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Silvano Sabbadin Sindaco di Galliera Veneta
Se
avete ancora un po’ di pazienza io cercherò di non abusare perché penso che
siate anche stanchi. Queste sono le premesse per dire che nel 2000, quando a Galliera abbiamo preso la decisione di assumere dei detenuti, è stata una decisione che, oltre che coraggiosa, quasi temeraria. E’ stata una scelta improntata più sulla conoscenza diretta dell’educatrice, Rosa De Marco, che di un progetto pensato, programmato, voluto dall’amministrazione comunale. Si trattava di un progetto di recupero, di partecipazione al processo di affrancamento e maturazione dei detenuti che assolutamente non entrava nel programma della mia amministrazione, anzi, era una problematica di cui non avevamo mai parlato. Questo
per farvi capire che le cose a volte partono solo grazie alle relazioni, agli
atti di fiducia interpersonale che si costruiscono fra amministratori e
operatori oppure con i direttori. Noi qui siamo tutti fra addetti ai lavori, a
questo punto mi sento un po’ addetto ai lavori anch’io perché da quattro
anni vengo coinvolto ripetutamente in questo argomento, insieme all’assessore
ai Servizi Sociali. Ma fuori del carcere si parla poco e quasi sempre solo male.
Non si parla bene del carcere. Questi sono gli argomenti di cui si parla del carcere. L’opinione pubblica tende a vedere il carcere come elemento di problematicità. Questo è un problema. I sentimenti più diffusi poi nella popolazione sono sentimenti di paura, di diffidenza. Questi sono gli elementi. Poi occorre anche dire, e va detto, che l’esperienza di Galliera dura da quattro anni, ma non c’è storia. Cosa sappiamo? Io posso parlare perché è andata bene, è andata bene finora a San Giorgio, è andata sicuramente bene a Padova, è andata benissimo a Limena, ma non c’è una tradizione consolidata, per cui si possa affermare che i problemi sono questi e si affrontano con queste soluzioni. Ci si ritrova a inventare qualcosa ogni volta. Non è un processo a cui uno aderisce, non esiste una bibliografia, non c’è una letteratura, non ci sono degli studi. Non c’è niente, stiamo costruendo insieme qualcosa di nuovo. La
prima domanda che uno si pone come sindaco è: ma è proprio un ruolo dell’ente
locale questo? Questo
è il dato di realtà. Noi ci troviamo ad affrontare, con minori risorse
economiche, con l’impossibilità di procedere alle assunzioni, con maggiori
problemi perché la società è molto cambiata, i sistemi sociali, familiari e
di rete tengono sempre meno, la famiglia tiene sempre meno e su questi argomenti
il primo filtro è il Comune. Quindi il Comune si domanda: ma è proprio un
problema suo? Non è un compito del Ministero? Non è un compito di qualcuno di
diverso? Prima di tutto bisogna cercare di creare un terreno favorevole. Io mi ricordo, e mi viene anche da sorridere, la prima volta che il dottor Cantone, il precedente direttore della Casa di Reclusione, è venuto a parlare con il nostro segretario comunale, che non ne voleva sapere di stendere questa convenzione. Io ho dovuto quasi imporre al segretario comunale questo incontro, e il dottor Cantone, con un intuito fantastico, ha detto "vengo io a spiegarvelo, perché se no quello non ci arriva mai a Padova. Vengo io a Galliera e glielo spiego". E sono stati lì due ore e mezza. Per fortuna poi avevano insieme dei trascorsi siciliani, per cui hanno trovato anche un momento di affabilità,che ha consentito di vincere le resistenze dei funzionari. Poi si è trattato di vincere le resistenze dei dipendenti con i quali questi detenuti devono lavorare insieme. Ma voi vi immaginate le domande che si pongono: ma proprio a me lo metti? Cosa devo fare io? E se poi succede questa cosa? Se poi fa quell’altra cosa? Ma io lo devo controllare? E che responsabilità ho? E se ha qualche altro problema di ordine sanitario? Quindi
preparare questo terreno è un’opera che noi abbiamo dovuto fare al nostro
interno prima e poi nel territorio. Qui abbiamo avuto sicuramente l’aiuto
delle parrocchie, che hanno approvato questo nostro desiderio di portare avanti
questa esperienza e ci hanno un po’ favorito, creando anche un movimento di
opinione favorevole a questa esperienza. Poi abbiamo cercato di lavorare con le
associazioni, di coinvolgerle, di informarle di quello che si stava facendo e
anche chiedendo a loro una disponibilità in tal senso. Ecco, un aspetto
interessante è stato quello che, per una serie di coincidenze, i gruppi di
opposizione non hanno cavalcato questa nostra esperienza come momento di scontro
politico. Perché anche questo è un rischio, nelle piccole comunità. Perché
un conto è inserire due detenuti nel Comune di Padova, ma un conto è metterli
a Galliera, dove tutti li vedono, dove qualsiasi elemento, per quanto minimo, di
non funzionamento diventa un patrimonio di tutta la comunità, perché tutti si
conoscono. Vi assicuro che per un mese Galliera non ha parlato d’altro, all’inizio. A Limena hanno fatto un’esperienza diversa, perché lì i detenuti sono impiegati in biblioteca. Da noi sono stati più impiegati in lavori manuali, come è stato detto, di aiuto agli operatori ecologici, e poi di riqualificazione degli arredi interni dei muri del Municipio, dove hanno fatto un lavoro egregio, veramente molto bello. Ogni volta che qualcuno viene nell’ufficio e ne apprezza la bellezza, quando scopre che è stato dipinto da un detenuto rimane di stucco. Io penso che la strada passi attraverso questo lavoro proprio diretto, di contatto, di coinvolgimento degli assessori e delle assistenti sociali, e che siamo appena all’inizio. Qualche aspetto dell’intervento del dottor Boscoletto lo prendo come provocazione. Sicuramente non siamo nel percorso compiuto, ma credo che questo sia un tratto di strada, di questo percorso compiuto, che ha bisogno ancora di essere allargato, perché non credo che questo sia un patrimonio della nostra società a livello diffuso. Io credo che ci sia ancora molto da fare e lo facciano di più le piccole amministrazioni, non perché io rappresento una piccola amministrazione, lo facciano di più i contatti interpersonali che si giocano con i dipendenti comunali, a tu per tu, con la trattoria dove vanno a mangiare, col barista che gli serve il caffè e con la parrocchia che in qualche maniera lo coinvolge, cioè funziona di più questo processo che non grandi progetti, che poi ci devono anche essere, ovviamente, per dare senso e spessore a questa esperienza.
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