Giornata di Studi

 

Atti della Giornata di Studi

"Dalle notizie da bar alle notizie da galera"

Per un’informazione onesta, sobria, pulita dal carcere e sul carcere 

(Casa di reclusione di Padova, venerdì 26 maggio 2006)

 

Presentazione della Giornata di Studi

Ornella Favero (direttore responsabile di Ristretti Orizzonti)

Salvatore Pirruccio (direttore della Casa di reclusione di Padova)

Ornella Favero (direttore responsabile di Ristretti Orizzonti)

Stefano Bentivogli (ex detenuto, redattore esterno di Ristretti Orizzonti)

Marino Occhipinti (detenuto, redazione di Ristretti Orizzonti)

Flavio Zaghi (detenuto, redazione di Ristretti Orizzonti)

Graziano Scialpi (detenuto, redazione di Ristretti Orizzonti)

Elton Kalica (detenuto, redazione di Ristretti Orizzonti)

Mauro Paissan (giornalista e componente dell’Ufficio del Garante della privacy)

Alessandro Margara (magistrato, presidente della Fondazione Michelucci)

Sergio Cusani (vice presidente dell’Agenzia di Solidarietà per il Lavoro di Milano)

Sergio Segio (Associazione Società InFormazione)

Gerardo Bombonato (presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna)

Enrico Ferri (Giunta esecutiva della Federazione Nazionale della Stampa)

Claudio Santini (direttivo dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti)

Stefano Anastasia (presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia)

Marco Capovilla (fotografo e docente di fotogiornalismo

Edoardo Albinati (scrittore ed insegnante nel carcere di Rebibbia)

Appello al Ministro della Giustizia dalla Giornata di Studi

Incontro con Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto

Gli atti completi in file word zippato (da scaricare)

Presentazione della Giornata di Studi

 

Cosa fa notizia oggi nell’ambito dell’informazione e della cronaca in particolare? Quali argomenti sono di grande attrazione per il pubblico ed i lettori dei media? Qual è lo spazio e l’importanza della cronaca nera e più in generale della cronaca giudiziaria? Come viene trattato questo genere di notizie? E quali sono invece, per chi fa informazione dal carcere, le modalità migliori per raggiungere dei lettori che non siano “addetti ai lavori” o che addirittura si sentano distanti da realtà come il carcere e le aree del disagio sociale?

Quello che è certo è che comunque i fatti di cronaca nera, raccontati dai giornali locali e nazionali e dalla televisione, sono diventati mezzi attraverso i quali si condiziona o addirittura si costruisce il sentire comune su grandi temi quali la “sicurezza”, confondendo spesso i fenomeni di malessere sociale con questioni meramente di “ordine pubblico”. Il rifiuto di ritrovare delle persone dietro i reati è proprio un pericoloso tentativo di allontanare, attraverso generalizzazioni e stereotipi, fenomeni che invece appartengono al nostro vivere, alla nostra cultura, sono dietro la porta affianco o dentro le nostre stesse mura di casa.

Questa perdita di contatto che crea due mondi separati è anche la perdita di un’opportunità di confronto e conoscenza con i protagonisti di storie spesso terribili e difficilmente comprensibili, per le quali il carcere, invece che un’esperienza di reale reinserimento, si trasforma nel luogo della regressione, dell’abbrutimento, a volte della morte per suicidio. Dal carcere viene invece offerta l’opportunità di osservare questa realtà da una prospettiva diversa da quella tradizionale, proprio attraverso le persone che ne sono protagoniste.

Ma per portare questa realtà a conoscenza di molti occorre essere preparati e soprattutto confrontarsi con chi di informazione se ne intende, diventare interessanti, entrare a far parte a pieno titolo del mondo dell’informazione. Quello che non vorremmo più vedere sono certe manipolazioni delle notizie che rimangono alla superficie dei fenomeni senza mai scavare in profondità. La vita, le vite invece hanno sempre tante sfumature e non è semplice raccontarle, soprattutto se permane una spinta, sempre più forte, alla rimozione culturale di tutto quanto è diverso e non omologato.

La redazione di Ristretti Orizzonti e la Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere ritengono importante dedicare una Giornata di Studi nazionale dentro il carcere ad un approfondimento sui temi dell’informazione, partendo proprio dal modo in cui vengono presentate dai mass media le notizie di cronaca nera, giudiziaria, del carcere. Qualche volta verrebbe da dire che si tratta di “Notizie da bar”, alle quali vorremmo contrapporre “Notizie da galera”, testimonianze insomma che arrivano direttamente dalle carceri e cercano di raccontare, se possibile con onestà, sobrietà e chiarezza, un mondo altrimenti compresso, nascosto, invisibile.

Chiediamo allora a giornalisti autorevoli della carta stampata, della televisione, della radio, di Internet, delle Agenzie di Stampa di darci un contributo formativo ed informativo su questi temi. Questa può essere anche un’occasione di crescita culturale per tutti, perché in Italia l’informazione d’inchiesta sta scomparendo, lasciando il terreno libero per la pigra riproposizione di stereotipi, e per un’informazione lontana dalla realtà e tutta tesa ad inibire la voglia di capire ed il senso critico.

Chiediamo all’Ordine dei giornalisti, alla Federazione Nazionale della Stampa e all’Ufficio del Garante per la privacy di collaborare con noi a stendere la “Carta di Padova”, a modello di quella di Treviso sui minori, che definisca la deontologia e i criteri irrinunciabili con i quali produrre informazione sul carcere.

 

 

Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti

 

Finalmente riusciamo ad iniziare: ci scusiamo per i tempi che sono sempre un po’ lunghi, d’altra parte siete entrati in un carcere, quindi penso che siate consapevoli delle difficoltà. Adesso il direttore, il dott. Pirruccio, apre il convegno.

 

 

Salvatore Pirruccio, direttore della Casa di reclusione di Padova

 

Buongiorno, soltanto per dare il saluto, visto che siamo già un pochino un ritardo. L’anno prossimo magari vediamo se riusciamo ad organizzare con un po’ di anticipo, intanto vi saluto tutti e vi ringrazio per essere qui anche quest’anno, ringrazio tutti gli intervenuti, i relatori, i collaboratori e la professoressa Favero, perché per organizzare un evento come questo sono necessari mesi e mesi di lavoro; poi ringrazio tutto il personale della Casa di reclusione, e vi auguro una buona giornata sul tema della comunicazione che è molto importante, non soltanto sentito qui, ma anche nell’ambito dell’opinione pubblica.

 

 

Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti

 

Spiego molto velocemente e presento alcuni dei relatori, oggi però vogliamo che ad aprire la giornata siano i detenuti, che siano loro a spiegare perché abbiamo deciso di parlare di questo tema, che ovviamente a noi che facciamo un giornale sta particolarmente a cuore. Allora spiego brevemente chi sono i nostri relatori: Claudio Santini, dell’ordine nazionale dei giornalisti; Stefano Anastasia, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia; Mauro Paissan, componente dell’ufficio del Garante della privacy, che sarà poi uno dei temi principali della giornata; Maurizio Paglialunga è presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto; Enrico Ferri è della Giunta Esecutiva della Federazione Nazionale della Stampa; Danieli Barbieri è giornalista nonché la persona a cui abbiamo affidato la conduzione della mattinata, perché è l’unico che riesce a far rispettare dei tempi ferrei; Gerardo Bombonato è presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, ed è stato un po’ il primo a battezzare la nascita della nostra Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere; Marco Capovilla è docente di fotografia, ci interessa in modo particolare la sua presenza perché sul tema sulla privacy credo che sia una delle persone che può dire di più; Alessandro Margara penso che non abbia bisogno di presentazioni, ha bisogno di presentazione il fatto che Margara ha elaborato questa proposta di riforma, della riforma penitenziaria, su cui noi contiamo molto.

Nel numero di Ristretti Orizzonti troverete una lunga discussione su questa riforma fatta con il dott. Margara e con il dott. Maisto, che vedo che è qui presente. Penso che sia importante in particolare per il volontariato che si occupa di questi temi, avere un obiettivo così forte come l’idea di una riforma. Poi ringrazio anche, e magari se poi vuole parlare, il direttore del Corriere del Veneto, Ugo Savoia, ci fa piacere che abbia capito l’importanza della giornata. Vedo anche il dott. Pavarin, il Magistrato di Sorveglianza di Padova. Perché abbiamo scelto questo tema? Perché ci accorgiamo che non solo sta a cuore a noi che ci occupiamo di informazione, ma ci accorgiamo che l’informazione ha un peso enorme sulla condizione delle persone detenute, per esempio su un tema che sta a cuore a tutti noi che è quello delle misure alternative, cioè il peso che ha un informazione come quella che alcuni giorni fa ha sparato un titolo come “Donato Bilancia fra due anni uscirà in permesso”. Voi capite che cosa vuol dire poi, per noi che ci occupiamo di queste questioni, avere a che fare con la popolazione, la gente che ha naturalmente paura, quindi l’informazione ha un peso enorme sugli umori, sul modo di rapportarsi ai problemi del carcere, della gente, e di conseguenza anche su come vanno poi le cose in carcere, su quanto vengono concesse o meno le misure alternative per esempio, quindi noi pensiamo che sia un tema particolarmente scottante.

Ho dimenticato di presentare, perché non lo vedevo qui, Edoardo Albinati, scrittore e insegnante a Rebibbia; è il nostro relatore preferito, perché penso che sia sempre una delle persone che stimolano di più la voglia di discutere. Ecco che arrivano anche Sergio Segio e Sergio Cusani, così abbiamo completato il palco relatori. Cerchiamo di fare interventi brevi, i tempi sono quelli che sono. Allora io darei subito la parola a Stefano che è un redattore di Ristretti Orizzonti, che ora ha finito di scontare la pena.

 

 

Stefano Bentivogli, ex detenuto, redattore esterno di Ristretti Orizzonti

 

Aver organizzato questa giornata di studi sull’informazione non è stata assolutamente una scelta casuale, non è casuale perché questa giornata viene dopo una serie di incontri che partono dal 1999, quando alcune redazioni di giornali, neonate o vecchie che fossero, hanno provato a conoscersi, a incontrarsi, a parlarsi, e a darsi una forma di organizzazione e una rete di comunicazione per poter potenziare l’informazione dal carcere e sul carcere. Da allora questo cammino ha incontrato diverse difficoltà, ma nonostante tutto è andato avanti, quindi questo gruppo di persone che lavorano dentro il carcere per renderlo più trasparente, sta trovando sempre più spazio all’esterno per poter essere un soggetto nuovo e importante, in quello che è il panorama dell’informazione.

Dentro all’informazione fino ad oggi noi siamo sempre stati degli oggetti, molto spesso degli oggetti per riempire delle pagine nella cronaca, la cronaca giudiziaria soprattutto. Nei giornali locali infatti queste pagine vengono sommerse di dati, di foto, di articoli sulle persone, spesso senza un minimo rispetto né delle persone coinvolte né di quelle che poi coinvolte direttamente non dovrebbe essere, come i nostri famigliari. Noi detenuti, noi soggetti sottoposti ad indagine o a inchieste, noi indagati, siamo degli oggetti. Il nostro tentativo oggi è quello invece di diventare dei soggetti, di dire finalmente la nostra, e dire finalmente la nostra significa iniziare a dare notizie, riflessioni, testimonianze che abbiano la dignità di stare a fianco dell’informazione dei grandi media e sappiano contrastare il continuo uso di luoghi comuni che proprio l’informazione ufficiale per pigrizia, per cattiva volontà continua a fare sui temi del carcere e della giustizia.

E questi luoghi comuni ormai sono tanti, e non sono dovuti solo alla pigrizia dell’andare a vedere come stanno davvero le cose, come quando si dice che i recidivi sono i professionisti del crimine, senza sapere o senza voler dire che la gran parte dei recidivi sono dei disgraziati, gli sfigati del crimine. Sono quelli che se li fanno tutti, gli anni di galera, escono e rientrano e continuano a farseli, tutti questi anni di miseria nei giudiziari, nelle carceri circondariali, dove la situazione della detenzione è la peggiore, è a volte a livello animale. Ecco, allora noi vogliamo mettere la nostra voce a fianco e contro questi luoghi comuni, per iniziare a dare una informazione che sia davvero sobria, pulita, onesta. L’informazione è un po’ anche dare una forma alle cose, e noi vogliamo partecipare a dare questa forma, dare un nostro contributo, perché questa forma si avvicini un po’ di più alla verità. Perché noi, soprattutto quando siamo dentro le celle e guardiamo la televisione e leggiamo i giornali, rimaniamo a volte allibiti, a vedere qual è la forma nella quale ci vogliono far rientrare, che non è la nostra, non siamo più noi: o siamo come al solito i luoghi comuni, o siamo i reati, noi diventiamo i reati che abbiamo commesso, e non siamo più persone, che quel reato l’hanno sì commesso, ma che restano comunque persone a tutti gli effetti.

Il fatto che in Italia si entri in carcere e poi si esca rapidamente, per esempio: ma perché non si informa su che cos’è la detenzione cautelare, perché non si spiega che la gente è vero che esce, ma poi i processi, la gran parte, gli sfigati, i recidivi, i processi se li fanno, la prescrizione non ce l’hanno, e scontano, poi  scontano tutto, e lo fanno in condizioni spesso neppure minimamente dignitose, c’è gente che va anche fuori di testa e non prende neppure i giorni di liberazione anticipata, perché non è in grado di affrontare la carcerazione in modo decente. Questo noi dobbiamo spiegarlo, dobbiamo raccontarlo, e per farlo dobbiamo prendere spazio anche nell’informazione ufficiale, dalla quale dobbiamo imparare a comunicare. Perché una cosa che a noi manca ancora tantissimo è la capacità di comunicare, e il nostro percorso come Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere deve essere proprio quello di imparare a comunicare ovunque e con ogni mezzo.

Un’altra questione sulla quale vorrei richiamare l’attenzione, perché è una questione che spesso non viene “trattata” dai grandi media, ma piuttosto “massacrata”, è quella delle misure alternative, che come al solito vengono vendute come se fossero già la libertà: ma non è così, chi le ha fatte lo sa, soprattutto lo sa chi le ha fatte ed è tornato dentro, magari senza aver commesso reati ma solo per aver violato le prescrizioni. In realtà sono patti, sono patti seri che si fanno, se si sgarra si torna dentro e quando si torna dentro non ci sono abbracci, non ci sono premi ulteriori, c’è spesso l’interruzione brutale di un percorso verso la libertà e la perdita di speranze e di opportunità.

Ma vorrei lasciarvi con poche parole su una immagine che è arrivata di recente in televisione, che è il sorriso e la felicità di Erika De Nardo per una partita di pallavolo. Partendo dal fatto che una ragazza poco più che ventenne era semplicemente contenta perché ha giocato a pallavolo, si è arrivati a leggere in quel sorriso il suo mancato pentimento, cioè a scandalizzarsi che una ragazza giovanissima, al di là del reato che ha commesso, possa ancora sorridere, questo è il messaggio che si sta mandando oggi. Allora io mi chiedo se vogliamo continuare a limitarci a fare i giudici impropriamente,  perché dai giudici Erika De Nardo è già passata, e la condanna l’ha già avuta, e la sta scontando, o vogliamo piuttosto provare, ad anni di distanza dall’accaduto, invece di fermarci su quel sorriso, a chiederci cosa c’è nella testa di questa persona, che si è costruita probabilmente una sua realtà allucinata per la quale il carcere difficilmente può essere la cura appropriata: questa è la cosa di cui si dovrebbe parlare, e invece ci fermiamo ancora a quel sorriso.

Io vorrei che l’informazione andasse oltre, che facesse vedere qualche foto in più, che facesse uscire qualche notizia in più dal carcere, a partire magari dalle notizie su quei compagni, che abbiamo visto viola, appena staccati dalla corda alla quale si erano impiccati, quei suicidi dei quali sui giornali quasi non resta traccia.

 

 

Marino Occhipinti - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Il fatto stesso che in tanti abbiano accolto il nostro invito a partecipare a una Giornata di Studi in carcere, organizzata con un contributo fondamentale delle persone detenute, ha per noi un’importanza enorme, perché evidentemente significa che siamo riconosciuti come persone che hanno sbagliato ma che non per questo hanno perso il diritto di parola. Bene o male – più male che bene, d’accordo – facciamo parte anche noi di questa società, e non è affatto detto che il vederla da dietro le sbarre ci renda più ciechi o più ottusi.

Da tempo affrontiamo l’argomento dell’informazione sul carcere e su noi detenuti per linee generali, mettendo in luce le inesattezze, o le fuorvianti semplificazioni, in cui più frequentemente incorrono televisione e carta stampata nel parlare di noi e dei fatti di cronaca che ci riguardano. Io tenterò ora di stringere il campo alla mia esperienza personale, affinché possiate rendervi concretamente conto della pesante ricaduta che ha sulla vita delle persone un certo modo talvolta un po’ troppo disinvolto di dare le notizie, e magari di gonfiarle cercando il romanzo anche là dove c’è solo tragedia.

Per un residuo di pudore che mi perdonerete, evito qualsiasi riferimento preciso alla vicenda di cronaca che mi ha avuto fra i suoi protagonisti. Mi limito a dirvi che sono stato condannato al massimo della pena, cioè all’ergastolo, e che di tanto in tanto giornali e televisioni continuano a tirare in ballo me e i miei coimputati nonostante siano ormai passati dodici anni dall’epoca dei fatti. La cosa mi amareggia, naturalmente, ma non mi stupisce più di tanto perché mi rendo conto, io per primo, che la vicenda è troppo grave perché la gente possa dimenticare. Trovo insopportabile invece che a distanza di tanto tempo il diritto all’oblio non venga garantito neppure ai miei famigliari, per i quali ogni “ritorno di cronaca” è una manciata di sale su una ferita che non si rimargina mai.

Vorrei che rifletteste su cosa significa per una famiglia normale, che ha sempre vissuto modestamente e rispettando le regole, scoprire che uno dei propri membri – un figlio, un fratello, un padre – sotto la superficie rassicurante di una vita perbene ha commesso reati gravissimi, al punto di essere additato alla pubblica opinione come un nemico della collettività, come un mostro da prima pagina. È una tragedia. Ma una tragedia che ai parenti non è neppure concesso vivere al riparo della propria coscienza, come un lutto privato, perché è così dannatamente pubblica da non rispettare più niente e nessuno. Per quanto vittime, seppure in maniera indiretta, dei reati commessi dal proprio congiunto, i parenti finiscono fatalmente anch’essi nel cono di luce che avvolge il colpevole, come fossero anche loro partecipi della colpa. Non è un processo razionale, lo so, ma un’onda emozionale che viaggia per logiche sue e che forse è impossibile contenere. Ma se questo ha un senso “al presente”, quando cioè un fatto avviene e irrompe nelle cronache con la prepotenza dell’attualità, non è detto che necessariamente lo abbia anche in seguito, quando la sovreccitazione dell’attualità si è placata e dovrebbe prevalere in tutti la misura, la riflessione, il rispetto per le persone e per la loro privacy.

E così, se incolpo soltanto me stesso per le ferite che le mie scelte criminali hanno comportato all’intimità e alla dignità dei miei in passato, quando i reati furono commessi e poi giudicati in tribunale, non posso invece non prendermela anche con i media per le ulteriori ferite che di tanto in tanto continuano a essere perpetrate nei confronti di mia madre, di mia moglie, delle mie figlie, tirandole direttamente o indirettamente in ballo ogni volta che la mia storia viene rispolverata, spesso del tutto arbitrariamente, all’unico scopo di riattizzare la curiosità un po’ morbosa dei lettori e dei telespettatori.

Vi faccio solo un esempio, il più recente. Non più tardi di un mese fa, a dodici anni di distanza dal mio arresto, una giornalista ha telefonato a mia madre per chiederle un’intervista. Sarà stata anche gentile e riguardosa, per carità, ma che senso ha andare a rigirare il coltello nella piaga a una donna che nulla aveva da dire allora come oggi, e che adesso non aspira ad altro che a vivere in pace, con quel po’ di serenità che le resta? Potrei forse capire se il mio fosse uno di quei casi controversi e pieni di zone d’ombra in cui c’è ancora spazio per il cosiddetto giornalismo investigativo; ma il mio caso è stato scandagliato in profondità come pochi altri, ed è tutto “nero su bianco” su carte processuali alle quali i giornali hanno già attinto mille volte. Che bisogno c’è, allora, di andare a caccia di scoop inesistenti, e comunque fuori tempo massimo, mancando sostanzialmente di rispetto a una persona che ha già così pesantemente pagato per colpe non sue?

Io non pretendo l’oblio per me, ma per mia madre, per mia moglie e per le mie figlie sì, lo pretendo. Hanno già pagato, e anche troppo, all’epoca in cui accaddero i fatti. Ricordo soltanto che, subito dopo il mio arresto, la mia casa fu letteralmente presa d’assalto dai giornalisti, che vi si accamparono giorno e notte davanti. Già travolte e stravolte dalla tragedia che gli era capitata addosso a cielo assolutamente sereno (il mio arresto avvenne a qualche anno di distanza dai reati, di cui peraltro nessuno dei miei era a conoscenza, e io conducevo una vita assolutamente regolare), mia moglie e le mie figlie furono costrette a cercare riparo in casa di parenti per sottrarsi a un assedio tanto più insopportabile quanto più coincidente, per loro, con un momento di disperazione totale, in cui la loro vita fino a ieri serena andava in frantumi e finiva nel fango, sotto gli occhi di tutti. Ricordo ancora che, all’epoca del processo, alcuni giornali arrivarono al punto di pubblicare la fotografia di mia moglie con tanto di didascalia (“la signora…, moglie di…”), associando così anche visivamente mia moglie alle mie colpe, e quindi additando pure lei – quanto meno in via subliminale – alla pubblica riprovazione.

Tempo fa si parlava un po’ meno di tutela della privacy di oggi, per cui certe indiscriminate invadenze nella vita delle persone direttamente o indirettamente inguaiate con la giustizia erano forse più comprensibili. Mi sorprende invece che tali eccessi continuino a essere all’ordine del giorno anche adesso, nonostante il Garante abbia negli anni scorsi più volte ribadito che le vigenti norme a tutela della privacy valgono – in buona sostanza e fatta eccezione solo per poche e ben precise circostanze – anche per gli indagati, per le persone sotto processo e perfino per noi che scontiamo in galera pene definitive. E che tanto più valgono, evidentemente, per i nostri famigliari.

Il tempo per guardare la televisione e per leggere i giornali a noi detenuti non manca, e vi assicuro che continuano a essere molti, moltissimi, i casi in cui noi e i nostri famigliari veniamo dati in pasto al pubblico senza alcun riguardo per la nostra natura di persone titolari comunque, al di là delle nostre responsabilità e delle nostre colpe, del diritto al rispetto e alla dignità personale che si deve riconoscere a ogni essere umano. Mi rendo conto che la cultura della privacy è ancora troppo recente, in Italia, perché abbia fatto a tempo a permeare di sé la nostra società nella sua interezza, diffondendo in tutti la cognizione che il rispetto della dignità personale non è un privilegio di qualcuno ma un diritto di tutti, figli cattivi compresi. Credo però che i mezzi di informazione debbano svolgere un ruolo più attivo nella diffusione di questa cultura, cercando di coniugare il pur sacrosanto diritto di cronaca con un atteggiamento più rispettoso e più umano nei confronti delle persone che ci finiscono in prima persona, “in cronaca”.

Se questo avvenisse, io credo che sarebbe un vantaggio per tutti. Per noi, che saremmo più motivati a riguadagnare la fiducia di una società che un giorno abbiamo offeso ma che non ci respinge per sempre; per le nostre famiglie, che non si sentirebbero macchiate da colpe che hanno solo subito; per gli stessi mezzi di informazione, che assolverebbero così alla loro funzione più alta: quella di rispecchiare una società che non ha paura di guardare le proprie ferite, ma che soprattutto pensa a curarle.

 

 

Flavio Zaghi - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Con la nostra redazione cerchiamo di fare informazione nel modo più chiaro, corretto e per quanto possibile semplice. Certo è però che siamo solo dei giornalisti improvvisati, e che neppure gioca a nostro favore la circostanza che nel nostro passato la correttezza non sia proprio stata il carattere distintivo del nostro stile di vita. Pur nei nostri limiti, cerchiamo tuttavia di fare sempre del nostro meglio, come dimostra l’autorevolezza che ha saputo guadagnarsi Ristretti Orizzonti e il numero sempre più elevato dei visitatori della nostra “finestra” su internet. Il nostro sito, www.ristretti.it, è infatti una autentica miniera di informazioni per chiunque e a qualsiasi titolo (operatori penitenziari, parenti di detenuti, giuristi, avvocati, studenti universitari, ecc.) si interessi del carcere e dei suoi problemi, e le sue “pagine” continuano a crescere a un ritmo per noi stessi sorprendente.  

Da qualche mese siamo riusciti anche a ottenere – e ne siamo molto orgogliosi – uno spazio fisso sul quotidiano “Il Mattino di Padova”. In una rubrica intitolata “Lettere dal carcere”, ogni settimana vengono pubblicati tre o quattro nostri articoli in cui cerchiamo di spiegare il carcere per quello che è per chi ci sta dentro, evitando lacrimose lamentele ma dicendo la nostra con franchezza anche su temi di scottante attualità, su cui spesso giornali e televisioni largheggiano in titoloni a effetto, a tutto svantaggio di un’informazione ponderata e completa. Non pretendiamo di avere l’esclusiva della verità, ma di aggiungere la nostra voce ad altre voci spesso più strillate della nostra, e però non necessariamente e non sempre più informate e attendibili. Ci sforziamo anche, nei limiti delle nostre capacità e dei nostri mezzi, di essere propositivi: perché denunciare quel che non funziona finisce per diventare un esercizio retorico se non ci si sforza poi di capire perché non funziona (o mal funziona) e di proporre degli opportuni rimedi.  

Io credo che la stampa dal carcere – quella fatta direttamente da detenuti coordinati e collegati con il mondo esterno da volontari capaci e intraprendenti – rappresenti un termometro molto sensibile, e molto utile per far capire i pensieri e gli umori che si sviluppano dietro le sbarre, fra gente che ha tagliato i ponti col mondo non per propria scelta ma perché ne è stata cacciata, a seguito di errori talvolta “veniali” e altre volte gravissimi, ma anche di tragedie private che nessuna sentenza è in grado di scrutare fino in fondo e di raccontare in dettaglio.  

Il nostro lavoro consiste anche nell’analizzare e mettere in discussione le leggi di cui più si parla, e non tanto sotto il profilo giuridico (ci sono altri, mille volte più competenti di noi, per farlo) quanto sotto l’aspetto dell’impatto reale, concreto, che una volta applicate esse hanno sulle persone che ne sono colpite. Un esempio classico, su cui abbiamo lavorato molto, è la cosiddetta “ex-Cirielli”, di cui abbiamo messo in rilievo in diversi articoli incongruenze e paradossi: a sentire i suoi promotori, avrebbe dovuto colpire selettivamente i criminali più incalliti; alla prova dei fatti, si sta invece dimostrando spietata soprattutto con le fasce più povere e sprovvedute della popolazione carceraria, come i tossicodipendenti e gli extracomunitari, che notoriamente compiono perlopiù piccoli reati, ma a ripetizione, e sono pertanto recidivi senza essere propriamente dei nemici pubblici numero uno. Inutile aggiungere che personaggi come Brusca – tanto per fare il nome di un vero “pezzo da novanta” – questa legge non li ha neppure sfiorati, perché non sono più in galera da tempo grazie ai generosi salvacondotti previsti dalla legge per i collaboratori di giustizia.

Siamo andati giù duri anche sulla Bossi-Fini, ma avevamo le nostre buone ragioni se non altro perché – a vederle e prevederle da dentro – certe cose risultano più chiare che a non vederle e non prevederle da fuori. E infatti, da quando è in vigore questa legge-tagliola, le galere italiane hanno preso a riempirsi anche di criminali che criminali propriamente non sono, in quanto il loro unico crimine consiste nel loro miserabile stato di clandestini. I giornali ne parlano poco, o anzi per niente, ma ormai non si contano quelli che sono dentro per aver accumulato una sfilza di fogli di via, per ciascuno dei quali è già partita – o sta per partire – una piccola pena (quattro, cinque, sei mesi), che sommata alla precedente e a quelle analoghe che arriveranno in seguito finisce per diventare una pena consistente e sotto tutti i punti di vista sproporzionata: anni, non mesi! Una posizione altrettanto critica abbiamo preso sulla legge “anti droga” Fini-Giovanardi e sulle sue fin troppo prevedibili ricadute di massa, che nel giro di mesi – se il nuovo Parlamento non provvederà in fretta a porvi rimedio – rischiano di portare in carcere anche persone trovate in possesso di dosi minime di cannabis.

Un’altra legge che a mio avviso vale la pena di ricordare è quella che ha ampliato i limiti della legittima difesa. Essendo stati alcuni di noi “parte in causa”, in passato, ci ha messo un po’ a disagio schierarci contro i fautori della nuova legge, perché ci rendevamo conto benissimo che potesse risultare quanto meno “interessata” l’esortazione a non sparare sui ladri proveniente da ex ladri… Ma ciò nonostante la nostra l’abbiamo detta, e che non avessimo poi tutti i torti a mettere in guardia contro il rischio di un troppo facile ricorso alla giustizia “fai da te” lo hanno dimostrato i cruenti fatti di cronaca che hanno seguito a distanza di giorni, direi quasi di ore, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di quella legge. Ricordo in particolare quel ragazzo ucciso in Campania,  freddato come un animale soltanto perché sorpreso a rubare una palma nana da un giardino.

Noi di Ristretti Orizzonti non disponiamo dell’Ansa o di altre agenzie di stampa, come i giornali “veri”, e nella nostra quotidiana ricerca di notizie dobbiamo limitarci pertanto a leggere i pochi giornali che ci capitano a tiro e a seguire con attenzione, spesso con taccuino alla mano, i più importanti notiziari televisivi e radiofonici. Un grosso aiuto, per la verità, ce lo dà anche l’attività di Rassegna Stampa che viene svolta in un altro reparto del “Due Palazzi”, ma il monte di informazioni a cui riusciamo ad attingere resta comunque molto inferiore rispetto a quello disponibile al giornale di provincia anche più male in arnese. Ciò nonostante cerchiamo di fare buon uso del materiale informativo che riusciamo a raccogliere, consultandolo con attenzione e poi discutendone fra noi, spesso addirittura in accese riunioni di redazione condotte con piglio leonino dalla nostra inesauribile “direttora”, Ornella Favero. In genere siamo anche troppo critici, lo ammetto, ma più passa il tempo e più mi convinco che il nostro atteggiamento ipercritico non dipende tanto da “dente avvelenato” nei confronti della società che ci ha chiusi dietro le sbarre e che talvolta vorrebbe buttare anche la chiave, quanto dal fatto che a vederle da dentro le cose sono veramente diverse, per il semplice motivo che a conoscerli da vicino, i criminali, sono soprattutto persone, piene di cose da farsi perdonare ma anche di valori positivi, di sensibilità, di intelligenza. E allora non si riesce ad accettare che vengano appiattiti sui loro soli reati, come perlopiù tendono a fare i media dipingendo come mostro anche chi mostro non è.

Più che una rivista con tanto di autorevole sito, Ristretti Orizzonti è però un modo di comunicare senza paraocchi il mondo del carcere, che si riflette anche in altre attività che ci siamo inventati e che stiamo portando avanti con un certo successo. Mi riferisco soprattutto all’iniziativa “Il carcere entra a scuola e la scuola entra in carcere”, giunta quest’anno alla seconda edizione, che ha registrato l’adesione di una quindicina di scuole medie superiori di Padova e provincia. Per la prima volta in Italia intere scolaresche di ragazzi fa i quattordici e i diciott’anni sono entrate in un carcere per confrontarsi con noi, in un dialogo aperto e senza pregiudizi, su problemi come la legalità, la giustizia, il delitto commesso e la pena da espiare, la progressione quasi impercettibile con cui la devianza degenera spesso in criminalità vera e propria, e quindi l’importanza della responsabilità personale, la consapevolezza delle conseguenze su se stessi e sugli altri (parenti compresi) delle scelte sbagliate, il valore della propria vita come patrimonio da non sperperare, e il valore della vita altrui.

Quei ragazzi, che al loro primo ingresso in galera erano perlopiù prevenuti, sono usciti quasi sempre persuasi dell’unica cosa che ci premeva davvero comunicar loro: che al di là dei nostri reati siamo delle persone, e che il nostro “cattivo esempio” – proprio perché impersonato da esseri umani e non da articoli del codice penale – può trasformarsi, per loro, in un invito disinteressato e sincero a vivere meglio e più responsabilmente di come abbiamo saputo vivere noi. Forse gli abbiamo dato qualcosa, offrendo ai loro occhi la triste realtà delle nostre vite spezzate; ma certamente hanno dato molto loro a noi, facendoci sentire ancora parte di una società che ci ha respinto, ma che non potrà mai cancellarci del tutto.

 

 

Graziano Scialpi - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Quando abbiamo deciso di organizzare questo convegno sull’informazione ci siamo posti il problema di costruire qualcosa di concreto; qualcosa, soprattutto, che uscisse dal circuito chiuso delle solite persone che si occupano di carcere o per ragioni professionali o perché mosse – come nel caso dei pochi ma valorosi volontari – da sensibilità personale e vera passione civile. Ed è stata appunto la volontà di affrontare senza reticenze il rapporto fra carcere e informazione, indirizzandolo su binari un po’ più chiari e garantisti degli attuali, a indurci a presentare in questa sede una proposta di “Carta di Padova” che sostanzialmente ricalchi, adattandole alle specifiche tematiche giudiziarie e carcerarie, le norme di autodisciplina che i giornalisti italiani si sono saggiamente dati qualche anno fa in tema di tutela dei minori con la “Carta di Treviso”.

Noi non siamo minori, d’accordo, ma come persone private della nostra libertà rappresentiamo comunque un pezzo di società sprovvisto allo stato attuale di ogni seria tutela, su cui ciascuno si sente autorizzato a dire e a scrivere la sua, spesso lasciandosi guidare più dalle suggestioni e dai pregiudizi che da vera conoscenza degli elementi di fatto. E l’informazione, quando diventa mala informazione, non solo produce danni gravissimi per noi, ma spesso finisce per danneggiare anche i nostri familiari, che non hanno alcuna colpa per i nostri errori e che dovrebbero aver garantito - se non la compassione - quanto meno il rispetto di tutti.

Pur convinti delle nostre buone ragioni, quando abbiamo cominciato ad abbozzare la nostra “carta” dubitavamo un po’ che potesse essere presa in seria considerazione dagli “addetti ai lavori”. Ma poi, quando ci siamo decisi a consultare alcuni rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa, e lo stesso ufficio del Garante della privacy, abbiamo riscontrato non solo vivo interesse per la nostra iniziativa, ma anche una generosa disponibilità a collaborare con noi nella realizzazione e nella messa a punto di un documento ritenuto utile e anzi necessario. Un documento, del resto, non certo da inventare di sana pianta: come nel caso della “Carta di Treviso”, si tratta infatti più che altro di organizzare in un unico testo – e di ribadire con forza – indirizzi etici e norme di deontologia professionale già presenti in altri documenti di ben più complesso respiro, a partire dalla stessa Carta costituzionale per finire alla Carta dei doveri del giornalista del 1993, passando – e riccamente attingendo – attraverso le nuove leggi sulla privacy, che pongono dei limiti molto precisi – ma finora perlopiù non rispettati – all’invadenza dell’informazione nei confronti delle persone private della libertà e dei loro familiari.

Lavorando con passione a questo progetto, siamo riusciti a elaborare una bozza di “Carta di Padova” che proponiamo con fiducia all’attenzione dei rappresentanti dell’ufficio del Garante della privacy, dell’Ordine dei Giornalisti e della Fnsi che hanno accolto il nostro invito e hanno voluto onorare il nostro convegno della loro presenza. Ci rendiamo conto noi per primi che il nostro testo, appunto, è solo una “bozza”, e che nei prossimi mesi dovranno lavorarci sopra con pazienza i più diretti interessati alle norme di auto-disciplina che proponiamo: i giornalisti italiani. Siamo anche certi, però, che un primo importante passo è stato comunque compiuto, e che anche grazie al nostro contributo il rapporto fra informazione e carcere potrà forse diventare, in futuro, un po’ più chiaro, obiettivo e rispettoso di oggi.

Concludendo, desidero osservare che la nostra proposta di “Carta di Padova” si chiude, a mio avviso molto opportunamente, con un invito all’Ordine dei Giornalisti a estendere all’esecuzione penale i corsi d’approfondimento giuridico che organizza in preparazione dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione. Sui temi specifici dell’esecuzione penale c’è infatti in Italia un’ignoranza abissale, che spesso non risparmia nemmeno gli avvocati che non hanno direttamente a che fare nella pratica di tutti i giorni con le complesse e farraginose procedure del carcere, e… figurarsi quindi i giornalisti!

Paradossalmente gli italiani (grazie alla visione di film e telefilm americani costruiti in modo professionalmente impeccabile) conoscono l’esecuzione penale degli States molto meglio di quella di casa loro. Tant’è che non suscita scandalo in nessuno vedere che in America un omicida può pagare la cauzione e tornare in libertà, perché è chiaro a tutti che entro sei mesi andrà comunque sotto processo e sarà chiuso a doppia mandata, se riconosciuto colpevole. Suscita scandalo invece (e infatti regolarmente viene invocata sui giornali, a titoloni, la “certezza della pena”) che un italiano venga liberato dalla custodia cautelare per decorrenza dei termini, quando dovrebbe invece essere chiaro a tutti che una cosa è la custodia cautelare in attesa di processo (che giustamente ha dei termini di garanzia che non possono essere superati, in nessun caso) e tutt’altra cosa la condanna definitiva, con sentenza andata in giudicato. Nel qual caso la pena, in Italia, non è solo certa, ma certissima.

Trovo un po’ sconsolante che i telefilm americani informino sul sistema penale di quel paese in modo più efficace di quanto facciano i media italiani sul nostro, ma ciononostante voglio essere ottimista e pensare che a questo stato di cose si possa ancora porre rimedio. Certo, non m’illudo che possano avvenire radicali cambiamenti dalla sera alla mattina, perché il cammino per l’affermazione e l’applicazione dei principi è sempre lungo e accidentato. Come primo passo, però, è già qualcosa cominciare a stabilire i principi.

 

 

Elton Kalica - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Tra i giornali “normali”, in Italia, di firme straniere se ne leggono poche, mentre nella sfortuna di trovarsi in carcere gli stranieri hanno avuto la fortuna di poter avere voce nelle riviste come Ristretti Orizzonti. Senz’altro per i giornali è stato un arricchimento. Credo che il fatto di dare spazio agli stranieri, e dare quindi la possibilità di esprimersi sulle condizioni di disagio in cui vivono, raccontando le proprie storie, sia un guadagno prima di tutto per l’informazione in generale, e poi anche per le stesse persone straniere che vedendosi coinvolte hanno più stimoli di pensiero, di idee, e anche di critica rispetto a tutto quello che li circonda.

Ovviamente in un carcere in cui gli stranieri costituiscono il trenta per cento dei detenuti, fare un giornale che escluda la presenza di detenuti stranieri significherebbe fare un’informazione incompleta. Questa incompletezza caratterizza invece sempre il tipo di informazione che si fa normalmente, nei giornali ordinari. Ad esempio, attraverso le notizie che si occupano puramente della cronaca, del reato e basta, si crea la percezione che lo straniero sia il cattivo che gira di notte a fare del male e non si fa mai prendere. È sempre là, nascosto, e salta fuori quando meno te lo aspetti. Mentre nessuno si sofferma a cercare di conoscerli, gli stranieri, per capire qualcosa in più. In realtà difficilmente si può apprendere dai giornali che tanti stranieri passano anni in carcere senza poter fare colloqui con i propri cari, a volte senza mai poter telefonare a casa, senza una lira, senza un giorno di permesso premio, senza le misure alternative, e senza tante altre cose. È per questa ragione che ritengo incompleti i giornali dove non vi è il contributo degli stranieri.

Un giornale che dà spazio ai problemi degli stranieri e alle loro storie fa decisamente anche un’informazione rivoluzionaria.

Nessuno ci pensa, ma le regole in generale e quelle che disciplinano la vita dei detenuti in carcere, in particolare, non hanno tenuto conto delle esigenze degli stranieri. Ad esempio questa mancanza si rispecchia in primo luogo nelle difficoltà che ci sono per fare colloqui con i propri famigliari. Non esiste una legge che conceda la possibilità ai famigliari dei detenuti di richiedere un visto d’ingresso per venire in Italia a trovare il proprio caro in carcere. Un altro esempio sono le telefonate. Il regolamento prevede che si può essere autorizzati a telefonare soltanto a casa dei parenti di primo grado. Questa norma non crea tanti problemi agli italiani, dato che il livello di benessere in Italia permette a tutti una linea di telefono a casa. Invece, tanti stranieri non hanno il telefono a casa. Magari vi è solo un telefono in tutto il villaggio, ma non si può telefonare a quel numero perché non è il telefono di casa, cioè intestato a un parente. Per questa ragione molti passano anni senza mai telefonare a casa. E come questa ci sono parecchie altre norme con cui i detenuti stranieri devono fare i conti, basterebbe la curiosità di saper coinvolgere le persone direttamente interessate. È inevitabile che, se tutti quelli che si occupano di informazione lo facessero proprio coinvolgendo chi è colpito da leggi assurde, si finirebbe per avanzare istanze di cambiamento, e a volte ci si potrebbe anche riuscire, a cambiare le cose.

Tantissime sono le ragioni per le quali gli stranieri devono avere spazio nei giornali dal carcere, ma le stesse ragioni sono valide anche per quei giornalisti professionisti che vogliono fare un’informazione più corretta. Se vogliono scoprire dove zoppica questa società possono iniziare la loro indagine dalla condizione degli stranieri.

 

 

Mauro Paissan, giornalista e componente dell’Ufficio del Garante della privacy

 

Associare il tema della privacy alla vita interna al carcere può sembrare un paradosso.

Infatti è proprio nel carcere – come sappiamo e soprattutto come sapete – che la persona detenuta è sottoposta a pesanti restrizioni non solo della libertà di circolazione, ma anche della libertà di corrispondenza e di comunicazione. Così come, sempre in base alla legge, è sottoposta a ispezioni, nelle celle e sulla persona, e al monitoraggio elettronico affidato alle telecamere. Tutti questi aspetti incidono, peraltro, proprio sul contenuto del diritto alla privacy, che è sia diritto al controllo sulle informazioni che riguardano ciascuno di noi sia tutela dell’identità e, soprattutto, della dignità della persona (come afferma, con solennità, il Codice privacy del 2003 tra i principi generali).

Anche se queste restrizioni sono giustificate dalla necessità di proteggere valori e diritti egualmente tutelati dal sistema costituzionale – primo fra tutti la repressione dei reati – esiste un ambito incomprimibile di riservatezza che spetta a ciascuno. È proprio in questa dialettica – tra potere punitivo dello Stato e tutela della dignità di ogni persona umana – che dovrebbero trovare riconoscimento anche all’interno del carcere, quantomeno in regime ordinario, alcuni spazi di riservatezza (ulteriori rispetto a quelli già conquistati): mi riferisco, ad esempio, alla richiesta di garantire spazi di intimità che consentano di mantenere una continuità di rapporti affettivi con il proprio partner.

Ma non è questo l’oggetto del convegno. Qui parliamo di come si informa sul carcere e sul detenuto. E di come bilanciare i diritti fondamentali delle persone detenute con il diritto di cronaca. Sulle condizioni di vita dei detenuti e sul rispetto dei loro diritti, l’opinione pubblica ha il diritto di conoscere la realtà ed i mezzi di informazione hanno il diritto/dovere di svolgere il proprio compito. Ad esempio, il fatto che l’immagine di un recluso non possa essere diffusa senza il suo consenso (e questa è una regola base) non ha nulla a che vedere con l’esercizio della libertà di stampa sulle condizioni delle carceri nel nostro paese. Alcuni giornalisti in un appello del marzo scorso affermano che il Ministero dell’Interno vieta agli operatori dell’informazione l’ingresso nei centri di permanenza temporanea in nome del diritto alla privacy degli immigrati. In questo caso, e se il Ministero ha effettivamente risposto così, la riservatezza non c’entra nulla: basta non rendere identificabili le persone rinchiuse o chiedere il loro consenso. Insomma è meglio sgombrare il campo da un primo possibile equivoco: la disciplina sulla privacy non è un ostacolo allo scambio di informazioni tra dentro e fuori l’istituzione carceraria.

Le norme sulla privacy incidono invece sul modo con il quale i mezzi di informazione trattano la cronaca giudiziaria. Le regole su questo aspetto sono in parte poste dalla legge, in parte dal codice deontologico dei giornalisti del 1998 che è stato approvato con la partecipazione del Garante privacy, in parte da altri documenti prodotti dagli stessi giornalisti come la Carta di Treviso del 1990 sui minori, la Carta dei doveri del 1993. Esistono già, dunque, regole e principi. È comunque utile la proposta di una specifica Carta dove far confluire tutte le indicazioni che, in modo non organico, sono presenti nel nostro sistema; e dove introdurre aspetti ancora non esplicitamente riconosciuti, penso principalmente al cosiddetto diritto all’oblio, che vedremo più avanti.

L’approvazione di una Carta, oltre al valore di un impegno dei giornalisti sul piano della deontologia professionale, sarebbe anche una utile occasione per sensibilizzare il mondo dell’informazione (senza nulla togliere all’esercizio del diritto di cronaca) al rispetto dei diritti di chi si trova esposto, insieme ai propri familiari, alla cruda esibizione dei propri fatti di vita di fronte alla pubblica opinione (e spesso alla pubblica curiosità). Cercherò di esporre brevemente queste regole e questi principi, cominciando dal momento nel quale può iniziare il coinvolgimento della persona, con la diffusione di sue fotografie o immagini.

Pubblicazione delle foto. La foto segnaletica, per le modalità e le circostanze nelle quali viene realizzata, generalmente rende un’immagine negativa del segnalato. Per questo anche se tali foto vengono esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle Forze dell’Ordine, i giornali possono pubblicarle solo per finalità di giustizia o di polizia (ad esempio in caso di evasione). Lo stesso Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, in una circolare del 1999 e poi del 2003, invita a diffondere le foto segnaletiche solo in casi limitati e a tutelare la riservatezza e la dignità delle persone coinvolte in attività di polizia. Ma questa è forse una delle disposizioni che con maggior frequenza vengono violate, basta guardare qualche TG in una qualsiasi giornata per rendersene conto.

C’è poi il divieto di pubblicare, senza il consenso dell’interessato, l’immagine della persona in manette (salvo che la pubblicazione sia necessaria per segnalare abusi: caso Tortora) e anche immagini di persone in stato di detenzione (salvo che esistano motivi di interesse pubblico o per finalità di giustizia o di polizia). La ragione di queste limitazioni ed il criterio principale che fa decidere della pubblicabilità o meno di determinate foto o immagini (e, più in generale, di qualsiasi notizia), è sempre il rispetto della dignità della persona. Che può essere lesa anche dalla diffusione di immagini di operazioni di arresto di ricercati o indagati. Qui entra in gioco un altro principio fondamentale, quello della responsabilità del giornalista, cui è sempre affidato il compito (e, appunto, la responsabilità) di valutare se pubblicare immagini di questo tipo.

Ulteriori immagini collegate ad indagini o processi in corso di svolgimento possono essere ricavate da documenti di identità, da album di famiglia, o dalle aule giudiziarie. In quest’ultimo caso c’è una disciplina specifica dettata dal Codice di procedura penale, che prevede l’autorizzazione del giudice e il consenso degli interessati. Il giornalista dovrà comunque procurarsi le immagini senza compiere illeciti e senza utilizzare sotterfugi o inganni (sottrazione a parenti), e sempre che la loro diffusione sia essenziale per una migliore comprensione del fatto di cronaca e non per soddisfare una semplice curiosità. Va infine ricordato, a questo proposito, che nelle carceri (come negli ospedali) secondo il Codice deontologico valgono le stesse regole che tutelano il domicilio. Nessuno può essere ripreso, senza il suo consenso, nel corso ad esempio di un servizio sul sistema carcerario.

Nomi delle persone nelle cronache giudiziarie. I giornalisti possono pubblicare i nomi di persone indagate o arrestate solo rispettando le norme sul segreto investigativo poste dal Codice di procedura penale. Ma anche nel caso in cui non si applichino le disposizioni sul segreto rientra ancora una volta nella responsabilità del giornalista che le informazioni pubblicate siano complete, esatte ed aggiornate. Ciò significa, ad esempio, spiegare con precisione se ci si trova nella fase delle indagini preliminari o se vi è già stato rinvio a giudizio; e se vi è stata condanna in quale fase di giudizio si trova coinvolta la persona protagonista del fatto di cronaca. La completezza dell’informazione è importante anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’esistenza di garanzie fondamentali in un paese democratico, prima fra tutte la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva ma anche il diritto alla difesa e ad un giusto processo. Inoltre spetta ancora alla responsabilità del giornalista decidere se pubblicare le generalità complete di chi si trova coinvolto in una indagine ma in una fase ancora del tutto iniziale, tenendo peraltro conto della gravità dei reati contestati.

In alcuni casi si dovrà evitare di diffondere i nomi di indagati o sottoposti a giudizio per proteggere la riservatezza di altre persone coinvolte nell’indagine, anche al di là delle ipotesi in cui ciò è imposto dalla legge a protezione della identità di minori e di vittime di violenza sessuale. Esempio: nome di padre responsabile di violenza su figli. Questo vale anche nel caso di diffusione del nome di condannati: in linea generale la pubblicazione è consentita, anche se è necessario tener conto che ciò potrebbe mettere in difficoltà (quando non espressamente vietato dalla legge) testimoni o vittime del reato. Inoltre i condannati potrebbero essere persone particolarmente deboli, ad esempio con handicap fisici o psichici, oppure ragazzi molto giovani: qui gli operatori dell’informazione dovrebbero decidere se non far prevalere l’esigenza di favorire il più possibile, un domani, il reinserimento sociale del condannato anche omettendo le generalità complete.

Tra i soggetti deboli sono già fortemente tutelati i minori coinvolti a qualsiasi titolo in procedimenti giudiziari, e non solo di carattere penale. Ma non basta omettere il nome se poi vengono pubblicate tutte quelle informazioni (nomi e professione dei genitori, indirizzo di casa o nome della scuola frequentata, nome della baby sitter) che rendono comunque, anche se indirettamente, identificabile il minorenne. Questo dell’identificabilità indiretta è un principio importante sancito dal Codice privacy nel 2003; così come il codice deontologico del 1998 aveva già nettamente affermato che il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca.

Diritto all’oblio. È ovvio che non potrà esserci reinserimento nella società, come prevede la Costituzione,  se chi è stato condannato ed ha scontato la propria pena, oppure se chi ha subito alterne vicende in gradi diversi di giudizio, può vedere riproposta dai mezzi di informazione, anche a distanza di molti anni, la propria vicenda giudiziaria mettendo in pericolo il processo di risocializzazione già avviato nel contesto sociale e familiare. Il Garante ha più volte affermato l’esistenza del diritto all’oblio, ossia il diritto a non essere indefinitamente rincorsi (a meno che non lo si voglia) da una immagine di sè che oramai appartiene al passato e nella quale non ci si riconosce più. E questo pericolo è enormemente aumentato con lo sviluppo di Internet, dove le informazioni, se non appositamente cancellate, continuano ad emergere senza limiti di tempo. Esempio: caso signora arrestata e poi assolta.

Credo sia giusto raccogliere (ed inserire, come accennavo, anche nella Carta) l’indicazione della raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2003: l’identità di persone che abbiano scontato condanne giudiziarie deve essere tutelata, a meno che le vicende che hanno portato alla condanna siano tornate di attualità, rinnovando l’interesse pubblico alla conoscenza di quella storia passata. Esempio: caso della ragazza ripresa in un’aula giudiziaria, con immagini riproposte 16 anni dopo.

re o meno bisognerà valutare il tipo di conseguenze subite dalla vittima, il tempo trascorso dal fatto di reato, gli eventuali rischi che potrebbero derivare per la vittima dalla diffusione delle sue generalità. Eguali accortezze valgono per i testimoni, e sempre salvi i casi in cui è la legge a vietare la pubblicazione di notizie.

C’è poi da considerare la posizione dei familiari e conoscenti di persone coinvolte in vicende giudiziarie. Il codice deontologico del 1998 afferma che bisogna evitare il riferimento a “congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti”. Dunque il semplice collegamento con la vita personale di chi è coinvolto nelle indagini o condannato (legami sentimentali o, ad esempio, la circostanza di essere proprietari dell’appartamento dove si è consumato un delitto), in assenza di un legame diretto con gli episodi di cronaca, non basta a rendere legittimamente noti identità e immagini di queste persone. Non c’è interesse pubblico alla divulgazione del dato personale. Questo vale anche per la pubblicazione del contenuto di intercettazioni telefoniche.

Altri principi generali. Desidero infine ricordare tre principi generali affermati dal Codice deontologico dei giornalisti, che devono trovare applicazione anche nell’informazione riguardante i detenuti.

Il primo (art. 9) afferma che “il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche e mentali” (carceri con forte presenza di immigrati).

Il secondo (art. 10) tutela la dignità delle persone malate: presenza di detenuti colpiti da Hiv.

Il terzo (art. 11) impone al giornalista di astenersi dalla descrizione di abitudini sessuali.

In conclusione credo che dai temi rapidamente elencati emerga tutta la complessità di una materia nella quale si confrontano due pilastri della società democratica - diritto all’informazione e diritti fondamentali della persona. Molti passi avanti sono stati fatti in questi ultimi anni. Ma altrettanti ne devono essere fatti per assicurare dignità e rispetto anche a chi è coinvolto in un procedimento giudiziario. Dignità e rispetto.

 

 

Alessandro Margara, magistrato, presidente della Fondazione Michelucci

 

Il documento che è stato messo a punto, la bozza per la cosiddetta “Carta di Padova”, riguarda essenzialmente le questioni individuali, sono questioni importantissime che vanno seguite con attenzione, per cui qualunque progresso si faccia in questo settore va benissimo, sarà difficile ottenere dei risultati, ma è giusto metterci mano e dedicarci energie. Il problema che mi colpisce di più però, nel rapporto informazione-carcere-esecuzione della pena, è il problema generale, il problema collettivo, che è diventato sempre più decisivo, sulle sorti del carcere e dell’esecuzione della pena.

Il problema è questo, e lo dico molto schematicamente: esiste una percezione della sicurezza,  urbana soprattutto, nelle città maggiori, e da questa deriva una risposta in termini di severità nell’intervento penale, e soprattutto questa severità nell’intervento dell’esecuzione penale è gestita in termini generalmente propagandistici da parte della politica. C’è quindi un circolo vizioso che è costantemente operante e che è tenuto in funzione effettivamente proprio dai media, la funzione dei media in questo mi sembra decisiva. Il risultato è che noi abbiamo queste carceri che si riempiono in modo vertiginoso, sembra che le ultime rilevazioni diano già i detenuti a quota sessantaduemila, e in effetti il gioco della informazione mediatica è un gioco che determina in qualche misura tutto questo. E chi c’è in galera per effetto di questo “gioco”? Ci sono gli immigrati, i tossicodipendenti, e altri disgraziati di vario genere, che ci resteranno ancora di più “grazie” a queste leggi: legge Bossi-Fini sull’immigrazione, legge Fini-Giovanardi sulle dipendenze, legge ex-Cirielli, per la quale diventa sempre più improbabile uscire di galera per coloro che ci entrano. Ma è inevitabile tutto questo? È inevitabile proprio in quanto i media influiscono pesantemente anche su questa questione, e quindi è importante riflettere su chi c’è in galera. Nello scorso anno l’aumento dei detenuti è stato determinato dall’aumento degli ingressi degli stranieri, l’aumento degli ingressi degli stranieri è stato tale da compensare in parte la diminuzione degli ingressi degli italiani. Questo è un dato, a cui si deve aggiungere che tra gli immigrati che vengono arrestati, c’è veramente una parte modesta di delinquenti, la parte prevalente è per violazione della legge sull’immigrazione, quindi per reati che hanno un sottofondo amministrativo, e molti degli altri sono detenuti per quei piccoli reati di microcriminalità rappresentati soprattutto dal piccolo spaccio. Ecco, questa è la detenzione che viene colpita. E per i tossicodipendenti, se la Fini-Giovanardi non sarà contrastata da appositi interventi normativi in questa nuova fase politica, produrrà un aumento vertiginoso di persone che hanno come unica colpa l’uso degli stupefacenti, in contrapposizione a un referendum del 1993 che aveva abolito la punizione dell’uso.

Ecco chi c’è in carcere oggi, ci sono queste persone, e quindi si tratta di dire che se un discorso serio può essere fatto da parte dei media, è quello di chiarire questo aspetto, la carcerazione di persone di modestissima pericolosità reale, che sono avvolte invece da una nube di pericolosità inventata a cui i media contribuiscono pesantemente.

Una seconda questione che volevo affrontare è che è diventato molto difficile anche l’uscire di galera, cioè il problema delle misure alternative, dei permessi, e anche qui si dovrebbe chiarire come stanno le cose: intanto, questa forse può essere una ragione di timore in più, ma le misure alternative sono tantissime, sono più di cinquantamila, e se si vede ogni tanto emergere un caso che non torna, queste più di cinquantamila misure alternative che esiti danno? Vorrei dire una cosa che si sa poco: per quel che riguarda la misura alternativa più rilevante, che è l’affidamento in prova, statisticamente nemmeno una persona su mille viene meno alle prescrizione dell’affidamento in prova commettendo un reato, una persona su mille. E inoltre, sempre sull’affidamento, una ricerca statistica dimostra che le ricadute nella recidiva, dopo cinque anni dalla conclusione dell’affidamento, sono per l’affidamento normale un sesto di quello che accade se la persona sconta tutta la pena in carcere, e un terzo se quella persona è tossicodipendente, con tutti i problemi che la tossicodipendenza comporta. Anche su questo piano bisogna cercare di far capire che c’è, a fronte dei pochi insuccessi che sorgono quando un permesso o una misura alternativa finisce male, un funzionamento generale più che positivo. Io semplicemente sottolineerei questo aspetto: l’informazione dovrebbe cercare non di cavalcare l’onda, e magari produrla a sua volta, del risentimento sociale su queste condotte, che vengono da aree di precarietà e di disagio delle persone, ma chiarire questo e chiarire anche che il sistema dei benefici penitenziari ha una sua efficacia, che è molto più importante e che deve essere spiegata. Invece ci si limita spesso alla presentazione dei casi di insuccesso e di benefici che non hanno funzionato.

 

 

Sergio Cusani, vice presidente dell’Agenzia di Solidarietà per il Lavoro di Milano

 

C’è un vecchio articolo di Franco Corleone, il cui titolo è “Non deludeteci”, che si rivolge al Governo Prodi. Io dico che noi abbiamo il dovere di essere ottimisti, non sappiamo se questo Governo farà tutto quello che è necessario, però siamo sicuri che le orecchie che ascoltano le istanze che vengono dal mondo del carcere sono orecchie storicamente più sensibili, e quindi noi abbiamo il dovere di fare proposte concrete perché vogliamo radicalizzare le richieste che da anni portiamo avanti con grande fatica e passione, ma che sono state riposte nei cassetti dei ministeri.

Mi ricordo che tre anni fa, proprio nella Casa di reclusione di Padova, fu lanciata la proposta, con primo firmatario Marco Boato, sull’affettività in carcere. E proprio l’affettività in carcere ha trovato una prima sperimentazione nel carcere di Bollate a Milano, una sperimentazione estremamente positiva. Noi del tema dell’affettività in carcere dobbiamo fare un tema centrale, all’interno di un insieme di richieste da presentare al nuovo Governo, al nuovo Ministro, in base anche alle loro dichiarazioni di disponibilità.

E allora bisogna costruire un percorso di concretezza, tutto quello che abbiamo elaborato in questi anni dobbiamo tirarlo fuori e fare in modo che i giornali e le altre realtà dell’informazione dal carcere parlino sì del proprio carcere, ma si mettano anche in rete per fare una campagna radicale, unitaria, inflessibile. Perché noi da questo Governo ci aspettiamo qualcosa di ben diverso dal precedente, e questo Governo non ci deve deludere, non ci può deludere perché altrimenti la situazione andrà aggravandosi sempre di più. Allora bisogna recuperare quel percorso di aggregazione, di creazione di strutture, di disponibilità all’accoglienza di tutto quel mondo del volontariato che si occupa di carcere, e riprendere il discorso sul tema dell’indulto e dell’amnistia, ma che abbia una centralità nello straordinario lavoro fatto da Alessandro Margara e Francesco Maisto, che è il progetto di una riforma radicale dell’Ordinamento penitenziario.

Quindi dobbiamo passare da una fase di frustrazione a una fase di ottimismo e di costruzione di alternative vere, perché le cose questa volta devono cambiare, e possono cambiare perché ci sono le condizioni politiche e gli uomini in grado di farle cambiare. Noi abbiamo questo dovere, il dovere di avere il coraggio di portare avanti temi radicali di cambiamento della situazione carceraria: i numeri del carcere sono terribili, ormai abbiamo superato la soglia dei 60.000 detenuti, ci sono 50.000 persone circa nell’area penale esterna, sono 80.000 i condannati in attesa delle decisioni del Tribunale di Sorveglianza in cosiddetta sospensione di libertà, quindi ci sono quasi 200.000 persone che sono sotto il maglio della giustizia penale, è una situazione folle che non ha riscontro in un altro paese a livello europeo. Su questo noi ci dobbiamo impegnare a fondo, unire le forze e fare delle proposte chiare e precise, e come cartello nazionale e come Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere chiedere al più presto un incontro, al Ministro della Giustizia, affinché proposte serie, costruttive, realmente modificative di questo traballante, inumano, incivile, arcaico sistema finalmente vengano portate avanti, questo è il nostro dovere, il dovere dell’ottimismo.

 

 

Sergio Segio, di Fuoriluogo

 

Vorrei iniziare dalla disponibilità, che ha dato Daniele Repetto, vice presidente di AdnKronos, sua personale e da parte dell’agenzia, a collaborare alla costituzione di un network informativo dal carcere e sul carcere.  Credo che questa sia una disponibilità importante, perché AdnKronos e ANSA, che sono le maggiori agenzie d’informazione, sono poi quelle che materialmente con più efficacia determinano, come dire, l’opinione pubblica, perché sono la base informativa che utilizzano tutti i media, quindi questa disponibilità va tenuta in grande conto.

Due parole vorrei dirle sulla Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere, ricordando le tappe del lungo percorso che ha portato alla sua costituzione, che è iniziato nel 2001 a Firenze, dove per la prima volta cominciammo timidamente a mettere sul tavolo della riflessione le esigenze di costituire un momento coordinato e forte che riunisse un po’ tutte le tante realtà che producono informazione dal e sul carcere. La seconda tappa fu a Milano, il 21 giugno 2002, dove in Camera del Lavoro, quindi assieme ai sindacati, in quel caso coinvolgemmo anche il direttore dell’ANSA, e giornalisti di molti quotidiani, dando vita a un momento, come dire, di consolidamento di questo percorso. La terza tappa è stata a Bologna, con il sostegno dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna, e del suo presidente Gerardo Bombonato, il 24 novembre 2005: a Bologna finalmente il gioco si è allargato grazie al coinvolgimento proprio dell’Ordine dei Giornalisti, ovvero quello che è sia il nostro più diretto interlocutore, sia anche partner col quale costruire alleanze, sinergia, collaborazioni riguardo a tutte le necessità che abbiamo delineato: ovverosia rottura degli stereotipi, un’informazione corretta rispetto al carcere, a chi ci abita e a che ci lavora, un’attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, un lavoro di formazione di chi opera per fare informazione dal carcere.

L’ultima tappa è stata nel febbraio del 2006 alla Triennale di Milano, dove abbiamo organizzato un’altra giornata di confronto con l’Ordine dei Giornalisti, ma anche con le scuole di giornalismo, allargando ulteriormente l’interlocuzione, le alleanze reciproche per andare avanti. La Giornata di studi di Padova è quindi un quinto momento di riflessione e di coordinamento.

Ecco, un invito che vorrei fare, e credo che oggi tutti assieme da qui dovremmo uscire in questo senso, è che non ci deve essere un sesto convegno in cui rischiamo di ridirci le stesse cose, ma ci devono essere d’ora in poi dei momenti operativi che mettano a frutto concretamente tutto quanto ci siamo detti e tutte le importanti disponibilità che abbiamo raccolto, in primis quella dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale della Stampa. Una disponibilità che ovviamente interessa non solo i giornali del carcere, ma tutti gli operatori che nel carcere lavorano, perché tutti assieme possiamo agire e dobbiamo avere un’esigenza condivisa, che è quella di modificare il senso comune, i luoghi comuni sul carcere, sulla pena e sui temi della giustizia.

L’invito che faccio è che, assieme alla Carta di Padova, usciamo però anche con indicazioni concrete, operative che siano, come ci diciamo da tempo e come ci invitano a fare anche i professionisti dei media, la costituzione di un network o di un giornale nazionale sul carcere o di quant’altro, ma dobbiamo veramente passare a una fase direttamente operativa, perché questa lunga e necessaria gestazione deve avere termine. Non dobbiamo correre il rischio di parlarci addosso, ma dobbiamo andare avanti.

Noi ci troviamo qui a discutere di informazione, ma indubbiamente dobbiamo cogliere l’occasione, dato che siamo riuniti in così tanti, per promuovere iniziative concrete sui temi che ci stanno a cuore, a partire dal fatto che abbiamo un nuovo Parlamento, abbiamo un nuovo Governo, abbiamo purtroppo antiche necessità, antichi problemi. E abbiamo quindi il dovere, oltre che la necessità, di interloquire rapidamente con le nuove Istituzioni per portare i nostri punti di vista, per portare le nostre proposte, che non possono essere quelle, per altro importantissime, di abrogare semplicemente la legge Bossi-Fini o la legge Fini-Giovanardi o la legge ex-Cirielli, che sappiamo quanto devastano ulteriormente una situazione già compromessa, ma devono essere anche proposte in positivo.

Sarebbe bello se da una giornata come questa che vede riuniti, come dire, obbiettivamente i maggiori esperti, in ruoli diversi ovviamente, su questi temi, tra detenuti, operatori, assistenti volontari, agenti, direttori, magistrati, deputati, sottosegretari alla giustizia, e ancora coloro che hanno avuto responsabilità al vertice del DAP come Alessandro Margara, o che le hanno ora, come Emilio Di Somma, sarebbe bello allora se uscisse una lettera aperta al Ministro, e anche delle indicazioni informali su quelli che potrebbero essere i nostri gradimenti, non dico su chi andrà materialmente a dirigere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma su quali sono le priorità che noi vorremmo indicare a queste persone, che già nelle prossime settimane si troveranno sul tavolo il carico ingombrante e, mi rendo conto, assai disagevole dei tanti problemi che si sono accumulati in questi anni, e lasciatemelo dire, in particolare negli ultimi cinque anni, dal punto di vista delle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri. E le nostre non devono essere solo chiacchiere, di quelle purtroppo e obbligatoriamente anche noi ne facciamo tante, ma c’è bisogno di urgenza, di cose concrete.

Sergio Cusani diceva che tutti noi stiamo andando in queste settimane a ricostituire quella trama di rete, di coordinamento, non solo sull’informazione, ma sui temi politici e sui temi sociali, a ricostituire quel cartello di associazioni, di cooperative, di sindacati, di imprenditoria, che vada a confrontarsi non solo con il Ministro della Giustizia, ma con tutti i soggetti che hanno possibilità di agire, competenza, un ruolo sui temi che ci premono e dei quali anche oggi siamo qui a discutere. Ed è importante però che nessuno ragioni più solo con l’angolo visuale ristretto della propria competenza e talvolta del proprio orticello. Dobbiamo coordinarci, perché i problemi sono comuni, e da questo coordinamento dobbiamo trarre l’autorevolezza e la forza affinché questa politica, spesso distratta (ma credo che dobbiamo dare un atto di fiducia al nuovo Parlamento, al nuovo Ministero) trovi un’attenzione nuova ai temi del carcere e della giustizia, e affinché le urgenze, che sono economiche, che sono politiche, che sono riconoscimento di dignità per chi lavora nelle carceri, e riconoscimento spesso di vita per chi invece nelle carceri è detenuto, diventino una delle priorità di questo Governo.

 

 

Gerardo Bombonato, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna

 

Il collega di Ristretti Orizzonti che ha dato il via agli interventi, ci richiamava soprattutto alla necessità, al desiderio, all’auspicio che i detenuti da oggetti diventino soggetti, ricordandoci che dietro ai reati ci sono delle persone. Bene, io voglio essere chiaro, io credo che prima di tutto con il nuovo Governo sia arrivato il momento della verità, quello cioè di saggiare la reale volontà di mettere mano a tutta una serie di leggi varate nella passata Legislatura, che in molti casi contrastano con i più elementari diritti della persona, e con il concetto di uguaglianza sociale. Trovandomi in un luogo di reclusione come questo, penso soprattutto alla legge sulla droga Fini-Giovanardi, che sta già producendo i suoi inevitabili danni. Ricordate tutti le dichiarazioni di Giovanardi e Fini che affermavano che sarebbero finiti in galera soltanto gli spacciatori? Appunto, qualche giorno fa in Calabria sono finiti in galera due ragazzi, uno di ventuno e uno di diciannove anni per mezzo grammo di hashish e uno spinello. E poi penso alla ex-Cirielli, una legge che avrà un effetto socialmente devastante con quel meccanismo della recidiva che colpirà inevitabilmente soltanto i poveracci, e tra questi i tossicodipendenti e gli immigrati. Il 70 per cento di quelli che arrivano a scontare tutta la pena sono appunto i recidivi, e la recidività è proprio nei reati minori, non certo in chi fa illeciti, falso in bilancio e via dicendo. Una legge che viola il principio di eguaglianza giuridica: con la Cirielli infatti torneranno in carcere, per richiamare un vecchio film, “i soliti noti”, e con pene ancora più elevate, ma queste sono cose che in carcere sicuramente conoscete meglio di me, il problema è come comunicarle, come raccontare le storie, le condizioni di vita in carcere.

Purtroppo del carcere si parla con molta intermittenza, se ne parla in occasione di qualche cantante che va a fare qualche concerto nelle carceri o qualche avvenimento ricreativo-culturale, oppure quando anche nella stampa generalista e nell’opinione pubblica torna ciclicamente di moda parlare di amnistia o di indulto, e poi cala il silenzio, il sipario del silenzio. Ecco, secondo una vecchia regola giornalistica, la notizia esiste soltanto quando viene raccontata, pensate ai funerali di Lady Diana in mondovisione e pensate alla strage nel Ruanda nel ‘94 quando furono fatti a pezzi letteralmente 800.000 Tutsi, e però le notizie finivano relegate, nella migliore delle ipotesi, nelle pagine interne dei giornali, quindi la notizia esiste solo quando viene raccontata e il problema è raccontarla. A tal fine lo strumento migliore è proprio il giornale, mi pare di aver visto che nelle carceri ce n’è più di cinquanta, sempre che non siano autoreferenziali, e cioè limitati a uno sfogo personale, ma diventino invece uno strumento anche di denuncia, di proposte, di possibili soluzioni, e lavorino a sensibilizzare all’esterno l’opinione pubblica.

Churchill, che non era certo un grande progressista, amava dire che un Paese si giudica da come tratta i suoi prigionieri, ecco quindi il tema dei diritti, la cultura dei diritti, che vale sempre, anche per chi è privato della libertà, è una cultura che deve assolutamente crescere.

A Milano, a febbraio, Sergio Segio si chiedeva in quella bellissima e nutrita rassegna sulla rappresentazione della pena alla Triennale, se conosciamo davvero ciò di cui parliamo, se le nostre affermazioni, i discorsi nei convegni trovano poi azioni conseguenti. Siamo sicuri, diceva, che l’assenza di informazione sui problemi del carcere derivi solo dalla disattenzione dei media o dalla supposta indifferenza dell’opinione pubblica? La risposta che Segio aveva dato in quell’occasione era che non si può rappresentare la pena se non si rende il carcere un luogo aperto ai controlli e all’informazione  pensava in tal senso lui esplicitamente all’esperienza della Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere, ma anche al Garante dei detenuti, una figura che fatica a farsi strada, a Bologna si muovono i primi passi con un Garante comunale sui diritti dei detenuti.

Credo che l’informazione dal carcere abbia imboccato la strada giusta: il problema è di dialogare, di farsi conoscere all’esterno, e poi il problema semmai è l’informazione, quella fuori, quella dall’esterno che non aiuta assolutamente la gente a capire, a conoscere. Il mondo dei mass media ha le sue colpe: si parla di carcere, di detenuti spesso con molta superficialità, e in ogni caso con allarmismo, e comunque facendo presente più il disagio per la comunità residente che per i problemi reali interni al carcere. E anche il detenuto in permesso è percepito come una minaccia, i media insomma non approfondiscono le notizie sui temi che arrivano in redazione, ma spesso si accontentano dell’informativa che viene dalle Forze dell’Ordine, vi aggiungono ben che vada qualche aggettivo e via così tutto va in pagina.

L’informazione che riguarda il carcere è un’informazione molto lacunosa, che va paragonata a quella che tutti i giorni diamo sugli immigrati, immigrati che sempre più affollano le nostre carceri. Il cliché è più o meno lo stesso quindi: nessuno sforzo per vedere cosa c’è dietro, nel nostro paese non si fa nemmeno alcuna distinzione tra minori immigrati e adulti immigrati, e in un colpo solo, a proposito di minori immigrati, si viola la convenzione ONU del 1989 sui pari diritti dei minori e anche la riforma del processo minorile. Vi do soltanto un dato: gli stranieri sono solo il 28 per cento dei circa 40.000 minori denunciati lo scorso anno quasi sempre per furto o piccoli reati, però costituiscono il 60 per cento dei detenuti. A tutto questo si aggiunge la beffa della Bossi-Fini che tratta i ragazzini come immigrati prima ancora che come minori, e siccome la maggior parte di loro sono clandestini, al compimento dei 18 anni vengono espulsi anche se stanno svolgendo un percorso di recupero, stanno imparando un mestiere o addirittura stanno prendendo un diploma. La situazione peggiora quando i minori non accompagnati, che non dovrebbero assolutamente entrare nei C.P.T. (Centri di Permanenza Temporanea) vi vengono rinchiusi. Non ci sono cifre, perché siccome la legge non prevede che siano rinchiusi nei C.P.T., se ne perdono le tracce, però in un rapporto di Amnesty International, giustamente intitolato “Invisibili”, parlano di circa 900 denunce per l’anno scorso, e fra questi sono molti che vengono da paesi dove i diritti umani rappresentano una situazione catastrofica, in pratica sono richiedenti asilo. Il problema quindi è quello di recuperare proprio una cultura dei diritti, diritti globali, diritti che possono essere validi in ogni paese, c’è l’Europa Unita, cerchiamo di farli valere almeno a livello di Europa Unita.

Vorrei dire anche due parole sulla Carta di Padova, ritengo sia un’ottima iniziativa ma non di semplice e rapido percorso, si tratta di principi di fatto già contenuti in altre carte dei giornalisti che sono state inserite in leggi dello Stato e quindi sono diventate leggi a tutti gli effetti, però credo che abbia ragione Mauro Paissan quando dice che vale la pena di riassumere tutti questi principi in un testo specifico, anche se il percorso è quello che le Carte, per essere vincolanti per i giornalisti, devono essere approvate dal Consiglio Nazionale dell’Ordine. Il problema è che questa carta va diffusa, va raccomandata, va fatta crescere così com’è cresciuta la sensibilità sulla Carta di Treviso, quella sulla tutela dei minori e dei soggetti deboli che ha permesso che dal Far west che c’era prima del 1990 si è passati a una maggiore sensibilità da parte della categoria. Ma sono cose lunghe anche in questo caso, ormai la deontologia professionale non si insegna più nelle redazioni, non c’è più nessuno che in redazione  prende per mano il giovane giornalista e gli spiega quelle che sono le regole della professione. L’unico posto dove ancora qualcosa si fa sono le scuole di giornalismo, ed è lì che si può veicolare questa carta, questi insegnamenti, e nei corsi di preparazione all’esame professionale, visto che adesso sono diventati obbligatori, inseriamola, cogliamo queste occasioni per farla conoscere.

 

 

Enrico Ferri, della Giunta esecutiva della Federazione Nazionale della Stampa

 

Ho letto l’ipotesi di Carta di Padova, ringrazio chi ha lavorato a questo progetto perché mi sembra fondamentale, è vero che le carte deontologiche, così come la Carta di Treviso, per avere degli effetti impiegano molti anni, però è vero anche che se noi riusciamo a porre all’attenzione pubblica, velocemente, questa Carta, se il Garante per la privacy potesse sostenere e l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, passate tutte le istruttorie e gli organismi che devono poi votare, potesse adottare questo codice sarebbe fondamentale, perché questo permetterebbe di divulgare questi principi e porre all’attenzione, anche dei vertici giornalistici della categoria, una serie di norme che al momento, mi dispiace doverlo dire, sono pressoché ignorate dalla nostra categoria, che sa poco o nulla di queste cose.

Per fare una battuta, che spero sarà presa per il senso che può avere, appunto, una battuta, il migliore aggiornamento professionale sarebbe far fare un mesetto di carcere a un po’ di giornalisti, perché non sanno nulla di quello che succede, io sono uno di loro. La differenza è che io in carcere ci sono stato e quindi so cosa vuol dire, sono stato carcerato e anche come parente di carcerati, quindi so di che cosa stiamo parlando. Aggiungo che la Federazione, per quanto noi siamo un organismo sindacale, farà di tutto per porre all’attenzione dell’esecutivo questi temi. Credo poi anche che alcune cose spettino però alla politica, che deve prendersi in carico, nell’agenda di governo, alcune emergenze. Tra queste emergenze senz’altro la situazione disastrosa, dal punto di vista strutturale e umano, delle carceri italiane.

 

 

Claudio Santini, Direttivo dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti

 

Esiste una scienza che si chiama criminologia, studia, racconta i fatti, esamina il contesto sociale, descrive i personaggi, ebbene la cronaca nera fa tutti i giorni questa cosa. Io la chiamo criminologia applicata, a differenza della criminologia come scienza che determina delle teorie, la criminologia applicata sui media crea le emergenze, le emergenze suscitano provvedimenti legislativi, e determinano anche scelte giudiziarie e scelte di politica penitenziaria. Per esempio le stragi del sabato sera, a parte il fatto che avvengono più al lunedì che al sabato, ma le stragi del sabato sera creano immediatamente una legge di riforma del codice, la patente a punti e i processi contro coloro che contravvengono a queste disposizioni. Allora c’è un potere enorme di questa criminologia applicata, perché ha delle ripercussioni molto pratiche, e quindi ci sarebbe questa necessità di regole chiare. Io ho scorso questa proposta della Carta di Padova, e ho detto: questo lo so, questa lo so, questo lo so, sono arrivato all’ultima pagina, questo lo so. Allora in effetti le norme ci sono già, in tutte le carte deontologiche dei giornalisti, nello stesso Codice penale, nello stesso Codice di procedura penale, nella stessa legge sulla privacy, le norme che noi chiediamo oggi ci sono tutte. Forse però è importante raggrupparle in una somma, in un testo unificato delle varie norme. Ma che cos’è allora che manca? manca la volontà e la capacità di applicarle, dico una banalità, ma è proprio questo, manca la volontà di applicarle di fronte ad un interrogativo: la stampa corretta rende o no? Questo è il fatto essenziale.

Recentemente c’è stata la proposta di elevare a titolo universitario la professione dei giornalisti, è stata respinta e il Consiglio di Stato, non parlo dell’ultima ordinanza, il Consiglio di Stato ha fatto un richiamo, che mi ha spaventato, all’articolo 41 della Costituzione, quindi alla libertà di impresa. Ma che cosa c’è, le imprese editoriali sono libere di avere dei giornalisti ignoranti? La cosa mi sembra addirittura fuori dal mondo, ma vedete che vale la regola del vantaggio dell’impresa editoriale. Faccio un esempio: non so come pochi giorni fa sia comparsa l’immagine di un bambino ucciso prima di essere nato, senza che nessuno si ponesse il problema, non tanto, se la famiglia aveva dato o non aveva dato lei stessa questa foto, quanto della tutela della dignità di un essere alla nascita e alla morte, questo era il rispetto che si doveva dare, alla nascita e alla morte, in quanto tale, che erano rappresentati contemporaneamente in questo bambino.

Ma quelle foto sono state diffuse a scopo, lasciatemelo dire, commerciale, non ideologico. Ma sulla commerciabilità di questi prodotti, scusate anche il termine “prodotto”, ci può essere da parte nostra un controllo. Perché se è vero che dietro c’è la libertà d’impresa, l’impresa vuol dire profitto, ebbene se passa qualcosa in televisione io e voi non possiamo farci nulla, perché l’auditel è determinato da un certo gruppo di persone,  quindi se io chiudo la televisione non risulta da nessuna parte, ma con i giornali la cosa è diversa, perché se io non compro il giornale, non lo compro io e l’editore non guadagna. Quindi abbiamo, come lettori di giornali, il potere di far sentire il nostro parere all’editore facendo diminuire i profitti, è una cosa banale ma è una cosa importante da sottolineare.

Ultime due riflessioni: io qualche giorno fa ho avuto un sussulto vedendo la foto di Erika, non mi nascondo che quello che ha commesso non è una cosa che lascia indifferenti, ma in ogni caso mi sono chiesto che cosa poteva esserci poi di riflesso e di conseguenza di quelle immagini: io vorrei per esempio sapere se nella decisione, presa di recente sul fatto che la ragazza non è pentita e quindi non può andare in comunità, ci sia o non ci sia anche dietro il sorriso trasmesso dalle immagini televisive e dalle immagini fotografiche, questa è una cosa da chiedersi. La seconda riflessione riguarda una nuova forma di coinvolgimento dell’opinione pubblica, che è veramente incredibile soprattutto per i giornali online, che è il cosiddetto forum, per cui ti viene chiesto di dire: sei favorevole a che l’imputato venga condannato? Sei sicuro? Uno poi clicca e dice la sua, questo voto non ha nessun valore legale, ma è pur sempre un coinvolgimento della persona nel processo penale, che mi fa tanto ricordare: preferite Gesù o Pilato? Quindi succede che sottoponiamo ormai sempre di più fatti come questo ad un sondaggio popolare e alle dichiarazioni dei politici, perché quando per ogni fatto giudiziario, ogni arresto, ogni conseguenza penale c’è una dichiarazione politica, la questione assume un significato politico che trascende la vicenda giudiziaria. Ecco, sono cose sulle quali noi dovremmo riflettere.

Vorrei fare un’ultima considerazione, in qualche modo provocatoria: possiamo cominciare a studiare questa Carta di Padova, ma io aggiungerei un’altra cosa, che mentre nella Costituzione stessa c’è una difesa del diritto dei detenuti alla rieducazione, è assolutamente assente qualsiasi riferimento alle vittime. Le vittime non sono contemplate, da nulla, neanche da teorie criminologiche, per le quali se un delinquente è così per natura, la vittima non c’entra niente, se la società è colpevole ugualmente le vittime non c’entrano niente. Ebbene, anche le vittime avrebbero, a mio giudizio, un diritto di essere tutelate dall’invisibilità o dalle intrusioni del tipo: scusi, le è morto suo figlio, che cosa prova? Ecco, mi sembra che questa potrebbe essere un’ottima occasione, anche provocatoria, e lo dico deliberatamente, perché nasca assieme una Carta dei Diritti dei Detenuti e delle Vittime.

 

 

Stefano Anastasia, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

 

Sebbene in forma indiretta, anche noi della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia siamo una fonte importante per l’informazione sul carcere, anche se ciò avviene più attraverso il rapporto diretto con le persone che attraverso quello con i media. Il nostro è un ruolo molto particolare, che definirei “anfibio” data la nostra collocazione a mezza strada fra il “fuori” e il “dentro”, e che consente a noi volontari più che ad altri di rappresentare all’esterno senza filtri e quasi in tempo reale gli stati d’animo, i fermenti e le tensioni che si sviluppano dietro le sbarre. Si tratta di una funzione delicata, che richiede da parte nostra una buona dose di senso critico e di misura, perché nel portare all’esterno umori e istanze della popolazione carceraria si corre talvolta il rischio di “tradirle”, o quanto meno di non cogliere certe sfumature che nell’ottica esterna possono magari apparire secondarie e che invece, viste da dentro, assumono grande importanza.

Benché abbia alle proprie spalle una lunga e meritoria storia di presenza nelle carceri, il volontariato penitenziario italiano si è misurato in questi ultimi dieci-quindici anni con situazioni nuove e complesse, che lo hanno spronato a superare i limiti generosi ma angusti in cui si svolgeva tradizionalmente la sua attività, per manifestarsi attraverso forme del tutto nuove di sostegno e di stimolo alla popolazione reclusa, e di raccordo fra il “dentro” e il “fuori”. Esemplare, in proposito, è stata proprio l’esperienza rappresentata, qui a Padova, da Ristretti Orizzonti, una pubblicazione – nata sotto l’impulso del volontariato – che non si è limitata a raccogliere gli sfoghi dei detenuti ma che ha puntato, fin dai suoi primi numeri, a dare un carattere propositivo alla propria azione, responsabilizzando così i suoi redattori-detenuti e mettendoli in relazione viva e dinamica con l’istituzione penitenziaria e con il mondo esterno.

Io ho ormai una certa esperienza di carcere, e vorrei ricordare che questi benedetti 62.000 detenuti che riempiono le carceri italiane – come mai prima d’ora era accaduto nella storia dell’Italia repubblicana – sono destinati a rappresentare un record soltanto temporaneo se la classe politica non si affretta a imboccare la via di politiche radicalmente diverse da quelle che sono state perseguite in questi anni. I 62.000 detenuti di oggi costituiscono infatti il punto d’arrivo – transitorio, ripeto, perché destinato a crescere in assenza di scelte decise e coraggiose – di una lunga rincorsa che ormai dura da sette-otto anni e che io, come tutti quelli che si occupano attivamente di carcere, ricordo perfettamente. Tutto cominciò con una accesa e insistente campagna di stampa innescata, nell’estate del 1999, da un grave, clamoroso delitto commesso da un detenuto in regime di semilibertà. Televisione e giornali hanno iniziato a battere senza sosta sulla questione della “incertezza della pena”, contribuendo in modo decisivo a diffondere nella pubblica opinione la fallace convinzione che le maglie dell’esecuzione penale nel nostro paese sono troppo larghe, e che le misure alternative servono non a recuperare persone, favorendo il loro inserimento graduale in una regolare vita sociale, ma semmai a mettere in libertà anzitempo e senza alcun controllo ladri, rapinatori e assassini.

Fatto sta che, a partire da quell’estate 1999, la popolazione dei detenuti in Italia, a legislazione immutata, ha cominciato a crescere al ritmo di mille unità al mese, e parallelamente ha iniziato a inasprirsi l’atteggiamento con cui gran parte dell’opinione pubblica segue le vicende della giustizia penale in Italia. Tale inasprimento ha riguardato ovviamente anche e soprattutto gli operatori del settore, a tutti i livelli di responsabilità e di intervento: dagli agenti di polizia, che sono diventati più solleciti, o per meglio dire più affrettati, nel fermare “sospetti” per strada, agli stessi magistrati di Sorveglianza, che hanno preso a interpretare in maniera sempre più restrittiva l’Ordinamento penitenziario, concedendo le misure alternative a quote nettamente più limitate di detenuti. Anni di totale assenza di scelte politiche lucide e coraggiose, in un contesto di pubblici malumori sempre più diffusi e spesso anche montati da campagne di stampa di sapore forcaiolo, hanno insomma avuto l’effetto di ingolfare le carceri di un numero impressionante di detenuti e di indurre gli operatori della giustizia, a tutti i livelli, a dare un’interpretazione sempre più angusta e restrittiva al proprio ruolo professionale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, al punto che oggi solo chi non vuole vedere può ancora ostinarsi a negare la gravità non più sostenibile della situazione in cui versa il sistema penitenziario italiano.

Quella attuale è una situazione di evidente, assoluta emergenza, a cui si può porre momentaneo e parziale rimedio – in attesa di una riforma complessiva della giustizia penale, che limiti il ricorso alla detenzione ai soli casi per cui è davvero necessario – con un provvedimento di clemenza già troppo a lungo negato. Sfoltire la popolazione carceraria con un indulto e un’amnistia è necessario non solo per ripristinare quegli standard minimi di vivibilità che un paese che si considera civile ha il dovere di garantire a chiunque, condannati compresi, ma anche per rimettere gli istituti penitenziari nelle condizioni di poter effettivamente assolvere alla funzione non meramente afflittiva, ma anche e soprattutto rieducativa, che la nostra Costituzione gli affida.

La televisione e i giornali hanno certamente qualche responsabilità se in questo paese è diventato così difficile parlare in modo obiettivo ed equilibrato di giustizia penale e di carcere. Ed è appunto per questo che considero importante che al convegno odierno abbiano aderito autorevoli rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti, della Federazione nazionale della stampa e dello stesso Ufficio del Garante della privacy. Questo paese è sull’orlo di un baratro, per quel che riguarda la dignità delle persone detenute; e per evitare di cadere in questo baratro occorre un grande senso di responsabilità da parte di tutti, a partire da coloro che nei prossimi giorni saranno chiamati a discutere in Parlamento di indulto e di amnistia per finire al cosiddetto uomo della strada, che per farsi un’opinione su temi così delicati ha bisogno di un’informazione corretta e completa, che coltivi in lui una serena attitudine alla riflessione piuttosto che la paura e il pregiudizio. Il mio augurio è che il confronto fra carcere e informazione promosso oggi da Ristretti Orizzonti possa rappresentare il punto di inizio di un modo più equilibrato e costruttivo di comunicare i temi della giustizia e del carcere, che sappia coniugare il diritto-dovere di informare con il rispetto della verità e della dignità personale delle persone private della libertà.

 

 

Marco Capovilla, fotografo e docente di fotogiornalismo

 

Mi è stato chiesto di parlare di immagini e di fotografia nell’ambito dei giornali e dei media e lo farò tra breve. Prima di tutto, però, vorrei ribadire alcune nozioni che spesso vengono date per scontate, ma che forse andrebbero ripetute e ricordate: la prima è che la nostra è una società dominata dall’immagine, dalla comunicazione visiva, e tuttavia la maggior parte dei cittadini, di noi, è del tutto impreparata a interpretare e decodificare i messaggi visivi che arrivano loro. La quasi totalità della popolazione si trova in una situazione di analfabetismo visivo: a scuola ci insegnano a leggere, a scrivere, a far di conto, e poi impariamo la geografia, la storia, le scienze, ma nessuno ci insegna la lettura critica dei messaggi audiovisivi. E questo è il primo punto che pongo alla vostra attenzione. Il secondo punto, che è agganciato direttamente a questo, riguarda alcune nozioni di base che riporterò in maniera molto schematica, riguardanti il funzionamento del nostro cervello, cioè delle nozioni di psicologia della percezione e di neurofisiologia. Il nostro cervello è diviso in due aree, in due emisferi, ciascuno dei quali elabora in maniera per lo più indipendente, anche se poi lo stimolo viene integrato, unificato, ad altri livelli, due tipi di messaggi diversi: da un lato l’emisfero sinistro, che è il nostro emisfero analitico-razionale, in grado di interpretare testi scritti, di fare connessioni logiche, dall’altro il nostro emisfero destro, deputato alle emozioni, agli affetti, alla visione, all’elaborazione di stimoli che rientrano in un ambito che possiamo definire “artistico-creativo”.

Premesso questo, e scusandomi per la semplificazione che ho dovuto fare nel tentativo di definire rapidamente l’argomento di cui stiamo parlando, quando noi ci troviamo di fronte a dei messaggi come quelli che ci inviano i media, noi ci troviamo di fronte anche a due aree del nostro cervello che lavorano simultaneamente per decodificarli: una delle due ha quasi sempre il sopravvento, almeno nella breve distanza. Vale a dire che noi percepiamo i giornali, la televisione, internet, i media audiovisivi in generale prima di tutto tramite le immagini che essi ci forniscono, e soltanto in un momento successivo per i contenuti verbali, testuali che veicolano. Se partiamo da questi principi, sui quali vi chiedo di essere d’accordo perché sono provati da decenni di esperimenti di psicologia e di neurofisiologia, noi dobbiamo chiederci: la formazione dell’opinione pubblica, così come viene studiata da quasi 100 anni a questa parte, attraverso quali meccanismi avviene?

La maggior parte di noi, anche quelli che hanno più a che fare con il mondo dei media e quindi ne conoscono i meccanismi, la maggior parte di noi conosce il mondo esterno attraverso ciò che viene veicolato dai vari media che “frequenta”. Tra questi il ruolo dominante nella nostra società degli ultimi 30, 40 anni ce l’ha la televisione, e la televisione naturalmente veicola in primo luogo immagini. Allora se il nostro immaginario, cioè le immagini mentali che noi ci forniamo e con le quali poi interpretiamo il funzionamento della società, sono così importanti, è importante che da un lato queste immagini siano il più possibile aderenti alla realtà che ci rappresentano, dall’altro che noi siamo in grado comunque di interpretarle in maniera critica, consapevole, e dominandone i messaggi.

Giustamente Mauro Paissan, che prima di essere membro dell’Ufficio del Garante della Privacy è anche giornalista, ha parlato del codice deontologico come di una serie di norme che servono ad esplicitare dei principi, che erano impliciti all’interno del mondo giornalistico fin dalla legge istitutiva dell’Ordine. È abbastanza curioso però che in Italia il primo codice deontologico venga scritto nero su bianco nel ‘93, trent’anni dopo che è stata scritta la legge istitutiva dell’Ordine che è del ‘63. Nel ‘93 si è sentita l’esigenza di darsi delle regole più esplicite: questo significa che la società nel suo complesso, e quindi anche i produttori di media, i giornali, i professionisti dell’informazione e quindi i giornalisti, hanno sentito questa esigenza, molto probabilmente a causa delle continue e ripetute violazioni di alcune regole, fino a quel momento non sufficientemente esplicitate, e forse anche meno sentite dai cittadini. Alle norme e ai codici che sono stati citati, vorremmo forse aggiungere oggi, nel 2006, anche una Carta di Padova, o qualunque altra sia la denominazione che le si vorrà dare, per precisare meglio quali siano i limiti deontologici di un giornalismo che si voglia occupare di vicende giudiziarie in maniera matura, consapevole e rispettosa della dignità degli individui in esse coinvolti.

È bene essere consapevoli fin da subito, per evitare di risvegliarsi bruscamente domani da un sogno precipitando nella dura realtà, che nuovi limiti di autoregolamentazione generano immediatamente dei nemici, o per lo meno danno nuovo vigore a quelli già esistenti.

Quali sono, dunque, i principali nemici di un nuovo Codice Deontologico dei giornalisti? Il principale nemico sono le aziende stesse che operano nel mercato dei media, che per loro assetto e struttura tendono a massimizzare i profitti, e per ottenere questi scopi non esitano a passare sopra la vita delle persone. Il secondo nemico è una certa smania di protagonismo e di ricerca forzata dello scoop da parte di alcuni giornalisti, e nel dire questo non voglio fare di tutta l’erba un fascio perché è giusto riconoscere che ci sono tanti giornalisti responsabili, consapevoli e rispettosi delle regole, che lavorano anche nell’ambito della cronaca giudiziaria. Permettetemi però di citare, visto che ci troviamo nel Veneto, un recente scoop nell’ambito della cronaca nera apparso sotto forma di una foto che non si sarebbe dovuta mai pubblicare sulla prima pagina dal Gazzettino il giorno 12 maggio scorso, e sul quale saranno presto chiamati a pronunciarsi  i presidenti degli ordini regionali del Veneto e della Lombardia nonché il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, dato che alcune norme del codice deontologico sono state violate. Mi riferisco alla foto del feto mai nato, estratto dal grembo di una giovanissima ragazza incinta, ammazzata di recente in provincia di Venezia, sbattuto in prima pagina con argomentazioni, a dir poco, discutibili.

Il terzo elemento, infine, che minaccia la corretta applicazione di un codice, strettamente connesso con il desiderio di protagonismo di alcuni giornalisti di cui abbiamo appena parlato, è un certo voyeurismo da parte del pubblico che chiede la cosiddetta pornografia della sofferenza, la spettacolarizzazione delle tragedie personali e l’esibizione del dolore altrui.

Questi tre fattori si mescolano e al loro interno fanno la loro parte sia i media, come strutture e aziende, sia i professionisti dei media, sia i lettori che, comperando ogni settimana 500.000 e più copie di un giornale scandalistico, inevitabilmente danno ragione e premiano quel tipo di giornalismo. Anche grazie a questo trattamento spettacolarizzante delle notizie i media stanno progressivamente facendo sparire le distinzioni tra i generi. La conseguenza è che il genere intrattenimento, che una volta era ben separato dal genere pubblicità che a sua volta era ben distinguibile dall’informazione, stanno diventando in molti casi (documentati, documentabili e stigmatizzati in tutte le sedi opportune) un unico pastrocchio, nel quale lo spettatore televisivo o il lettore di giornale non riesce più a distinguere esattamente quando si trova di fronte ad una pagina pubblicitaria, ad una pagina di intrattenimento o ad una sobria notizia giornalistica. Sottolineo sobria, perché se si ha a cuore l’informazione, è ad un rigoroso standard di essenzialità e di misura che dovrebbero attenersi le notizie giornalistiche.

Dopo queste premesse molto generali sul rapporto tra immagini, formazione dell’opinione pubblica ed etica della professione giornalistica, dal momento che sono stato chiamato a parlare di immagini, di fotografia in particolare, vorrei che facessimo un rapido viaggio nel tempo alla ricerca delle radici del rapporto che lega le immagini ai temi sui quali ho richiamato la vostra attenzione.

La prima (fig. 1) è un’immagine della seconda metà dell’800 e fa parte di una vasta operazione di schedatura, che è stata adottata per la prima volta in Francia da un funzionario della Prefettura di Parigi di nome Alphonse Bertillon. Costui, partendo dai principi dell’antropometria, formula una vera teoria scientifica volta alla descrizione esatta dei delinquenti e pone le basi teoriche e pratiche della cosiddetta foto segnaletica e giudiziaria.

Nel 1890 Bertillon alla Prefettura (l’equivalente della nostra Questura) di Parigi aveva già schedato fotograficamente molte decine di migliaia di persone coinvolte a vario titolo in eventi delittuosi. C’è, come vedete, da quasi un secolo e mezzo, un rapporto molto stretto tra fotografia e crimine. Scrive Adriano Sofri, nella prefazione di un volume di fotografie sul carcere, che la prima esperienza che i detenuti fanno quando entrano in carcere è la fotografia che viene loro fatta, il cosiddetto ritratto segnaletico.

È interessante poi soffermarsi, in questo breve viaggio nella storia, su una foto (fig. 2) delle cere ospitate nel museo Lombroso ciascuna dotata di un’etichetta che indica il tipo antropologico di criminale: c’è l’omicida e c’è lo stupratore, il falsario e il ladro. Non dimentichiamoci che nasce in quell’epoca, proprio ad opera del Lombroso, l’antropologia criminale, che sostiene che la struttura morfologica di un individuo è sufficiente ad identificare la personalità criminale. Si vuole cioè apporre un’etichetta di delinquente alle persone in base alla loro fisionomia, al loro aspetto fisico, ai tratti somatici. Fortunatamente la scienza criminologica e le scienze sociali si sono incaricate nei decenni successivi di dimostrare quanto fosse totalmente infondata questa teoria.

Poi c’è una foto (fig. 3) di un individuo sulla sedia elettrica con varie persone intorno: è una foto fatta nel penitenziario di Sing Sing negli Stati Uniti nel 1890, e testimonia già un interesse a documentare i fatti criminali e soprattutto le esecuzioni capitali più di un secolo fa.

Un’altra immagine significativa (fig. 4) è del 1873, un’illustrazione, non una foto in questo caso, e sintetizza bene quale sia nell’immaginario popolare il rapporto tra Forze dell’Ordine e persona arrestata. Si può notare l’arrestato che si dimena, la polizia che lo trattiene e il fotografo che scatta la foto e contemporaneamente il pubblico che un po’ guarda, un po’ sogghigna ma è comunque spettatore interessato di questo evento. Qui incontriamo nuovamente un riferimento al nostro rapporto, come pubblico, nei confronti degli eventi criminosi, il nostro ruolo di spettatori morbosamente interessati all’esposizione in pubblico del “mostro” di turno.

Poi abbiamo la foto (fig. 5) di Enzo Tortora in manette e scortato da due carabinieri, pubblicata nel 1983: la publicazione di questa foto provocò una riprovazione generale nell’opinione pubblica, data la notorietà del personaggio e la palese infondatezza delle accuse a suo carico, ma fu in concreto priva di conseguenze pratiche o legali.

Interessante è poi una immagine (fig. 6) che è la locandina di un film di Marco Bellocchio, del 1972, con l’attore Gian Maria Volonté: “Sbatti il mostro in prima pagina”, una storia che con molti anni di anticipo affronta i temi di cui stiamo parlando: la criminalizzazione, in questo caso dolosamente programmata, a mezzo stampa di persone incolpevoli, almeno fino a prova contraria.

Altra foto significativa per aiutarci a capire il ruolo della fotografia nel campo della cronaca giudiziaria è la foto segnaletica di Patricia Hearst (fig. 7), che nel ‘75 viene catturata con l’accusa di terrorismo. Il settimanale Time, a partire dalla foto segnaletica fornita dalla polizia, ne ha alterato i tratti somatici sfigurando Patricia Hearst e rendendo la sua espressione più torva e sinistra, più colpevole insomma, di quanto già non fosse, nonostante in quell’epoca non fosse ancora stata sottoposta ad alcun processo.

Sulla stessa falsariga, un’altra foto segnaletica più recente (fig. 8), apparsa nel 1994, quella di O. J. Simpson, una star americana dello sport, accusato di uxoricidio. La copertina fatta da Newsweek sostanzialmente riprende la foto segnaletica della polizia di Los Angeles, mentre invece per la sua copertina Time affida la stessa immagine ad un illustratore, un “virtuoso” del ritocco fotografico digitale con Photoshop, in modo che la renda più scura, più fosca e lugubre, e l’immagine viene chiosata con il titolo “Una tragedia americana”. Il Direttore di Time, in questa occasione, a causa delle migliaia di lettere di protesta arrivate in redazione, è stato costretto a pubblicare la settimana successiva un editoriale in cui si scusava con i lettori per ciò che definiva una mal compresa interpretazione artistica, e cercava di dare qualche debole giustificazione al perché queste foto sono state ritoccate. Rimane il fatto che il pubblico ha nettamente percepito questo ritratto come una gratuita e ingiustificata colpevolizzazione del “mostro” Simpson.

C’è poi una foto (fig. 9), tratta da un quotidiano italiano, nella quale vediamo una donna arrestata e in manette, accusata di partecipazione ad una rapina che ha portato alla morte di un paio di persone, il cui volto viene sollevato con la forza da un carabiniere, per darlo in pasto ai rappresentanti dei media in agguato: giornalisti, fotoreporter e video operatori. La donna, in seguito alla pubblicazione dell’immagine infamante, aveva sporto denuncia nei confronti del carabiniere responsabile di ciò che i suoi legali avevano definito “violenza privata”. Una successiva sentenza ha tuttavia scagionato il carabiniere responsabile del gesto in quanto, a parere del tribunale giudicante, il fatto descritto non configura  un reato.

Quando facevo riferimento ai vari punti di debolezza nell’applicabilità pratica di un codice deontologico, mi riferivo anche a questo tipo di degenerazioni, basate su un colossale equivoco da parte di alcuni membri delle Forze dell’Ordine in merito al loro ruolo, che si accompagna alla mancata conoscenza, a volte, dei diritti elementari di ogni individuo. In questa scarsa sensibilità da parte di alcune componenti delle Forze dell’Ordine si annida il pericolo della possibile ripetizione di atti e comportamenti di “inciviltà giuridica” fondati su un rapporto viziato con le peggiori componenti del giornalismo popolare che affollano le testate giornalistiche.

In una fotografia pubblicata nel 2001 da Famiglia Cristiana (fig. 10) abbiamo un’aberrante interpretazione della norma che vieta di pubblicare immagini di persone in manette (Art. 8  del Codice Deontologico dei Giornalisti relativo alla Privacy - Tutela della dignità della persona). Nella foto, in cui i volti di due immigrati arrestati sono perfettamente riconoscibili, le “pecette” bianche sono state apposte sulle mani e sulle manette, anziché sui volti, in totale spregio del senso profondo e della ratio della legge. Un simile comportamento, che si commenta da sé, è inaccettabile e dimostra un totale spregio da parte dei giornalisti che ne sono responsabili non solo verso il codice deontologico, ma soprattutto nei confronti delle persone arrestate. Analogo discorso vale per la foto (fig. 11) pubblicata dal quotidiano Il Giorno, in cui il titolo “Bestie di Satana” aggiunge una nota di ferinità e di ferocia sanguinaria al ritratto, con le manette ben visibili in primissimo piano.

Nell’immagine di Annamaria Franzoni , (fig. 12) si vedono microfoni e giornalisti, e si immaginano fotografi e video operatori, pronti a carpire ogni nuova esternazione, ogni espressione del suo volto, accusata di omicidio. Voglio qui mettere in risalto il perverso meccanismo di spettacolarizzazione che i media sono in grado di innescare e di nutrire con la loro stessa presenza, meccanismo in grado di trasformare persone accusate di delitti infami in autentiche star di quell’intrattenimento morboso con forte componente voyeuristica, che da sempre ruota intorno alla cronaca nera.

Infine, sempre restando nell’ambito della rappresentazione fotografica di quel mondo composito e variegato che ruota intorno alle vicende della cronaca giudiziaria, sarebbe auspicabile invece una maggiore attenzione da parte dei media nei confronti di quella complessa e contraddittoria realtà costituita dall’“anomala normalità” dell’universo carcerario. Di questo mondo i media si limitano a parlare soltanto in occasione delle emergenze, dei fatti violenti, delle urgenze. Sarebbe invece assai più utile, per permettere al pubblico di avere un quadro più completo e fedele, che giornali e TV si occupassero anche della quotidianità della vita carceraria.

In tale direzione devono lavorare i media, se davvero vogliono svolgere appieno il loro ruolo di “guardiani” attenti e critici dei poteri dello Stato. Dai giornali e dai giornalisti ci si aspetta maggiore disponibilità a documentare come e dove vivono i detenuti; la richiesta, da parte della stampa nei confronti delle autorità carcerarie, di maggiore apertura delle strutture detentive ai media, di maggiore snellezza nella gestione delle pratiche burocratiche necessarie per avere accesso negli istituti penitenziari da parte dei giornalisti, di minori restrizioni relative alle riprese all’interno delle carceri. Già nel 1890 (fig. 13) un periodico americano pubblicava un reportage, forse il primo della storia, relativo alla vita quotidiana nel penitenziario di Joliet nell’Illinois. Con altre capacità descrittive e di indagine, ma con analogo desiderio di conoscere e far sapere alla pubblica opinione, dovrebbero agire i media oggi, per non farci rimpiangere la curiosità e la forza di inchiesta del giornalismo di un secolo fa.

 

 

Edoardo Albinati, scrittore ed insegnante nel carcere di Rebibbia

 

Io vorrei parlare non tanto dell’immagine che viene data dall’esterno, da giornali e televisione, del mondo del carcere, dei carcerati, dei devianti, quanto quella che i detenuti producono di se stessi. Vorrei cioè parlare di quella ormai importante quantità di testi, di scritture, che troviamo in riviste, in libri, in cui sono i detenuti a parlare in prima persona della loro condizione. Io ne conosco abbastanza ormai, di queste pubblicazioni, e quindi credo di poter fare approssimativamente un discorso su questa produzione, anche se ci sono molte diversità al suo interno. Quasi tutte queste rappresentazioni che i detenuti danno della vita in galera, sono improntate a un carattere autobiografico: è un caso cioè in cui le persone quindi parlano di se stesse, diversamente dai giornalisti o dai reporter che per raccontare il carcere parlano di persone a loro esterne, e talvolta lo fanno in modo molto superficiale.

La mia sensazione è che le bugie che vengono dette sul carcere non sono poi spesso tanto diverse dalle bugie che, per ragioni che cercherò rapidamente di chiarire, i carcerati stessi devono dire su se stessi. Questo a partire proprio dallo “statuto” della scrittura autobiografica: quando uno parla di sé, e si suppone lo faccia proprio perché dovrebbe essere colui che conosce meglio di tutti la propria verità, la propria realtà, mi sembra allora impossibile che non lo faccia anche per motivi autogiustificatori e autoassolutori. Questo nella letteratura è assolutamente evidente, basta guardare le grandi autobiografie, e in particolare la più importante autobiografia moderna, quella di Jean-Jacques Rousseau. Più lui confessa i suoi peccati, più sembra voler dire: vedete, vedete come sono onesto nel confessarvi certe cose di me, vedete come sono nobile nell’ammettere tutte le mie magagne?

Allora mi chiedo, parlare di sé è in qualche misura garanzia di una maggiore autenticità, di una maggiore verità? I detenuti sono coloro che ne sanno di più del carcere? So che questo suona come paradossale, ma sono poi in grado di trasmettere tutto questo?

Mi chiedo a questo punto se il problema dell’“autenticità” sia poi legato anche alla funzione della scrittura: è una funzione espressiva? Cioè serve essenzialmente a sfogarsi? Questa per esempio è la chiave che io come insegnante da molti anni tendo a preferire, e dico ai miei studenti: scrivi di te, scrivi della tua vita, scrivi del tuo passato. In realtà poi questi racconti, che io metto insieme sotto il termine di autobiografismo, riguardano o la vita precedente alla reclusione, e quindi veramente si può parlare di autobiografia, o piuttosto potrebbero essere chiamati cronaca, cioè descrivono la vita attuale in galera. Entrambe le cose presentano dei grossi rischi: il racconto della propria vita precedente alla detenzione non può che soffrire di una inevitabile evasività, è ovvio che non si possa dire veramente tutto, rivelando per filo e per segno che cosa si è fatto prima di essere carcerati. Dall’altra parte invece, la cronaca della vita carceraria rischia la monotonia, anche qui con una buona dose di censura, per mettersi al riparo dalle conseguenze che ne potrebbero derivare. Entrambe le possibilità dunque sono molto difficili da praticare.

Devo dire però di essere rimasto molto ammirato, anche se è successo raramente, quando ho trovato delle scritture prodotte dai detenuti che riuscissero ad uscire da questo rischio di doppia menzogna, chiamiamola così, quella consolatoria da una parte, quella dell’autocensura dall’altra. Resta comunque arduo parlare di un’esperienza che si sta vivendo nel momento stesso in cui la si vive. Si è troppi vicini e come immersi, murati dentro la realtà, che diventa quasi invisibile. Faccio un esempio: come insegnante nel corso del programma di lettere mi succede spesso di affrontare proprio l’autoritratto, cioè come gli scrittori hanno descritto se stessi, è un vero e proprio genere, nella pittura, nel romanzo, nell’autobiografia naturalmente, nella memorialistica. Poi dopo un po’ invito i detenuti a fare lo stesso: fate il vostro autoritratto fisico e spirituale, è il compito. Una cosa in apparenza abbastanza semplice. Ora l’autoritratto che ne esce è sempre una foto segnaletica. È incredibile come il modello della foto segnaletica sia stato assunto dagli stessi detenuti al punto che loro invece di scrivere “sono alto, sono basso, sono bello o brutto”, dicono: “altezza 1,70 peso 68 kg, baffi…”. Poi quando si passa a descrivere il proprio lato, diciamo così, spirituale, ecco che escono fuori dei ritratti di buoni uomini padri di famiglia, amanti dei valori, dell’amicizia, dell’onore, religiosi e fedeli, con una divaricazione talmente forte dalla realtà della galera da darmi l’impressione di essere sintomatica di una condizione inevitabile di autogiustificazione.

Allora ho pensato questo: forse la cosa migliore per chiunque, e non sto parlando solo dei detenuti, parlo di ciascuno di noi, forse la cosa migliore è non parlare di sé ma del proprio compagno, forse la biografia possibile all’interno del carcere non è quella che uno scriverà su di sé, ma sugli altri, sui propri compagni di detenzione. Allora quello che lui dice non sarà più tenuto ad avere quella specie di finto bollino di autenticità, e cioè “quello che racconto è vero perché è una cosa mia”, ma “quello che racconto è vero perché mi è stato raccontato da un altro”. Ecco uno di quei casi in cui la verità per manifestarsi si struttura come una finzione, come un racconto, e il fatto poi che sia realmente accaduto diventa secondario come diventa secondario rispetto alla grande letteratura, perché quello che ci dice quella storia è comunque sintomatico, è comunque significativo. Il che ci libera da questo mito della verità e dell’autenticità perseguita a ogni costo.

Mi viene in mente il racconto che è mi è stato fatto pochi giorni fa in carcere, i miei studenti parlavano di un compagno che si era suicidato. Un ragazzo si è impiccato nella sezione di alta sicurezza, e i racconti che mi hanno fatto i suoi compagni sono la forma più alta per me di racconto della verità: una verità frammentaria, parziale, che nessuno sa per intero. Ancora una volta debbo ricordare che il carcere non è mai il luogo dell’interezza, quindi anche crocifiggere continuamente i giornalisti sul fatto che non la dicono tutta è sbagliato: nessuno è in grado di dire tutto all’interno del carcere, nessuno mai vede e conosce, proprio nella sua struttura il carcere è il luogo della frammentarietà. Io non vedrò, non saprò, e non potrò garantire mai la totalità di quanto è accaduto: di quello che accade ho sempre visto o saputo o sentito dire uno spicchio. Però i racconti commossi, sdegnati o anche sarcastici che mi hanno fatto questi detenuti mi hanno ricordato una cosa molto bella che veniva detta da Flaubert. Quando Flaubert scriveva dei personaggi d’invenzione, come Emma Bovary, che dovevano però essere ancora più reali delle persone vere, diceva a se stesso: tu devi scrivere come se dovessi vendicarli, cioè tu devi scrivere di loro e farli diventare eterni, come se dovessi preservarne la memoria contro tutto quello che è stato detto e pensato di loro. Questa consegna mi sembra più interessante ancora, più vincolante ancora di quella del raccontare di sé: raccontando di sé forse non si può fare altro che mentire, raccontando il proprio compagno forse si riesce almeno per un istante a dire la verità.

 

 

Appello al Ministro della Giustizia dalla Giornata di Studi nazionale sull’informazione “Dalle ‘notizie da bar’ alle ‘notizie da galera’”

 

L’assemblea dei detenuti, operatori, magistrati, avvocati, lavoratori in ambito carcerario, volontari, cappellani e giornalisti, che si è tenuta nel carcere di Padova il 26 maggio 2006, sottopone al Ministro della Giustizia, on. Clemente Mastella, alcune osservazioni propositive in ordine ai tanti, gravi problemi che affliggono le condizioni di vita e di lavoro dentro gli istituti penitenziari e nell’area penale esterna.

  1. Esiste una proposta organica di riforma strutturale dell’Ordinamento penitenziario, elaborata da Alessandro Margara, già a capo dell’Amministrazione penitenziaria, e da Francesco Maisto, sostituto procuratore generale della Repubblica di Milano, e già presidente del Tribunale di Sorveglianza. Tale riforma, oltre che l’organicità, ha il pregio di non comportare costi aggiuntivi a carico dell’Amministrazione. In molte sue parti, inoltre, potrebbe divenire operativa senza necessità di percorsi parlamentari. Quindi, fondamentalmente, potrebbe trovare avvio semplicemente a partire dalla volontà e responsabilità politica, in tempi brevi e dunque adeguati alle necessità.

  2. Tra le urgenze, ormai drammatiche, che vivono le carceri perdura quella del gravissimo sovraffollamento - che mortifica le condizioni di vita dei detenuti e umilia la dignità professionale degli operatori, assistenti sociali, educatori, degli agenti di polizia penitenziaria, dei direttori e anche dei volontari. Per affrontare concretamente tale problema si impongono decisioni legislative e parlamentari, in ordine a provvedimenti deflativi. Ma una misura di rafforzamento, ampliamento e rispetto delle piante organiche del personale, nelle sue varie funzioni e articolazioni, potrebbe, nel frattempo, contribuire a migliorare la situazione. Così pure vanno ampliate e rese più celeri le possibilità di misure alternative alla detenzione - rafforzando gli organici dell’area penale esterna. Lo stesso vale per una maggiore e migliore destinazione di risorse finalizzate alle attività trattamentali, a quelle formative e culturali, al lavoro penitenziario.

  3. Il miglioramento, possibile in tempi immediati, delle condizioni di detenzione passa anche attraverso l’applicazione del Regolamento penitenziario, varato nel 2000, in tutte le sue previsioni. Importanza particolare va attribuita a misure e strutture che garantiscano l’affettività delle persone recluse e dei loro congiunti, come già si sperimenta positivamente in alcuni, rari, istituti.

  4. Drammatica è la questione della salute in carcere. La carenza di fondi e la riforma “inceppata” hanno determinato una grave situazione, tale per cui mancano a volte gli stessi farmaci salvavita e la copertura del personale sanitario, sia a livello medico, sia a livello infermieristico. A tale situazione occorre porre mano con decisione, per garantire un diritto costituzionalmente rilevante, considerando anche il grande numero di persone tossicodipendenti, alcoliste o portatrici di disagio psichico ristrette.

  5. Sul piano legislativo crediamo vadano radicalmente riviste le leggi sulle droghe, sulla recidiva (cd. “ex-Cirielli”) e sull’immigrazione. Sono proprio queste le normative responsabili da sole della maggior parte degli ingressi nel sistema penitenziario, spesso per reati di poco conto o, addirittura, senza la commissione di alcun reato che non sia la violazione della Bossi-Fini (sugli 89.887 ingressi nel corso del 2005, 9.619 hanno riguardato immigrati, ristretti in carcere senza aver commesso reati, che non siano appunto la violazione delle norme sull’espulsione). Viceversa, nuove leggi vanno introdotte, a partire dall’ istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Naturalmente, se queste sono le priorità, molti altri sono i provvedimenti legislativi che auspichiamo il nuovo parlamento vorrà affrontare nel corso della legislatura, a partire dal varo del nuovo codice penale.

  6. Infine, vi sono leggi approvate nella penultima legislatura, proposte dall’allora Governo di centrosinistra, che vanno finalmente e integralmente applicate (legge “Smuraglia”, legge “Finocchiaro”, legge di riforma della sanità in carcere, ecc.).

Se queste sono solo alcune delle necessità e delle urgenze (molte altre, infatti, si potrebbero enumerare), non di meno appare centrale e rilevante che la, o le, figure, che verranno a breve nominate ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, abbiano caratteristiche, professionali e umane, di attenzione, sensibilità, competenza, che ci facciano sentire garantiti riguardo i punti su esposti.

Nel rispetto delle prerogative, ci pare dunque necessario rivolgerLe anche questa esortazione: che al vertice del DAP vengano insediate figure che abbiamo queste caratteristiche. Le chiediamo, in questa occasione, la disponibilità a incontrare una delegazione che meglio, con maggiore organicità e nel dettaglio, possa esporLe le nostre proposte e osservazioni, che proprio nell’occasione di questa partecipata assemblea abbiamo potuto raccogliere, definire e condividere.

 

Approvata all’unanimità in conclusione della Giornata di Studi sull’informazione del 26 maggio 2006 nella Casa di Reclusione di Padova.

 

 

Incontro con Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto

 

Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto, ha incontrato la nostra redazione e ha risposto a una infinità di domande dei redattori-detenuti, ma soprattutto ha iniziato con il nostro giornale un rapporto, per noi particolarmente importante: perché, non ce lo nascondiamo, un giornale “fragile” come lo sono i giornali dal carcere ha assoluto bisogno di porsi sotto la tutela, la “protezione” dell’Ordine, di farsi un po’ adottare, e noi lo abbiamo fatto senza alcun pudore.

Marino Occhipinti: Il più delle volte vediamo che vengono date notizie nelle quali la privacy non viene presa in nessuna considerazione e si va a interferire nella vita assolutamente privata, che con i reati non ha nulla a che fare. Di conseguenza i nostri familiari ci cascano in mezzo senza colpe, e nelle nostre famiglie si consumano una serie di drammi senza fine. Volevamo capire allora fin dove gli organi di informazione si possono spingere, perché abbiamo visto che si tende a particolareggiare molto sulla vita privata delle persone che hanno problemi di giustizia: capiamo che c’è un’esigenza di cronaca, ma spesso si va ben oltre la cronaca.

Maurizio Paglialunga: Quello della privacy è un tema che mi viene sempre posto non soltanto da voi, è un tema difficile. Io comincio con un esempio per essere chiaro: secondo voi la foto di una donna chiaramente identificabile che fa la spesa al supermercato può essere pubblicata o no? C’è il rispetto della privacy? Ecco, la risposta può essere questa: un giornale la può pubblicare a seconda del contesto, e qui già andate a vedere la difficoltà della materia, ad esempio se questa foto è a corredo di un articolo sulla longevità degli anziani sì, si può pubblicare, ma se fosse a corredo di un articolo sulla solitudine degli anziani quella donna potrebbe ritenersi lesa, e dire: ma perché avete pubblicato la mia foto, parlate di solitudine e io sono felicemente sposata.

Allora il legislatore ha ricondotto la materia ad alcuni parametri fondamentali, uno dei quali è l’autonomia e la responsabilità del giornalista, cioè non è voluto intervenire drasticamente dicendo “Questo si può fare e questo no”, ma affida al giornalista una grande responsabilità nel valutare le notizie; il secondo è il principio dell’interesse pubblico e dell’essenzialità dell’informazione, che è l’altro parametro a cui noi dovremmo attenerci.

Ora se voi chiedete a me se i giornalisti rispettano non tanto la privacy quanto la dignità delle persone, io debbo dirvi che questo rispetto non c’è sempre, non c’è per varie ragioni, anche se le violazioni sono più a livello di televisione che di carta stampata, e questo perché sul principio dell’essenzialità sta prevalendo la spettacolarizzazione dell’informazione, che significa enfatizzare e dare le notizie sempre in forma spettacolare.

Io vorrei spiegarvi come il legislatore ha voluto affrontare la  materia: intanto alla legge sulla privacy è annesso un codice deontologico dei giornalisti che “mitiga” molto la legge sulla privacy, quindi la legge sulla privacy che può riguardare le banche, l’accesso ai dati personali eccetera, nel caso dei giornalisti e dell’informazione è mitigata, è mitigata perché il Garante individua, e questo è il nodo della questione, alcuni parametri con cui assicurare il pieno rispetto di diritti e libertà fondamentali dell’uomo, quali la riservatezza, l’identità personale e il “nuovo” diritto alla protezione dei dati personali, senza pregiudicare però la libertà di informazione, che è tutelata anch’essa sul piano delle garanzie costituzionali; cioè la Costituzione tutela l’individuo e la sua dignità e il suo diritto alla riservatezza, però tutela anche il diritto all’informazione, perché l’informazione è un bene pubblico, altrimenti si rientra in un regime di censura.

Allora contemperare due diritti costituzionali può diventare un problema. La scelta quindi di non introdurre, scrive il Garante, regole rigide in materia, bensì di limitarsi a indicare espressamente solo alcuni presupposti, si è basata su due ordini di considerazioni: da una parte la molteplicità e la varietà delle vicende di cronaca e dei soggetti che ne sono coinvolti non consentono di stabilire a priori e in maniera categorica quali dati possono essere raccolti e poi diffusi nel riferire sui singoli fatti, un medesimo dato può essere legittimamente pubblicato in un determinato contesto e non invece in un altro: dall’altro una codificazione minuziosa di regole in questo ambito risulterebbe inopportuna, in un contesto in cui sono assai differenti le situazioni nelle quali occorre valutare nozioni generali e valorizzare nel contempo l’autonomia e la responsabilità del giornalista. Alla fin fine il giornalista è chiamato lui a valutare caso per caso cosa pubblicare, quali elementi fornire, quali non fornire, cioè l’essenzialità dell’informazione rispetto all’interesse pubblico della notizia. Allora voi mi direte che questo è un concetto molto vago e non c’è da fidarsi dei giornalisti perché gli si affida troppa discrezionalità, però questa è ad oggi la situazione.

Poi c’è la questione dei cosiddetti dati sensibili, sesso e salute, nel caso di personaggi pubblici, e qui potremmo anche discutere se voi siete personaggi pubblici e fino a quanto lo siete. Questi sono dati ultraprotetti a livello di legge sulla privacy, ma allora ci chiediamo: quando Papa Wojtyla appariva alla finestra ed era manifestamente malato, gli tremavano le mani e non riusciva a parlare, se noi avessimo preso in assoluto la legge sui dati riguardanti la salute non avremmo dovuto dare quelle immagini. E invece era lui stesso che voleva mostrarsi nella sua debolezza di uomo, che voleva che tutti vedessero la sua malattia, però qualche primo piano, specie quel giorno che lui decise di aprire la finestra e non riusciva a parlare, forse si poteva evitare…

Marino Occhipinti: Il Papa ha aperto la finestra e si è esposto, se invece qualcuno andava a fotografarlo sul letto mentre stava morendo è un po’ diverso. Io ripenso, tornando indietro, al mio processo, non è mica stata scritta una cosa sbagliata quando hanno pubblicato la fotografia di mia moglie e hanno scritto: la moglie di Marino Occhipinti. La cosa era vera, ovviamente c’era un certificato di matrimonio, però non so quanto fosse il caso, in una vicenda come la mia, di pubblicare la fotografia di mia moglie sul Resto del Carlino e che utilità potesse avere, dal punto di vista dell’informazione.

Paolo Moresco: È vero che non si sa fino a che punto siamo personaggi pubblici, ma le nostre famiglie non lo sono. Io ho fatto il giornalista e l’ho fatto per trent’anni, però mi fa un po’ schifo. Ma perché, la madre, i fratelli non contano? Lì è scempio di persone innocenti, direi che sono vittime “secondarie”, perché spesso sono anche loro vittime. Io trovo che scaraventare una persona che ha subito indirettamente un delitto, come un parente, sul giornale, è di una volgarità indegna, senza scusanti.

Maurizio Paglialunga: Il problema è sempre quello, se c’è un parente, specie i figli minori poi è ancora più grave, se c’è un parente che non ha nessun rilievo nell’ambito della notizia non dovrebbe essere coinvolto. Io vi dico come la penso, però vi dico anche che non tutti la pensano come me, io la penso come un grande cronista polacco che si chiama Ryszard Kapuscinski, il quale sostiene: “Non c’è giornalismo possibile fuori dalla relazione con gli esseri umani, credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzi tutto degli uomini buoni o delle donne buone, dei buoni esseri umani, solo così si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro tragedie”. E cosa fa Kapuscinski? Distingue nettamente l’essere scettico, come può essere un giornalista, l’essere realista, doti assolutamente necessarie per questo mestiere, e l’essere cinico, atteggiamento che ritiene incompatibile con la professione del giornalista.

Il cinismo è una delle malattie del giornalismo. L’Ordine dei Giornalisti comunque ha anche dei compiti di vigilanza deontologica, spesso diamo delle sanzioni ai giornalisti, ad esempio le violazioni più frequenti che noi registriamo a livello nazionale, ma anche nel Veneto, sono violazioni alla Carta di Treviso. Il minore è veramente tutelato, la sua crescita non deve essere turbata dal vedersi finire sul giornale, ecco però noi su questo ancora registriamo tante violazioni, anche se molte meno rispetto a una volta, perché una volta nel giornalismo proprio non c’erano regole, adesso una coscienza sta crescendo. Io credo che ci vorrà del tempo e purtroppo devo dirvi che la coscienza cresce a livello di giornalisti, cresce poco a livello di vertici e gerarchie giornalistiche, perché c’è ancora questa idea che sbattere il mostro in prima pagina faccia vendere più copie, anche se assolutamente non è vero, non paga nemmeno questo, tant’è che i quotidiani italiani nell’ultimo decennio hanno perso un milione di copie, e forse bisognerebbe analizzare meglio le cause di questo calo di vendite. È comunque innegabile che abbiamo perso credibilità, abbiamo perso autorevolezza, e la gente, che non è stupida, non ci compra.

Paolo Moresco: Sì, ma la cosa più scandalosa è la televisione, quando nel pomeriggio ti mescolano la cronaca nera, fatta male, in modo strappalacrime e stupido, con quella che sculetta, è lì che secondo me i giornalisti dovrebbero intervenire, perché è un uso un po’ bastardo della professione.

Maurizio Paglialunga: Ma ormai non si sa più, a livello di televisione, cos’è giornalismo e cos’è intrattenimento, perché ci sono giornalisti che fanno intrattenimento e “non giornalisti” che fanno trasmissioni di informazione.

Marino Occhipinti: Vorrei tornare però alla questione della privacy. Se io vengo arrestato oggi, la mia fotografia, i miei dati e probabilmente anche il mio indirizzo finiscono sui quotidiani, però c’è ancora la presunzione di innocenza. Ma, anche se nell’articolo c’è la formula dubitativa, “avrebbe commesso, è accusato di”, quanto è regolare, secondo il codice deontologico, pubblicare appunto le fotografie che poi vengono fornite nelle conferenze stampa dalle Forze dell’Ordine o dalla Magistratura?

Maurizio Paglialunga: Il problema della presunzione di innocenza è esploso in Italia quando è successa tangentopoli, perché finché toccava i poveri cristi non c’era, quando è toccato a quelli che contano allora è venuto fuori, e quindi si è più attenti a stare dentro alle leggi adottando un minimo di cautele: il condizionale, la formula dubitativa. La fotografia è un fatto complesso e su tutto ciò poi grava anche un diritto all’oblio, nel senso che se io vent’anni fa ho commesso un reato e dopo vent’anni faccio un incidente stradale, non è che devi riscrivere che il sottoscritto vent’anni prima aveva rubato al supermercato…

Quando invece c’è un’operazione di polizia, e vengono fuori le foto, perché li fanno scendere dalla macchina fuori dalla questura in manette, sapendo che ci sono le telecamere? Perché non fanno entrare la macchina dentro, così nessuno li riprende? È chiaro che noi giornalisti dobbiamo prenderci la nostra responsabilità, e non fare quel tipo di riprese, però i primi a voler spettacolarizzare non siamo sempre noi… quanto meno c’è un concorso di colpa, voglio dire.

Il Garante dice che le foto segnaletiche, fotografie degli arrestati e degli indagati, anche se esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle Forze dell’Ordine, o comunque acquisite lecitamente, non possono essere diffuse, se non in vista del perseguimento delle specifiche finalità, per le quali sono state originariamente raccolte: accertamento, prevenzione e repressione dei reati. Inoltre, anche nell’ipotesi di evidente ed indiscutibile necessità di diffusione di queste immagini, il diritto alla riservatezza e alla tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione.

Sicuramente, comunque, di gente in manette non puoi pubblicare foto, nemmeno fare riprese televisive, invece viene fatto anche questo. Le foto segnaletiche le dovresti acquisire lecitamente e avere un motivo di giustizia per pubblicarle. Il Garante è molto rigido, noi ad esempio riceviamo, in questi ultimi mesi, tanti pronunciamenti del Garante, quindi non è vero che non c’è difesa, quanto meno voglio dire, si crea un fastidio al giornalista o al giornale che ha sbagliato.

Graziano Scialpi: È vero che sulla privacy il grosso disastro lo fanno le televisioni, ma anche nei giornali non si scherza, ho fatto anch’io il giornalista e so cosa vuol dire quando succede un fattaccio e dopo quattro o cinque giorni arriva il capo servizio e ti dice: dobbiamo mantenere viva la storia. E tu da bravo cronista gli dici che non c’è nessuna notizia, non c’è nessuna novità, e lui ti risponde: non me ne frega niente e voglio cinquemila battute. Uno allora cosa fa? Comincia ad andare a scovare la moglie, la sorella…

Maurizio Paglialunga: Questo è purtroppo vero, guardate la vicenda di Tommy, il bambino rapito, io nei giornali ho continuato a leggere tra le righe dubbi sui genitori, che non erano supportati da nulla, se non da una necessità di continuare a scrivere di quel caso ogni giorno, per tener viva l’attenzione e riempire pagine e pagine.

Ornella Favero: Una cosa per noi sempre delicata è come ci si comporta con le lettere. Faccio un esempio: noi riceviamo lettere da altre carceri che denunciano certe situazioni, certi problemi, e non è che siamo in grado sempre di verificarne la veridicità, allora come agiscono di solito i giornali con le lettere?

Maurizio Paglialunga: Chi pubblica ha sempre la responsabilità, sulle lettere come sulle interviste. Se la lettera ha contenuti offensivi o violazioni di legge, il giornale ne risponde, quindi lì bisogna stare molto attenti. E bisogna stare attenti anche a come arriva la lettera, a come la si acquisisce, perché ci sono stati casi di giornali che hanno pubblicato lettere a firma Mario Rossi, poi Mario Rossi si è fatto vivo, dicendo: ma io non ho scritto nulla, come vi siete permessi di pubblicare una lettera con la mia firma? Ci sono anche lettere che diventano oggetto di un articolo: ad esempio, una lettera denuncia una determinata situazione e il giornalista ci lavora sopra o ci fa un’inchiesta, o interpella i diretti interessati. Ma una lettera contenente accuse generiche che potrebbero essere infondate o potrebbero essere oggetto anche di una querela, io non la pubblicherei.

Ornella Favero: Radio Radicale, per esempio, avendo una struttura solida alle spalle, le lettere dalle carceri le legge tutte, ma quando noi riceviamo una lettera che denuncia una certa condizione in un carcere, o episodi di violenza, non è semplice decidere se pubblicarla o meno.

Paolo Moresco: Parliamoci chiaro, in galera episodi di violenza succedono anche, però la galera è un ambiente dove ci sono pure mitomani, ci sono un mucchio di cose che poi si rivelano non vere. La galera è un ambiente a circuito chiuso, per cui tutti i fenomeni che ci sono fuori, qui vengono amplificati…

Maurizio Paglialunga: Io farei una cosa al posto vostro, nell’ambito del giornale raccoglierei tutte le denunce sulla situazione generale e darei poco spazio però agli sfoghi personali, perché è chiaro che uno può avere una visione alterata della realtà. Però se c’è una protesta per esempio per la qualità del cibo va bene, perché no, io raccolgo la denuncia dei detenuti di Padova che dicono che mangiano male, poi la direzione dirà che invece è il Grand Hotel e dopo vediamo… perché no, voglio dire, è il balletto delle parti che consente ai detenuti, secondo me, di riconoscersi nel giornale che tutto sommato raccoglie anche le segnalazioni di quello che non va, poi se c’è intelligenza dall’altra parte si capisce anche che le lamentele possono essere un modo di apprendere cosa non funziona.

Certo lasciamo perdere il caso vostro, che è troppo particolare, ma un giornale è contropotere, deve dare fastidio, oggi in Italia i giornali danno poco fastidio, ma invece si dovrebbe disturbare il manovratore, avere un ruolo di controllo. In Italia se fai una domanda al politico di turno che viene ritenuta sgradevole, ti prende a parole e se ne va, al Presidente degli Stati Uniti tu gli puoi anche chiedere “Ma è vero che lei ieri sera l’hanno vista a cena con la segretaria in atteggiamento intimo?”, e lui resta inchiodato sulla sedia e cerca di rispondere, non si sognerebbe mai di aggredire il giornalista, ma questo secondo me è ancora una volta un problema nostro di credibilità, di autorevolezza.

Ornella Favero: Però quando tu dici giustamente che un giornalista dovrebbe dare fastidio, il nostro problema è che qui se un giorno decidono di trasferirmi tre persone, uno che mi impagina il giornale, l’altro che scrive e il terzo che mi fa le vignette, io il giornale lo chiudo. In fondo è per questo che chiediamo che l’Ordine ci tuteli un po’.

Maurizio Paglialunga: Secondo me voi dovete cercare in tutti i modi di non entrare troppo in conflitto con l’istituzione, perché non c’è un rapporto paritario, non ci può essere. Io infatti più che fare un giornale di denuncia, racconterei storie, come ho visto fate già per altro, perché a farne un giornale di mera denuncia delle disfunzioni, secondo me potreste produrre un numero al giorno con quello che succede nelle carceri, ma poi rischia di diventare anche controproducente.

Ornella Favero: C’è un’altra questione che ci interessa, e riguarda il “diritto all’oblio” delle persone private della libertà. Faccio un esempio: un giorno è venuta in redazione una giornalista di un importante quotidiano, che doveva scrivere un articolo su Ristretti Orizzonti, e poi è andata a vedersi nell’archivio del suo giornale nomi e cognomi delle persone che sono intervenute durante l’incontro e nell’articolo ha aggiunto, in un contesto che non c’entrava nulla, la “qualifica” di ognuno: questo è dentro per omicidio, quell’altro per rapina… ma non si può fare nulla in questi casi?

Maurizio Paglialunga: L’Ordine ha la funzione di magistratura della professione, quindi, se ci arriva una segnalazione si apre un procedimento disciplinare, una specie di processo vero e proprio in cui il giornalista può venire assistito da un avvocato, si fa tutta un’istruttoria, alla fine si emette un giudizio, che può essere avvertimento, censura, sospensione dalla professione o radiazione. Allora il problema qual è, che i procedimenti sono di primo grado, secondo grado, voi lo sapete meglio di me, dopo anni magari adesso va tutto in prescrizione, quindi servirebbe un giudizio più rapido. L’altro tema che è stato sollevato a livello di Ordine dei Giornalisti è la difficoltà di assumere un ruolo di terzietà del giudice, nel senso che io potrei trovarmi a giudicare, come presidente dell’Ordine, un collega che mi lavora a fianco e che è il mio più caro amico magari. Allora per me sarebbe più facile giudicare i giornalisti dell’Emilia Romagna piuttosto che quelli del Veneto, invece la legge impone questo, quindi tu rischi di non essere sereno nel giudizio. Però ciò non toglie, che ad esempio noi comminiamo diversi avvertimenti, censure, adesso abbiamo un caso che rischia di arrivare alla radiazione addirittura, perché sta reiterando comportamenti non corretti.

Noi cerchiamo di fare tanta prevenzione, convochiamo i colleghi, gli scriviamo, gli ricordiamo quali sono le norme continuamente. Ma è davvero una battaglia senza soste.

Marino Occhipinti: Per finire, pensi che abbia senso promuovere una “Carta di Padova”, su modello di quella di Treviso, per la tutela della privacy delle persone private della libertà e dei loro famigliari?

Maurizio Paglialunga: Noi la nuova Carta la appoggiamo, la Carta di Padova se così si chiamerà, l’appoggiamo e la sosteniamo assieme alla Federazione della Stampa, che è il sindacato dei giornalisti, ma il problema che mi pongo io, come presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto, e che si pone l’Ordine, è riuscire a farla rispettare, perché le regole è bene raccoglierle e dar loro rilievo in un convegno, però già le abbiamo, e certe regole non sono rispettate. Le foto in manette, e quello di cui si è parlato finora, sono cose all’ordine del giorno, allora per far rispettare queste regole noi prima di tutto dobbiamo sensibilizzare i nostri colleghi, dobbiamo fargli capire il perché delle regole, convincerli che sono buone regole, poi semmai anche reprimere. Ma io non vi nego però che in determinate circostanze, in presenza di fatti particolarmente efferati, quando la gente telefona in redazione e dice: “Quello ha ammazzato il bambino, se lo prendete scrivete che devono metterlo dentro e buttare la chiave”, anche molti di noi la pensano così, molti di noi giornalisti, ed è questo che viene cavalcato spesso dalla stampa. Allora il problema nostro è sì applicare le regole e quindi reprimere chi non lo fa, e per questo l’Ordine dei Giornalisti laddove le regole vengono violate deve intervenire, però è anche far sì che tra i miei colleghi, tra di noi, passi una cultura nuova e diversa, perché altrimenti non ne veniamo a capo.

La gran parte di noi giornalisti ritiene che si può sempre scrivere di tutto, e basta vedere quello che pubblicano i giornali. Recentemente su un giornale del Veneto è stata pubblicata non solo la notizia, ma anche la foto della figlia suicida di un noto personaggio della malavita: ma che senso ha avuto pubblicare quella foto? Lo scontro che è avvenuto in redazione con i vertici giornalistici che l’avevano deciso, è rimasto irrisolto, perché chi era convinto che quella andava pubblicata, il direttore in testa, ha pubblicato la foto, che era anche, oltre tutto, una foto raccapricciante, perché quando uno si butta dalla finestra non è che arriva poi giù di sotto integro, quindi non aveva nessun senso e non aggiungeva nulla alla notizia pubblicare quella foto, eppure è stata pubblicata. Se noi non riusciamo a promuovere una cultura nuova, non risolveremo mai questo problema.

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