L'opinione dei detenuti

 

La pena non si deve trasformare in una lenta e inesorabile tortura

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 2 luglio 2007

 

Abolizione dell’ergastolo, ovvero un tema che è quasi un tabù nel nostro paese. In questi giorni però si torna a parlarne, visto che la commissione Pisapia, che lavora alla riforma del Codice penale, propone pene massime da 28 a 32 anni. Di recente abbiamo ricevuto, sulla questione dell’ergastolo, una lettera "severa" di una nostra lettrice, che pubblichiamo, perché riflette un punto di vista molto diffuso. A questa lettera hanno risposto alcuni detenuti, cercando di ragionare sul senso della pena, una pena però che non assomigli a una vendetta, e nemmeno a una lenta e inesorabile tortura, come è di fatto il "fine pena mai".

 

Ergastolo: il punto di vista di una lettrice piuttosto severa

 

Quello che mi interessa è capire se chi è condannato alla pena perpetua possa o meno essere recuperato. Ed allargherei il discorso al recupero dei detenuti che si sono macchiati di reati di sangue, perché è lì che spesso si ferma la capacità di "comprendere" della maggioranza della società.

Ho riflettuto parecchio sul fatto che secondo voi (e lo Stato italiano) il detenuto che salda il suo debito dovrebbe avere il diritto di essere riaccolto dalla società. Cosa che invece non si verifica più di tanto: la società fa volentieri a meno dell’omicida che ha scontato la pena. Scandalo? Ingiustizia?

Credo che il problema cruciale sia che gli anni di carcere fanno "pagare" il debito verso lo Stato, che considera l’individuo "recuperato" e lo fa uscire. Ma la società è fatta di persone come i familiari delle vittime per cui il debito spesso non sarà mai pagato, e persone come me, che hanno dubbi su quanto si possa recuperare chi ha commesso un grave reato.

Un problema legato all’omicidio è che tale reato per definizione implica una disuguaglianza tra offesa e pena: da un lato la vittima che viene privata del più sacro dei diritti, quello alla vita, dall’altro il detenuto che avrà comunque la possibilità di vivere, in condizioni disagiate, ma con un futuro davanti. Mentre chi muore di futuro non ne ha nessuno. Questo implica che per la società l’ergastolo non è quasi mai una pena sproporzionata, per non parlare dei 20 anni di carcere… del resto io faccio fatica a quantificare il valore di una vita umana in anni di carcere. Quanto è?

Alla società viene chiesto di riaccogliere l’omicida che ha scontato la sua pena. Ma non penso che nessuno si aspetti che, visto che lo Stato ha deciso che il "debito" è estinto, a chi ha perso un genitore o un figlio si possa chiedere di dimenticare e ripartire.

Naturalmente la società è anche fatta di persone che non sono state toccate personalmente dal reato commesso, e da cui ci si aspetta il riconoscimento del diritto alla rieducazione. Ma in cosa consiste tale diritto esattamente? Per essere persone che hanno violato i diritti altrui, mi sembra che come detenuti abbiate un’alta aspettativa sul rispetto che gli altri dovrebbero avere per i vostri (diritto a rifarsi una vita, e così via). Una domanda polemica: ma perché dovrei preoccuparmi dei diritti di qualcuno che non si è fatto grossi problemi a calpestare quelli di altri membri della società? Ma dobbiamo proprio essere tutti dei santi là fuori? Perché riaccettare qualcuno dopo un crimine, specialmente se si tratta di un crimine di sangue, non è una richiesta da poco secondo me!

 

Sabrina

 

Una società che sappia ricondurre al suo interno le sue "pecore nere"

 

Cara Sabrina, non c’è dubbio che alla gran parte delle persone - di fronte a crimini gravi come quelli che comportano il "fine pena mai" - la condanna a vita sembra addirittura inadeguata per difetto. Del resto noi stessi saremmo d’istinto portati a invocare non l’ergastolo ma la pena di morte, se a essere vittima di un crimine efferato fosse una persona a noi cara. Ma una cosa è la reazione "a caldo", e diversa cosa è la valutazione razionale - maturata a mente fredda - del delitto e della conseguente pena.

E allora noi pensiamo che l’ergastolo, certo più "umano" della pena capitale in quanto "imbalsama" almeno la vita fisica di una persona, è per altri aspetti ancor più disumano, perché poi priva quella stessa vita dell’unica prospettiva positiva che ancora può rimanerle: la speranza di potersi - un giorno remoto – riscattare in vita vera, compiutamente realizzata sia sul piano personale che sociale.

È certo che in molti casi l’orizzonte del "fine pena mai" è attenuato dalla possibilità di avere accesso – dopo anni scontati in buona condotta – ai benefici di legge (a partire dai permessi premio), ma va detto che si tratta di misure premiali e non di diritti, e che non tutti i magistrati di Sorveglianza sono propensi a concederle a chi è stato condannato all’ergastolo. Crediamo perciò che sarebbe più giusto, se proprio non ci si volesse decidere ad abolire il carcere a vita, come hanno fatto da tempo la Germania e altri paesi europei, che chi è stato condannato a una pena tanto pesante potesse aspirare a una prova di ulteriore "appello". Dovrebbe trattarsi di una rivalutazione "a posteriori" della pena, mediante la quale stabilire - dopo un’approfondita analisi del percorso compiuto dall’ergastolano - se egli continua, nonostante gli anni trascorsi in galera, a rappresentare un potenziale pericolo per la società o se invece merita di essere "messo alla prova". In questo caso si offrirebbe al condannato la possibilità di costruirsi un progetto almeno per quel po’ di vita che ancora gli resta. Ciò significa tendere a trasformare il male in bene, nella convinzione che la civiltà di una società si misura anche con la sua capacità di ricondurre al suo interno le sue "pecore nere", pure quelle della peggior specie.

Quanto alla "fatica a quantificare in anni di carcere il prezzo di una vita umana", ti suggeriamo di provare a "quantificare" gli anni di carcere utilizzando non la vita "in astratto" ma la tua stessa vita. Se una condanna a venti, venticinque anni, ti sembra troppo blanda, prova a pensare a quante pagine del libro della tua vita passata, presente e futura dovresti strappare se venissi espropriata di venti o venticinque anni. Gli anni sottratti alla vita di una persona sono lunghi, pesanti e irrevocabili e sentir dire che a uno hanno dato "solo" vent’anni e a quell’altro "solo" trenta, è terribile, se si prova a "quantificarli" sulla propria pelle, quegli anni.

 

Paolo M. e Sandro C.

 

Anche il "fine pena mai" è una pena di morte

 

"La società fa volentieri a meno dell’omicida che ha scontato la pena, debito pagato o meno", ci scrive la nostra lettrice. Nei miei dieci anni di carcere, ho avuto abbastanza tempo da dedicare ai giornali, alla televisione, e alle lamentele dei miei compagni di detenzione. Tutti pensano che ci sia una categoria di persone di cui non soltanto farebbero a meno, ma dei quali "tutta la società" farebbe volentieri a meno. Se fermassi la gente per strada per chiedere di chi la società farebbe a meno, scopriresti che pochi ti direbbero che si farebbe a meno della guerra, o della produzione delle mine antiuomo, o delle industrie inquinanti: tanti purtroppo direbbero che la società farebbe a meno degli zingari, o dei negri, altri se la prenderebbero con gli omosessuali, oppure con gli ebrei, così come ho sentito più volte gente dire "Io penso che una volta rinchiusi, non si debba liberare più nessuno dal carcere, ma far marcire tutti dentro".

"Per la società l’ergastolo non è quasi mai una pena proporzionata", scrive la nostra lettrice. Ma cosa significa? Che la società preferirebbe condannarli tutti a morte? Oggi viviamo in un’epoca in cui i media spesso finiscono per modellare i desideri e i pensieri delle persone, impoverendone la cultura, però io sono sicuro che, se le persone ricevessero un’informazione pulita, non vorrebbero mai delegare lo Stato a uccidere delle persone, qualsiasi sia il loro crimine, e non accetterebbero nemmeno che i condannati vengano torturati o trattati in modo inumano.

Eh sì, perché chi ripudia la pena di morte, ma poi chiede che chi ha un "fine pena mai" rimanga in carcere fino a morire, in pratica chiede che sia tollerata e applicata la tortura. Perché chiudere una persona in cella per il resto della sua vita, senza alcuna prospettiva di una vita dignitosa, è un trattamento inumano. Già il carcere è una non vita, nel senso che ti nutri per rimanere in vita e rimani in branda a guardare la televisione anche venti ore al giorno, in pratica vegeti. L’unica cosa che a un ergastolano dà il coraggio per andare avanti è la speranza che un giorno potrà uscire alla mattina per andare a lavorare e rientrare alla sera in carcere. Io credo che reinserimento per un ergastolano sia permettergli di fare almeno quell’attività, così essenziale per la nostra esistenza, che è lavorare. Nessuno sogna di fare dei lavori da favola: la maggior parte dei detenuti in semilibertà fa lavori per niente gratificanti, che nessuno vuole fare, ma per riconquistare un po’ di dignità basta semplicemente la speranza di lavorare e di avere un po’ di spazio per gli affetti.

 

Elton Kalica

 

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