Isabella Xodo

 

Isabella Xodo

Insegnante e volontaria nella Casa di Reclusione di Padova

 

Io sarei quella che avrebbe dovuto parlare ai cento sindaci che non ci sono. E allora non mi resta altro da fare che dirvi quello che gli scriverò, perché io gli scriverò. La prima domanda sarà questa: ma loro, da dove credono che vengano i nostri detenuti? Non sono mica nati in carcere. Il detenuto è un frutto, non è mica una cosa che abbiamo inventato noi. E su questo potremmo discutere a lungo, in tanti altri convegni. Oggi, qui, abbiamo avuto la dimostrazione che in carcere entra solo o chi ci lavora o chi, come ha detto adesso il dottor Pavarin, è diventato un apostolo. Sembra che il carcere non sia di nessun altro che nostro. Quei mille, dico mille uomini che abbiamo in via Due Palazzi, sono nostri. Ma non sono convinta completamente di questo. E allora vi dico quello che gli scriverò. Io provavo un certo disagio quando ho messo giù questo intervento, perché sapevo che la gente fa fatica ad affrontare il carcere. Perché il carcere è brutto, è maleodorante, è sconcertante.

Il carcere è, per sua natura, il luogo dove noi facciamo convogliare tutto quello che non vogliamo, tutto quello che fa male alla società, ciò di cui la società ha paura e che vuole dimenticare.
Il meccanismo è questo: mi hai offeso, mi hai tradito, mi hai vessato, mi hai violato? adesso te ne stai chiuso in carcere. chiuso! Il latino diceva conclusus che significa chiuso in un luogo circoscritto e il termine, se ben pensiamo, riporta però anche l’idea della conclusione. Noi vogliamo concludere con quello che ci ha ferito, vogliamo tenerlo fuori dalla nostra testa, dai nostri pensieri. E va bene.
Qual è la motivazione? Come ci giustifichiamo? Tutto il disagio, lo abbiamo detto tante volte, che noi ignoriamo ci lascia un senso di colpa.

Qual è l’unico disagio di fronte al quale noi possiamo alzare la nostra indifferenza senza avere un senso di colpa? Il carcere. Hanno sbagliato, pagano: è la giustizia. Un modo velocissimo per sistemare le cose, per lavarsi le mani, per imbiancare i sepolcri. Ma è proprio vero che questa è la giustizia? È questo il tipo di giustizia che noi vogliamo nel 2004? O è piuttosto una giustizia sommaria?
Allora qui dobbiamo pensarci e dobbiamo dire che tipo di civiltà vogliamo noi.
Vogliamo, perché civiltà da che cosa deriva? Deriva da civis, cittadino. Non esiste la civiltà senza i cittadini. E i cittadini quando esistono? Quando nascono le leggi. E chi ha creato lo jus, il diritto iniziale? Non era mica uno che stava pensando ai grandi ideali. Stava pensando all’uomo com’è nella sua vera natura, e cioè incline al male. E allora sono state fatte le leggi che dicevano ciò che era bene e ciò che era male, e con esse è nata la civiltà. Noi adesso dobbiamo decidere che tipo di civiltà vogliamo, se vogliamo indossare l’abito della civiltà parziale nella quale abbiamo le leggi che ci dicono ciò che è bene e ciò che è male, ciò che sta dentro e ciò che sta fuori la civiltà, o meglio ciò che sta fuori e ciò che sta dentro in carcere.

Ma allora ci chiediamo anche se così facendo perdiamo una parte dei nostri cittadini.Che civiltà è quella che nasce dai cittadini e che poi resta senza i cittadini? È un grande fallimento. È il fallimento della giustizia parziale. Poi c’è la seconda possibilità. C’è la civiltà piena, quella in cui, insieme alla legge che ci guida e ci dice ciò che è bene e ciò che è male, che ci fa da sponda per non cadere nel burrone e fornisce anche gli strumenti per andare a riprendere quelli che sono usciti, cioè abbiamo anche la cultura del recupero. Allora la nostra civiltà sarà di nuovo piena dei nostri cittadini, che non sono miei, che non sono solo del magistrato, che non sono solo del direttore, che non sono solo dei ragazzi della polizia penitenziaria, sono anche di quei sindaci che qui non ci sono.

 

 

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