L'opinione dei detenuti

 

Il dolore e la solitudine dei familiari dei detenuti stranieri nel nostro Paese

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 29 ottobre 2007

 

 

Il viaggio dei migranti verso un paese straniero viene spesso definito il "viaggio della speranza". Chi sta in carcere, però, ha da raccontare soprattutto la disperazione. L’immigrato che finisce per commettere reati spesso la galera se la fa con l’assenza totale di speranza: fatica enormemente a capire e accettare le regole della detenzione, accumula rapporti disciplinari, subisce gli spostamenti da un carcere all’altro, perché i detenuti stranieri sono quelli che più facilmente vengono trasferiti. E per lui incontrare i famigliari resta un sogno che, le rare volte in cui si avvera, finisce per essere così breve da causare più dolore che altro.

 

La gioia di un incontro ma il colloquio è breve

 

Sin dal primo giorno di carcerazione, la cosa che più ho sognato, accanto alla libertà, è stata di rivedere i miei genitori. Però sapevo che sarebbe stato difficile. Mio padre stava male, non poteva viaggiare, e aveva anche bisogno di qualcuno che gli stesse sempre vicino, e questo poteva farlo solo mia madre. Sapevo benissimo che mia madre sognava di venire a trovarmi, e alla fine ha deciso di partire sola, senza mio padre, e senza avvisarmi.

Prendere un visto di ingresso per l’Italia non è per nulla facile, ma dopo una attesa di undici mesi, lei è riuscita a ad arrivare a Verona, dove ero in carcere allora. Sono passati due anni ormai, ma ricordo tutto come fosse ieri. È successo all’improvviso. Una mattina mi chiama l’agente e mi dice che devo andare a colloquio. Io, sorpreso e del tutto incredulo, mi vesto velocemente e corro verso l’aula colloqui, sicuro che mi abbiano chiamato per sbaglio. Appena raggiungo il piccolo corridoio, sbircio dietro la vetrata, e invece in mezzo a tanti sconosciuti riconosco mia madre. Immobile, impietrito aspetto che mi perquisiscano e poi corro subito ad abbracciarla forte per la paura che mi sparisca davanti. Ricordo bene che ero troppo felice, ma nello stesso tempo improvvisamente al vederla mi stavo brutalmente rendendo conto di quanto avevo fatto soffrire i miei genitori e la mia famiglia.

Il colloquio è durato due ore, e mia madre ha pianto per tutto il tempo. Doveva ritornare subito in Albania perché mio padre stava malissimo, e questo la faceva soffrire, perché significava che quello sarebbe stato l’unico colloquio che potevamo avere. Da allora non l’ho più vista. Nel frattempo mio padre è morto senza che io lo potessi salutare, e questo è un peso che mi porterò dietro per tutta la vita. Ma quello che mi pesa di più è non poter essere stato vicino a mia madre quando aveva più bisogno di me, invece le ho causato ancora più dolore finendo in carcere.

Adesso lei vorrebbe venire di nuovo a trovarmi, ma oggi è ancora più difficile avere un visto d’ingresso e non so quanti anni dovrò aspettare ancora per rivederla. Intanto continuo a scontare la mia pena immerso nel dolore di una vita sbagliata, coltivando una piccola speranza in qualche prospettiva di giorni migliori.

 

Elvin Pupi

 

Sono felice che mia figlia abbia sposato un "regolare"

 

Quando mia figlia mi ha comunicato la sua intenzione di sposarsi con un uomo che non conoscevo, un po’ ci sono rimasto male. Le ho sempre voluto bene, anche se ho avuto poche possibilità di stare con lei, e mi ero immaginato per lei un matrimonio sontuoso, durante il quale io l’accompagnavo all’altare promettendole di essere sempre a sua disposizione in caso di bisogno.

Invece, mentre in una cella del carcere di Padova leggevo la lettera di mia figlia, ho capito che il mio sogno non sarebbe mai diventato realtà. Ormai lei aveva deciso di sposarsi e mi scriveva dalla Croazia per chiedere la mia benedizione. Non avevo mai fatto colloqui con lei, perché non è facile venire in Italia, e non sapevo nulla dell’uomo che mi diceva di amare, ma in quel momento la cosa più importante per me era la sua felicità.

Allora ho preso carta e penna e le ho risposto che, se questa sua decisione era frutto di un sincero sentimento d’amore, lei aveva la mia benedizione. Tuttavia, le ho chiesto di poter incontrare l’uomo che voleva sposare: sono sempre stato convinto che, tra uomini di parola, basta guardarsi negli occhi per capire se c’è il rispetto che deve legare due persone. Ma soprattutto io sono all’antica, e volevo conoscere la persona che si portava via mia figlia, anche se sono in galera e qui è tutto enormemente difficile. Per mia figlia e il suo fidanzato non è stato semplice venire qui, viaggiare costa. Poi, oggi con la precarietà che c’è in Croazia, chiedere qualche giorno di permesso dal lavoro significa rischiare di essere licenziati. Ma alla fine, dopo otto mesi, mia figlia e il suo ragazzo sono riusciti ad avere tutti i permessi necessari per venire in carcere. Appena è entrata nella sala colloqui, mi è saltata al collo, abbracciandomi come quando era piccola. Mi sono perso subito in lontani ricordi di vita famigliare, mentre il suo fidanzato attendeva imbarazzato di parlare con il vecchio suocero in prigione.

Ma erano anni che non vedevo la mia famiglia, e la nostalgia per lei era molto più forte di ogni dovere verso quel giovane uomo. Alla fine però mi sono concentrato su di lui e l’ho ascoltato mentre mi parlava di sé e dei suoi sentimenti, e la cosa più importante che ho capito è che è una persona onesta, che non ha mai commesso niente di illegale nella sua vita. Ed è soprattutto grazie a questo che sono stato felice del loro matrimonio: sono contento che mia figlia abbia trovato una persona "regolare", perché così so che difficilmente lei si ritroverà un giorno anche con un marito in carcere. Io desidero solo che il marito possa starle ogni giorno accanto e vivere con lei una vita che non somigli affatto alla mia, perché io oggi sono davvero convinto che la legalità è la cosa più importante che voglio per mia figlia e per i miei nipoti.

 

Milan Grgic

 

Dodici anni senza riuscire ad accettare la galera

 

Sono entrato in carcere dodici anni fa e durante tutto questo tempo non ho fatto altro che girare l’Italia in lungo e in largo. Questo significa che sono stato trasferito molte volte da un carcere all’altro. La cosa è molto semplice: alla mattina arriva un agente che ti dice "Su, prepara la roba! Trasferimento". A quel punto non hai nessuna possibilità di rifiutare, perché qualcuno in alto ha deciso che devi continuare a scontare la tua condanna in un altro carcere.

Non ti puoi ribellare perché gli agenti hanno ricevuto l’ordine di metterti sul furgone, quindi quando ti dicono "Muoviti", lo fai e basta. Tutte le volte che mi succede, mi chiedo, nel panico, dove mi stanno portando. Me lo domando non tanto per me - la galera è sempre galera, dovunque sia - quanto invece per i miei familiari che dovranno venire a trovarmi.

So infatti di aver causato tantissime sofferenze a mia moglie, che ha dovuto seguirmi ai quattro angoli dell’Italia portando con sé la nostra bambina. Loro due infatti ogni tanto decidono di affrontare il viaggio per venire a trovarmi, nonostante le mie suppliche di stare a casa, tranquille e al sicuro. Abitano ad Alessandria, e quindi le difficoltà per raggiungermi non sono legate solo alla lontananza, ma ai soldi, perché viaggiare costa tanto.

Spesso, loro non capivano questi miei continui trasferimenti, e mi domandavano infuriate come mai dovevano venire a trovarmi a Novara, a Cuneo, a Saluzzo, a Sulmona, a Chieti, a Larino, a Secondigliano, ad Avellino, e poi ora a Padova. Mi vergogno a dirlo, ma a volte mi sono trovato costretto a mentire, dicendo di essere stato trasferito per il sovraffollamento, mentre la verità era che combinavo sempre dei casini. Vivere con una condanna di trent’anni addosso è terribilmente angosciante, ho sempre avuto il buio di fronte a me, l’assenza di qualsiasi speranza, e così ogni giorno ero pronto a scaricare il mio nervosismo sul primo che mi dava l’occasione di farlo, e non pensavo mai che così rovinavo la mia vita e quella dei miei cari. Ora sono stato trasferito a Padova, e qui posso fare colloquio una volta al mese, e spero di non dover più essere trasferito. Durante questo tempo ho riflettuto tanto su questa mia incapacità di accettare la realtà della carcerazione. Per anni ho vissuto con l’odio dentro e con la rabbia per quel futuro che non ho, ma adesso ho deciso di cambiare. Il mio destino forse è segnato, ma mia moglie e mia figlia, le due persone più care che ho, non voglio che soffrano più per me.

 

D.I.

 

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