Sergio Segio

 

Sergio Segio

 

Non si può discutere del carcere, della necessità di una sua riforma, umanizzazione (e magari superamento) e neppure di misure alternative se, assieme e prima, non ci si pone la questione di liberare la società da una visione carcero-centrica, secondo la quale è il carcere - pur essendo la più costosa in termini economici e umani - la risposta non solo immediata ma preferibile di fronte alle contraddizioni e lacerazioni sociali.

In questi anni si è assistito a un processo solo in apparenza contraddittorio. Da un lato, la logica del carcere si è progressivamente spostata all’esterno, colonizzando il territorio, permeandolo con un insieme di apparati di controllo e con quell’economia della paura, che tanto sviluppo ha visto attorno alle politiche della cosiddetta tolleranza zero. Dall’altro, la società, una serie di problematiche sociali, è entrata in carcere, il quale è progressivamente diventato il sostituto autoritario delle politiche di welfare. Basti vedere qual è la composizione della popolazione detenuta: in quasi totalità si tratta di immigrati, tossicodipendenti, malati psichici, esclusi.

Lungi dall’essere soluzione, il carcere aggrava in realtà i problemi che pretende di voler risolvere. Tanto è vero che continua a espandersi e a riprodurre se stesso. Il numero delle persone sottoposte a misure penali è lievitato enormemente e silenziosamente in questi anni: non sono solo i 56.000 presenti in carcere in un qualsiasi giorno dell’anno o gli 85.000 ingressi annuali. Sono ben di più: 56.000 detenuti più 30.000 in affidamento, più quasi 14.000 in detenzione domiciliare, più 75.000 in attesa di misura alternativa, ai sensi della legge Simeone-Saraceni: totale quasi 175.000 persone!

Anche queste cifre ci dicono che il carcere non è una medicina, bensì la malattia. Un male da alcuni considerato inevitabile in determinate circostanze, ma che in ogni caso va ridotto al minimo e utilizzato solo per il tempo strettamente necessario.

Le misure alternative costituiscono sicuramente un male minore, ma troppo spesso risentono di una medesima logica, che è quella dell’esclusione anziché quella del passaggio pur graduale in un percorso di reinserimento. Il sistema di prescrizioni, fatto spesso di divieti irragionevoli, controlli senza senso, intralci alla vita e al lavoro, che accompagna consuetamente la fruizione della misura alternativa, è testimonianza di questa logica, che bisogna porsi il problema di  ribaltare e modificare. Ad esempio nella direzione suggerita dal cardinal Martini: occorre pensare a un’alternativa alla pena, non solo a pene alternative.

Il carcere è male e anche fabbrica di malattia: produce sofferenza psicofisica, infezioni, morti evitabili, suicidi e gesti di autolesionismo. Il carcere, infatti, continua a essere ed è principalmente una pena corporale. Il carcere è diventato niente più che un deposito di vuoti a perdere, di quelli che Nils Chistie ha efficacemente definito “nemici perfetti”, vale a dire di quei soggetti e gruppi sociali facilmente stigmatizzabili e da sempre oggetto di processi di esclusione: tossicodipendenti, immigrati, senza dimora, giovani delle periferie urbane.

Il carcere aggiunge emarginazione a emarginazione. Secondo l’Osservatorio europeo sulle droghe, mediamente il 50% dei reclusi europei consuma droghe; fino al 21% dei detenuti tossicodipendenti che assumono droghe per via iniettiva ha cominciato a farlo nel carcere stesso. Il carcere è la risposta più costosa al crimine, anche in termini economici. In Italia, circa 4.000 euro al mese per detenuto, e sono cifre sicuramente sottostimate. Anche qui, basti dire che nel bilancio dell’Amministrazione penitenziaria solo l’1,4% va sotto la voce rieducazione.

Ma il carcere è anche un business che naturalmente tende a incrementare se stesso. Anche per questo, pur aumentando il numero di coloro che beneficiano di misure alternative, non decresce il numero dei detenuti. Anzi. E si vedano le cifre sopra indicate. Di fronte al fallimento evidente delle politiche di massima penalizzazione, del carcere inteso come scorciatoia preferita per rispondere a ogni tipo di devianza, occorrerebbe il coraggio di cambiare rotta, proprio come ha fatto la Finlandia 30 anni fa: allora aveva il tasso di detenzione più alto d’Europa, oggi ha il più basso.

Una riattivazione delle misure alternative deve servire a fare uscire più persone dal carcere (e oggi non è così: delle 16.679 misure di affidamento sociale che sono state concesse nel 2003, solo 2.765 hanno riguardano persone detenute) e contribuire a farlo diventare, per davvero, l’extrema ratio. Invece, lo vediamo di nuovo in questi mesi che, come sempre, a ridosso di scadenze elettorali, cresce la demagogia e le proposte sciagurate che tendono ad ampliare ancora di più la risposta carcerizzante (vedi legge Fini sulle droghe o la proposta Cirielli in materia di recidive e attenuanti generiche. Lo stesso Cirielli e altri di An hanno presentato anche una proposta per modificare l’articolo 27 della Costituzione, al fine di rafforzare la funzione esemplare, simbolica e retributiva della pena a discapito di quella risocializzante e rieducativa).

Contrastare queste logiche di tolleranza zero (peraltro a senso unico), rinvigorire il sistema delle misure alternative, rendendole effettivamente alternative e non circuito parallelo a quello della detenzione, non deve farci dimenticare che altrettanto importante è mantenere alta l’attenzione per migliorare le condizioni di vita nelle prigioni, per chi comunque è costretto a rimanervi. E abbiamo visto che sono tanti. Perché c’è anche questo rischio: da anni parliamo di indulto, di misure alternative ma intanto la situazione nei penitenziari è peggiorata sempre di più e c’è sempre meno informazione al riguardo, perché c’è un’opacità crescente fatta da violenze, autolesionismo, negazione di diritti, rotta solo dagli sforzi delle associazioni e dei volontari.

Non se n’è accorto quasi nessuno, ma dal 18 aprile 2004 è in vigore una nuova legge (approvata in quattro e quattr’otto, in sede legislativa) voluta dal governo sulla censura: ora non solo l’autorità giudiziaria, ma anche il direttore di un carcere o un semplice agente di polizia penitenziaria potranno in certi casi controllare, limitare e trattenere la corrispondenza di tutti i detenuti per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile di tre mesi in tre mesi.

È uno dei tanti indizi del degrado della situazione e della quasi totale assenza di attenzioni e di informazioni su ciò che succede nelle carceri. Se è necessario e doveroso umanizzare la galera e modernizzare la pena, altrettanto lo è cercare di immaginare qualcosa di profondamente diverso, provare a immaginare che sia possibile una prospettiva in cui il carcere non sia il punto centrale di ogni lacerazione sociale. Liberarsi della necessità del carcere, si è detto e provato a fare anni fa.

Prospettiva che, specie in Italia e specie di questi tempi, può spaventare, apparire sovversiva. Eppure, a ben guardare non è particolarmente diversa dalle sollecitazioni sui temi della pena venute ad esempio dal cardinal Martini (“La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta”) o dal pensiero del gesuita Eugen Wiesnet, un teologo austriaco morto 20 anni fa, sul superamento della visione retributiva della sanzione penale per una “giustizia del primo passo” che, seguendo il solco profondo della Sacra Scrittura, rimetta saldamente al centro il recupero della relazione con il reo in una prospettiva di riconciliazione. Il suo libro Pena e retribuzione – La riconciliazione tradita è dedicato a un ragazzo di 19 anni che, dopo tre anni di carcere, tornato al suo villaggio si impiccò per la disperazione.

Abolire la disperazione e la disumanità della reclusione vuol dire superare la distrattamente feroce pigrizia con la quale le società non sanno immaginare un modo diverso per difendersi dal crimine. Prima o poi, sono convinto, ci si arriverà. Forse, solo allora la parola giustizia cesserà di essere una parola terribile, come l’ha definita Saveria Antiochia, madre di un poliziotto ucciso dalla mafia. Una parola e un sistema che sanno essere estremamente inflessibili con gli esclusi, i poveri, gli immigrati, i tossicodipendenti, quanto comprensivi e compiacenti con i più forti e garantiti. Parlare di misure alternative dovrebbe anche significare parlare di un’alternativa a questa giustizia e a questo carcere.

 

 

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