo sapeva nessuno, perché il nostro obiettivo
non era realizzare la stessa società che c’era nei paesi cosìddetti
socialisti, anzi quella raffigurava una forma di capitalismo di stato, quindi
questa società comunista che volevamo costruire in realtà, se esisteva,
esisteva solo nella nostra testa e in modo piuttosto confuso. La mia posizione
è quindi completamente diversa da quella della persona che mi ha preceduto,
Manlio Milani, io porto un’esperienza diversa, e diciamo anche che le mie
esigenze sono di tipo profondamente diverso, io per esempio non ritengo che le
persone colpite da reato debbano dire la loro in tutto ciò che riguarda la pena
e l’esecuzione della pena, e anche il comportamento dopo la pena, è un
principio fondamentale del nostro diritto. A differenza per esempio del diritto
islamico, dove c’è il preciso dovere della famiglia di esercitare una forma
di vendetta, e quindi di dire sì o no anche rispetto all’esecuzione della
pena, nel nostro diritto è lo Stato, cioè la collettività, che si incarica di
punire i comportamenti delittuosi (non è bene che lo facciano le persone
colpite), anch’io mi sono costituito parte civile nel processo che ha
riguardato l’assassinio di mio padre, ma, come voi sapete, la costituzione di
parte civile è prevista dalle nostre leggi per tutelare il danno economico
subito dalle vittime, solo per questo. È
chiaro che in molti casi, e quasi tutti i casi di omicidio, per di più in un
omicidio politico, costituirsi parte civile diventa una sorta di intervento
morale nel processo, ma è soltanto un dichiararsi, un esporsi, un contrapporsi,
con questo significato e basta, quindi non ritengo, anzi riterrei una mostruosità
giuridica per essere molto chiaro (e di solito mi esprimo con parole piuttosto
brutali, odio le reticenze, le ipocrisie) qualsiasi conseguenza, per quanto
riguarda l’esecuzione della pena, richiedesse l’autorizzazione delle persone
colpite. Non ho alcun desiderio di accorciare, allungare, o intervenire in
qualunque modo su quello che riguarda l’esecuzione della pena, che è una
faccenda fra lo Stato con le sue leggi, e la persona “dichiarata colpevole”,
e non dico “colpevole”, perché noi sappiamo che dobbiamo attenerci alla
verità giudiziaria e non possiamo andare oltre. Allora tutto questo avviene
ovviamente senza odio, l’odio non c’entra niente, il magistrato che
condanna, il giudice di sorveglianza, la guardia carceraria, non ha alcun odio
nei confronti delle persone detenute. Per quanto riguarda le vittime, anche se
questa parola comincia a diventarmi molto antipatica, le vittime spesso odiano. Io
sono venuto a partecipare ad un convegno che si chiama “Sto imparando a non
odiare”, ora apprezzo molto queste parole perché vengono da una persona
reale, Antonia Custra, la figlia di un poliziotto assassinato da giovani
completamente “privi di intelligenza”, per usare un’espressione che le
riassume tutte, perché la bontà è una forma di intelligenza, e quindi la
parola intelligenza secondo me ha anche un significato morale, non solo
razionale, in questo senso apprezzo queste parole, direi le ammiro, però la mia
esperienza è completamente diversa, io non provo e non ho mai provato alcun
odio. L’esperienza dell’odio è una esperienza strettamente personale, io
non conosco personalmente le persone che hanno ucciso mio padre, ne conosco i
nomi ma non le conosco di persona, ho letto però l’intervista a una di
queste, tra l’altro quella che ha materialmente premuto il grilletto della
pistola che ha ucciso mio padre, sappiamo che la responsabilità è
perfettamente identica per tutti coloro che hanno partecipato al delitto, ma in
questo caso è proprio quello che ha premuto il grilletto di questa rivoltella
cecoslovacca, la Nagant, che trent’anni fa era molto celebre perché ha ucciso
molte persone. Questa persona, intervistata da un giornalista, ha dichiarato, e
le sue parole sono contenute in un libro intitolato “L’ultimo brigatista”,
che nei confronti di mio padre non aveva nulla di personale. Ci mancherebbe
altro!, avendolo visto in faccia per la prima volta nel momento in cui gli ha
sparato, era piuttosto difficile che avesse qualcosa di personale, quindi
certamente non lo odiava, per lui era un obiettivo. Allora siamo proprio sicuri
che uccidere senza odio sia meglio che uccidere con odio? No,
io ritengo che sia molto peggio, se una persona uccide con odio in qualche modo
riconosce l’umanità di colui che sta aggredendo, il classico delitto con odio
è il capovolgimento dell’amore, uccido la persona che mi ha tradito, cioè
quella che amavo di più. Non dico che questo sia bene, ritengo che sia
malissimo, però siamo nella gamma dei sentimenti umani, tutti noi siamo pieni
di sentimenti di amore, di odio, di avversione, ma la persona che uccide senza
odio commette un’azione incomparabilmente più orribile, sia che si tratti
dell’attentatore che ha messo la bomba in Piazza della Loggia, o sul treno
Italicus, nella Banca dell’Agricoltura, alla stazione di Bologna, che
naturalmente non odiava minimamente tutte le persone, uomini, donne, bambini,
che ha sterminato, le erano semplicemente del tutto indifferenti, sia che si
tratti dell’estremista sedicente rivoluzionario, che ha assassinato delle
persone del tutto innocenti, con un obiettivo totalmente irrealizzabile, perché
qualsiasi persona dotata di senso capisce che può ammazzare quante persone
vuole, ma tutto questo alla rivoluzione non l’avvicina nemmeno di un
millimetro, e quindi sta letteralmente giocando, giocando a fare il
rivoluzionario. Allora questa persona commette un’azione incomparabilmente più
orribile di una persona che uccide con odio, quindi mi terrei il più lontano
possibile dai luoghi comuni. L’odio è sempre male? Nei confronti di una
persona sì, certamente nei confronti di un’azione no, odiare l’ipocrisia è
molto bene. Inoltre io ritengo che l’odio sia, tutto sommato, con tutta la sua
violenza, un sentimento abbastanza raro. Io
però, a differenza di altre persone dolorosissimamente colpite, non ho alcun
desiderio di dialogare con gli assassini, nel mio caso sono persone
perfettamente conosciute tutte, nome e cognome, e lo erano anche prima, perché
tra le quattro persone che componevano il commando che uccise mio padre ce
n’era una, Patrizio Peci, che è stato il primo cosiddetto pentito, la prima
persona che ha collaborato con la giustizia più a fondo e prima di tutti, e
quindi ha descritto per filo e per segno tutto su tutti gli attentati a cui ha
partecipato, compreso quello di mio padre. Quindi se volessi andarli a cercare,
potrei farlo, so chi sono, ma non ho alcun desiderio di dialogare con loro, anzi
alcun desiderio di incontrarli, assolutamente mi tengo ben lontano. Per
quanto riguarda gli autori delle stragi, provatevi un po’ a dialogare con
loro, perché sono quasi tutti liberi, oppure del tutto sconosciuti e dubito che
verranno fuori; questo rende la ferita delle stragi assolutamente non
rimarginabile, perché fino a che non si conosce la verità su un fatto non si
può, non dico riconciliarsi, ci mancherebbe altro che ci riconciliassimo con
cose così terribili come le stragi, ma cominciare a curare le proprie ferite.
Le ferite non si chiudono mai, ma in questo caso rimangono aperte in un modo
particolarmente doloroso, quindi c’è dialogo e dialogo, il dialogo è una
scelta, si può scegliere di dialogare o di non dialogare, questa è una mia
posizione del tutto personale, ci sono altre persone, che io tra l’altro
ammiro moltissimo, come Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa operaio
dell’Italsider, che è stato assassinato nel gennaio del ‘79, quando Sabina
aveva se non ricordo male 14 anni, che hanno fatto scelte diverse. Adesso Sabina
è una parlamentare, lei per lungo tempo ha completamente negato questa
tragedia, non partecipava a nessuna commemorazione, non voleva più parlarne,
poi ad un certo punto non molti anni fa ha condotto una vera e propria indagine
sull’assassinio di suo padre, ne è venuto fuori un libro, che è stato
scritto con una persona che è qui tra l’altro, e lei è andata a cercare
proprio le persone che avevano sparato a suo padre, uno dei due del commando è
ancora dentro, l’altro è stato ucciso in un conflitto a fuoco a Genova,
allora io ritengo che ogni soluzione sia pienamente legittima. Le
vittime sono delle persone esattamente come lo sono i detenuti in carcere, le
persone che hanno colpito non è che siano persone diverse da noi, sono persone
esattamente come noi, quindi il rispetto deve esserci per tutti, quando noi
chiediamo un po’ di riserbo a coloro che hanno finito di scontare una pena e
scrivono libri, vengono intervistati, e assumono incarichi anche istituzionali,
io lo chiedo più per loro che per me, ritengo che non facciano una bella figura
ad esprimersi in un modo che chiarisce a chiunque che non hanno fatto i conti
fino in fondo con la loro storia, anche se i conti fino in fondo non si fanno
mai, ma nemmeno li hanno fatti in piccola parte, quindi piuttosto che tirino
fuori frasi piene di reticenza, frasi talvolta false, sarebbe meglio a volte
stare zitti, ma ripeto sono fatti loro, mi guardo bene dal commentare. L’ho
anche scritto sul mio giornale, Il sole 24ore, quando mi hanno chiesto di
commentare le parole del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha
invitato appunto a non procurare ribalte a simili figuri. Io ho sostenuto che
certo nessuno può limitare i diritti costituzionali di una persona, non
chiediamo che ci sia un regime più severo per coloro che hanno commesso delitti
di terrorismo rispetto a coloro che hanno commesso altri tipi di delitti, e
quindi è assolutamente fermo il loro diritto di parlare, come il diritto di chi
li interroga di ascoltarli. Quello
che vorrei è forse un uso di questo diritto più rispettoso dei diritti propri
e altrui, perché chi calpesta i sentimenti altrui necessariamente disprezza
anche i propri, è una persona che ha un cattivo rapporto con la sfera dei
sentimenti, che è l’unica che ci permette un contatto con la realtà. La
realtà è fatta solo di questo, la persona che uccide è una persona che
astrae, no?, perché se no come faresti ad uccidere, astrae dalla realtà della
persona che colpisce, non è che non ci pensa, non ci vuole proprio pensare, che
questa persona ha un padre, una madre, una compagna, dei figli, degli amici,
tutta una serie di legami affettivi che sono a loro volta distrutti, calpestati,
torturati, allora lo sa perfettamente, semplicemente non ci vuole pensare, e
quindi in un certo senso agisce nell’irrealtà. Sono persone che spesso
restano abbarbicate all’universo mentale che le ha condotte a uccidere,
continuano a vivere nell’irrealtà, a pensare che hanno fatto benissimo, che
sono state sconfitte solo militarmente, ma che in realtà avevano assolutamente
ragione. Naturalmente ognuno è padronissimo di pensare quello che vuole, però
mi sembra chiaro che per tutte le persone dotate di buon senso, questo significa
rifugiarsi in un mondo a parte, in una prigione mentale, cioè uno può uscire
dal carcere, ma può restare prigioniero di una sua visione completamente falsa,
oppure far finta, proclamare che è così semplicemente per salvarsi la faccia,
se questo si può chiamare salvarsi la faccia…(sommario) Daniela De Robert(4) L’odio,
si può spezzare la catena dell’odio? Ci sono molte esperienze, alcune le
conosciamo tutti, altre hanno agito silenziosamente, forse ricordiamo tutti le
parole del figlio di Bachelet al funerale del padre, sicuramente ricordiamo la
visita di Giovanni Paolo II° al suo attentatore, ma sono solo due momenti forse
del tentativo di spezzare la catena dell’odio. Allora riprenderei con le
testimonianze e darei la parola a Giuseppe Soffiantini. Lui fu sequestrato e
rimase centinaia di giorni in mano ai suoi sequestratori, e forse ha anche
tentato di spezzare questa catena dell’odio.(sommario) Giuseppe
Soffiantini (vittima
di un sequestro che è durato 237 giorni) Anch’o
vorrei esprimere i complimenti agli organizzatori di questo convegno, e mi
auguro possano seguirne altri per poter parlare e approfondire questi argomenti,
credo che siano molto importanti per la convivenza sociale. Io poi sono forse un
testimone un po’ particolare, perché ho vissuto una terribile esperienza, ho
vissuto una violenza, ho subito una violenza terribile in questi 237 giorni di
sequestro, e con tutti i problemi e le vicissitudini che si sviluppano in
situazioni di questo genere. Veramente una cosa inaudita perché è una violenza
che dura nel tempo, e però nello stesso tempo io ho avuto la fortuna di essere
qui a raccontare, quando invece qui ci sono molti testimoni che hanno perso le
persone care, e quindi la mia voce forse è un po’ diversa. Vorrei
subito raccontarvi un fatto che è avvenuto proprio il secondo giorno che mi
trovavo in quella terribile situazione. Io mi lamentavo perché, avendo subito
un intervento a cuore aperto, e avendo avuto un intervento alla valvola
mitralica, ho la protesi meccanica alla valvola mitralica. Avevo avuto questo
intervento quattro anni prima del sequestro e dovevo prendere dei farmaci, la
seconda sera io mi lamentavo e dicevo: se voi non mi procurate le pastiglie
salvavita del Sintrom o Coumadin, comunque questa pastiglia che il mio
cardiologo mi diceva sempre “Mi raccomando Giuseppe, tutte le sere prendi la
tua pastiglia se no rischi la vita”, se non mi procurate questa pastiglia voi
non raggiungete nessuno scopo, e io muoio, quindi mi lamentavo. Ad un certo
punto il carceriere mi dice “Ma piantala!” bestemmiando, “sapessi cosa ho
sofferto io nella mia vita, altro che la tua condizione”. E lo dice con parole
diverse ma molto più cattive, e allora io gli ho risposto: “Cosa hai detto?
Fermati un momento, tu hai potere di vita o di morte su di me, però non ti
permetto di paragonarti a me, perché io sono una persona che ha sempre
lavorato, mi sono sempre comportato bene, e tu sei un feroce bandito, per di più
pazzo, perché solo un pazzo può fare quello che tu stai facendo a me”. Allora
ero all’inizio della carcerazione, poi ho avuto 237 giorni per pensare a tante
cose, e a questo proposito vi dirò, quando si è in pericolo di vita da un
momento all’altro, come tutti noi in qualche occasione abbiamo sperimentato,
capita che si pensa con una velocità incredibile, tante volte in un minuto
secondo, si pensa quello che in una condizione normale si riesce a fare in tutta
la vita, quindi in 237 giorni si ha tempo di pensare a tutto. Io allora mi sono
fatto questa domanda: ma un po’ di ragione non ce l’avrà anche questo qui?
Come ha fatto ad arrivare a diventare così? Probabilmente, e questo lo vedevo
dagli scarponi, sarà un pastore, da giovane è stato mandato sui monti, magari
il padre qualche sera ha dovuto scendere in paese per fare le spese, lui si è
trovato solo e ha dovuto dimostrare a se stesso che era forte e coraggioso per
vincere l’istinto della paura. Quando poi magari a 16-17-18 anni, quando il
fuoco della vita comincia a bollire dentro al giovane, è sceso al paese, che
cosa ha trovato? Ha trovato che i suoi coetanei magari lo schernivano, guarda
quello lì, non è capace neanche di camminare, di vestirsi, e di parlare. E lui
si sentiva invece di non essere così negativo, quindi ha cominciato a fare
delle bravate per poter dimostrare che lui era forte e intelligente, bravate su
bravate, violenze poi su violenze, ma forse anche qualche violenza subita, se
non altro dall’indifferenza dei suoi coetanei e da altre persone, che in una
mente debole pesano di più. Certamente
questo non giustifica nessuno a commettere questi reati, però bisogna capire
che tante volte anche noi possiamo essere complici di una indifferenza nei
confronti delle persone, e invece magari in un momento o con una parola si
potrebbero evitare tanti guai. Però oggi, oggi siamo qui in un carcere e so che
ci sono anche dei detenuti, e non è per fare il buonista, ma vorrei esprimere
questo concetto: chi sbaglia deve pagare, la pena deve essere immediata e certa,
però poi quando queste persone sono in prigione, lì è il momento più
opportuno per lavorare per il cambiamento. È
per questo che ringrazio gli organizzatori di questo convegno, è il momento più
opportuno per dare dei messaggi positivi, e cercare di far capire a queste
persone che hanno sbagliato, che la vera libertà la raggiungeranno, la
troveranno, non quando usciranno di prigione, ma quando capiranno che non
bisogna fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Qui
oltretutto, siccome io sono un imprenditore, vedo anche il discorso della
convenienza: se noi riusciamo a chiedere con forza alle istituzioni, ai nostri
governi di investire nei sistemi penitenziari, avremo ottenuto che molte di
queste persone che hanno sbagliato si recupereranno e quando usciranno di
prigione avranno la possibilità di inserirsi a pieno titolo nella società,
riducendo quindi, scusatemi la cosa sarà banale ma è importante anche questo,
riducendo i costi di mantenimento e riportando anche la polizia penitenziaria ad
una vita più dignitosa. Io
sono stato in qualche carcere e quello che mi ha impressionato di più è la
tristezza dei carcerati, perché chi ha provato come me la mancanza di libertà,
sa bene cosa vuol dire “mancanza della libertà”, anche se io in più ero
completamente incolpevole, ma comunque sempre mancanza di libertà. Alcune
carceri poi sono davvero fatiscenti, sovraffollate, ed è importante aiutare chi
sta dentro a ritrovare, tramite la scuola, e possibilmente anche il lavoro,
dignità. E
siccome noi siamo esseri umani e abbiamo bisogno di vivere insieme, immaginate,
immaginiamo come potremmo vivere isolati da tutti gli altri, è impossibile.
Quindi abbiamo bisogno di vivere insieme, per vivere insieme dobbiamo stare alle
regole, e per stare alle regole bisogna, come diceva papa Wojtyla, lavorare per
la costruzione del villaggio globale, e nelle carceri è il punto più sensibile
e importante dove fare qualcosa. E nessuno di noi può esimersi da questo
impegno sociale, anche per convenienza personale. Cosa
vuol dire perdonare? Cominciamo a dire cosa vuol dire perdonare. Quando per
esempio si sente che succede qualcosa come è capitato a me, subito mi vengono
vicino con il microfono per chiedermi: ma lei ha perdonato? Ripeto, cosa vuol
dire perdonare? Se vogliamo dire che continuo a odiare, io mi auguro di no,
perché il sentimento dell’odio e della vendetta è un sentimento montante che
fa solo male a chi ce l’ha nell’animo. Il prendere le distanze dall’odio,
o se vogliamo dire perdonare, tanto per semplificare, non è un atto di
generosità, è una necessità per quanto mi riguarda. Forse io lo vedo sotto un
punto di vista un po’ personale, ma questi pensieri sappiate che li ho fatti
ancora quando ero là prigioniero, quando ero là pensavo: se avrò la fortuna
di venir fuori da questa terribile esperienza, non starò zitto, perché queste
riflessioni cercherò di portarle anche agli altri, non starò zitto anche perché
forse, se l’opinione pubblica è sensibile su certi reati, probabilmente si
trova anche la possibilità se non di debellarli, almeno di attenuarli. Ecco
io voglio dare questo messaggio: dovremmo, vi prego rifletteteci, dovremmo tutti
fare la nostra parte sul versante dell’esecuzione penale e del reinserimento
dei condannati, se ognuno di noi fa la sua parte probabilmente le cose davvero
possono migliorare.(sommario) Daniela
De Robert(5) Grazie,
anche per il richiamo alla convivenza, abbiamo bisogno di vivere insieme, forse
anche da questo nasce l’idea di questo incontro. Continuiamo con le
testimonianze, chiederei a Silvia Giralucci di intervenire.(sommario) Silvia
Giralucci (suo
padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse a Padova) Sono
entrata in questo carcere, al Due Palazzi, in altre due occasioni della mia
vita. La prima volta nel 1990 stavo preparando l’esame di maturità, e
nell’aula bunker si celebrava il processo per l’omicidio di mio papà,
Graziano Giralucci. È stato ucciso dalle Brigate Rosse quando avevo appena
compiuto 3 anni e non ne ho nessun ricordo diretto. La sua morte, a 29 anni, è
stata una tale devastazione nella famiglia, che mia madre, per trovare in
qualche modo la forza di andare avanti, ha scelto di chiudere dentro di sé il
suo dolore, e di non parlare più di lui. Io
vedevo girare ritagli di giornale, afferravo mezze frasi, e non comprendendo che
cosa questo alone di mistero dovesse nascondere, pensai che quel papà di cui
non si poteva parlare ad alta voce non fosse davvero morto, ma che mi avesse
abbandonata. Avevo otto anni quando mia madre mi ha spiegato, nella maniera in
cui si può spiegarlo ad un bambino, che papà era stato ucciso per le sue idee.
Ma ci sono voluti ancora anni, tanti, per accettare la sua morte, e anche oggi,
dentro di me rimane sempre un senso di attesa, un desiderio fortissimo di
vederlo in qualche modo tornare. Il
processo è stato il primo contatto reale con quello che era accaduto. Mi
ricordo l’aula bunker: enorme e vuota. Questa storia aveva riempito i
telegiornali, le pagine dei giornali, eppure quando si è celebrato il processo
non interessava più a nessuno. Non c’erano gli amici di mio padre – e mi
dicono che ne avesse tantissimi – non c’erano nemmeno i suoi fratelli.
C’eravamo noi e qualche amico dei brigatisti. Quando uscivamo dall’aula,
vedevo i brigatisti salire nelle loro auto e mi colpiva che queste persone
avessero una vita normale, quando la nostra, la mia vita normale non era stata
proprio per niente. Arrivò
il giorno della sentenza. Quando i giudici popolari entrarono in aula mi
guardavano sorridendo. Non so se immaginai, ma nei loro occhi lessi che avevano
compreso il nostro dolore e che volevano dirci che giustizia, finalmente, era
stata fatta. Tecnicamente, dal punto di vista della pena detentiva, quella
condanna per gli imputati significava ben poco. Per quasi tutti non aggiungeva
nulla agli anni che già dovevano scontare per altri reati dello stesso tipo. Ma
per noi era importante. Mia mamma, che è una persona poco incline a mostrare i
propri sentimenti, alla lettura della sentenza si commosse. Mi raccontò che
quando i giudici stavano entrando nell’aula si era voltata e aveva visto mio
padre, appoggiato allo stipite della porta, che le sorrideva, come se anche lui
avesse trovato finalmente giustizia per quello che gli era capitato. La
seconda volta che sono entrata al Due Palazzi l’ho fatto per lavoro. Da
giornalista dovevo seguire un progetto di teatro carcere del “Tam
Teatromusica”. Sono entrata qui con un atteggiamento direi presuntuoso: ero
convinta che il carcere fosse il posto dove stanno gli assassini, e che fosse
bene tenerli lì, in modo da liberare la nostra società da queste presenze
indesiderate. Entrando in carcere però ho trovato delle persone, delle persone
che valevano, che avevano anche molto da insegnarmi, e ho capito che sarebbe
stato davvero un peccato che la società si privasse di ciò che avevano da
dare. Sono diventata amica di uno di loro, un mio coetaneo che a 18 anni aveva
ucciso un gioielliere, che in quel periodo aveva la sua prima semilibertà. Il
confronto tra noi era complicato da gestire, perché lui metteva in crisi tutte
le mie certezze, però credo che alla fine sia stato proficuo per entrambi. Il
laboratorio di teatro carcere del “Tam Teatromusica” prevedeva che
l’esperienza si aprisse alla città. Venne organizzata una serata al teatro
delle Maddalene. I detenuti, con uno speciale permesso premio, presentarono il
loro spettacolo ai padovani. Ero con loro alle prove, quando mi accorsi che nel
cortile antistante il teatro c’era uno dei detenuti attori che anziché fare
le prove, perdeva tempo a giocare tra i bambini. Lo trovai strano, forse anche
poco corretto, e chiesi informazioni. Rimasi di sasso quando mi spiegarono che
quei bambini avevano per la prima volta la possibilità di vedere il loro papà
fuori dal carcere e di giocare assieme a lui. Mi sono resa conto che la nostra
società, la società dei giusti, stava infliggendo a quei ragazzini la stessa
pena che era stata inflitta a me, e che anche loro, assolutamente innocenti,
avrebbero portato i segni di quella privazione per il resto della loro vita.
Quella prospettiva ribaltata non mi ha più abbandonato. Questa esperienza è
stata, come dire, fondante in quello che ho cercato di essere e di fare. Anche
nel lavoro, cerco sempre di scavare le ragioni profonde, e di comprendere anche
le motivazioni di chi sento diverso da me. Non
credo di aver mai odiato i terroristi, non trovo proprio dentro di me il
sentimento dell’odio. Devo dire però che quel che ho sentito spesso in questi
anni è il desiderio di essere lasciata in pace. Credo di non aver mai avuto il
tempo, nonostante siano passati 34 anni, di avere un momento privato in cui
elaborare il mio lutto, perché questo lutto è finito continuamente sui
giornali: nei momenti importanti della mia vita, quando avrei voluto essere solo
me stessa, ero sempre la figlia di mio padre. Sembra incredibile ma persino
nella laurea è entrata questa storia. La discussione è stata fissata il 17
giugno, il giorno dell’anniversario dell’omicidio. Per evitare di mescolare
la mia festa con le manifestazioni che la destra ogni anno organizza per il mio
papà, ho dovuto chiedere alla relatrice di allungare la discussione. Mi
rimangono diverse foto con la corona di alloro al collo e le camionette della
polizia sullo sfondo. Ogni anno la cerimonia di commemorazione viene presidiata
da uno schieramento di polizia in assetto anti sommossa, con i caschi e gli
scudi, strade limitrofe bloccate e camionette blindate nei punti strategici. È
una scena che non mi piace per nulla, mi chiedo se sia la cerimonia di ricordo
di due vittime del terrorismo o siamo ancora comunque dei bersagli. Tornando
ai miei sentimenti nei confronti degli assassini di mio padre, devo dire che il
tentativo costante di comprendere anche le ragioni di chi è diverso da me è
stato messo a dura prova l’anno scorso. Nel tempo ci sono stati diversi
episodi che mi hanno ferita, segnata. Dalle parole, a volte inconsapevoli, di
chi mi sta intorno, fino all’assurdo di un Presidente della Repubblica che
voleva graziare uno dei terroristi responsabili della morte di mio padre, Renato
Curcio, prima ancora che arrivasse la sentenza definitiva di condanna. L’anno
scorso, dicevo, una degli assassini di mio padre, Susanna Ronconi, è stata
nominata dal ministro Ferrero consulente nel forum droghe. Io so che qui in sala
ci sono persone, anche la stessa Ornella, che hanno difeso quella scelta. A
Padova c’è stato un intenso dibattito, che prendeva, secondo me, spunto da
questa vicenda per discutere sul passato di questa città. In ogni caso quel
dibattito mi ha ferita moltissimo. Non credo sia il caso di entrare nel merito
di quello che penso dell’atteggiamento di Susanna Ronconi, al processo e dopo.
Ma se riesco a comprendere perché un ex terrorista rifiuti di accettare il peso
della responsabilità che si porta dietro, mi ferisce vedere che quella parte
della società cui mi sento più vicina non abbia per i diritti delle vittime la
stessa attenzione che ha per i diritti dei detenuti. Io
sono felice se gli ex terroristi, che hanno finito di scontare la propria pena,
si danno da fare per aiutare gli ultimi, ma credo che un ex terrorista rimanga
comunque un assassino. Non è che sia così perché lo dice una vittima
rancorosa, è semplicemente una condizione frutto di una scelta irreversibile.
Non è retorica dire che le vittime portano ogni giorno e ogni notte il peso
delle conseguenze di quella scelta. E non vedo proprio come un assassino, una
volta scontata la pena, possa considerarsi “ripulito”, a posto con la società.
Non è che sono i parenti delle vittime a chiedere una pena senza fine per chi
ha ucciso i loro cari. È che chi ha deliberatamente ucciso un altro uomo non può
pensare che il debito si possa saldare. Ornella
in un suo intervento ha scritto che gli ex terroristi dovrebbero avere la
delicatezza di rientrare nella società in punta di piedi. Io sarò molto più
dura, io direi “a testa bassa”, perché quello che mi aspetto io da un
assassino è che tutte le mattine alzandosi si chieda: “Che cosa ho fatto?”,
che consideri ogni giorno della sua vita regalato rispetto a quello che ha
tolto, e che si comporti di conseguenza. Mettendo sulla bilancia il diritto di
un ex terrorista a vivere una vita piena, e il mio diritto a vivere tranquilla,
ecco credo che il mio diritto sia prevalente, e che l’ex terrorista debba
adeguarsi. È pesante, me ne rendo conto, però la condizione di ex terrorista
è frutto di una scelta - compiuta nel passato, ma comunque una scelta - mentre
io la mia condizione non l’ho scelta assolutamente. Devo
dire che il fatto che tra le persone con cui io mi sento di condividere molto
questo non venga compreso, che ci sia più attenzione per i diritti degli ex
detenuti, che per i diritti delle vittime, è una cosa che mi ferisce ancora
oggi moltissimo.(sommario) Daniela
De Robert(6) Grazie,
colpiscono queste parole, e mi ha colpito la voglia e la capacità di cercare di
guardare il mondo anche con gli occhi dell’altro, perché il tentativo di
comprendere le ragioni degli altri non è scontato, non è facile, è un dolore
in più forse, uno sforzo in più. Adesso direi che possiamo andare avanti con
le testimonianze e chiudere questa prima parte della giornata con l’intervento
di Olga D’Antona. Suo marito è stato ucciso dalle Brigate Rosse nel 1999,
anche a lei chiediamo di fare questo sforzo, in fondo, di riaprire una ferita
che non si è mai chiusa, e ringraziamo lei come ringraziamo tutte le persone
che sono intervenute fino adesso anche per questo sforzo.(sommario)
Olga
D’Antona (vedova
di Massimo D’Antona, giurista ucciso dalle Brigate Rosse) È
la seconda volta che mi trovo nel carcere di Padova, in due circostanze molto
diverse l’una dall’altra. La prima volta io ero in una piccola stanza con
circa 40 detenuti, la redazione di Ristretti Orizzonti. In quell’occasione le
persone detenute hanno riconosciuto la mia sofferenza e il mio dolore, ma io ho
potuto riconoscere la loro sofferenza e il loro dolore. Da quella esperienza
siamo usciti cambiati, forse arricchiti tutti noi, come credo che, anche da
questa esperienza di oggi, usciremo cambiati e arricchiti tutti noi. Venendo qui
oggi, come del resto la prima volta, non sapevo che cosa avrei detto in questa
circostanza perché mi sembra utile che da questi nostri incontri scaturisca una
riflessione collettiva, libera da stereotipi o discorsi preconfezionati. La
nostra riflessione si è soffermata sul tempo che non sempre lenisce il dolore.
Nel mio caso il tempo è stato di aiuto perché è stato un tempo di
elaborazione ed io oggi mi sento serena. Credo che questo lo debbo al fatto di
non aver mai rinnegato il dolore, di averlo affrontato, averlo vissuto, ma
soprattutto di averlo condiviso. Ho capito da subito, essendo stato l’atto di
violenza, che la mia famiglia ha subito, un atto di violenza politica, che non
era soltanto un lutto personale, che non apparteneva soltanto a me, e che per
questo andava condiviso. In
me non è mai stato presente, cosa che ho visto soprattutto in associazioni di
vittime del terrorismo, un’esigenza risarcitoria, io ho sentito dentro di me
crescere una responsabilità. Non mi aspettavo che la società dovesse qualcosa
a me, ma paradossalmente sentivo che dovevo essere io ad impegnarmi nei
confronti della società. Proprio per la responsabilità che assieme al lutto
cadeva su di me, io dovevo essere portatrice di una parola di ragionevolezza, di
consapevolezza, di testimonianza soprattutto nei confronti di tanti giovani. Il
tema di oggi è superare l’odio. Mi sono segnata su questo foglietto, nel
corso di questa nostra riflessione, delle parole chiave. La prima parola chiave
di oggi è stata odio, ecco posso dire che io ho avuto la fortuna di non bere
quel veleno, e di non desiderare la morte di altri, di non volere colpire al
cuore nessuno. Io ho vissuto l’evento più che la ricerca del colpevole.
All’inizio non sapevo da che parte mi venisse l’aggressione, quindi c’era
il fantasma dell’aggressore, ma immediatamente ho sentito il bisogno di
conoscerne l’umanità. Il
mio primo pensiero, la mia ossessione, era l’irreversibilità dell’accaduto:
anche se quella persona, e io non sapevo chi fosse, si fosse pentita fino al
dolore più profondo per l’atto compiuto, quel pentimento non avrebbe potuto
portare l’orologio indietro. Non c’era atto, non c’era ravvedimento che
potesse sanare la gravità di quel delitto. Ma anche questo, se volete, era un
modo di cercare l’umanità dell’aggressore, l’umanità di quella persona
che aveva cambiato per sempre non soltanto la mia vita ma anche la mia persona.
Sì, perché io non sono più la persona di prima. Per questo ho scelto di
cambiare anche il mio cognome. Non porto più il mio nome da ragazza, ho scelto
di portare, come segno di testimonianza, il cognome dell’uomo che avevo
sposato, del compagno della mia vita che mi era stato sottratto. A questo poi,
non vi sembri contradditorio, ha corrisposto la consapevolezza dello stigma che
viene invece messo addosso alle donne che restano vedove. È una riflessione che
ho cominciato a fare in pubblico, perché sono convinta che sia necessario
acquisire consapevolezza anche su un tema che credo sia ancora inedito: se un
uomo rimane vedovo non è vedovo a vita, è vedovo per un po’, ma se è una
donna a rimanere vedova quella donna è vedova per sempre. Io questo lo vivo
sulla mia pelle. Oggi
sono qui a portare una testimonianza, quindi è giusto che domani appaia sul
giornale che la vedova D’Antona era qui; ma se io dopo nove anni dalla perdita
di mio marito vado una sera a teatro, o a una sfilata di moda, o sono nel pieno
svolgimento della mia attività lavorativa, allora è giusto che, ogni volta, io
debba apparire sul giornale come la vedova D’Antona? Non è un modo di
metterci sulla pira come le vedove indiane o, come qualcuno ha detto, di
chiuderci nella tomba insieme ai nostri mariti? L’altro
elemento che io voglio portare ad una riflessione, di cui ho acquisito
consapevolezza in questi anni, è quanto noi tutti non siamo stati educati a
rapportarci con il dolore e la sofferenza degli altri. Siamo goffi, maldestri,
incapaci di non ferire le persone con l’apparente intento di consolarle.
Badate bene, le ferite più fastidiose mi sono venute dalle persone benpensanti,
dalle tante persone per bene: ma come ti sei ripresa!, ma come stai bene!, ma
sono contenta di vedere che finalmente stai bene! Ti inchiodano lì, a quel
giorno, a quella mattina del 20 maggio del ‘99, tu non sei altro che quella
cosa lì, quella vittima, quella persona che deve dare mostra di sé ogni
giorno, ogni momento, per soddisfare quella morbosità voyeuristica che c’è
in ognuno di noi, badate bene in ognuno di noi. Questa mia denuncia non vuole
essere né accusatoria né vendicativa, voglio invece introdurre un argomento di
consapevolezza e di riflessione sull’incapacità di relazione e sul disagio
che le persone vivono quanto incontrano qualcuno colpito da un evento doloroso. Io
non parlo soltanto di vittime di atti violenti, io parlo di dolore in genere,
non siamo stati educati ad affrontarlo, non lo sappiamo fare, non sappiamo da
che parte prenderlo, come rapportarci, e feriamo le persone. È giusto che io,
dopo nove anni dalla morte di mio marito, non possa scendere ancora a comperare
un giornale sotto casa all’edicola, senza che il giornalaio mi ricordi che
cosa stava facendo la mattina del 20 maggio del ‘99, a quell’ora in quel
momento, che cosa ha provato? È giusto che io non possa andare in un bar del
mio quartiere a prendere un caffè senza che mi venga ricordato quel giorno? Ecco,
io ho cominciato, dopo nove anni dalla morte di mio marito, l’8 marzo, il
giorno dedicato alle donne, in un pubblico dibattito a parlare di questo. C’è
voluto un tempo molto lungo a capire quanto costa, quanta fatica costa tutto
questo, e quanta sofferenza, e siccome non sono l’unica donna rimasta vedova e
non sono l’unica donna colpita dal dolore, io credo che questa consapevolezza
debba essere acquisita. Vedete, io ho imparato faticosamente a mettere a disagio
le persone che mettono a disagio me, a non farne passare più una liscia. Certo
però educarne uno alla volta è faticoso, e io quindi chiedo aiuto a voi, a
questi momenti collettivi di dibattito, per ragionare anche su questo: quanto
sottile è l’inconsapevole aggressività delle persone per bene. C’è
un’altra parola che suona spesso in questi nostri incontri, ed è la parola
perdono. Ogni volta che vengo interrogata su questo tema, io mi sento a disagio,
la parola perdono mi mette a disagio, perché io non so come funziona, non so da
che parte si prende, non la so utilizzare, non mi appartiene. Io sono qui, come
l’altra volta in cui ho incontrato i detenuti, a riconoscere l’umanità
dell’altro, a guardarci negli occhi e a cercare di capire l’uno le ragioni
dell’altro, non sono cattolica, non sono educata al perdono, non so che cos’è,
forse perché non conosco l’odio non posso conoscere il perdono. Però c’è
una frase di Giovanni Bachelet che io ho apprezzato, e che in qualche modo mi
aiuta un po’ forse a capire la forza del perdono: quando lui dice “Il
perdono è un’arma potente, che sconfigge l’aggressore”, e forse in questo
posso dargli ragione, nel senso che, nel momento in cui noi mostriamo la
disponibilità a capire l’altro, diventiamo automaticamente più forti, e nel
momento in cui noi tendiamo la mano, e riusciamo a recuperare l’altro, e a
portarlo verso di noi, noi abbiamo vinto la nostra battaglia. Io
non sono fra quelli che intendono mettere il marchio a vita alle persone,
neanche a quelli che compiono i delitti più efferati, perché se io mettessi il
marchio a vita a quella persona mi sentirei sconfitta. Sento di avere vinto
quando recupero l’altro, quando lo porto ad un ravvedimento vero, profondo,
sincero, quando lo porto alla consapevolezza dell’errore. In ognuno di noi ci
sono molteplici aspetti della personalità, la parte buona, la parte cattiva,
l’amore, l’aggressività, e allora quali di queste parti noi vogliamo
alimentare, questo è il punto, quali parti di noi scegliamo di alimentare? E
allora se insieme riusciamo a fare in modo che più persone siano dalla nostra
parte a dare alimento alla parte buona delle persone, al senso di solidarietà,
a darsi la mano l’un l’altro, ma soprattutto a riconoscersi l’un
l’altro, ecco, in questo senso, io credo che il perdono possa essere un’arma
potente. Io lo chiamo in un altro modo, lo chiamo riconoscimento dell’altro,
lo chiamo ricerca dell’altro, lo chiamo ritrovarsi, parlarsi, ma se lo
vogliamo chiamare perdono è una convenzione che possiamo scegliere insieme per
dare forza a questo concetto. Un’altra
delle parole di oggi è verità, parola che metterei insieme a giustizia e
riconciliazione. La giustizia non è un fatto che mi riguardi personalmente, io
sono d’accordo con chi dice che la vittima può anche essere espropriata della
giustizia che, in una società democratica evoluta, appartiene allo Stato, ma la
verità sì, la verità ci riguarda, perché la verità ci aiuta, ci serve. Per
me è stato fondamentale dare un volto e un nome agli aggressori, perché
finalmente sapevo con che cosa dovevo fare i conti: chi? come? perché? Sono
domande che pretendono risposta, quindi io capisco fortemente il disagio, il
dolore, lo sconcerto dei parenti delle vittime delle stragi, che in questo paese
ancora non conoscono la verità, perché i fantasmi fanno più male delle
persone in carne ed ossa. Però io credo che proprio la mancanza di verità
abbia prodotto la mancanza di una memoria condivisa, in questo mi riferisco alla
violenza politica che è stata un germe malefico, un virus malefico in questo
paese. Io credo che la memoria condivisa senza verità non può essere
riconosciuta. Ho avuto occasione di dirlo altre volte: se non c’è una memoria
condivisa come può esserci riconciliazione? È un percorso che questo Paese
deve fare, deve fare i conti con un pezzo della sua storia. Il segreto di Stato
ora, almeno su una parte di quello che resta delle carte di Moro, è stato
tolto. Nel mio lavoro di parlamentare, sono fra quelli che ha lavorato nella
commissione che si è occupata della riforma dei servizi segreti, e la
regolamentazione del segreto di Stato. Abbiamo imposto un limite, trent’anni
sono passati dall’uccisione di Moro, quei carteggi sono accessibili, ora gli
storici e la magistratura hanno un lavoro da compiere, perché davvero con quel
pezzo di storia di questo Paese dobbiamo fare i conti. Però
credo che qui oggi stiamo facendo qualcosa di più, perché il nostro lavoro non
è circoscritto alla violenza politica, questo è un lavoro che fa un passo in
avanti: noi stiamo parlando della violenza in generale. Come superare l’odio
per sconfiggere la violenza. Stiamo, tutti insieme, io credo, facendo un lavoro
straordinario. Ringrazio Ornella di questo, come ringrazio tutte le persone che
sono qui, perché qui ci sono sì i detenuti, gli autori di reato, che già
nell’essere qui vuol dire che hanno fatto un percorso impegnativo e
apprezzabile, ma qui ci sono anche le tante persone che rappresentano un ponte,
tra quelli che sono fuori e quelli che sono dentro, tra i buoni e i cattivi
anche se, secondo me, i buoni e i cattivi sono dentro e sono fuori. Qualcuno lo
ha detto prima di me, gli autori di reato sono persone, come persone sono le
vittime, ognuno reagisce in un modo diverso, ognuno ha un modo diverso di
sentire e acquisisce diversa consapevolezza via via negli anni di riflessione.
Io guardo con grandissima attenzione e apprezzo tutti i casi in cui il carcere
non è soltanto il luogo di detenzione e di pena, ma diventa il luogo della
riflessione, il luogo della consapevolezza. Oggi è la prima volta che partecipo
ad un evento di questo genere, così grande, così partecipato, e vivo questa
occasione con la consapevolezza che stiamo facendo qualcosa di importante, di
utile, e credo che dovremmo proseguire su questa strada, per questo grazie a
tutti voi, e vi dico arrivederci.(sommario) Daniela De Robert(7) Abbiamo
cominciato a parlare della responsabilità della gente perbene. Giovanni
Fasanella ha sentito la responsabilità di dar voce alle vittime, con il suo
libro, citato più volte, “I silenzi degli innocenti”. Perché questo libro,
come si è arrivati all’idea di scrivere, di raccogliere le voci delle
vittime?(sommario) Giovanni
Fasanella (giornalista,
autore del libro “I silenzi degli innocenti”) “I
silenzi degli innocenti” è un libro nato per contrapporsi al chiasso
assordante dei colpevoli, ma prima di raccontare la storia di questo libro io
sento il bisogno di dire due parole su questo incontro. Questa mattina, entrando
qui dentro, ho conosciuto tanti nuovi amici, perché tali li considero a
cominciare dai redattori di questa rivista, che hanno organizzato questo
appuntamento. Uno di loro mi ha detto “Sono terrorizzato, sono preoccupato
perché per noi questa giornata sarà una giornata all’insegna di una
sofferenza atroce, però abbiamo fatto bene ad organizzare questo incontro anche
se per noi sarà un passaggio estremamente difficile, ma anche utile”. Utile sì,
è così, avete organizzato una cosa bella e utile, non trovo altre parole per
definirla, e spero che non rimanga una iniziativa isolata ma che sia l’inizio
di un percorso di cui non solo voi, non solo le vittime dei reati hanno bisogno,
il Paese, noi tutti abbiamo bisogno di iniziative come queste, che ci
costringano a fare i conti con una storia troppo a lungo rimossa. E
vengo al libro, ma prima devo dire un’altra cosa: io non sono mai entrato in
un carcere, e da quando ho accettato l’invito a partecipare a questa
iniziativa, sono stato tormentato per giorni da una domanda: ma come devo
parlare? Che parole devo usare, per non ferire nessuno? Allora mi avete aiutato
voi stessi a risolvere questo dilemma, e io penso che se oggi inizia un qualcosa
di nuovo, un percorso tra persone che vogliano dialogare, credo che la cosa
migliore sia usare le parole della verità, quello che io farò parlando di
questo libro. Io
avevo un amico, si chiamava Maurizio Puddu, era, dico era perché è morto di
recente, un dirigente della Democrazia Cristiana a Torino. Io ero un cronista
della redazione torinese dell’Unità, lui era una delle mie fonti
privilegiate, e quindi era nato un rapporto di amicizia e di fiducia tra noi. Un
giorno di aprile del 1977, mentre rientrava a casa verso l’ora di pranzo, un
commando di brigatisti rossi gli spararono alle gambe, una pallottola gli prese
l’arteria femorale, ma per fortuna quella pallottola non uscì, rimase lì
bloccata, fece da tappo, e quei pochi minuti che la pallottola rimase lì furono
provvidenziali per Puddu, che così non morì di emorragia e dissanguato, perché
quando una pallottola ti prende l’arteria femorale non ci si salva. Dopo
diverso tempo, perché ci eravamo persi di vista, io intanto mi ero trasferito a
Roma, tornando a Torino ero andato a trovarlo e gli avevo detto: “Maurizio,
raccontami un po’ la tua storia dopo l’attentato”. Lui allora ricordo che
mi disse: “Ma sai, è strano, perché quando sei in ospedale vivi quasi una
situazione di euforia, sei quasi contento, perché hai tutti gli occhi del mondo
addosso a te, vengono le televisioni, vengono i giornalisti vengono le autorità,
il prefetto, i partiti, poi improvvisamente non viene più nessuno e resti solo,
solo con te stesso, e allora che cosa succede? In quel momento, quando tu resti
solo con te stesso, succede…”. Aveva quasi pudore a dirlo, non voleva dirlo,
mentre io, anche perché lo ritenevo un amico, mi sentivo in qualche modo
autorizzato ad incalzarlo, per capire cosa succede quando si resta soli.
“Succede una cosa terribile, succede che la solitudine ti fa cadere in una
depressione profonda, e a volte hai anche voglia di farla finita, perché non si
può vivere da soli un dramma di queste proporzioni. Ma io, dopo aver
partecipato a tante assemblee contro il terrorismo, a tanti dibattiti pubblici,
ad un certo punto decisi che per vincere la depressione dovevo iscrivermi
all’università e laurearmi in scienze politiche”. “Bene”, ho detto
allora io, “e ce l’hai fatta?”, “No, no, adesso ti racconto che cosa è
successo. È successo che andai all’università per iscrivermi alla sede delle
facoltà umanistiche in via Ottavio a Torino, e trovai ad attendermi due ali di
giovani, e io con il bastone arrancavo, cercavo di salire quei gradini, e quei
giovani da una parte e dall’altra mi lanciavano monetine, mi lanciavano sputi,
mi gridavano fascista, venduto, traditore. Io non ce l’ho fatta ad arrivare
fino in fondo, ho ridisceso i gradini che ero riuscito faticosamente a salire e
me ne sono tornato a casa, e ho dovuto cambiare città, addirittura ho dovuto
andare a Trieste, a iscrivermi alla facoltà di Scienza Politiche di Trieste,
dove finalmente sono riuscito a prendermi una laurea”. Ma
chi erano quei giovani da una parte e dall’altra? Lui cominciò a snocciolarmi
un elenco, un elenco impressionante: uno era diventato nel frattempo un regista,
un altro era diventato uno scrittore famoso, un altro ancora era diventato un
dirigente politico, bÈ vedete voi che siete detenuti pagate un prezzo per i
vostri errori, e lo fate anche con molta dignità, perché avete il coraggio di
organizzare iniziative come queste, ma quei giovani che sputarono addosso a un
uomo colpito, a un uomo innocente colpito, non avevano pagato nessun prezzo per
quello che avevano fatto, per l’appoggio che avevano dato alla lotta armata e
ai terroristi, e molti avevano poi fatto carriera. Io
sono felice se uno che ha sbagliato e ha pagato un prezzo, riesce a tornare a
una vita normale, anzi noi dobbiamo fare di tutto per aiutarlo a ricostruirsi
una vita normale, ma non per chi non ha pagato alcun prezzo, e ha fatto
carriera, e ha occupato i posti di potere in modo particolare nel mondo
dell’informazione, della cultura e dell’industria editoriale, perché molti
di quei giovani erano in posti chiave, avevano occupato gli spazi della memoria
da dove potevano decidere a chi dare diritto di parola e a chi no, mentre
Maurizio Puddu era stato costretto a lasciare la sua città, prima colpito dalle
pallottole, e poi umiliato con il lancio delle monetine e degli sputi. Fu
quel giorno in cui sentii quel racconto, 12 anni fa, che decisi che si doveva
fare un libro per raccontare questa tragedia delle vittime colpite due volte, la
prima dal piombo, e la seconda umiliate o colpite dal silenzio, dalla
solitudine, dall’emarginazione. Io ho scritto una decina di libri sulle
vicende della violenza politica e sul terrorismo in Italia, belli o brutti non
lo so, ma non è la qualità che adesso ci interessa, dieci libri, e questo,
“I silenzi degli innocenti”, doveva essere il primo, invece è stato
pubblicato per ultimo, perché non sono riuscito a trovare un editore che
pubblicasse un libro in cui, finalmente, si dava la parola alle vittime del
terrorismo. E quando, passando in pellegrinaggio da una casa editrice
all’altra, il testo veniva dato da leggere per valutarlo, una casa editrice,
non voglio fare il nome naturalmente, perché non ha senso, il problema è
puntare il dito contro una mentalità, che ha provocato danni e guasti, spero
non irreparabili, dopo aver letto il progetto ha detto: “Ma cosa vuoi che
gliene importi ormai alla gente di queste cose, queste storie hanno ormai rotto
i c.”. Il fatto è che quel progetto fu fatto leggere ad un ex simpatizzante
della lotta armata, e il responsabile di quella casa editrice era un altro che
arrivava da quella esperienza, alla fine comunque per fortuna questo libro sono
riuscito a portarlo in porto. “I
silenzi degli innocenti” dunque, in contrapposizione al chiasso assordante dei
colpevoli. Io, lo ripeto, non sono per negare la parola agli ex terroristi, anzi
io stesso ho fatto un libro con un ex terrorista, con il fondatore delle Brigate
Rosse, e sono felice di averlo fatto perché da quell’incontro ho capito molte
più cose di quanto io abbia capito leggendo i giornali italiani, o guardando la
televisione, oppure leggendo i libri di tanti intellettuali. Io sono per dare la
parola a chi ha qualcosa da dire, e soprattutto ha voglia di dirla, ma per
decenni, mentre alle vittime veniva negato persino il diritto di iscriversi
all’università, abbiamo visto la storia di quegli anni di piombo raccontata
quasi esclusivamente dai protagonisti negativi di quella esperienza negativa,
con versioni di comodo. Allora abbiamo dato voce ai silenzi, i silenzi al
plurale, perché ci sono vari modi di rimanere silenziosi, c’è per esempio il
silenzio autoimposto, di quel signore che aveva perso una persona cara nella
strage di Piazza Fontana, che ha dato inizio a tutta questa storia. Quando lo
chiamai per chiedergli se potevo incontrarlo e intervistarlo, due o tre giorni
dopo l’ultima sentenza che mandava assolti definitivamente tutti gli imputati,
lui mi disse: “Ma che storia vuole che le racconti?”. “Come che storia
voglio lei mi racconti? La storia di un famigliare della vittima della strage di
Piazza Fontana, naturalmente”, gli risposi. E lui: “La strage di Piazza
Fontana? Ma perché, c’è stata una strage in Piazza Fontana? No non sto
scherzando, non c’è stata nessuna strage, perché lo Stato italiano lo ha
stabilito mandando per l’ennesima volta assolti tanti responsabili di quella
vicenda”. Ma
ricordo anche il silenzio autoimposto, o in parte imposto, dell’altra vedova
di Piazza Fontana. Quel pomeriggio del 19 dicembre, il marito era entrato per
risolvere alcune questioni d’affari nella banca, ed era stato coinvolto
nell’esplosione, aveva subito soltanto delle ferite, all’apparenza non
gravi. Dopo un periodo relativamente breve in ospedale, la donna lo aveva
portato a casa, dove è iniziato un calvario durato 12 anni. Quell’uomo era
sofferente, aveva dolori continuamente, allora la donna andava a bussare a mille
porte, dai medici, dagli ospedali, chiedendo di essere aiutata a capire che
problema aveva, andava a bussare anche alle porte delle autorità, del sindaco,
del prefetto, e immancabilmente le porte le si chiudevano in faccia, finché il
marito, dopo 12 anni di sofferenze atroci, morì, e quando lo aprirono gli
trovarono le schegge a centinaia che aveva in corpo tutte calcificate, e lui
aveva vissuto per 12 anni con quel problema dentro di sé, e i medici non erano
stati capaci di capirlo. Quella donna, quando il marito morì, disse:
“Finalmente, sì finalmente è morto, comunque una battaglia sono riuscita a
vincerla, perché sono riuscita a farlo dichiarare dopo tanti anni
diciassettesima vittima della strage di Piazza Fontana”. L’intervista che le
avevo fatto l’ho poi trasformata in un racconto, e quando lei l’ha letto è
stata male, ha avuto un attacco cardiaco, perché non aveva mai parlato, non
aveva mai raccontato a nessuno di questa sua storia terribile, e quando
l’aveva vista nero su bianco, aveva realizzato che era stata davvero una
storia terribile e non aveva retto. E
ancora ricordo il silenzio scelto così, come soluzione estrema, di protesta nei
confronti di uno Stato che non riusciva a fare il proprio dovere di un genitore
di una povera donna di Bari, che un giorno con l’intera famiglia aveva deciso
di andare in vacanza non in macchina, perché in macchina era pericoloso, ma
avevano deciso di andare in treno, stavano andando a Modena in treno e si sono
fermati alla stazione di Bologna, ed erano scesi dal treno proprio nel momento
in cui esplodeva la bomba. Alla donna morirono due figlie e una sorella incinta,
e qualche tempo dopo il padre si suicidò gettandosi da un balcone, per protesta
verso uno Stato che non riusciva a trovare i responsabili di quella strage, e
dopo che li aveva trovati, processati e condannati, oggi noi sappiamo che con
ogni probabilità sono perfino vittime di un errore giudiziario. E
infine ricordo il silenzio di un vostro corregionale, il silenzio, imposto da un
ambiente ostile, di Adriano Sabbadin. Suo padre Lino è il macellaio, ucciso nel
suo negozio in provincia di Venezia, a Santa Maria di Sala, proprio sotto gli
occhi del figlio che aveva 17 anni. Io andai a trovarlo a casa, e lui non
riusciva a parlare, non aveva mai incontrato una persona che gli avesse chiesto:
“Adriano, mi vuoi raccontare che cosa ti è successo e come hai vissuto questa
esperienza?”. Non riusciva a parlare, balbettava, l’intervista durò una
giornata intera, e così, tirandogli fuori le parole a forza, è riuscito a
raccontarmi una storia terribile di emarginazione sua e della sua famiglia da
parte di una comunità che li aveva fatti sentire perfino in colpa, perché gli
dicevano: “Se è morto, se è stato ucciso qualche cosa avrà fatto…”. Lui
mi ha parlato della sua solitudine, della malattia, perché c’è anche una
malattia professionale, il cancro che spesso colpisce le vittime e i loro
famigliari. Adriano Sabbadin mi disse anche che per 27 anni non c’è stato
nessuno in questo paese che gli abbia rivolto la parola, mai una volta che il 14
febbraio, giorno dell’assassinio del padre, il padre venisse commemorato con
un fiore, una parola del sindaco, niente. E allora, qualche mese dopo l’uscita
del libro, Adriano mi telefonò e mi invitò al suo paese, perché per la prima
volta, il 14 di febbraio, il parroco e il sindaco avevano organizzato una
commemorazione di suo padre. E io andai a Santa Maria di Sala, ci fu una
commemorazione bellissima, c’era tutto il paese quel giorno, il parroco, il
sindaco, tutti a battersi il pugno sul petto e a cospargersi il capo di cenere. Ma
l’esperienza che Adriano aveva vissuto, l’incapacità di entrare in rapporto
con gli altri, aveva avuto anche un altro prezzo, lui in tutta la sua vita, da
quando aveva 17 anni e gli avevano ammazzato il padre, non aveva mai avuto una
donna, e aveva ora più di quarant’anni, mai avuto un rapporto con una donna,
ma quel giorno mi chiamò e mi presentò una donna con un bambino in braccio, e
mi spiegò: “Giovanni, aver fatto questo libro, essere riuscito a raccontare
questa storia, mi ha permesso di tornare lentamente a una vita normale, ora mi
sono sposato, ho un bambino. Alla fine, guardi, l’assassino di mio padre,
Cesare Battisti (quello che poi scappò in Francia e venne coccolato da tutti
gli intellettuali francesi) vuole sapere una cosa? Che Battisti oggi sia in
galera o meno non me ne importa niente, mi basta soltanto che, se proprio deve
andare in televisione, dica semplicemente: ho sbagliato, chiedo scusa alla
famiglia di Adriano Sabbadin. Del resto non mi importa nulla, perché io
finalmente sto tornando ad una vita normale, ho ritrovato la mia strada,
riprendo a vivere dopo tanti anni di morte civile e di isolamento”. Voglio
concludere, tornando ancora una volta a questa iniziativa: abbiamo bisogno di
parlare, hanno bisogno di parlare soprattutto le vittime, hanno bisogno di
parlare anche gli autori di reati, hanno bisogno di parlare anche i famigliari
dei detenuti, perché c’è un dramma, c’è una tragedia sommersa, nascosta,
di cui nessuno parla, che è quella dei tanti famigliari che hanno figli o
congiunti in galera, come anche i famigliari delle vittime dei terroristi o ex
terroristi, c’è un dramma anche in quelle famiglie, vite spezzate, vite
bruciate anche in quelle famiglie. C’è bisogno di parlare di tutto questo, di rielaborare questa esperienza, per iniziare un percorso di guarigione, e io concludo allora ringraziando personalmente gli organizzatori di questa iniziativa, perché voi avete avuto il coraggio di fare oggi quello che in questo paese, per decenni, non sono riusciti a fare, non c’è riuscito il potere politico, non sono riuscite le istituzione dello Stato, non sono riusciti a farlo gli intellettuali, cioè tutti coloro che per mestiere avrebbero il dovere e l’obbligo di fare quello che voi avete fatto oggi. Grazie.(sommario) Daniela
De Robert(8) Grazie,
è stata una mattinata ricchissima per tutti noi, di parole ne sono state dette
tante, mi soffermo solo su una, “responsabilità”, che è stata declinata più
volte in modo diverso; si è parlato molto della responsabilità dei detenuti,
dell’importanza di assumersi le responsabilità di che ha commesso una colpa,
un reato, si è parlato anche delle responsabilità delle vittime. Olga
D’Antona ha parlato dell’esigenza di assumermi le sue responsabilità, si è
parlato, anche molto, tra le righe e esplicitamente della responsabilità di noi
volontari, volontari in carcere, responsabilità di non dimenticare, di non
essere complici dell’oblio delle vittime, si è parlato della nostra
responsabilità di gente perbene. Ma dobbiamo parlare anche di altre vittime,
quindi ora ascolteremo le parole del papà di un detenuto che ha chiesto di
intervenire. Se c’è ancora qualche televisione per cortesia si spenga perché
non desidera essere ripreso.(sommario) N.
A. (padre di un detenuto) Io
sono il papà di un ragazzo che è detenuto, volevo solo dire che oltre alle
vere vittime di un reato, ci sono anche altre vittime innocenti e incolpevoli,
che sono i genitori, i famigliari, i parenti, che si sentono sotto accusa pur
non avendo commesso nessun reato, pur non avendo fatto alcunché di male. La mia
è una famiglia di sei persone, quattro figli maschi, il più piccolo purtroppo
ha deviato e ha commesso questo reato che l’ha portato qui, la mia era una
famiglia che vive in un paese piccolo, un paesino abbastanza piccolo dove tutti
ci si conosce, era una famiglia molto stimata in paese, una famiglia che aveva
la fiducia di tutti, però da quando è successo questo fatto, tutto è
cambiato. Non
c’era più quella considerazione, quella fiducia che c’era prima, io ho
lavorato tanto, ho sacrificato, ho fatto tante rinunce, però purtroppo poi mi
sono trovato ad essere in qualche modo additato un po’ da tutti in paese,
appunto per questa situazione che si era creata, perché, come dire, vai a letto
alla sera che sei una persona normale, ti ritrovi alla mattina che non sei più
la stessa persona. La gente ti critica, io sono stato chiuso in casa per due o
tre mesi, e se uscivo, uscivo di nascosto, perché sapevo, perché sentivo,
sentivo questa diffidenza, questa critica nei miei confronti, nei confronti di
mia moglie. Fra l’altro ci sono state anche in famiglia accuse reciproche con
mia moglie, il mio matrimonio dopo trent’anni circa ha rischiato di saltare,
appunto perché ci si accusava, ci si incolpava a vicenda di questa storia. Ecco
io volevo solo dire che quando succedono queste cose in una famiglia, servirebbe
almeno un po’ di comprensione, l’avvicinarsi a questa famiglia,
l’avvicinarsi a queste persone, una parola di conforto. Io devo dire invece
che anche la chiesa è stata molto assente: da cattolico praticante, con molto
rammarico devo dire che non ho neanche ricevuto la visita del mio parroco, che
pure mi conosceva molto bene. Queste sono cose che ti deprimono oltre la pena,
perché il carcerato subisce una pena detentiva, la famiglia subisce una pena
morale, che forse è più pesante della pena detentiva, perché non avendo
commesso nessun reato, si trova a dover subire una situazione nella quale non
vede una via d’uscita. Io vorrei solo che ci fosse un po’ più di
comprensione per i famigliari che non hanno nessuna colpa. Grazie.(sommario) Daniela De Robert(9) Andrea
Casalegno ha espresso anche il disagio di rientrare in una categoria, in uno
stereotipo, le vittime e i detenuti, in fondo gli stereotipi sono un modo per
disumanizzare, e questo vale per i detenuti, vale per le vittime. Questo è un
incontro tra persone, ognuno con la sua storia, ognuno con i suoi sentimenti,
ognuno con i suoi desideri, ognuno con i suoi sogni. La difficoltà del
diventare vittime, mi ricordo che la esprimeva anche Olga D’Antona: noi siamo
vittime, non abbiamo quasi più il diritto a vivere. La esprimeva anche Maria
Fida Moro: le vittime in fondo, diceva, devono entrare nella tomba con il loro
congiunto e non apparire mai più. Credo che questo convegno sia anche
l’espressione di voler restituire ad ognuno la sua storia, e ad ognuno il suo
diritto di vivere e di continuare a vivere. Si è parlato molto di odio in
questo intervento, e proprio di odio continueremo a parlare con Adolfo Ceretti,
che è docente di criminologia all’Università di Milano e coordinatore
scientifico dell’Ufficio per la mediazione penale di Milano: cos’è
l’odio, come funziona l’odio, cosa provoca l’odio?(sommario) Adolfo
Ceretti
(Professore Straordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca e
Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano) Grazie,
davvero grazie a tutte e a tutti. Sono emozionato ma felice di prendere la
parola in questo contesto. A Ornella e ai componenti della Redazione di
Ristretti Orizzonti voglio dire che “siete grandissimi” e che state facendo
a tutti un grande dono, soprattutto a chi si occupa di mediazione reo-vittima
– e io lo faccio da 14 anni insieme a tante persone che sono sedute intorno a
questo tavolo e di fronte a me in questa sala. È un motivo di grande orgoglio
sapere che questi temi iniziano ad avere delle ricadute così importanti. Stavo
commentando con Federica Brunelli, con la quale sono stato in Sud Africa nel
2006, invitato da alcuni componenti della Commissione per la Verità e la
Riconciliazione in occasione della celebrazione dei 10 anni della sua
istituzione, che noi oggi siamo seduti in una sala che ricorda tantissimo gli
incontri della Commissione. Sono presenti vittime di reati di terrorismo, ci
sono autori di reato e c’è un pubblico. Tutti insieme cerchiamo di capire,
tutti insieme stiamo cercando di costruire un linguaggio capace di essere
significante rispetto alle esperienze di vittimizzazione. Vorrei
partire da alcuni temi che chi mi conosce avrà ascoltato altre volte. C’è
una sottile linea rossa che unisce tutte le esperienze delle vittime, e che
riguarda sia chi subisce un furto di un portafogli sia chi è sopravvissuto ad
Auschwitz, e questa sottile linea rossa consiste, a mio avviso, in ciò che ho
definito “la perdita del prima”. Tutti voi, oggi, avete ascoltato Manlio
Milani e Andrea Casalegno. Loro hanno parlato di questa “perdita del prima”,
che consiste in una perdita ontologica della fiducia nei confronti di quel
“mondo” che è capace di donare anche “sicurezza” e che loro hanno detto
che non tornerà “mai più”. Su questo “mai più”, chi si occupa di
“giustizia riparativa” cerca invece di investire, per creare le condizioni
in cui rei e vittime possano iniziare a scommettere su dei futuri credibili –
rispettando naturalmente le sensibilità di ogni persona coinvolta. Per accedere
ai programmi di giustizia riparativa nessuno deve sentirsi forzato a fare nulla
di quello che non si sente di fare. E allora si può cominciare a lavorare anche
sul “senso di colpa”. Ne ha parlato Manlio Milani, per dire quello che ha
provato e prova per essere sopravvissuto alla strage di Piazza della Loggia. Il
ricordo va qui a Yolande Mukagasana, una signora ruandese che ho incontrato in
occasione di un Convegno che ho organizzato nel 2004 per ricordare i 10 anni del
genocidio ruandese. Yolande è sopravvissuta, mentre suo marito e i suoi tre
figli sono morti sotto i colpi di macete. Yolande ha provato a nominare, nel
corso della sua Conferenza, e lo ha fatto con emozione, il dolore indicibile per
la perdita delle persone a lei più care. Ha parlato della ferita ancora aperta
e del senso di colpa che prova per essere sopravvissuta. Un aspetto che mi
lascia stupefatto, ascoltando l’intervento di Manlio Milani – e non è la
prima volta –, è che non riesco a cogliere neanche un atomo di rancore nelle
sue parole, anche se il rancore è normale che accompagni la quotidianità delle
vittime di reati così gravi. Vorrei
ora condividere con voi proprio una definizione del rancore, una definizione
straordinaria, che ha fornito un ascoltatore radiofonico della BBC nel corso di
una telefonata volta a testimoniare la sua esperienza di vittima.
L’ascoltatore ha parlato di un sapore acre e disgustoso che diceva di portarsi
dentro, di una rancidità, di un disgusto che continuava a tornare identico a se
stesso, e al quale non riusciva a dare un nome. Invitato dal conduttore della
trasmissione (questa citazione la trovate in un bel libro di Renato Rizzi,
“Itinerari del rancore” pubblicato da Bollati Boringhieri) a spiegarsi,
questo ascoltatore ha esclamato (cito a memoria): “Provare rancore è bere un
veleno e aspettare che gli altri – i perpetratori – muoiano”. Provate a
riflettere, a fare una conversazione interiore a partire da questa frase: io
bevo un veleno e quindi ne subisco tutti gli effetti negativi, ma desidero che
gli altri – i miei perpetratori – muoiano. La
giustizia riparativa ha quale obbiettivo – tra gli altri – quello di aiutare
le vittime a rielaborare questo ri-sentimento. Ma come? Seguendo i percorsi che
individualmente e/o collettivamente vittime e rei possono rinvenire insieme ai
mediatori. Veniamo
dunque a riflettere sull’odio. Sono stato molto toccato dalle parole di
Casalegno, perché rivelano consapevolezza ma difficoltà ad avviarsi a compiere
quei passi che forse in un contesto come questo possiamo iniziare a proporre. Ciò
non tocca – meglio: non sfiora – i contenuti del suo discorso, nel senso che
non intervengo per contraddirlo o, peggio ancora, per correggerlo. L’ultima
cosa al mondo che compete a un mediatore è quella di sovrapporsi alle parole di
altri. Vorrei invece, insieme a lui e a voi tutti, cercare di capire che cosa
accade quando si odia. Casalegno ha affermato che si può uccidere senza odiare,
ed è proprio da qui che vorrei ripartire. Attualmente sto scrivendo con un mio
giovane collega, che si chiama Lorenzo Natali, un libro che si intitolerà
“Cosmologie violente”. Questo libro, in uno dei suoi capitoli, ricostruisce
i “soliloqui” di alcuni autori di reati violenti, sondando quello che si
dicono le persone violente quando commettono un reato violento, come si parlano,
che cosa si raccontano, come autoriflettono rispetto a quello che stanno per
fare, come si autogiustificano – perché è raro che questi delitti avvengano
in una dimensione di non-pensiero. E
allora, che cosa è l’odio? Proveremo a rispondere insieme a Roberta De
Monticelli, una filosofa molto attenta ai temi delle emozioni e dei sentimenti
sociali, che l’odio è una disposizione che mira al cuore dell’odiato. Già,
colpire al cuore… uno slogan tristemente noto. L’odiante sente l’altro
come essenzialmente malevolo, l’odio identifica l’“altro” con questa
volontà di male e punta al cuore, cioè al sentire che fonderebbe questo
volere. L’odio – si sa – presuppone l’odio. Questo è un punto
importante. Non c’è vero odio che come reazione all’odio. È molto curioso:
non si odia mai per primi. Provate a riflettere… Se noi odiamo è perché
qualcuno ci ha fatto del male. Ma allora dove inizia questa catena, perché
qualcuno inizia a odiare, che cosa sta e che cosa avviene alla base di questo
processo? Qui si fanno spazio discorsi del tipo: io lo odio perché lui è
diabolico, perché lui è il diavolo. Come si può non odiare un Kapò nazista,
come si può non odiare qualcuno che commette una strage? Ma letto a questo
livello il problema diventa un gatto che si morde la coda, perché non riusciamo
a rispondere alle domande che ci stiamo ponendo. Per
tentare di uscire da questo empasse dobbiamo chiederci come possiamo reagire a
qualcuno che ci ha fatto del male. Possiamo reagire in tanti modi. Innanzitutto
in modo rancoroso, smarrendoci e cominciando a chiederci: perché, perché io,
perché è accaduto a me? Un’altra possibilità è quella di iniziare a
negare, e dirsi che l’orrore che è accaduto è accaduto, ma non a me né ai
miei cari. Si cerca, insomma, di prendere le distanze negando o diniegando. Ma
la questione dell’altro inteso come diabolico torna e si riversa nuovamente su
di noi. E allora dobbiamo prendere consapevolezza che dirsi che questa cosa non
proviene da me, non proviene da noi e che lui è il diavolo e io sono chi ha subìto
esige una risposta che non va individuata in categorie psichiatriche,
psicoanalitiche, nella patologia, perché i reati violenti – noi criminologi
lo sappiamo – non sono commessi in modo rilevante dalle persone che sono
portatrici di disturbi psichici (questo è uno dei grandi miti che la
criminologia degli ultimi quarant’anni ha contribuito a ridimensionare). Per
rispondere, dunque, torno alle parole di Casalegno: che cosa precede l’odio di
chi odia per primo? Questo è il punto. E la risposta appunto è che lo
“sguardo di chi odia” non vede mai il volto di un “altro”. Detto
altrimenti, come si può uccidere qualcuno che io non conosco?
“Semplicemente” perché individuo nella mia vittima il fantasma di un
universale. La vittima diviene un “universale personificato”. Per
spiegare questo pensiero difficile vi leggo una frase di Maurizio Puddu, che è
stato Presidente dell’Associazione italiana Vittime del terrorismo, e che è
riportata nel bellissimo libro/interviste di Giovanni Fasanella “I silenzi
degli innocenti”: “Noi per loro eravamo politici, consiglieri, dirigenti
senza volto, senza una identità specifica, ci odiavano soltanto perché
democristiani, eravamo dei numeri per alzare la graduatoria dell’orrore.
Quando le persone non sono contate per una, non c’è giustizia”. Ecco ben
spiegato il concetto che vi stavo porgendo. L’odio ideologico si dà perché
il nemico appartiene a un altro gruppo. E vi appartiene prima ancora che noi
possiamo (ri)conoscerlo. Ciò contraddice un principio altamente connaturato
alla “questione giustizia”, e cioè che per avere giustizia noi dobbiamo
essere “contati per uno”. Sia rei che vittime. Se non siamo “contati per
uno”, e quindi non abbiamo diritto di essere “riconosciuti” nel nostro
ruolo di vittime (ma anche di rei) e come persone, non ci saranno mai verità e
giustizia. Il
problema è che nel momento in cui si attivano certi meccanismi, le persone
smettono di “contare per uno” gli altri, e iniziano a identificarli con
coloro che chiamiamo “universali personificati”. Che cosa significa?
Significa che iniziano a odiare una persona non necessariamente perché e
“lei”, ma semplicemente perché appartiene a un gruppo diverso dal suo,
altro dal suo. In un certo senso qualcosa di simile sta accadendo in Italia in
questi giorni con i Rom… È qualcosa sulla quale occorre riflettere in
profondità. Di
più. L’odio tende alla ripetizione, l’odio non ha oggetto perché nel suo
darsi chi lo veicola sembra del tutto indifferente all’individualità: è come
lo sguardo di Medusa, che paralizza. Questo sguardo precede il gesto di chi
uccide. Ripensiamo alle parole di Casalegno e comprenderemo che l’incapacità
di “sentire l’altro” quale “altro possibile di un dialogo”,
l’impossibilità di “contarlo per uno” e di identificarlo, invece, quale
soggetto autonomo che vive di vita propria pur appartenendo a un
“universale”, fa sì che chi odia rivolga questo sentimento nei confronti
delle categorie assiologiche del nemico. Anni
fa ho fatto una mediazione insieme ad alcuni collaboratori che sono in questa
sala, Francesco Di Ciò per esempio. In mediazione sono venuti due skinhead e un
ragazzo di un Centro sociale. I due skinhead avevano ferito con un coltello e
preso a bastonate il ragazzo del Centro sociale: quando avvengono questi fatti
sono sempre preceduti da forme di autoidentificazione globali di ciascuno con la
propria comunità di appartenenza, che aiuta a giustificare ogni sorta di male
– fino allo sterminio fisico – nei confronti dell’avversario – colui che
si oppone al mio gruppo e, di conseguenza, alla mia identità comunitaria. Ecco,
tale genere di “cancellazione” è quello su cui devono lavorare i mediatori.
Se, da una parte, desideriamo lavorare sulla sofferenza delle vittime, per
renderla meno intollerabile, per quanto riguarda gli autori di reati violenti è
sull’“effetto di cancellazione” dell’“altro”, sulla cecità che
precede il gesto deviante – la mancanza di una struttura che permette di
accogliere l’“altro” quale “altro possibile” di una relazione – che
occorre intervenire. Chiudo
ricordando ancora con De Monticelli che non solo chi odia per primo è sempre un
“altro”, ma anche che chi odia per primo in realtà non odia, perché
qualcosa di terribile è già avvenuto al suo sentire: il suo ritrarsi dal
livello propriamente personale di apertura alla realtà, il suo chiudersi alla
percezione dell’“altro” come tale. La mediazione reo-vittima è uno spazio
in cui incontrare gli altri, in cui gli altri possono diventare altri possibili
di una relazione. La mediazione non è connotata da nessun buonismo perché
nessuno pretende che tra i confliggenti debba scoppiare la pace...
L’importante è che nei suoi spazi e tra i suoi attori si dia la possibilità
di un “mutuo riconoscimento”. Vi ringrazio per avermi ascoltato, e a presto.(sommario) Daniela De Robert(10) C’è
bisogno di parlare, ne hanno bisogno le vittime, gli autori di reati, i
famigliari, ne ha bisogno la società. Qui forse si è fatto un passo in più,
qui non si sta solo parlando, ma ci stiamo parlando, non c’è solo bisogno di
parlare, ma di parlarsi. Questo è il passo in più di diversi soggetti che oggi
si confrontano, c’è un proverbio sudafricano, lo cita Desmond Tutu nel suo
libro sulla commissione per la verità e per la riconciliazione, che dice: “Al
processo non si va con un coltello per tagliare ma con un ago per cucire”;
l’esperienza sudafricana non credo sia riproponibile in un paese come il
nostro, e in un contesto così diverso, ci sono però percorsi ed esperienze
analoghe, la ricerca di una riconciliazione, la ricerca di una mediazione,
allora insieme a Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la mediazione
penale di Milano, proviamo a capire anche di cosa si tratta.(sommario) Federica
Brunelli (mediatrice
dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano e di DIKE Cooperativa per la
mediazione dei conflitti) Mi
occupo di mediazione, lo faccio a Milano insieme a un gruppo di persone, che si
sono conosciute e sono “cresciute” insieme al professor Ceretti. Vorrei
cercare di rimanere nel solco e nel clima della giornata, quindi cercare di
parlarvi della mediazione mediante il linguaggio “del sensibile” che ci
avete permesso di incontrare questa mattina, e non attraverso una lezione
astratta e teorica. Seguendo l’indicazione di Olga D’Antona, vorrei provare
a individuare alcune parole chiave, che sono state pronunciate e utilizzate
questa mattina, le quali incontrano perfettamente alcuni dei nodi tematici più
importanti della mediazione e della giustizia riparativa. La
prima parola che vorrei proporvi è giustizia, attraverso il suo contrario,
ingiustizia. Come è possibile trovare risposte significative alla domanda di
giustizia che nasce da un’ingiustizia patita e commessa? La
giustizia riparativa, quale giustizia che ripara e che propone l’uso di “un
ago per ricucire quello che si è rotto” con la commissione di un reato, è
una giustizia che prova a lavorare in modo inedito sulle esperienze ingiuste; e
la mediazione ne è strumento, lo strumento principale, perché presuppone
l’incontro fra le persone. La giustizia riparativa propone di considerare il
reato come abbiamo fatto noi, questa mattina: abbiamo capito che la commissione
di un reato non si traduce semplicemente con “il violare una norma”, abbiamo
capito - Manlio Milani ce l’ha spiegato bene - che il reato è un evento dopo
il quale le persone perdono completamente “il senso delle relazioni con gli
altri”. Il reato rompe delle relazioni importanti, dei patti fiduciari, e
questo accade sia quando le persone si conoscono già prima del fatto, sia
quando le persone si incontrano per la prima volta proprio con la commissione
del reato. Se
ciò che si frattura è il senso della relazione con l’altro, la giustizia
riparativa prova a capire se esista un modo per “prendersi cura” di queste
relazioni rotte, se esista la possibilità di occuparsi degli effetti negativi
che queste fratture lasciano in tutte le persone coinvolte: gli autori di reato,
le vittime, le vittime secondarie (come i familiari degli autori di reato e
delle vittime), la comunità; se esista, infine, la possibilità di ritrovare un
significato delle relazioni con gli altri. È un modo per guardare dentro alle
norme, per provare a far emergere la sostanza del bene giuridico protetto dalla
norma penale, che è stato offeso. Una
seconda espressione che è emersa dalla riflessioni di stamattina riguarda il
parlare con. Ancora Manlio Milani ci ha detto “sono pronto al dialogo”. Gli
spazi di mediazione sono dei luoghi fisici e simbolici nei quali è possibile
“prendere la parola”. Potremmo dire che la mediazione è fondamentalmente
un’esperienza narrativa, uno spazio e un tempo per narrare la propria storia,
insieme all’altro. Nelle definizioni internazionali del Consiglio d’Europa e
delle Nazioni Unite che descrivono e definiscono la mediazione, si ritrova
costantemente un’espressione, che è “partecipare attivamente”. La
mediazione viene sempre descritta come una procedura nella quale vittima e
autore di reato, insieme alla comunità, partecipano attivamente alla
risoluzione della questione emersa con l’illecito. “Partecipare
attivamente” significa proprio, in primo luogo, avere la parola, avere
restituita la possibilità di parlare. Nessuno parla al nostro posto nella
mediazione, non vi è nessun linguaggio esperto che possa sostituirsi alla
nostra parola. Dunque, un’esperienza molto diversa da quella che si sperimenta
nei luoghi tradizionali della giustizia, come i tribunali. Ogni
mediazione apre alla narrazione individuale (ogni incontro, fra l’altro, è
sempre preceduto da colloqui individuali) ma soprattutto alla narrazione che
avviene in uno spazio dialogico. Il punto decisivo è proprio questo: è
l’incontro di narrazioni, lo scontro, l’intreccio, lo scambio di parole
dell’uno e dell’altro a divenire fondamentale e a rappresentare
un’opportunità di trasformazione. È l’io che narra di sé, che narra
dell’altro, che è narrato dall’altro e viceversa l’altro che narra di sé
e che narra di me. Ma cosa si narra in mediazione? Che cosa raccontano le
persone? Sono tanti anni che ci occupiamo di questo tema e in questo tempo
abbiamo partecipato a tanti incontri di mediazione fra autori di reato e
vittime. Abbiamo
ascoltato, sempre, il grande desiderio che le persone hanno di raccontare cosa
è successo loro: non tanto i fatti, come sono andate le cose da un punto di
vista oggettivo, quanto piuttosto la dimensione esistenziale legata ai fatti, i
vissuti, i valori, la propria storia. Leggevo un libro, venendo in treno, “La
promessa di Durrenmatt”, e nelle prime pagine c’è scritto che “un fatto
non può mai tornare come torna un conto”, “c’è sempre qualcosa di
incalcolabile - dice Durennmatt - di incommensurabile, che sfugge al conto. Il
caso singolo resta sempre fuori dal conto”. Ho
pensato alla mediazione e a come chi vi partecipa non racconti mai semplicemente
dei fatti precisi, ma piuttosto cerchi di rendere visibile l’incommensurabile,
come incommensurabile è il fatto “che una mattina di maggio c’erano un uomo
e una donna che si scambiavano un saluto con la mano, e quel saluto era un sogno
di democrazia”. Questa è la “storia” che chi narra può sentire il
bisogno di esprimere in uno spazio di mediazione. Riprendo
un’altra parola che è stata evocata molte volte oggi, la parola verità.
Durante le mediazioni, ascoltiamo un grandissimo bisogno, una grandissima
ricerca di verità, che significa il bisogno di dire la propria verità, ma
anche ascoltarla dall’altro. La mediazione rappresenta uno spazio in cui ci si
interroga, e in cui si può portare il nostro bisogno di sapere. Questa
tensione al sapere riguarda certamente i fatti, come sono andate le cose
esattamente, con quale dinamica, dove sono le responsabilità, ma è anche un
bisogno di comprensione che riguarda qualcosa di più profondo. Sempre Manlio
Milani, questa mattina, ci ha detto che desidera capire “quali sono i
meccanismi che portano una persona ad uccidere”; è forse questa domanda che
riporta all’interrogativo di “chi eri tu? Quale era la tua situazione morale
quando hai compiuto una scelta? Quale la tua condizione personale in quel
momento?”. È una tensione alla conoscenza che riguarda il “chi è
l’altro”. Un’altra
parola importante è riconoscimento, strettamente legata alla parola
responsabilità. I mediatori operano per facilitare percorsi di riconoscimento,
e in questo lavoro la presenza dell’altro è decisiva, perché è a lui che io
posso porre le mie domande fondamentali, ed è solo l’altro che può dare una
risposta, ed è incontrando le risposte dell’altro che io posso misurare la
sua verità. L’incontro con l’altro è l’incontro con il suo volto. In
mediazione non si può più far finta che l’altro non esista, perché c’è,
è presente e si manifesta come persona, in quanto volto. Riconoscere l’altro
non significa arrivare a riconoscere che l’altro è come noi (questo punto è
emerso con chiarezza nell’intervento del professor Ceretti questa mattina),
riconoscere l’altro significa poter avere uno spazio per sancire le
differenze, per far sì che l’alterità di ciascuno possa manifestarsi,
un’alterità che spesso è irriducibile, è incomprimibile all’altro; avere
uno spazio per pensare che l’altro possa essere un altro possibile rispetto a
me. L’incontro con il volto dell’altro ha a che fare con la responsabilità
in modo profondo. Chiamare ciascuno alla responsabilità dell’altro fa capire
perché la mediazione sia un’attività molto faticosa, molto impegnativa, per
nulla buonista, per nulla indulgenziale. Prendo in prestito un’espressione di
Adolfo Ceretti: il diverso sguardo a cui apre la giustizia riparativa riguarda
anche la possibilità di considerare che la “responsabilità non sia soltanto
per qualcosa, ma la responsabilità, che nasce durante un incontro di
mediazione, sia una responsabilità verso un’altra persona”. Chi
è il mediatore? Non è un giudice, chiamato a decidere chi ha torto e chi ha
ragione, a esaminare l’oggettività dei fatti, ma partendo dai fatti e dai
ruoli che la legge ha assegnato a ciascuna parte (autore di reato/vittima) il
mediatore prova ad aprire all’incontro fra “persone”. Egli
è un terzo equiprossimo, come afferma Eligio Resta, capace di essere vicino a
tutte le parti, essere l’uno e l’altro allo stesso tempo. Una posizione
diversa da quella del giudice, dalla sua neutralità, dal suo essere
necessariamente né l’uno né l’altro. Il mediatore prova ad avvicinarsi a
entrambe le persone, non come “tecnico” della comunicazione, ma partecipando
all’esperienza dell’incontro. L’ultima
parola, anzi la penultima, che volevo proporvi è la parola riparazione. Non
nomino il perdono perché poche volte durante gli incontri di mediazione abbiamo
ascoltato le parti pronunciare questo termine e ne abbiamo tematizzato il senso.
Molto più spesso ricorrono le parole comprensione, riparazione, trasformazione.
La riparazione che nasce da una mediazione non ha niente a che vedere con una
compensazione, con il mero risarcimento economico. Per cercare di definire cosa
sia la riparazione potremmo dire che essa consiste in “qualsiasi gesto che
possa testimoniare che è avvenuto un riconoscimento fra le persone, un cambio
di percezione fra loro, la disponibilità a costruire qualche cosa per il
futuro”. Concretamente le proposte riparative che abbiamo incontrato hanno
assunto varie forme: lo scambio di scuse sincero, un abbraccio, fare qualcosa
per l’altro, fare qualcosa insieme, fare qualcosa per la comunità, scambiarsi
una promessa di rispetto per il futuro; in alcuni casi è stato l’incontro di
mediazione in sé ad essere sufficiente per le parti, altre volte l’esito è
consistito nella definizione di regole per il futuro; la riparazione è sempre
riparazione simbolica, perché “sta” per qualcos’altro, per un avvenuto
riconoscimento e poche volte gli interessati hanno desiderato che si traducesse
in forme dal contenuto economico, in una somma di denaro. Provare
a individuare una riparazione significa provare a lavorare per una
trasformazione. La trasformazione non riguarda il poter trasformare quello che
è successo, perché sappiamo che qualunque esperienza di ingiustizia, una volta
commessa, non può più essere eliminata, è iscritta nella storia una volta per
tutte, e non ci può essere niente, nemmeno un’ottima mediazione, che la possa
cancellare. Ciò che si può provare a fare è vedere se è possibile
trasformare il vissuto di ciascuno rispetto a quello che è successo. Significa
non rimanere per sempre inchiodati in un punto, cominciare - come ci ha spiegato
Olga D’Antona - a uscire dall’immobilità di un ruolo, che ci tiene fermi,
in una specie di tempo perenne che non si evolve mai. La trasformazione riguarda
la possibilità di immaginare qualcosa per il futuro, immaginare se esista la
possibilità che in questo futuro sia compreso anche l’altro, e non ne sia
escluso. La parola consenso è la parola con la quale desidero chiudere questo
intervento. Questa è una parola importante per i mediatori. La
mediazione non può essere imposta, ha senso solo se è consensuale quindi solo
se le persone possono scegliere di parteciparvi. Ed è consensuale anche nel suo
svolgimento, perché tutto ciò che si fa in mediazione nasce da un consenso.
Questa prospettiva vale certamente anche per la riparazione, che ha un
significato se è frutto di una costruzione volontaria. Per questa ragione cosa occorre fare per riparare non è mai stabilito dal mediatore, che lavora non a partire da percorsi già tracciati in anticipo, ma è deciso solo dagli interessati; deve poter essere qualcosa di significativo per loro, per entrambi e per questa ragione le riparazioni assumono spesso delle forme inedite, inimmaginabili all’inizio del percorso. La riparazione che nasce dal consenso può durare nel tempo, perché è veramente frutto di una scelta e non di un’imposizione. Grazie.(sommario) Daniela
De Robert(11) A
Carlo Alberto Romano, criminologo e docente di criminologia all’università di
Brescia, ma anche presidente di una associazione di volontariato che si chiama
“Carcere e territorio”, vorrei chiedere qual è il ruolo del volontariato
rispetto a tutto quello di cui abbiamo parlato oggi.(sommario) Carlo
Alberto Romano (docente
di Criminologia all’Università di Brescia, presidente dell’associazione di
volontariato “Carcere e territorio” di Brescia) Una
rapida analisi del ruolo narrativo che potrei giocare io oggi, e dell’utilità
delle mie parole rispetto a quelle di chi mi ha preceduto, mi porta a pensare
che io oggi sia l’autista di Manlio Milani e di Giuseppe Soffiantini, e forse
dovrei non aggiungere altro e rimanere in quel ruolo, di per sé per altro
apprezzabilissimo, perché condividere due ore di viaggio con Milani e
Soffiantini è per me un momento di crescita notevole; in più c’è anche il
ritorno, quindi sono davvero fortunato. In
realtà credo che in qualche modo, sempre giocando su questa rappresentazione,
qualche riflessione ulteriore potrei lanciarla, e cioè forse è proprio vero
che io sono un autista con un preciso compito in questo senso, con un compito
come docente universitario, con un compito come responsabile di una associazione
del privato sociale, fortemente radicata sul territorio e quindi fortemente in
grado di proporre qualcosa al territorio. Vedete,
e ancora una volta vi chiedo di costruire una immagine insieme a me, peraltro già
in qualche modo evocata da Adolfo Ceretti questa mattina, guardiamo questa sala
e guardiamo cosa ci ricorda: a me, questa sala ha ricordato fortemente quale può
essere il ruolo della comunità e del volontariato, là i detenuti, dietro una
sbarra, una solita e solida sbarra che evidentemente non hanno chiesto loro ma
che anche oggi li separa da noi, qui le persone che hanno parlato portando le
loro testimonianze come vittime, avviluppandoci nel valore narrativo delle loro
parole, e in mezzo noi, noi con le nostre resistenze, le nostre capacità, i
nostri vissuti, il nostro inserimento sul territorio. Ebbene,
la comunità può essere un cuscinetto fra questi due elementi della diade
autore/vittima, un cuscinetto che attutisce le parole, che possono rimbalzare,
possono trovare interlocuzione, o possono limitarsi ad una semplice
superficialità, oppure la comunità può essere un volano, può essere un
propulsore, può essere un acceleratore, può essere un facilitatore del
contatto, del confronto e del dialogo. Eviterò, dopo gli autorevoli interventi
che mi hanno preceduto, di dissertare ulteriormente su quali possano essere
nell’ambito della giustizia riparativa, gli interventi più opportuni; sono
convinto che qualcosa si possa fare, e lo si possa fare in ambito comunitario. Il
volontariato, a mio parere, deve giocare un ruolo di tramite in queste
iniziative, e lo può fare occupandosi sia degli autori di reato, soprattutto
con riferimento a quelle sfaccettature di sofferenza della loro esecuzione
penale che non sono previste dalla Costituzione e dalla nostra legge, ma così
tenacemente diffuse nel nostro sistema penitenziario e sulle quali dobbiamo
agire per fare in modo che tali sofferenze non si riverberino ulteriormente nei
confronti di quei totalmente innocenti che sono i loro famigliari; ciò è
perseguibile mediante la tutela dell’affettività e della genitorialità,
l’implemento della formazione, e dell’inserimento lavorativo, tutti problemi
la cui soluzione da sempre abbiamo delegato all’Amministrazione penitenziaria,
quando sapevamo benissimo che l’amministrazione penitenziaria da sola non
poteva essere esaustiva da questo punto di vista. Inoltre
il volontariato può occuparsi anche di chi, toccato duramente dal reato, si è
sentito solo, si è sentito non sufficientemente compreso, a volte neppure
ascoltato. La
signora D’Antona ha detto: un ponte, cerco un ponte… chi può fare il ponte?
La comunità deve fare il ponte, e deve farlo sapendo coinvolgere tutti gli
attori sociali, comprese istituzioni, cooperazione, associazionismo, scuola e
università. Due autorevoli colleghi, certamente più autorevoli di me, siedono
a questo tavolo, ma io chiedo loro, cosa fanno le Università da questo punto di
vista, al di là degli interessi personali di qualcuno di noi, quanti sono i
filoni di ricerca che troviamo su questo punto? Che capacità abbiamo di
attrarre interesse, sviluppare ricerche, esportare conoscenza sul rapporto
autore/vittima e sulle modalità di gestirlo in ambito comunitario? Anche
le istituzioni il più delle volte fanno interventi limitati, pochi euro per le
vittime dei reati patrimoniali, certamente un aiuto ma non è di questo che
dobbiamo accontentarci. Dobbiamo
chiedere di sederci ad uno stesso tavolo e di discutere di quanto abbiamo
sentito dire magnificamente oggi, dobbiamo individuare percorsi di reciproca
conoscenza, che non necessariamente portino ad una soluzione definitiva (non
deve scoppiare la pace, come diceva giustamente Adolfo Ceretti) ma che non
lascino neppure restare tutti nell’indifferenza reciproca, nascondendoci
dietro alle diversità di ruoli, obiettivi e modelli. Il
problema esiste è ed sempre stato sottaciuto; ora che in qualche modo è
riuscito ad emergere, credo che il nostro compito sia quello di sviluppare
iniziative progettuali a favore di autori e vittime di reato, nascenti a seguito
di un attento studio delle caratteristiche del nostro territorio relativamente
alle vicende di criminalità che si susseguono quotidianamente. Vi è ad esempio
una diffusa percezione di insicurezza sociale che, pur apparendo talvolta
sovradimensionata rispetto alla realtà oggettiva considerata, necessita
comunque di una risposta. È
inoltre evidente che la vittima da sempre vive una condizione di minor
attenzione da un punto di vista normativo, sociale e valoriale rispetto agli
altri protagonisti dello scenario delittuoso. Ciò ha ingenerato nelle vittime
stesse e nelle loro reti di relazione un crescente sentimento di sfiducia nelle
istituzioni e nelle capacità di intervento delle stesse. Appare
quindi opportuno pensare di avviare ipotesi progettuali che tentino di
presentare sul territorio azioni di intervento concreto a favore delle persone
che hanno subito una sofferenza conseguente ad un reato, i cui tratti salienti
potrebbero essere:
Questo
compito propulsivo riguarderebbe aspetti che il volontariato è in grado di
affrontare in autonomia, soprattutto avendo come obiettivo principale quello di
coinvolgere le parti sociali che tendono a disinteressarsi del problema o a
pensare che sia sempre compito di qualcun altro affrontarlo. Sapessimo fare
questo credo che per il volontariato sarebbe già fare molto.(sommario) Daniela
De Robert(12) Fare
i ponti non è facile, però è un bel lavoro, e richiede anche molto impegno e
forse anche creatività, si possono trovare strade diverse. C’è ancora un
intervento, parliamo ancora di riparazione e do la parola a Giuseppe Mosconi,
sociologo del diritto. Giuseppe
Mosconi (docente
di Sociologia del diritto, Università di Padova) Grazie
a tutti per essere presenti a questo importante incontro e per il coinvolgimento
che si respira in temi che sono davvero insoliti, rispetto soprattutto al clima
attuale che aleggia attorno a questi problemi e a questo tipo di discorsi. Io
vorrei riprendere un passaggio che trovo pregnante dell’intervento di Adolfo
Ceretti, quando ha detto che con l’odio si combatte il fantasma di un
universale, e che quindi il primo passo di una catena non interrompibile spesso
muove da una scelta che non passa attraverso la conoscenza diretta della
persona, ma si scontra con una rappresentazione astratta, generale che si
rigetta. Ecco io credo che questa astrazione deformante sottenda, anche
storicamente, l’idea del castigo e della punizione; quando cioè si punisce in
astratto per la semplice violazione di un principio, mentre si colpisce
concretamente una persona, più o meno inconsapevolmente. Se risaliamo alle
radici storiche della pena, alla filosofia che la ispira, questo può facilmente
emergere, ed è riferibile al fatto che la sofferenza inflitta alla persona è
la reazione alla violazione che la persona rappresenta di un universale, di un
bene giuridico tutelato in astratto, che non si vede riparabile in un altro modo
se non attraverso una sorta di afflizione vendicativa. Dunque un’onda lunga di
quella che è la radice culturale della vendetta. Su questo credo sia necessario
riflettere, nel momento in cui si vuole affrontare e sviluppare un discorso, che
vada a fondo sulla questione della riparazione. Voglio
subito mettere in rapporto tra loro altri due passaggi che mi hanno
particolarmente colpito nei discorsi di oggi. Uno è quello della signora
D’Antona, che diceva appunto che a lei non interessa tanto la sofferenza di
chi ha violato la legge, quanto il fatto che questa persona riscopra, e si
riappropri di quella parte positiva di sé, messa in crisi dalla sua parte
negativa, in un conflitto che in fondo attraversa chiunque di noi; questo
recupero della parte positiva, diceva ancora, segna la vittoria della società
sul reato, la vittoria della società sul male. Ancora mi sembra importante
quello che diceva Federica Brunelli, a proposito dell’importanza del consenso.
Senza consenso non c’è per gli attori coinvolti in un processo mediatorio
possibilità di successo, maturità, crescita, approfondimento. Ora noi ci
troviamo, mettendo insieme questi elementi, di fronte ad una raffigurazione del
come pensare una riparazione, del come gestire una riparazione, che non può non
porci in termini di alternativa profonda, radicale, di fronte al fatto che
questa avvenga prima o dopo una condanna penale. Assume quindi cruciale
importanza il fatto che si disegni uno spazio, libero, dinamico, approfondito,
in cui le due persone coinvolte, sono due persone, che hanno attraversato da
punti di vista, da ruoli diversi questa esperienza a volte terribile, e che in
questo senso si confrontano senza che sia avvenuto un giudizio, una definizione
un etichettamento da parte di un intervento istituzionale, sulle loro persone. Certamente
i discorsi che noi abbiamo sentito oggi vengono da esperienze particolarmente
drammatiche, particolarmente cruente, e che pongono in termini appunto
estremamente intensi, anche dal punto di vista emotivo, la presenza o meno di un
giudizio, la presenza o meno di una condanna, però noi dobbiamo guardare anche
alla normalità, diciamo così quotidiana, del comportamento illegale, cioè
della piccola, o più o meno tale, criminalità, così detta corrente, quella
che affolla le nostre carceri, che sta tornando a riaffollarle, dopo la breve
parentesi del post indulto. Essa vede come protagonisti persone che spesso
compiono attività illegali senza vittime, o con vittime non così ferite, o non
così colpite emotivamente da quanto è avvenuto, e c’è tutto un universo,
una dimensione in cui certamente c’è una relazionalità tra soggetti, attorno
all’episodio illecito, attorno alla violazione della legge, in cui è
possibile valutare l’effettiva dannosità sociale di un comportamento in
relazione alle persone concretamente coinvolte, ma in cui le soluzioni non si
presentano, se viste sotto questo profilo, così drammatiche, o così
inarrivabili. Riusciremo a immaginarci quale sarà, rovesciando adesso il
discorso per paradosso, la vittima del reato di immigrazione clandestina, o la
vittima del reato di mendicità? Dunque mi sentirò vittima quando un mendicante
tenderà la mano, o magari sarò io il primo a cercare la sua attenzione per
riuscire a dargli qualcosa di cui penso abbia bisogno? Ci
sono delle situazioni che la concretezza della realtà sociale porta in termini
di normalità, o di accettabilità, o comunque di gestibilità corrente, senza
eccessivi conflitti e scontri, che la società può benissimo gestire, senza
ricorrere all’afflizione, senza ricorrere alla condanna. Ma questa idea che
ponevo prima è importante: la condanna deve intervenire prima del processo
mediatorio, o può essere evitata dall’esperienza riparativa? Credo che sia
un’alternativa determinante, perché il rapporto tra le persone, e ciò che le
persone diventano non sono la stessa cosa, se la condanna sia intervenuta o non
sia intervenuta. E se proprio vogliamo ritenere che il rapporto tra le persone
sia più facile, più libero, più fluido, più sincero, più spontaneo, più
condiviso, è necessario prevenire la frapposizione di questa rigida e astratta
condanna che viene dal fatto che si considera il comportamento di un uomo come
lesivo di un universo astratto, di un fantasma universale, come ho detto
all’inizio richiamando Ceretti. Solo in questo caso ritengo che sia molto più
praticabile, e molto più ottenibile un risultato profondo, sicuro, e stabile,
che riconosca le persone per quello che effettivamente sono. Al
contrario una mediazione che intervenga dopo la condanna, e che si disegni come
una aggiunta di afflizione, di espiazione, per raggiungere la riabilitazione, è
a rischio di strumentalità e di scarsa sincerità, ma è anche quel tipo di
riparazione che risveglia la vittima ad una esperienza e ad un coinvolgimento
che aveva già allontanato e rimosso, come pure si diceva questa mattina. Ecco
io sono sinceramente preoccupato del fatto che nella nostra legislazione, e
nella nostra giurisprudenza, tenda a prevalere questo secondo orientamento,
rispetto al primo, e che si parli di giustizia riparativa in fondo come misura
accessoria a una forma di sanzione, per quanto, almeno per un certo periodo,
alternativa al carcere, ma che si aggiunge alla sanzione penale già irrogata,
già pronunciata. Credo che questo non vada nella direzione voluta dai testi
internazionali, dai documenti del Consiglio d’Europa, o delle Nazioni Unite,
che auspicano la mediazione come forma alternativa alla pena tenendo conto
soprattutto, e del sovraffollamento delle carceri e delle deformazioni che la
punizione, quantomeno prolungata, determina nella vita delle persone. Quindi
ritengo che molti discorsi che abbiamo sentito oggi, vadano immaginati non solo
nella drammaticità dei casi, che sono stati così efficacemente presentati, e
che ritengo costituiscono una importantissima occasione di riflessione per
tutti, ma visti più nella dimensione corrente, del tipo di illegalità che
affolla le nostre carceri, e che nel clima che stiamo attraversando è
inevitabilmente destinata ad affollarle ancora di più e in modo drammaticamente
immotivato.(sommario) Francesco
di Ciò (mediatore
presso l’Ufficio per la mediazione penale di Milano) Buongiorno sono Francesco di Ciò e collaboro da alcuni anni con il professor Ceretti sul tema della giustizia ripartiva. Mi sentivo di fare un piccolissimo intervento, perché ho sentito più volte questa mattina cosa facciamo dopo, cosa facciamo dopo oggi, e mi sentivo di portare un’esperienza molto preziosa che è stata realizzata in questi mesi a Bollate, dal sottoscritto e dalla professoressa Mazzucato, e si tratta di un progetto che si chiama Riparare, e che ha voluto approfondire una parola che è stata trattata forse poco, forse perché non era oggi il momento per analizzarla in profondità, che è appunto la parola riparare. Questo progetto ha voluto creare due laboratori, due laboratori di riflessione sul tema dell’ingiustizia della pena e appunto della riparazione, due laboratori che hanno visto coinvolti 30 detenuti di Bollate, e fuori dal carcere 30 studenti adulti di una scuola di servizio sociale. Si è costruito un percorso e su questo mi volevo soffermare, sul fatto che l’incontro tra vittime e autori di reato va preparato, e allo stesso modo abbiamo preparato un incontro di questi due gruppi, abbiamo voluto approfondire il significato e il perché ripariamo, che cosa ripariamo, che significato deve avere questa parola, e successivamente abbiamo fatto incontrare questi due gruppi, che hanno potuto condividere il significato profondo del tema della giustizia ripartiva. Penso che questo progetto sia stato un progetto molto prezioso e debba essere diffuso, diffuso nelle realtà carcerarie, proprio perché quello che è successo in questo percorso è che siamo partiti dall’incontro in cui abbiamo incontrato i fantasmi di cui parlavamo, e alla fine, come diceva il professor Ceretti, ciascuno ha potuto contare per uno, e parlare della sua esperienza e capire dall’esperienza dell’altro. Grazie mille.(sommario) Daniela De Robert(13) Grazie,
se avete ancora un minuto di pazienza io penso che questa giornata si possa
chiudere qui, è stata veramente una giornata importante per tutti noi, credo
che ognuno di noi in qualche modo qualche certezza l’abbia persa, ed è sempre
una buona cosa. Siamo tornati con qualche dubbio in più, e qualche domanda in
più, è un dialogo che a volte è stato anche duro nei contenuti, ma che è
stato sempre rispettosissimo, quindi io ringrazio tutti quelli che sono
intervenuti, perché il rispetto è fondamentale. È stato un momento in cui ci
siamo parlati, e ci siamo ascoltati, a volte si parla e nessuno ascolta, mentre
oggi credo che ci siamo ascoltati; prima sono andata un po’ a sfruculiare chi
sta oltre quelle sbarre, per sapere cosa pensavano della prima parte della
mattinata che è stata molto intensa, e la sensazione era un po’ quella che ho
io, e cioè che ci vuole tempo per digerire, ma abbiamo raccolto molto e
bisognerà pensare. Si
diceva che questo è un convegno diverso dagli altri, ci hanno portato una vita,
ci hanno portato un dolore, ci hanno portato una sofferenza, adesso noi tutti ci
lavoreremo, singolarmente e insieme, perciò ringrazio Ristretti Orizzonti,
ringrazio i volontari e ringrazio i detenuti, perché di fronte al chiasso
assordante dei colpevoli, come diceva Fasanella, non solo hanno avuto il
coraggio di rompere i silenzi degli innocenti, ma di accettare per un giorno di
ascoltare, di non parlare, di stare qui per accogliere e non è scontato.
Ringrazio il direttore Pirruccio, non è scontato neanche che un carcere si apra
così, non è scontato davvero, forse noi ci siamo abituati ma lo ringrazio,
ringrazio anche gli agenti che hanno fatto il servizio con discrezione. Credo che questo convegno ancora una volta, questa giornata che organizza Ristretti Orizzonti insieme alla direzione è un’occasione in cui si dimostra che il tempo della pena, non è necessario che sia un tempo vuoto, ma che il tempo della pena, può diventare un’occasione per riflettere, per trasformarsi, per trasformarci tutti, per dialogare il dentro con il fuori, e farlo oggi con il clima dei campi Rom bruciati credo sia ancora più significativo, e quindi ancora un grazie più profondo.
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