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Che ne sarà dei ragazzi incarcerati in queste galere sovraffollate? a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 4 agosto 2009
A guardare, in questo agosto bollente, le persone che arrivano in carcere, in condizioni sempre più penose, si stringe il cuore anche dei più cinici, di quelli abituati alla galera. Le testimonianze che seguono sono di detenuti che il carcere lo conoscono da un pezzo, e proprio per questo, ripensando alla loro esperienza, non riescono a non provare tristezza a vedere entrare ragazzi di neanche vent’anni, e pensare che in queste carceri sovraffollate non troveranno probabilmente né sostegno, né la possibilità di un percorso che li aiuti a non rimettere più piede in galera.
Sono figlio di insegnanti, eppure questo non mi ha salvato
Sono albanese, ma ormai vivo in Italia da diciotto anni e il percorso che mi ha portato in carcere potrebbe essere la storia di un ragazzo qualsiasi, indipendentemente dal luogo di nascita. Ho commesso un reato legato al mercato degli stupefacenti. Avevo la fortuna di avere due lavori, di giorno lavoravo in fabbrica e di sera facevo il cameriere, ma aspiravo a un tenore di vita più alto e questo mi ha portato a prestarmi a fare cose che credevo fossero innocue - passare un numero di telefono non è certo un crimine, ma se nel corso della telefonata si parla di stupefacenti non si può più negare la complicità. Frequento da un anno la redazione di Ristretti Orizzonti, dove ho partecipato a tutti gli incontri con gli studenti che si svolgono all’interno del carcere. Una delle domande che frequentemente gli studenti ci fanno, è quella che riguarda i rapporti con i nostri famigliari. Non e facile rispondere, perché, ogni volta che parlo della mia famiglia e della mia storia mi emoziono e ho difficoltà come se fosse la prima volta. Quando racconto che entrambi i miei genitori sono insegnanti e mia sorella è laureata, vedo stupore nelle loro facce. Forse questo stupore è dovuto alle generalizzazioni che di solito si fanno nei confronti degli stranieri, dipingendoli tutti come la fonte di ogni male. Ai ragazzi racconto che, per più di due anni, mio padre non ha saputo che mi trovavo in carcere, perché io mi vergognavo di aver fatto questo ai miei genitori. Quando lo ha saputo, gli è cascato il mondo addosso. Per sei mesi non ha voluto parlare al telefono con me, non usciva più di casa e non frequentava i suoi amici. Lui, che per tutta la vita aveva cercato di insegnare a generazioni intere il rispetto delle norme e i veri valori della vita, non riusciva ad accettare che proprio suo figlio avesse commesso un reato cosi grave e fosse finito in carcere. Successivamente, grazie alla mediazione di mia madre e mia sorella, le cose sono andate meglio. Dopo un lungo calvario per ottenere il visto d’ingresso in Italia, mio padre è venuto a trovarmi in carcere. In quel colloquio, ho capito ancor di più che tra le vittime innocenti delle mie azioni, c’erano anche i miei genitori, che io avevo trascinato in un vortice di male e di dolore. Raccontando questa storia ai ragazzi, non voglio impietosire qualcuno, ma soltanto far capire che, se è successo a me, che provengo da una buona famiglia, può succedere a chiunque di finire in carcere, e che tutte le nostre azioni si ripercuotono sulle persone che abbiamo intorno, che sono le persone più care e che meno meriterebbero di soffrire.
Gentian G.
Gli ultimi 14 anni della mia esistenza non li ho trascorsi in un collegio, ma tra le sbarre
Quando penso al mio futuro dopo il carcere, che non è più così lontano, ovviamente di certezze non ne posso avere, fosse anche solo per il fatto che gli ultimi 14 anni della mia esistenza non li ho trascorsi in un collegio, ma tra le sbarre, tra la privazione e la deresponsabilizzazione che un’Istituzione totalizzante come questa comporta… Parlando poi del giudizio che la gente fuori potrebbe avere di me, certo nella vita di tutti i giorni, nel lavoro per esempio, dovrò avvicinare persone che non possono conoscermi in modo approfondito e in quelle situazioni credo sia più che legittimo che quelle persone, che magari sono in possesso di quell’unica informazione su di me, che riguarda il mio reato, siano diffidenti. E se la loro prima reazione fosse di allontanarmi, sta a me fare in modo di propormi in maniera tale da permettere all’altro di andare oltre a quello che ho fatto in quel frangente della mia vita, così da avere un quadro più completo di me. Con questo voglio dire che non sono certo gli altri per primi a dover capire me, ma sono io a dover sforzarmi e capire le loro posizioni; che potrebbero essere le stesse che avrei avuto io se i ruoli fossero stati invertiti. Il carcere sicuramente non aiuta a riappropriarsi della fiducia in se stessi e difficilmente permette di riacquistare le proprie sicurezze, e accettare certi giudizi è certo più facile a dirsi che a farsi, però credo che se si parte già con un atteggiamento di questo tipo sia più facile poi affrontare anche questi problemi che inevitabilmente ci sono e ci saranno sempre. Credo comunque che se domani ce la farò, se la mia vita tornerà ad essere quanto più possibile simile alla normalità, sarà non grazie al carcere, ma nonostante il carcere che, per come è strutturato oggi, rischia di stritolarti, e quando vedo ragazzi come me entrare dentro in questi giorni, mi si stringe il cuore a pensare a quanti non ce la faranno a cavarsene fuori.
Andrea
Dalla trasgressione all’illegalità il passo è molto breve
La domanda "Non potevi pensarci prima?", che viene rivolta evidentemente quando un fatto è già accaduto, è la dimostrazione che non sempre si può, o si vuole pensarci prima. Prendiamo come esempio un ragazzo di diciotto anni, uno di quei ragazzi come ero io e tantissimi altri quando sono entrati in galera per la prima volta, certamente per un reato, commesso però in conseguenza di una serie di comportamenti inizialmente solo trasgressivi, e poi via via più a rischio, fino a superare il limite della legalità. L’uso di alcolici o stupefacenti non è condannabile penalmente, almeno se resta entro i parametri stabiliti dalla legge, ma lo diventa se tu ti poni alla guida e provochi un incidente: ci sono 7.000 morti all’anno sulle strade italiane e di questi un’alta percentuale è da imputare alla guida sotto effetto di sostanze. Anche portare un coltellino in tasca, di per sé, non è un reato, se la misura della lama rimane nei limiti consentiti, ma se avviene una discussione con altri ragazzi e si passa dalle parole alle vie di fatto, è facile che chi ha un coltellino in tasca lo usi. Quando questo avviene, se lo sconfinamento nell’illegalità provoca un reato grave, la detenzione è quasi certa, ma se il reato non è gravissimo i casi sono due: o non c’è l’arresto, o se avviene l’arresto, nel giro di pochi giorni la persona viene scarcerata in attesa del processo. È giusto che questo avvenga, intendiamoci, ma di fatto, poiché è una scarcerazione quasi incondizionata, visto che si tratta di reati minori, questo provoca nella persona scarcerata un senso di impunità e non la aiuta a riflettere su quei comportamenti che l’hanno portata a superare la soglia della legalità. Tutto questo accade perché le istituzioni non hanno messo in atto nulla per fare assumere a quel ragazzo la sua responsabilità fin dal primo reato, con misure magari che non siano il carcere, ma che lo mettano in condizione di capire che il suo comportamento non ha nulla a che vedere con le regole della convivenza sociale. Il "pensarci prima" non è per niente facile, perché se si vive su quella linea di confine tra legalità e illegalità, ci si accorge di averla superata solo quando si è ben oltre. Se poi chi entra per la prima volta in carcere viene abbandonato a se stesso, senza che gli venga offerta la possibilità di confrontarsi con quella parte della società con cui ha rotto il patto di convivenza, senza che venga accompagnato in un graduale percorso di reinserimento, di chi è la responsabilità? Se viene meno il senso della pena, che dovrebbe essere rieducativa, non lamentatevi poi se le persone escono e tornano a commettere reati, perché vi potrebbero anche dire: "Non potevate pensarci prima?"
Maurizio Bertani
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