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Padova, vittime e carnefici si incontrano in carcere Faccia a faccia tra 100 detenuti e chi ha subito i reati, da Olga D’Antona a Soffiantini di Concetto Vecchio, La Repubblica, 12 maggio 2008
Roma – Ciascun Abele, dentro di sé, ha una curiosità da soddisfare, domande che gli ballano dentro, o "una missione da compiere", per usare le parole di Olga D’Antona. Perciò alcune delle più note vittime di reati e cento detenuti – ergastolani, killer, spacciatori, rapinatori – il 23 maggio nel carcere di Padova si confronteranno sulle rispettive esistenze. È un’iniziativa probabilmente inedita in Italia, che avrà come teatro la palestra della Casa di reclusione del Due Palazzi: "Sto imparando a non odiare". L’idea è venuta a Ornella Favero, un passato in Lotta Continua, da 11 anni volontaria carceraria e direttore di "Ristretti Orizzonti", rivista confezionata da trenta detenuti, il cui sito internet ogni giorno viene cliccato da tremila persone. "Sono tempi difficili. Abbiamo impiegato un anno per organizzare questo incontro. Durante il processo credo sia impossibile ogni confronto, e dopo c’è il carcere, e le vittime spariscono". Qualcuno, come Giuseppe Soffiantini, che rimase in mano ai suoi sequestratori per otto mesi, qualche risposta l’ha già trovata e ha appena fatto pubblicare a proprie spese un libro di poesie di uno dei carcerieri, Giovanni Farina. Manlio Milani, che perse la moglie e gli amici a piazza della Loggia a Brescia, ancora no e ci andrà perché vuole "capire quel mondo". La molla di Silvia Giralucci, che aveva tre anni quando le uccisero il papà, è stata la vista di un carcerato che per la prima volta abbracciava i figli: "A quei bambini era stata inflitta la stessa punizione toccata a me: crescere senza un padre". Nessuno di loro varcherà il portone del carcere a cuor leggero. La scintilla furono le lacrime versate insieme da Olga D’Antona, moglie del giurista assassinato dalle BR nel 1999, e dai detenuti durante un colloquio collettivo avvenuto un anno fa. "Non ho una famiglia e neppure mio marito ne aveva una – raccontò la parlamentare PD – eravamo due persone sole che si erano incontrate e che rappresentavano tutto per noi, la mia famiglia era tutta lì, quindi quando mi è stato tolto questo, sono stata lasciata nel deserto affettivo". Queste parole ruppero un muro. "Per la prima volta i detenuti si misuravano con il dolore, e non con l’odio, delle vittime", racconta la Favero. "In redazione aprimmo una discussione. Il convegno è maturato così". E quindi il Due Palazzi ospiterà 500 persone: vittime, detenuti, operatori carcerari, studiosi. Tra i relatori anche Andrea Casalegno, figlio di Carlo, che ha appena scritto un libro sulla sua condizione di vittima degli anni di piombo: L’attentato (Chiarelettere), in libreria dal 15 maggio. Casalegno descrive così l’assassino di suo padre, Raffaele Fiore: "Fa finta di illudersi, oggi come allora, di aver sparato a un simbolo, perché un simbolo non ha moglie, né parenti, né amici: non sanguina, non rantola, non sente dolore". Fiore non s’è mai pentito, e Casalegno ha sempre detto di non volere mai incontrare i sicari, ma non intende sottrarsi a un dialogo generale. La D’Antona non esclude un giorno di poter creare un ponte con Nadia Desdemona Lioce e gli altri assassini del marito. "Da parte loro non c’è stato alcun ravvedimento e quindi sono i primi a non gradire un dialogo, ma se si pentissero credo che ci andrei. La mia missione è quella di impedire che la violenza prenda il sopravvento in questo paese". Non possiamo chiudere gli occhi. Il male fa parte dell’umanità, ma cosa ha spinto queste persone a uccidere?", si domanda Milani. Non sono riflessioni scontate, non di questi tempi, dove il tema della sicurezza è decisivo nel determinare le vittorie elettorali. Carlo Alberto Romano, docente di criminologia a Brescia, dice che il carcere come "modello rieducativo è fallito. Non rieduca. È solo un luogo di contenzione. La comunità esterna, volontari, istituzioni, politica, deve riappropriarsi della pena. Questo può essere un primo passo".
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