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Mozione Lucidi - Seduta n° 689 del 17.10.2005 Misure a sostegno del personale addetto agli istituti penitenziari
Presidente. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali della mozione. È iscritta a parlare l’onorevole Lucidi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00486. Ne ha facoltà.
Marcella Lucidi. Signor Presidente, colleghi, signor rappresentante del Governo, il 28 settembre scorso, mentre in piazza del Colosseo si celebrava la festa nazionale del Corpo della polizia penitenziaria, cinque sindacati rappresentativi del personale portavano davanti a Palazzo Chigi i loro iscritti - insieme ad altri operatori, assistenti sociali, educatori e personale amministrativo - per protestare contro il grave stato di decadimento del sistema penitenziario italiano. Vogliamo considerare seriamente tale malessere. Non serve ad una concreta e positiva politica carceraria marginalizzare, come ha inteso fare il ministro Castelli, la dimensione ed il merito di una protesta che ha segnalato l’esistenza di un sistema degradato. Non serve dividere le forze sindacali, come se alcune - così ha detto il ministro Castelli - siano irresponsabili e mettano a rischio, con atteggiamenti sbagliati, l’immagine della Polizia penitenziaria. La manifestazione del dissenso è, invece, espressione democratica che riguarda tutte le rappresentanze: può non piacere, ma è legittima e va ascoltata. È quanto l’Unione ha inteso fare presentando, a partire da quanto è emerso in occasione della festa nazionale del Corpo, nonché dalla richiamata protesta, la mozione che oggi discutiamo. Nel quadro complessivo della questione carceraria, abbiamo voluto portare all’attenzione del Parlamento e del Governo la condizione di disagio che, insieme ai detenuti, vivono tutti coloro che lavorano negli istituti penitenziari o che seguono i detenuti nei percorsi di reinserimento. Non possiamo trascurare che essi collaborano con lo Stato all’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione: traducono quotidianamente ciò che è sostanza inderogabile della pena, il senso di umanità, e ciò che ne è funzione, la rieducazione del condannato. Ha ragione il ministro quando sottolinea che il dettato dell’articolo 27 della Costituzione si realizza con un carcere il più possibile aperto alla società. Mi permetto di dirgli che non basta celebrare in piazza la festa del Corpo di polizia penitenziaria per garantire l’attuazione di tale obiettivo; anzi, quella festa rimane una sporadica testimonianza di presenza se non avviene dentro una politica complessivamente orientata a creare e favorire un rapporto positivo e sicuro tra carcere e società. E non è stato certamente questo il motivo ispiratore delle scelte compiute in questi anni dal ministro della giustizia: è accaduto tutt’altro! In questi anni, il carcere è apparso sempre più come il contenitore del disagio sociale estremo, il luogo dell’esclusione, della messa al bando, della recriminazione, della garanzia di un controllo sociale fondato sull’ordine, il luogo del modello negativo esemplare (così come il ministro Castelli voleva che fosse la minaccia di un’esperienza detentiva per i minorenni). Solo una riduzione del sistema carcerario alla funzione punitiva - altro che sociale! - può aver spinto il ministro Castelli, nel suo intervento alla festa della Polizia penitenziaria, a salutare con favore il tendenziale aumento del numero dei detenuti, come fosse il frutto maturo e sano di una politica che avrebbe così promosso sicurezza e certezza della pena. Il ministro ha inteso dire: "se i detenuti aumentano, significa che siamo bravi e, siccome si produce un problema di sovraffollamento, costruiremmo nuovi carceri". Questo è un sillogismo ardito, direi anche un po’ baro, perché sono pochi coloro che possono dare credito a tali argomenti e, se lo fanno, possiamo anche convincervi che non è così; infatti, se i detenuti aumentano è perché in questi anni sono state sempre più ridotte le risorse per il loro trattamento utile ad assicurare un numero adeguato di operatori che li seguisse nella attività di recupero e di reinserimento, cioè in quella attività che Franco Cordero ha definito di giurisdizione terapeutica, ossia rieducativa. C’è un’evidente impossibilità di seguire i detenuti nella predisposizione di programmi trattamentali e nell’applicazione delle misure alternative alla detenzione che provoca come effetto che il condannato resti in carcere; quindi, tutto ciò è dovuto all’insufficienza numerica degli educatori, degli psicologi e degli assistenti sociali impegnati in queste attività. Com’è possibile seguire 60 mila detenuti ristretti negli istituti penitenziari nei loro progressi o circa 53 mila condannati ammessi alle misure alternative con soli 500 educatori e mille assistenti sociali? In questi ultimi quattro anni non ci sono stati concorsi per integrare il personale: sono stati assunti assistenti sociali, in virtù di un vecchio concorso, nonché alcuni educatori e ragionieri a tempo determinato. Ci vuole coraggio a dire che tante persone stanno in carcere e che questo è un buon segno; la verità è che stanno in carcere perché non si vuole prenderle in carico e non si vuole incoraggiarne l’uscita. Ha poco senso ed è anche ipocrita mantenere scritto nel sito ufficiale del Ministero della giustizia che: "nella fase di applicazione delle misure alternative il condannato viene preso in carico dal centro dei servizi sociali per adulti che opera in stretto contatto con i servizi del territorio; l’assistente sociale realizza con l’affidato un rapporto costruttivo e partecipato in cui controllo e sostegno entrano a far parte di una azione unitaria finalizzata ad un graduale reinserimento nel contesto sociale". Ha poco senso ed è ipocrita, quando si è voluto, con una legge che la maggioranza ha difeso ed approvato, la cosiddetta legge Meduri, impoverire e burocratizzare il rapporto con il detenuto, mortificando il lavoro dei servizi di osservazione e trattamento. Voglio anche aggiungere che questa situazione non è per niente sintomatica di maggiore sicurezza per i cittadini e di certezza della pena, ovviamente quella pena che la nostra Costituzione finalizza alla rieducazione del condannato, quella che ci fa dire che la certezza non è solo un fatto temporale ma sostanziale; infatti, il problema non è tanto quanto tempo si sta in carcere, ma come ci si sta e, soprattutto, come si esce. Il tempo della pena non può esser un tempo inutile, altrimenti la pena resta in ogni caso incerta. Condividiamo le parole che il dottor Tinebra ha rivolto il 28 settembre alla Polizia penitenziaria: "Il senso della riforma dell’ordinamento penitenziario e della riforma che cambiò il Corpo degli agenti di custodia fu quello di individuare nella partecipazione della polizia penitenziaria al trattamento rieducativo uno dei punti nodali, affermando il binomio sicurezza-trattamento che è alla base della mission dell’amministrazione penitenziaria". Tinebra ha inoltre osservato che "il fine della pena è tendere alla rieducazione del condannato: la sicurezza e il trattamento non possono prescindere l’uno dall’altro". Solo così si rende veramente omaggio al motto della polizia penitenziaria: Despondere spem munus nostrum; ma tutt’altro che speranza sembra emergere dalla situazione in cui sono stati ridotti gli istituti italiani: la cifra della popolazione detenuta è allarmante. Il ministro della giustizia ha parlato di 60 mila detenuti odierni rispetto ai 45 mila del 1996 e ai 55 mila del 2001. Di questi il 30 per cento sono extracomunitari, di cui 20 mila sono tossicodipendenti, 8.600 affetti da epatite virale cronica, 8 mila sieropositivi per HIV, 6.500 disturbati mentali. Tutti costoro abitano oggi 204 istituti di pena in condizioni di insopportabile sovraffollamento. Avete annunciato di voler cambiare questo stato di cose con un grande programma straordinario di edilizia penitenziaria, affidando la gestione di 500 milioni di euro a Dike-Edifica spa: oggi di quel programma straordinario si ha traccia soltanto nelle indagini della procura della Repubblica il resto è affidato a impegni futuri da assumere, come è affidata ad un impegno futuro la materia della sanità penitenziaria. A questo proposito vi chiedo: vi siete accorti che la legislatura sta per finire? Certo che per chi vive l’esperienza detentiva (non parlo solo dei detenuti), credo sia un bene che questa scadenza arrivi, perché dentro la vostra logica punitiva, dentro la vostra pessima gestione avete compreso anche chi entra in carcere per lavorare, per svolgere un compito che non è né semplice né scontato nei suoi effetti e gli avete tagliato le risorse: sono stati ridotti in questi anni gli investimenti sul carcere, sono stati apportati forti tagli sui capitoli di spesa del DAP, che si è indebitato rispetto al reale fabbisogno di almeno 500 milioni di euro! La situazione non cambia per i minori: le risorse per il loro mantenimento negli istituti sono insufficienti; i volontari procurano loro vestiario, coperte per l’inverno; anche per i minori le strutture sono sovraffollate, vi è carenza di personale, di spazi aperti, di laboratori, di aule. Il capitolo di bilancio sul collocamento dei minori in comunità registra 6 milioni di deficit: si nega così l’essenza del processo minorile. Le piccole comunità gestite dal privato sociale falliscono; le comunità più qualificate rifiutano l’accoglienza. Il trattamento dei minori è oggi possibile solo grazie all’intervento degli enti locali. È evidente che i riflessi hanno interessato le voci più deboli di bilancio: le risorse per l’assistenza sanitaria sono state drenate altrove e questo capitolo si è ridotto del 30 per cento. Con questa realtà così dura si confrontano ogni giorno migliaia di operatori di polizia penitenziaria, circa 43 mila sulla carta, intorno ai 33 mila effettivi, se si considera il fatto che circa 10 mila sono occupati in funzioni amministrative. L’organico della polizia penitenziaria è fermo alla riforma del corpo, ma dal 1996 quest’ultimo ha aggiunto ai suoi servizi anche quello delle traduzioni dei detenuti; in questi quattro anni non vi sono state assunzioni; il ministro, di anno in anno, ha promesso l’assunzione di 500 nuovi agenti: lo ha fatto ancora ma quest’anno, nel prossimo novembre, avremo altri 500 ausiliari in scadenza. Questo personale non riceve la retribuzione delle missioni di traduzione dei detenuti ed ha visto ridurre la retribuzione per gli straordinari; mancano a questo personale della polizia penitenziaria 5 milioni di euro, che vanno reintegrati per le indennità in favore di tutto il personale. Brutte nuove arrivano anche dalla legge finanziaria per il 2006: queste interessano tutte le forze di polizia, ma io credo che anche il personale della polizia penitenziaria non accetterà di buon grado il fatto che si dica che per i rinnovi contrattuali 2006-2007 sono previsti solo 9,50 euro di aumento mensile pro capite per il 2006 e quasi 15 euro per il 2007. Si opera una forte riduzione dei fondi integrativi, destinati alla retribuzione di importanti indennità operative; sono ridotti del 10 per cento gli stanziamenti concernenti spese direttamente regolate da leggi, come ad esempio il pagamento delle missioni operative del personale di pubblica sicurezza; viene soppressa l’indennità di trasferta; si riducono i risarcimenti per il personale che contrae infermità per ragioni di servizio: non vi è copertura sanitaria per le conseguenti cure. Insomma, quando il ministro Castelli dichiara che, così procedendo, se non vi saranno nuove risorse, entro il 2007 la situazione sarà ingestibile, vuole davvero che le cose cambino o sta solo constatando il lascito pesante che graverà su chi verrà dopo di lui? Noi crediamo che non si debba guardare molto in là per affrontare i problemi; se abbiamo presentato una mozione è perché ci interessa capire, già oggi, quali strumenti possano recuperare il senso di un’esperienza che deve restare dentro la società per restituire ad essa chi si è messo fuori e per offrire la libertà non come beneficio rigido ma come fattore di identità e di reciprocità.
Presidente. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali della mozione. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato per la giustizia, onorevole Giuseppe Valentino.
Giuseppe Valentino, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, mi riservo di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Presidente. Sta bene. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
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