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Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti" L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute (La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova) Intervista
a Serafino Privitera, responsabile della formazione
"C’è un camino, una cucina, una camera da letto, una doccia: è un piccolo appartamento". Questo è il luogo dell’affettività per i detenuti nelle carceri svizzere: ne abbiamo parlato con Serafino Privitera, responsabile della formazione del personale nel carcere di Lugano.
Nel Canton Ticino gli incontri "riservati" tra i detenuti e i loro famigliari sono consentiti fin dagli anni 80. Con l’introduzione di questa possibilità avete avuto un miglioramento della vita detentiva (meno conflittualità, meno disordini nelle sezioni, meno atti di autolesionismo, etc.)? In Ticino c’è stata senz’altro un’evoluzione positiva da quando il carcere si è aperto verso l’esterno, con i "congedi ordinari", ma anche con possibilità dei "congedi interni", pensati soprattutto per gli stranieri che non hanno legami col territorio, mentre per gli svizzeri e i ticinesi è più facile ottenere i congedi ordinari e trascorrerli in famiglia. Del resto, tutti i paesi firmatari della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sono aperti a queste forme di affettività, anche se, per motivi legati alla sicurezza e all’ordine interno, è impossibile far accedere all’interno dei penitenziari, tutti i giorni, le mogli dei detenuti.
Questi "congedi ordinari" si possono ottenere con relativa facilità, da quanto ci dice…
Certo, perché la prassi è di concederli a tutti, eccetto che alle persone pericolose per la società. Nei penitenziari svizzeri gli stranieri sono l’80% anche perché gli svizzeri ed i ticinesi sono facilitati dalla legge e raramente vengono incarcerati. Uno svizzero, se commette un reato, può anche scontare la pena a casa propria, sempre che non sia pericoloso per la società.
Restituire alla società una persona migliore è un "investimento" che porta benefici per tutti: nel vostro sistema penale e penitenziario quanta importanza viene data alla cura degli affetti dei detenuti, anche mediante il sostegno alle loro famiglie (gruppi di auto - aiuto, associazioni, riunioni nelle quali vengono coinvolti i familiari, sussidi economici)? Nell’ambito dei Servizi sociali abbiamo i Servizi cantonali di aiuto familiare, che aiutano veramente la famiglia, la aiutano molto concretamente. Non so, per farle un esempio, una ragazza madre il cui marito si trova in penitenziario può fare la richiesta al Dipartimento delle opere sociali (adesso è chiamato Dipartimento della socialità e della sanità), e riceve un sussidio che può arrivare fino a 3.400 franchi, che sono circa quattro milioni delle vecchie lire, quindi 2.000 euro.
La maggiore attenzione dedicata al mantenimento dei rapporti affettivi avrà certamente fatto sì che le famiglie si disgreghino più difficilmente, ma avete riscontrato dei risultati positivi anche in termini di diminuzione delle recidive? Sì, questo lo abbiamo notato soprattutto negli ultimi dieci anni, da quando abbiamo dato queste possibilità ulteriori di contatto con le famiglie. Ripeto, i congedi interni sono pensati per gli stranieri espulsi, abbiamo già superato il problema di dover agevolare i detenuti svizzeri perché questi hanno la possibilità di ottenere i congedi ordinari, quindi escono dal carcere e vanno a casa loro.
Se la famiglia rimane più unita, così da sostenere meglio il detenuto, lo responsabilizza anche, in un certo senso…
Certo. In questo senso il Consiglio federale ci ha dato la possibilità (non solo nel Ticino ma anche in altri quattro cantoni) di sperimentare la carcerazione domiciliare con l’utilizzo del braccialetto elettronico e, finora, questa è un’operazione riuscitissima. I condannati che hanno una pena massima di sei mesi la scontano con questo braccialetto elettronico, che è della grandezza di un orologio. Poi abbiamo una pena che i francesi chiamano la semi-detenzione e le pene fino ad un anno possono essere scontate in questa forma: il condannato di giorno va a lavorare, mentre di sera rientra in strutture di detenzione aperte, che si trovano all’esterno del corpo principale del penitenziario.
In Italia l’ipotesi di permettere l’affettività in carcere è per lo più trattata con ironia dai mezzi di comunicazione: la definizione di "stanze del sesso" viene spesso utilizzata per suscitare scandalo e non si pensa alle reali intenzioni di una misura che dovrebbe veramente rendere rieducativa la pena. In Svizzera, cosa succede? Qual è l’atteggiamento dei "media" di fronte al tema all’affettività per i detenuti? È pienamente accettata, è una cosa normale e se ne parla senza alcuna ironia, o malizia. Noi abbiamo, di solito, una comunità detenuta che oscilla tra le cento e le centotrenta presenze, anche se attualmente c’è stato un calo e abbiamo circa novanta persone recluse. È quasi una famiglia, ci si conosce tutti e l’affettività è accettata da tutti senza problemi, non ho mai riscontrato nessuna ironia su di essa.
Ed il personale di custodia che atteggiamento ha? È stato adeguatamente formato e sensibilizzato su questo argomento? Questa questione è accettata anche da parte del personale. Il personale lo formiamo direttamente nell’istituto, con un corso della durata di un anno: sei mesi di teoria e sei mesi di pratica. Durante i sei mesi di teoria vengono impartite lezioni sulla cultura carceraria in generale, quindi anche sulla conoscenza e accettazione di queste forme di recupero sociale ed anche affettivo; ma il personale deve accettarle anche perché sono previste, da una legge e da un regolamento interno. All’inizio, è chiaro, si era un po’ titubanti ma poi, col passare degli anni, è diventata normalità.
Quanta discrezionalità ha, il direttore, nell’autorizzare o meno i congedi interni, visto che nel vostro regolamento si dice che vengono concessi "nei limiti del possibile"? "Nei limiti del possibile", appunto, i congedi interni vengono concessi a tutti i detenuti che ne hanno diritto. Di regola si svolgono in una casetta, situata all’esterno del perimetro di alta sicurezza ma comunque annessa al penitenziario.
Come sono fatte queste "casette"? Si tiene conto del rispetto della privacy, soprattutto per i familiari che vi accedono? Certo, per forza! Il detenuto viene accompagnato, con una macchina dello stato, all’esterno del perimetro di alta sicurezza e, quindi, alla casetta. Se vuole può consumare il pasto del penitenziario, oppure la moglie può portare dall’esterno i cibi e cucinarli all’interno della casetta. C’è un camino, una cucina, una camera da letto, una doccia: è un piccolo appartamento. Naturalmente c’è un agente, addetto alla sorveglianza, ma deve stare ad almeno quindici metri dalla struttura, quindi non vede all’interno, loro sono completamente soli. Però questi incontri non sono pensati soltanto per avere dei rapporti intimi, ma più in generale per tenere saldi gli affetti. Possono arrivare i figli e, quindi, mangiare insieme al papà: in particolare questa è un’esperienza estremamente positiva, tanto è vero che è molto richiesta.
Le
richieste dei detenuti (che ne hanno diritto) possono essere sempre soddisfatte
o esistono problemi di accesso alla casetta per l’eccessivo numero di
richiedenti? Inoltre chi fa la richiesta deve aver scontato almeno due anni, oppure, a discrezione del direttore, almeno diciotto mesi. È chiaro che il direttore esercita questa discrezionalità, per il periodo di carcerazione dei sei mesi, e solo in questo arco di tempo l’ottenimento dei congedi è legato al comportamento del detenuto.
Le istituzioni del Canton Ticino promuovono interventi sul territorio per favorire il reinserimento dei detenuti? Dopo la remissione in libertà, che ruolo hanno i servizi sociali? Esiste un’interazione tra "pubblico" e "privato", ad esempio con la creazione ed il coinvolgimento delle cooperative sociali? Provvede principalmente lo Stato, attraverso l’Ufficio di patronato, che si incarica anche di aprire strutture e servizi al di fuori del penitenziario per dare lavoro agli ex detenuti. Però ci sono anche altri servizi, di tipo privato o promossi dal volontariato.
Intervista a cura di Marino Occhipinti
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