Danilo De Biasio

 

Società senza informazione

I media, i diritti e gli esclusi

Venerdì 21 giugno 2002 - Milano

Danilo De Biasio, di Radio Popolare

 

Io non so rispondere alle due domande che sono state fatte, cioè se sono possibili più sinergie, diciamo così, tra gli organi d’informazione che sono qua. Mi piacerebbe, però so che è molto difficile, io so che posso rispondere dicendo che probabilmente c’è poco che lega ciascuno di noi, se non i lettori. Vale a dire, noi forse abbiamo dei problemi a collaborare tra noi, ma sicuramente i lettori (in questo caso gli ascoltatori) sono meno rigidi, leggono contemporaneamente più giornali e ascoltano anche la radio.

Una volta avevo cercato di capire quanti emarginati ci fossero nella nostra società, avevo calcolato che c’erano i bambini, i carcerati, gli anziani, gli emigranti, poi mi sono ricordato che c’era un problema anche per gli adolescenti, i depressi, i cassaintegrati. Io non credo di essere un provocatore, dicendo che questo è un elenco che potrebbe continuare, perché temo che il virus dell’esclusione sia sempre più esteso.

Radio Popolare è nata negli anni ‘70, per cercare di tenere assieme, di fare dialogare il movimento studentesco con il movimento operaio, perché questi due "blocchi" sociali (chiamiamoli così) erano malvisti da tutti gli organi d’informazione. Noi stessi, in questo momento, ammettiamo che è impreciso parlare di movimento operaio o movimento studentesco nel 2002, perché lì dentro ci sono tante scomposizioni e, tra l’altro, cominciavo a temere che il lavoratore che riceve uno stipendio sia, tutto sommato, un privilegiato, altro che un escluso, visto che ci sono i precari, ci sono i ragazzini cinesi che cuciono le borse, invece di andare a scuola.

Quindi, forse la prima risposta si può dare adesso è che, certo, indaghiamo nel reale e ci accorgiamo delle tante diversità, ma rendiamoci anche conto che probabilmente esistono delle problematiche comuni, ma direi anche degli avversari comuni e, già accorgersi di questo, è qualcosa d’importante.

Faccio due esempi, per motivi di tempo. Gli stranieri: occuparsi di stranieri è facile, adesso. Posso usarla come medaglia, ma nel 1980 abbiamo inventato una trasmissione in arabo, nel 1986, assieme a C.G.I.L. e U.I.L. abbiamo inventato Extrafesta. Però è anche vero che, nel 1990, dieci anni dopo, l’inventore della trasmissione disse che non si doveva più fare, cioè si rese conto che una trasmissione in arabo era sicuramente una priorità estremamente importante nel 1980, ma era diventata un incubo nel 1990, per un motivo molto semplice, banale se vogliamo, che era quello della lingua, vale a dire che il grosso dell’emigrazione araba aveva iniziato a parlare in italiano.

Nel 1997 - 98 se non sbaglio, la Rai ha commissionato un’inchiesta per sapere come gli stranieri seguono i giornali, la radio, le televisioni e ha scoperto una cosa che è facilmente prevedibile (a parte che Radio Popolare era la più ascoltata in Lombardia dai lavoratori stranieri), che non aveva senso fare una programmazione di tipo particolare per gli stranieri.

Uno dei sociologi che hanno lavorato a questa inchiesta, che si chiama Stefano Lanzi, ha scritto un libro, assieme ad altri, nel quale lui diceva che nella programmazione radio televisiva bisogna fare come nella vita, dove con gli emigrati si condivide il mondo della quotidianità.

Tanto più che le interviste dimostrano che i loro gusti non sono diversi dai nostri: passano molto tempo davanti alla TV, seguono soprattutto i telegiornali e il calcio, come si è dimostrato in questi giorni, usano l’italiano come lingua franca e il plurilinguismo è quello che probabilmente sarà anche il nostro futuro… Ora ci siamo inventati una trasmissione che segue i mondiali di calcio con i radiocronisti che parlano con la lingua della nazionale che è in campo: è un divertimento, lo ammettiamo, lo abbiamo fatto anche per questo, però ci ha permesso di scoprire quello che è la quotidianità di cui parlava Stefano Lanzi. È un lento lavoro di distruzione dei luoghi comuni, perché ci rendiamo conto che il nostro vicino di casa è un coreano e vede la nostra partita.

Carcere: anche qui una medaglia. Nel 1981 Radio Popolare, fece Radio Due – Tre, la trasmissione dal carcere, scritta dal carcere, però la medaglia è come quella del nonno. O la lucidi, o rimane lì e non vale niente. Allora abbiamo cominciato a lavorare sul carcere, cercando di far parlare più possibile loro, i carcerati, senza l’idea del pietismo.

Andiamo in carcere a raccogliere il materiale lavorando assieme a loro, con l’idea non che si tratta d’un interesse di dame della carità… noi siamo lì per dei poverini, no! Andiamo lì perché sono effettivamente calpestati dei diritti e noi siamo lì per fare un’opera di denuncia, ma anche a raccontare quello che è l’obiettivo della pena, che dovrebbe essere quella del risarcimento, ma non lo è quasi mai.

Stanno nascendo sempre più associazioni di base che effettivamente si occupano dei problemi del carcere, superando anche questa psicosi securitaria, della quale non siamo così certi, anzi siamo quasi certi del contrario, che non ci sia lo stesso tipo di atteggiamento nell’opinione pubblica, nei nostri ascoltatori.

 

Sergio Segio

 

La discussione che abbiamo fatto stamattina, con i grandi media, ha riproposto uno scenario (che poi è quello reale), che vede una netta separazione del mondo dei grandi da quello che è rappresentato attorno a questo tavolo, quello dei piccoli. Invece l’obiettivo che dovremmo porci è quello di riuscire a creare dei ponti, costruire i percorsi possibili affinché ci siano intrecci, ci siano scambi, che tra l’altro sarebbero vantaggiosi per entrambi, non soltanto per noi che adesso stiamo qui. Purtroppo però questo è un percorso lungo che dobbiamo ancora cominciare, non so se le proposte operative che ho sentito possono essere sufficienti, di certo possono essere un tentativo, un punto di partenza.

 

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