Intervista a Massimiliano De Somma

 

Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti"

L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute

(La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova)

Intervista a Massimiliano De Somma

psicologo, volontario nell’O.P.G. di Aversa

 

A noi detenuti l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario fa paura, a torto o a ragione. A volte succede anche di rifiutare la visita dallo psichiatra, nel timore che ci riscontri qualche problema e ci invii "in osservazione" all’OPG. Per quella che è la sua esperienza, queste apprensioni sono giustificate? L’OPG è un luogo nel quale è possibile avere delle cure efficaci, oppure dove le malattie mentali si aggravano e cronicizzano?
L’attuale regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), all’art 112 sull’accertamento delle infermità psichiche, recita: "
… L’accertamento è espletato nel medesimo istituto in cui il soggetto di trova o, in caso di insufficienza di quel servizio diagnostico, in altro istituto della medesima categoria.

L’autorità giudiziaria che procede o il magistrato di sorveglianza possono, per particolari motivi, disporre che l’accertamento sia svolto presso un ospedale psichiatrico giudiziario, una casa di cura e custodia o in un istituto o sezione per infermi o minorati psichici, ovvero presso un ospedale civile. Il soggetto non può comunque permanere in osservazione per un periodo superiore ai trenta giorni. All’esito dell’accertamento, l’autorità giudiziaria che procede od il magistrato di sorveglianza, ove non adotti uno dei provvedimenti previsti dagli articoli 148, 206 e 212, secondo comma, del codice di procedura penale o degli articoli 70, 71 e 72 del codice di procedura penale e del comma 4 dell’art. 111 del presente regolamento, dispone il rientro nell’Istituto di provenienza."

I detenuti inviati in osservazione presso gli opg, sono persone detenute o in attesa di processo, che hanno manifestato delle turbe psichiche. L’osservazione si conclude, dopo un tempo massimo di trenta giorni, con una relazione medica che può negare o convalidare l’esistenza del disturbo. A seconda del provvedimento che ne segue, il soggetto rientra o meno in carcere. Questa categoria ha fornito negli anni uno dei maggiori contributi quantitativi alla popolazione manicomiale-giudiziaria. Per l’invio in osservazione psichiatrica dal carcere al manicomio è sufficiente che un medico del carcere rediga un certificato con la generica diagnosi di "agitazione psicomotoria" o "alienazione mentale", perché il trasferimento si attui immediatamente. Questo accade non solo quando il detenuto manifesta reali segni di patologia psichica, ma anche in caso di tensioni o insofferenze per situazioni intollerabili all’interno del carcere, ad esempio con uno dei tanti gesti di protesta: ledersi le vene dei polsi con oggetti taglienti, ingerire corpi estranei, barricarsi in cella ed altri.

In alcuni casi, invece, è lo stesso detenuto che provoca il suo temporaneo trasferimento da un carcere lontano ad un Ospedale psichiatrico giudiziario più vicino al luogo di residenza dei familiari, per poter essere visitato frequentemente. Si verifica inoltre, che il detenuto non tollerante del regime carcerario troppo duro, si fa mandare in Manicomio giudiziario, procurandosi delle lesioni, con la segreta speranza di essere trasferito dopo l’osservazione, in un carcere migliore.

Il pericolo più grosso si ha riguardo al tentativo degli autori di gravi reati di farsi credere "pazzi". Il metodo usato a questo scopo è la simulazione di comportamenti abnormi.

Una ricerca effettuata proprio presso il nostro opg, ha rilevato, attraverso un elaborazione statistica del fenomeno delle osservazioni psichiatriche effettuate dal 1991 al 2000, dati sconcertanti che hanno aperto porte a numerosi dubbi e svariate ipotesi, ma soprattutto ha offerto interessanti spunti di riflessione, derivanti dalle affermazioni di una grande maggioranza di detenuti (inviati in osservazione), che dichiarava durante il primo e i successivi colloqui, di non comprendere il motivo del loro trasferimento, di sentirsi sani, di non voler simulare alcun tipo di "follia", di voler ritornare nel carcere di provenienza, e di essere stati inviati in osservazione a seguito di un banale litigio con un compagno di cella.

Dal grafico che potete vedere con questo collegamento risulta evidente come il fenomeno, osservato negli anni, ma soprattutto nei mesi, si acutizzi all’avvicinarsi dei periodi festivi natalizi ed estivi.

L’ipotesi è dunque che, a causa del sovraffollamento delle carceri, ma soprattutto in relazione ad una minore presenza di personale penitenziario nei periodi festivi, si tenda a "disfarsi" per un po’ di quei soggetti "fastidiosi" per il buon equilibrio dell’istituto.

Naturalmente questa è solo una ipotesi, tutta da verificare, ma i grafici collegati ai seguenti link, indicanti i motivi dell’invio in osservazione in opg e le relative diagnosi operate dagli psichiatri ad osservazione conclusa, parlano da sole.

Nella categoria "Missing" abbiamo per l’appunto raccolto il numero dei casi in cui mancava qualsiasi tipo di indicazione e motivazione di invio, o anche quando risultava impossibile risalirvi.

Con "Disturbi dell’alimentazione" e "Comportamenti autolesionistici" sono state etichettate categorie di motivazioni di tipo comportamentale. Alla prima appartiene quasi esclusivamente il fenomeno dello sciopero della fame e comunque del rifiuto del cibo o dell’acqua; alla seconda il fenomeno dell’autolesionismo realizzato per lo più con ferite da taglio.

I dati descritti con le categorie di "Disturbi di personalità", "Disturbi psicotici" e "Disturbi depressivi" strettamente più di tipo psichiatrico, raccolgono sia vere e proprie diagnosi di invio, sia fenomeni comportamentali descritti con frasi del tipo: "… il soggetto dichiara di sentire delle voci provenienti dagli oggetti …" oppure "… Il soggetto presenta turbe comportamentali di tipo antisociale …" e ancora "… incompatibilità marcata verso i compagni di cella …" ecc.

Infine, nella categoria "Altro", effettivamente generica ma necessaria, sono state raccolte motivazioni improprie, illogiche, non comprensibili e comunque non accorpabili alle precedenti.

L’ultimo istogramma rappresenta i dati raccolti ed elaborati circa gli esiti diagnostici e quindi giuridici, nel caso di effettivo riscontro di necessità di ricovero in O.P.G. e quindi di applicazione dell’art.148 c.p., formulati dagli psichiatri di questo istituto, trascorsi i 30 giorni di osservazione psichiatrica in loco.

Sotto l’etichetta "Nulla di rilevante" sono stati accorpati casi in cui effettivamente non è stato riscontrato, neanche lontanamente, alcun disturbo mentale, tale da ritenere addirittura superfluo e paradossale l’invio del detenuto in osservazione.

Nelle categorie "Disturbi di personalità", "Disturbi psicotici compatibili" e "Disturbi depressivi compatibili", sono stati raccolti i dati riguardanti esiti diagnostici in cui è stata effettivamente individuata o riconosciuta una patologia mentale in atto, ritenuta altresì compatibile col sistema carcerario ed affrontabile in loco. A tal proposito ricordiamo che in tutte le case circondariali e i centri penitenziari è prevista la presenza di medici, medici psichiatri, psicologi, infermieri e di personale e strutture sanitarie, capaci di far fronte a lievi problemi di tipo psichiatrico.

Infine, solo in 61 su 667 casi ("Disturbi psicotici non compatibili" + "Disturbi depressivi non compatibili), i soggetti osservati sono stati ritenuti gravemente compromessi e bisognosi quindi di trasferimento e cure in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario.

Se mi sono soffermato a lungo su questa risposta, è stato proprio per tranquillizzare riguardo alla paura di finire in osservazione in opg, e di restarvi. Come si può vedere dall’ultima tabella, solo una piccolissima percentuale di detenuti risulta effettivamente bisognosa di cure attuabili in una struttura psichiatrica "altamente specializzata" come gli opg. L’equipe di psichiatri operante nell’opg di Aversa, benché a parcella, dedica molto tempo e molta attenzione alle "osservazioni psichiatriche" che devono essere effettuate con estrema cura, cercando soprattutto di evidenziare gli eventuali casi di simulazione o dissimulazione di malattia mentale. Ciò, comunque, ruba molto tempo al lavoro che bisognerebbe dedicare invece agli internati definitivi, al loro recupero e trattamento, alla loro terapia, individuale e di gruppo. E qui rispondo alla seconda parte della domanda. Gli opg, ed in particolare quello di Aversa, da tempo si sforzano di effettuare cure efficaci dal punto di vista della farmacoterapia, necessaria ad affrontare l’emergenza sintomatica dei disturbi mentali. Purtroppo questa non basta. Il farmaco da solo non può guarire disturbi gravi come la schizofrenia, malattia mentale maggiormente diffusa e presente. Gli antipsicotici sono rimedi sintomatici, che, in maniera egregia e sicuramente valida, attenuano tutti quei fenomeni allucinativi e deliranti presenti ed alimentati dalla malattia, ma solo raramente, da soli, portano alla guarigione totale del soggetto. Occorre, e in questo senso l’opg di Aversa sta attuando grossissimi sforzi, una maggiore sanitarizzazione che necessariamente significa una minore reclusione. Ma anche un maggiore e migliore trattamento terapeutico che passi attraverso l’osservazione psicologica e della personalità di ogni singolo individuo onde attuare trattamenti riabilitativi e psicoterapici (insieme alla famiglia di appartenenza, li dove possibile, secondo una visione sistemico-relazionale) personalizzati e protratti nel tempo, prima, durante e dopo l’applicazione della misura di sicurezza.

Il personale sanitario e parasanitario, nonché specialistico nell’ambito della riabilitazione psichiatrica e psicologica, oltre che sociale e familiare, è carente. L’attuale organico, soprattutto per quanto riguarda gli psicologi, o meglio i cosiddetti ex articolo 80, è insufficiente, e tutte le attività trattamentali e terapeutiche realizzate da alcuni anni in questo istituto, sono rese possibili grazie all’apporto di un volontariato specialistico, fatto soprattutto di psicologi, musicoterapeuti, ecc. senza i quali la maggior parte delle attività sarebbe irrealizzabile.

In un’ottica di maggiore sanitarizzazione, la direzione dell’opg di Aversa ha ultimamente necessariamente dovuto attuare alcuni protocolli di intesa con le ASL territoriali (in realtà una forzatura di quello che gia dovrebbe accadere normalmente), affinché queste si occupino e preoccupino dei propri internati di relativa appartenenza, durante ma soprattutto dopo l’attuazione della misura di sicurezza.

Per concludere, vorrei ancora una volta rassicurare, dicendo che la cronicizzazione e l’aggravamento dei disturbi mentali in opg è un fenomeno relativamente basso o comunque presente solo in quei soggetti sui quali sarebbero necessarie cure di altissima specializzazione, impossibili allo stato attuale, per carenza di investimenti, di organico, di personale, di luoghi, spazi e tempi necessari, e soprattutto per il mandato sociale attribuito e richiesto all’istituzione che è quello di sicurezza sociale nei riguardi di un grosso numero di soggetti che invece pericolosi non sono e che potrebbero benissimo essere curati fuori, ma che tolgono risorse ed energie a chi veramente avrebbe bisogno di cure speciali.

Sono passati più di vent’anni da quando la legge Basaglia dispose la chiusura dei manicomi, ma ancora oggi gli OPG sono, a tutti gli effetti, dei manicomi, sopravvissuti allo smantellamento del sistema di strutture che erano adibite all’internamento dei malati di mente. Non ci sono davvero delle alternative, almeno per le persone che non rappresentano un grande pericolo per la società?
A questa domanda ho in parte risposto con la precedente. L’opg non a caso non è stato toccato dalla 180 o da altre leggi del contesto sanitario, ma nel contempo non è stato trasformato neanche da leggi che riguardavano l’ambito penitenziario, per restare, probabilmente, ciò per cui era stato creato, un luogo, un contenitore, in cui gettare individui di cui la società non sa che farsene. È vero, una percentuale, seppur minima, di soggetti reclusi in opg è effettivamente pericolosa, per se stessi, per gli altri e per la società esterna, ma una grandissima percentuale di malati di mente attualmente presente in istituto, potrebbe benissimo essere seguita, curata e guarita fuori, sul territorio di appartenenza, nelle ASL, negli SPDC, nei DSM o a casa propria, con cure domiciliari. Ma anche il sistema sanitario arranca in questo senso, e perciò, io credo, l’opg rappresenta anche e soprattutto il fallimento di questo e della società che non riesce a risolvere il grave problema della malattia mentale. La recentissima proposta del Ministro Sirchia mi sembra buona. Il problema va affrontato alla radice, incominciando ad attuare una prevenzione prima che il malato di mente si trasformi, suo malgrado, in reo. L’istituzione di servizi domiciliari nei territori maggiormente a rischio sarà attuabile ed efficace solo previo un reclutamento ed una specialistica formazione di operatori capaci e motivati, affinché la malattia e il disagio mentale possano essere studiati ed affrontati direttamente in loco. La malattia mentale, pur essendo una malattia come le altre, viene affrontata dal sofferente psichico, e dai suoi familiari, in maniera del tutto differente da quelle di tipo fisico. Per una mal di denti o un mal di testa si corre dallo specialista, si chiede aiuto, si auspica e si pretende una rapida e definitiva guarigione. La malattia della psiche, invece, è vergognosa, va tenuta nascosta, non divulgata e mascherata. Molti dei reati commessi dai soggetti oggi internati in opg, soprattutto quelli in famiglia, potevano essere evitati o prevenuti solamente se non si fosse sottovalutata la schizofrenia manifestata nel delirio, nelle allucinazioni e nelle minacce, nascoste per vergogna.

Una delle maggiori difficoltà, per il reinserimento delle persone internate, è costituito dal rifiuto dei famigliari a riaccoglierle, in caso di dimissione dall’istituto. Ma esistono delle iniziative che coinvolgano le famiglie in un percorso di "nuova conoscenza", di riavvicinamento al loro congiunto internato? Esistono altre soluzioni, a parte il ritorno in famiglia, che possono permettere agli internati di lasciare l’istituto e di essere accolte in un ambiente "protetto"?
Sarebbe davvero auspicabile poter operare in una direzione terapeutico-trattamentale di stampo sistemico-relazionale che coinvolgesse in primo piano le famiglie, il paese di appartenenza e, in senso allargato la società tutta. L’attuale regolamento penitenziario non permette una interazione familiare che vada oltre i classici colloqui, da attuare secondo le classiche modalità dettate, in primis, dal bisogno della sicurezza. Con la dicitura di "terapeutiche" sono permesse, rispetto alle normali case di reclusione, solamente alcune telefonate in più, ma riguardo a progetti terapeutici di risocializzazione e di reinserimento in famiglia, molto si dovrebbe attuare. Ecco perché sarebbe auspicabile una trasformazione ad hoc del regolamento penitenziario applicato agli opg. La sanitarizzazione di questi luoghi dovrebbe necessariamente passare attraverso uno slogan proponente "più cura e meno custodia". Diverso è il caso di quelle famiglie che non vogliono più accettare il proprio congiunto ricoverato, una volta dimesso dall’istituto. A volte proprio perché il reato è stato commesso in famiglia (ma anche qui le ricerche nel campo della vittimologia, ed in particolare sulla relazione e mediazione vittima-carnefice, potrebbero aiutare), altre volte perché per la famiglia, il congiunto recluso, è fonte di guadagno e sostentamento, li dove la sua infermità mentale totale produca una pensione di invalidità al 100% con accompagnamento, percepita dai familiari, gli stessi che, forse per ciò, avevano pensato di denunciare il congiunto (forse realmente "matterello", ma in fondo pacifico) per molestie ed aggressioni in famiglia.

Qualche mese fa uscì sui giornali una notizia secondo la quale una persona era internata in OPG da oltre 40 anni e nemmeno c’erano speranze di farla uscire. Oltre a questo caso clamoroso, che lei sappia, ce ne sono altri simili? Avete delle statistiche sulla durata degli internamenti, sulle "proroghe" dell’internamento (rispetto al tempo stabilito dai giudici), sul ritorno ad una vita "normale" delle persone dimesse?
La misura di sicurezza, proprio per la sua natura basata su un tempo minimo di applicazione e non su un fine pena certo ed improrogabile, viene definita "ergastolo bianco".

Affinché si realizzi la dimissione di un internato per revoca della MDS, sono necessarie una serie di concomitante: innanzitutto che sia scemata la pericolosità sociale dell’individuo; poi che esista un progetto di reinserimento sociale, in famiglia o in comunità; che le strutture sanitarie del territorio siano disponibili a seguire il soggetto farmacologicamente e terapeuticamente; che la società tutta, il luogo di appartenenza, il borgo, il paese del ricoverato, sia disponibile e non si opponga al rientro del folle-reo (ci sono stati anche casi in cui il sindaco del paese di residenza del ricoverato, a nome della cittadinanza tutta, abbia chiesto ed ottenuto l’espulsione del folle, perché indesiderato), ecc.

Risulta chiaro quanto sia difficile applicare la revoca della misura di sicurezza, e comunque mai prima del termine minimo (in 10 anni si è avuto un solo caso di revoca anticipata). Ciò comporta una serie, a volte infinita, di proroghe, chiamate in gergo dagli internati "stecche".

Di sei mesi in sei mesi, a volte di anno in anno, i magistrati di sorveglianza, li dove manchi anche uno solo dei requisiti sopra elencati, o comunque li dove non si prevedano ottimi risultati di reinserimento, ma soprattutto di scemata pericolosità del soggetto, si vedono costretti a prorogare la scadenza della MDS del ricoverato, che si vede effettivamente costretto a scontare gli interminabili anni di misura di sicurezza accumulati (magari inizialmente applicati nel minimo di due per un banale reato di oltraggio). L’opg di Aversa non è esente da questo fenomeno, ed anche qui risiedono soggetti, fortunatamente pochi, internati da più di 15, 20 anni.

Grazie a una ricerca statistica effettuata circa un mese fa, possiamo affermare che solo una minima percentuale di ricoverati superi anni di permanenza che vanno oltre i dieci, massimo dei minimi previsti. Alla stessa data, l’8,7 % dei ricoverati ha accumulato 1 anno oltre la misura di sicurezza minima applicata in principio; il 14,5 % ha accumulato 2 anni oltre il minimo e così via, fino alla cifra massima di 23 anni di proroghe accumulate oltre la misura di sicurezza minima applicata in principio all’1,4% dei ricoverati.

Da quel che si comprende leggendo “La storia di Nabuc”, diversi internati hanno commesso dei reati a sfondo sessuale e tutto ciò che riguarda la sessualità ritorna in maniera un po’ ossessiva nei racconti di queste persone. Per loro ci sono dei trattamenti terapeutici specifici (sul tipo del Progetto WOLF per i pedofili)?
La risposta è NO! I soggetti che commettono reati a sfondo sessuale (pedofilia, stupro, atri osceni in luogo pubblico, etc.), vengono internati in opg solo se riconosciuti incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato stesso, quindi, evidentemente, affetti da disturbi mentali più o meno gravi.

I trattamenti, soprattutto di tipo psicofarmacologico, vengono quindi realizzati, come per gli altri internati, in funzione della cura della patologia sottostante e non del reato commesso. Per quanto riguarda, invece, trattamenti di tipo psico-terapeurico, riabilitativi e risocializzanti, sicuramente di tipo più strettamente specialistico, mi devo ricollegare alla prima risposta, ribadendo la impossibilità, allo stato attuale, della loro programmazione e realizzazione.

Ribadisco che il mandato sociale dell’opg è quello della sicurezza sociale. Tutto quello che viene fatto in più per quanto riguarda la cura e la guarigione degli ospiti coatti, non è richiesto, ed è possibile solo grazie all’apporto di singoli operatori volontari e all’impegno di una direzione sanitaria, prima che amministrativa o custodialistica, che vede, fortunatamente, un direttore medico psichiatra anziché burocrate.

"La storia di Nabuc" parla esplicitamente delle pratiche omosessuali che avvengono tra gli internati. Nelle carceri c’è molto più imbarazzo ad ammettere che esistano e, probabilmente, sono meno frequenti, tuttavia il fenomeno esiste e su di esso sarebbe necessario soffermarsi, quando trattiamo temi come la tutela della salute o la negazione degli affetti. Operando in un OPG, lei si può confrontare con situazioni di disagio estreme (anche rispetto al carcere), sul piano della mancanza delle relazioni affettive e sessuali: che conseguenze provoca, a livello psichico e anche fisico?
L’incidenza dell’affettività è fondamentale soprattutto nei processi di sviluppo e di crescita dell’individuo, fin dalla prima infanzia.

Fin da questo periodo, la relazione affettiva madre-bambino risulta fondamentale per un sano accrescimento maturativo. Lì dove carente o addirittura inesistente, lo sviluppo dell’emotività, della psicomotricità e del linguaggio e quindi del comportamento sociale e dell’identità, nonché della salute mentale dell’individuo, sono compromessi.

Ne portano evidenti esempi le ricerche di noti studiosi nel campo della psicologia animale e comparata, nonché umana e sociale.

Il rapporto di Spitz sulla sindrome presentata da bambini ricoverati in brefotrofio, in una condizione di vita carente di relazioni affettive, secondo il quale, a lungo andare, lo sviluppo psicoaffettivo, motorio e comunicativo-sociale può essere seriamente compromesso se non vengono rapidamente stabilite o ripristinate profonde relazioni affettive fra il bambino e la madre (o altra figura significativa), è solo uno dei tanti che tendono a dimostrare quanto nello sviluppo della personalità, il passaggio dalla struttura organica anatomo-funzionale alla struttura psichica (cioè l’edificazione della persona) è determinato dall’organizzatore affettivo, ma soprattutto come nelle situazione di crescita in cui manchi o sia precaria una significativa relazione affettiva, vi sia uno sviluppo della personalità abnorme, patologico soprattutto in direzione antisociale.

In questa ottica, dunque, secondo la quale la privazione, soprattutto per ciò che riguarda il campo delle relazioni affettive e sessuali (e in questo secondo caso basterebbe citare Freud per riempire pagine intere sugli effetti psicofisiologici conseguenti), porta verso il disagio e la malattia mentale, qualsiasi progetto terapeutico prima, e riabilitativo poi, non può e non deve assolutamente non prendere in considerazione la necessità di lavorare sulle relazioni affettive.

Li dove, poi, in particolare negli opg, una terribile malattia mentale, quale la schizofrenia, depaupera principalmente l’affettività del soggetto colpito, che manifesta fra i sintomi principali proprio una anaffettività paralizzante e paradossale, in particolare nell’incongruenza tra situazione reale e manifestazione affettiva stessa, non si può prescindere dall’idea di incominciare a lavorare proprio da qui per innescare un’efficace processo terapeutico di guarigione.

E ancora, non si può negare l’affettività, li dove si parla di “psicosi affettive” (quali la depressione, la mania e l’alternanza di queste due forme nella ciclotimia) per indicare gravi disturbi dell’umore, cui conseguono disturbi secondari del pensiero e del comportamento in consonanza dell’affetto. 

Alcuni fra i principali ricercatori, soprattutto nel campo della psicologia sistemico-relazionale, hanno da tempo ipotizzato nelle alterazioni comunicative e relazionali affettive la causa stessa della patologia schizofrenica. Su tutti, ad esempio, l’ipotesi di Bateson, individua nel “doppio legame” una delle possibili fonti della schizofrenia: 

Doppio legame (ingl. double bind), concetto introdotto da G. Bateson per indicare un particolare tipo di comunicazione interpersonale caratterizzato da segnali incongrui e contraddittori che pongono il destinatario in una condizione di profondo dilemma. Scrive Bateson: "Noi avanziamo l’ipotesi che, ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio legame, la sua capacità di discriminazione fra tipi logici subisca un collasso. Le caratteristiche generali di questa situazione sono le seguenti: 

1) l’individuo è coinvolto in un rapporto intenso, cioè un rapporto in cui egli sente che è di importanza vitale distinguere con precisione il genere del messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in modo appropriato; 

2) e, inoltre, l’individuo si trova prigioniero di una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette allo stesso tempo messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro; 

3) e, infine, l’individuo è incapace di analizzare i messaggi che vengono emessi, alfine di migliorare le sue capacità di discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere; cioè egli non è in grado di produrre un enunciato metacomunicativo. 

Abbiamo avanzato l’ipotesi che questo sia il genere di situazione esistente tra il pre-schizofrenico e sua madre: tuttavia è una situazione che si presenta anche nei rapporti normali. Quando una persona resta intrappolata in una situazione di doppio legame. avrà reazioni di tipo difensivo, simili a quelle dello schizofrenico" (Beatson G., Verso un’ecologia della mente, 1972, Adelphi, Milano, p. 252, 1976). Il doppio legame, come figura principale della comunicazione patologica, non consentendo di cogliere la vera intenzione di un messaggio e di individuare la discrepanza tra i significati manifesti e quelli latenti, genera la convinzione che tutta la realtà sia paradossale, e un comportamento conseguente a questa paradossalità. La psicologia sistemica suppone che il comportamento schizofrenico sia determinato da un messaggio contraddittorio proveniente da un’unica fonte, generalmente la madre, ossia da un doppio legame unipolare. mentre il comportamento delinquente sarebbe caratterizzato da un doppio legame bipolare proveniente da due fonti, solitamente il padre e la madre. 

Ciò non caratterizza esclusivamente la popolazione internata, bensì anche quella detenuta, lì dove, ad esempio, sindromi quali quella di “prisonizzazione” (termine coniato da Clemmer nel 1940) sono talora presenti con forme di modificazione della personalità e con sintomi di impoverimento intellettivo, emotivo, sensoriale e dell’identità, fra le cui cause sicuramente sono da annoverare una deprivazione psichica e fisiologica, ed anche affettiva e sessuale.

La giornata di studi “Carcere: salviamo gli affetti” ha avuto lo scopo di rilanciare il dibattito sul diritto all’affettività per le persone detenute (e internate). Quali altre iniziative si potrebbero proporre? Secondo lei, chi è più necessario “convincere” perché questo diritto sia riconosciuto: gli operatori penitenziari, i politici, i magistrati, i giornalisti?
La conoscenza e la comunicazione. Credo che la conoscenza e la comunicazione possano fare molto, in tutti i campi. Bisognerebbe divulgare e far conoscere all’esterno, quanto più possibile della realtà del mondo circoscritto delle istituzioni totali. La “convinzione”, con tutte le accezioni da attribuire a questa parola, passa necessariamente attraverso questi processi. Un buon inizio potrebbe essere la divulgazione del film “fine amore mai” proiettato durante la giornata di studi. L’ho trovato geniale e di forte impatto emotivo, ed una comunicazione che passa attraverso l’emozione è sicuramente una comunicazione efficace e di facile comprensione, oltre che trasformativa. È encomiabile lo sforzo che stanno facendo, inoltre, i molteplici giornali penitenziari, ma la loro divulgazione è limitata, spesso, agli addetti ai lavori.

La società teme di conoscere una realtà di cui ha paura perché vi ha gettato la parte oscura di se stessa. Le istituzioni totali (e con questo termine intendo indicare carceri, opg, manicomi, ecc.), secondo un processo psicologico di tipo scissivo-proiettivo, sono contenitori di aggressività e follia terrificante, seno cattivo gonfio del male della società. Un processo di rimozione e repressione porta al disinteresse ed alla disinformazione per la loro realtà. Finché il male starà tutto rinchiuso lì, il resto della società sarà buono e salvo. L’apertura delle istituzioni totali all’esterno, in una permeabilità direzionale fuori-dentro, mi sembra un’altra ottima occasione di conoscenza e di trasformazione, nonostante le grosse difficoltà per attuarla, soprattutto a causa di quella solita parola d’ordine che inneggia prima di tutto alla sicurezza.

Che cosa significa parlare di “affettività” rispetto agli internati negli OPG? Che tipo di relazioni famigliari riescono a mantenere oggi e che cosa si potrebbe auspicare per migliorare le loro condizioni da questo punto di vista?
Le relazioni affettive degli internati in opg, proprio a causa della loro malattia debilitante principalmente la sfera affettiva, vanno stimolate. Mi ripeto quando sottolineo che la cura e la guarigione devono, in un’ottica che non può non essere sistemica, passare attraverso le relazioni affettive, soprattutto primarie quali quelle della famiglia. Attualmente le relazioni familiari di alcuni sono limitate a semplici colloqui, spesso deliranti e deludenti a causa delle condizioni psichiche dell’internato. Per altri sono totalmente inesistenti, essendo stati abbandonati da tutti, o a causa della lontananza dal proprio luogo di residenza.

Non dimentichiamo che, al contrario degli istituti di pena, gli opg in Italia sono solo 6 e mal distribuiti. Soprattutto i pazienti sardi sono maggiormente penalizzati, dovendo affrontare viaggi insostenibili per far visita ad un proprio congiunto internato a Napoli, ad Aversa o peggio ancora a Reggio Emilia o a Castiglione, e per di più solo per poche ore.

Anche per questo bisognerebbe pensare ad una regionalizzazione di questo tipo di istituti, così da permettere una migliore distribuzione sul territorio. La realizzazione di un opg per regione porterebbe ad una migliore distribuzione sul territorio del totale complessivo di folli-rei, con un vantaggio anche dal punto di vista sanitario e di presa in carico delle rispettive ASL di appartenenza. Inoltre, il basso numero di internati per opg che si verrebbe a creare, permetterebbe un maggiore sviluppo delle potenzialità terapeutico-trattamentali. Infine, le relazioni affettive, fondamentali nel progetto terapeutico, verrebbero favorite e potenziate e tutto ciò permetterebbe agli opg di diventare veramente alti centri di specializzazione psichiatrica, da utilizzare anche come luoghi di studi e di ricerca, così come da tempo, con innumerevoli sforzi cerca di fare l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa.

Conclusioni

Non sono d’accordo con la proposta di chiusura degli opg. Non mi è sembrata funzionale neanche quella dei manicomi (e qui rischio di gettarmi le ingiurie di molti colleghi addosso). La 180, giusta in teoria, non ha però previsto ed organizzato alternative. Il risultato è stato quello che conosciamo. Una assoluta assenza di servizi di salute mentale di ausilio ai malati dimessi ma soprattutto alle loro famiglie.

Se l’alternativa, poi, è quella di sbattere tutti in carcere, eliminando il principio della "incapacità di intendere e di volere", allora lo sono ancora meno.

Bisogna imparare a distinguere la malattia mentale dai malati di mente, e i malati vanno curati (e forse anche i delinquenti comuni). Il loro gesto criminoso è conseguenza di un disequilibrio mentale grave, che va, per quanto possibile, riequilibrato.

Io trascorro 4 giorni su 7 in una realtà di cui, mi rendo conto, fuori non se ne ha neanche una vaga idea, e dove la realtà supera la più fervida fantasia, e credetemi, è difficilissimo anche solo pensare ad un progetto per i malati cronici e gravi. Come si pensa di riuscire a gestirli se non in un luogo specializzato di cura e di ricerca? E’ difficile avvicinarli, comunicare con loro, è difficile, a volte, addirittura dare loro cure adeguate ed efficaci. Alcuni sono immuni agli psicofarmaci, assuefatti a tal punto che nulla più riesce a calmarli o ad attenuare i loro sintomi più bizzarri. Allora bisogna programmare periodi di "washout", durante i quali non viene somministrato alcun farmaco. Chiedete agli agenti di polizia penitenziaria, che tra l’altro avrebbero bisogno di una formazione mirata per operare in questi luoghi (ma questa è un’altra storia), come fanno a far ingerire una pillola ad un cronico "indemoniato" e con il vizio di "cavar occhi" e in quanti devono intervenire per evitare che, in stato di agitazione, faccia danni irreversibili a cose, a persone e a se stesso.

L’unica proposta di legge che ho trovato abbastanza valida è stata quella del Senatore Milio, che fra l’altro ipotizza l’applicazione di una misura di sicurezza minima programmata in base al tempo previsto per la guarigione del "folle-reo" e non sulla base del reato commesso (attualmente si applica un minimo di MDS di 2, 5 o 10 anni, sulla base della gravità del reato e non sulla valutazione del disturbo mentale o sulla previsione di durata della pericolosità sociale del soggetto o ancora sulla previsione dei tempi necessari alla sua cura e alla guarigione). Ma di questo potremmo tornare a parlarne prossimamente.

Il discorso della sanitarizzazione e della regionalizzazione degli opg viene, purtroppo, recepita come una trasformazione degli opg in quelli che sono stati i vecchi manicomi, con la paura di tornare a fare un passo indietro. Non credo si intenda questo quando si parla di "sanitarizzazione". Anche i vecchi manicomi avrebbero avuto bisogno di una grossa e radicale trasformazione sanitaria: tutto sono stati, fuorché luoghi di cura e guarigione.

Mi ripeto quando affermo che l’opg deve trasformarsi per affrontare con grossa specializzazione i casi limite della malattia mentale. La maggior parte dei casi attuali, quelli dei reati bagatellari e delle disfunzioni mentali acute e temporanee o comunque leggere, potrebbero benissimo essere gestiti sul territorio o domiciliarmente, ma la doppia etichetta che costoro portano appiccicata sulla fronte, quella di matti e di criminali, ne farà per sempre degli emarginati, matti, cattivi e pericolosi.

Intervista a cura di Francesco Morelli

 

 

 

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