L'opinione dei detenuti

 

Una galera diversa, più attenta alla complessità delle persone

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 31 marzo 2008

 

Alì Abidi in questi giorni ha riempito a Padova le pagine di cronaca nera, noi lo conosciamo e non possiamo certo fare a finta di niente. Ma, proprio perché qualcosa sappiamo di lui, abbiamo deciso di non avere paura di affrontare un argomento così spinoso. E però vorremmo parlarne come cerchiamo di fare sempre, cioè dando una informazione sobria e ONESTA su un caso, che è complesso davvero, e che non merita le semplificazioni usate dai media. Anche perché semplificare realtà così dure e complicate significa non essere per niente attrezzati ad affrontarle, quando capitano. Quella ragazza spaventata a morte merita più di tutti di essere aiutata a capire cosa è successo, e in fondo anche a non pensare di essere stata semplicemente ingannata e usata: allora bisogna avere il coraggio di dire che la persona che le ha fatto del male forse sta facendo da anni del male anche a se stessa, senza che nessuno riesca ad occuparsene seriamente.

 

Oggi si considerano sane persone che stanno male, per condannarle con più durezza

 

Le persone hanno diritto ad essere informate, ma oggi spesso i mezzi di comunicazione di massa riducono tutto al diritto a conoscere la cronaca nera. E proprio la cronaca nera è un modo semplice e poco costoso per riempire le pagine di un giornale, e per accentuare un generale senso di insicurezza, che poi finisce per far raccogliere consensi al partito con il programma più autoritario. Però io credo che noi detenuti, anche se siamo consci di essere responsabili di fatti gravi, abbiamo il diritto di criticare un certo giornalismo che fornisce una informazione quanto meno approssimativa.

Pochi giorni fa a Padova è successo un grave fatto di cronaca di cui è stato autore una persona che ha passato sei anni in carcere, e che era stata scarcerata perché la Cassazione le aveva dato ragione, decidendo che il suo processo doveva essere rifatto. Ed era stato rifatto da poco, quel processo, dunque è vero che lui era "libero", ma stava per rientrare in carcere, con una condanna a ventidue anni.

Prima che uscisse dalla galera ho avuto modo di conoscerlo, sapevo il motivo per cui era stato arrestato perché me ne aveva parlato. Sono due giorni che leggo ciò che scrivono i giornali su Alì e non ho ancora trovato un articolo che lo descriva per quello che è realmente, anzi, più che mai mi rendo conto di quanta superficialità si usa nel descrivere gli autori di reati.

Io non sostengo di conoscere bene la personalità di Alì, e non solo perché credo che di personalità lui ne abbia più di una, ma perché reputo che lui sia una persona così complessa che non so chi sarebbe capace di capire qualcosa dei meandri della sua psiche. La cosa più grave però è che in carcere difficilmente il personale è messo in grado di rendersi conto di situazioni di questo genere.

Come tutti gli altri detenuti lui si è fatto la sua carcerazione con poca attenzione al suo star male, che a noi risultava evidente, ma che nessuno ha "intercettato", vista la scarsità di operatori specializzati a fronte dei numeri sempre più elevati di persone incarcerate con patologie psichiatriche o altre forme di disagio. E poi, quando per colpa dei tempi interminabili della giustizia è stato scarcerato, non c’è stato alcun tipo di presa in carico. Perché il caso di Alì scopre un problema molto più esteso. Oggi in Italia si considerano sane persone, che stanno manifestamente male, per poterle condannare con più durezza, ma poi, dopo anni di galera, vengono rilasciate senza che nessuno se ne occupi, mentre il carcere non solo non ha risanato il problema, ma spesso lo ha peggiorato. Ed è inutile chiedere più galera, invece bisogna pensare a una galera diversa, più attenta alla complessità delle persone. Soltanto una pena che, quando ce n’è bisogno, cura può far sperare alla società che da qui escano persone cambiate.

 

Elton Kalica

 

Quando si rischia di restituire alla libertà uomini non pronti ad affrontarla

 

Ho conosciuto Ali Abidi. Sono detenuto a Padova e partecipo alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti e di tutta l’area delle iniziative culturali e di informazione del carcere, discuto con detenuti e volontari di molti argomenti che quotidianamente approfondiamo per ricavarne degli articoli. I fatti di questi ultimi giorni, riportati da tv e giornali, che hanno visto protagonista Alì Abidi, fanno nascere anche in me molte domande. Credo che in tanti si chiedano: possibile che un detenuto, che trascorre sei anni in un carcere, non sia riuscito a riconsiderare il suo passato e su di esso lavorare per dare un significato, una volta scontata la propria pena, al suo futuro? Evidentemente è possibile, ma forse ci sono delle ragioni più nascoste che spiegano certi comportamenti.

Alì Abidi doveva rimanere in carcere, Ali Abidi aveva già ucciso una donna che stava per lasciarlo, Ali Abidi doveva scontare una condanna di 22 anni e invece era ancora fuori: sono tutte considerazioni legittime, ma Alì Abidi era libero perché la legge ha rispettato i suoi diritti, che sono quelli che ha ognuno di noi di non restare in galera a vita a causa dei tempi lunghissimi della Giustizia. Che sono il vero male, e di quello bisognerebbe parlare di più.

A questo punto mi chiedo però un’altra cosa: in casi come questi si può, da parte delle Istituzioni, intervenire durante gli anni di detenzione per capire se una persona ha bisogno di essere seguita con più attenzione, e anche più cautela? Io credo di sì, soprattutto in relazione al reato commesso, ma anche nel rispetto dei cittadini, perché se la funzione del carcere consiste esclusivamente nella privazione della libertà non si rende nessun servizio ai cittadini, anzi si restituiscono alla libertà uomini non pronti ad affrontarla, e a volte con rischi che comportano vittime. Ed è proprio il rispetto che ogni autore di reato deve avere nei confronti delle vittime che dovrebbe indurre Ali Abidi ad assumersi le proprie responsabilità, a chiedere aiuto se ne ha bisogno, a non cercare giustificazioni se ha commesso quello di cui è accusato, perché esiste una condanna molto più dura e difficile da affrontare del carcere, è quella che arriva da parte delle persone alle quali, con i nostri reati, abbiamo distrutto la serenità e annientato tutte le sicurezze.

 

Franco Garaffoni

 

Nella nostra redazione si discute e si ragiona, ma non abbiamo soluzioni a ogni problema

 

Sono tunisino e sono in carcere da dodici anni per concorso in omicidio. Da qualche anno frequento la redazione di "Ristretti Orizzonti", che mi permette non solo di uscire dalla cella per alcune ore al giorno, ma soprattutto di riflettere con persone che vengono da fuori un po’ su tutto ciò che ci succede intorno. In dieci anni di attività, i volontari della redazione hanno visto passare tantissimi detenuti e credo che non sempre sia stato semplice per loro lavorare con noi, dato che siamo persone senz’altro difficili. È inevitabile, se non vogliamo fare a finta che i detenuti che stanno qui diventino tutti buoni in fretta e senza problemi, che a volte succeda, dopo che qualcuno è uscito, di ritrovarsi ancora a discutere su di lui perché commette di nuovo un reato, perché fa male a qualcuno, perché ritorna in carcere.

La cronaca di questi giorni ha parlato di una persona che già aveva commesso un omicidio e che, uscita per decorrenza dei termini della custodia cautelare, ha terrorizzato una donna con la quale aveva avuto una relazione perché lei lo voleva lasciare. Si chiama Alì, io l’ho conosciuto qui in carcere, e allora vorrei dire anch’io qualcosa su ciò che i giornali scrivono di lui.

Innanzitutto provo dispiacere per la ragazza, vittima di un gesto che a me pare di follia, immagino che sia stato terribile per lei passare una simile esperienza, e avere i riflettori puntati addosso per un fatto così drammatico. Ne abbiamo parlato in redazione e ho visto che tutte le persone hanno voluto dedicare a lei la loro solidarietà: anche perché qui dentro nessuno cerca giustificazioni ai propri reati, soprattutto da quando le scuole entrano in carcere e gli studenti ci "interrogano" e ci costringono a essere più sinceri anche con noi stessi.

Però scrivo queste righe anche per puntualizzare qualcosa che in questa vicenda mi ha dato fastidio: sembra che il fatto che uno come Alì prendesse parte alle attività qui dentro e ai dibattiti di Ristretti Orizzonti significhi che lui ha ingannato tutti fingendosi "recuperato", per poi tornare a commettere reati. Io credo che lui non abbia finto nulla, e noi i problemi che aveva li vedevamo bene, però la redazione è aperta a tutti i detenuti, e qui non si guarda nemmeno il tipo di reato perché tutti, per essere in galera, abbiamo commesso dei fatti anche gravissimi. Noi in redazione siamo semplicemente persone che tentano di fare informazione ragionando su quello che succede, ma anche imparando ad assumersi le proprie responsabilità.

 

Adnene El Barrak

 

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