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In carcere il Natale è il giorno più brutto dell'anno A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 27 dicembre 2006
La galera è brutta sempre, questo è certo, ma ci sono dei giorni particolarmente insopportabili, e quasi per tutti sono gli stessi: certe calde, luminose giornate d’estate, quando nell’aria si respira più libertà, la gente sta fuori, all’aperto, più lontana possibile dalle quattro mura di casa, e allora le mura del carcere sembrano intollerabilmente soffocanti. E poi le feste, tutte. Perché le feste hanno sì un aspetto poco piacevole di corsa stressante ai regali e al divertirsi a tutti i costi, ma hanno anche un sapore "antico" di famiglia, di riti e tradizioni che alla fine coinvolgono tutti, anche i più scettici. E allora provate a immaginarvi un Natale in carcere, senza i figli, le mogli, la libertà, o una festa di fine d’anno con i propri cari che sono in paesi lontani, senza neppure la possibilità di incontrarsi per un’ora alla settimana e con quei dieci minuti di telefonata durante la quale si deve fingere di festeggiare insieme. Nelle testimonianze dei detenuti Natale diventa allora addirittura il giorno più brutto, quello in cui i pensieri sono più neri, e sono rivolti ai propri famigliari lontani, ma anche a una riflessione più profonda sul dolore che qualcuno ha causato con il suo reato.
I giorni più brutti? Quelli di festa
I giorni più brutti in galera sono i giorni di festa. Almeno questo è ciò che penso io, poiché alcuni miei compagni di detenzione sostengono invece che i più brutti sono le calde giornate di sole. Tuttavia la ragione è sempre la stessa: sto male quando mi accorgo che mi sto perdendo delle giornate e dei momenti particolarmente belli. Non ha importanza se sia la festa di Natale, quella di Pasqua oppure un bel pomeriggio d’estate che avrei potuto passare al mare con la mia compagna. Quello che mi distrugge è la certezza che quella lì è una giornata diversa, importante, particolare, e io non la posso godere. Alla frustrazione di essere chiuso in una cella si aggiunge il dolore causato dal non poter essere vicino ai miei cari, in una serata di festa per stare con loro e permettergli di festeggiare con me. Il postino continua a portare sacchi di posta per i detenuti, e anche io, durante le feste di Natale, ricevo tutta la posta che non ricevo durante l’anno. Si ricordano di scrivermi parenti, cugini, amici e persone delle quali avevo persino dimenticato l’esistenza. Almeno mi consola il fatto che nei giorni di festa anche loro mi dedicano un pensiero, e mi sono vicini, anche se giusto il tempo di leggere gli auguri e immaginare le loro facce sorridenti. Subito dopo ritorno però inesorabilmente con i piedi sul pavimento della mia cella. Anche quest’anno io farò festa con i miei compagni di detenzione, e come al solito dedicheremo un brindisi alle nostre famiglie. Si brinda per tutta la felicità che quest’anno ha portato nelle loro case – cugini laureati, cugine sposate, altri nipotini che non si conoscono. Poi, io prenderò carta e penna e scriverò le mie emozioni per dire ai miei genitori che durante tutte le feste sono stato con il mio cuore vicino a loro, e che non faccio altro che pensarli, e che gli voglio tanto bene. Poi tirerò fuori le lettere che ho ricevuto, perché immancabilmente i miei mi scriveranno quel giorno, e le rileggerò fino ad addormentarmi, con la consapevolezza che loro sono là ad aspettarmi, e la speranza che forse il prossimo Natale lo trascorrerò con loro. Passerà in questo modo il giorno più brutto di galera.
Ilir
C’è chi non festeggia per colpa mia
Non è facile raccontare i miei giorni di festa dietro le sbarre. Sono già sei anni che sono qui, e non so quanti ne devo fare ancora. Le festività saranno la gioia di tutti, ma dentro il mio cuore, arrabbiato per la carcerazione, cala una depressione totale, e divento triste e mi chiudo in me stesso rifiutandomi di comunicare. Una reazione spontanea causata dalla lontananza dalla famiglia, dagli amici e soprattutto perché ho perso ogni felicità e gioia interiore. In questo momento mi sento rigido al punto di non avere nulla per cui festeggiare, perché in questo periodo cerco sempre di dimenticare, di cancellare quasi dalla mia mente i giorni di festa, di considerarli giorni normali come tutti gli altri. Faccio tutto questo per alleviare una sofferenza che pesa come un macigno su di me. E fingo di vivere, mentre in realtà sto soltanto sopravvivendo. Certo questo gioco al massacro è molto pericoloso, un torto alla mia testa, al mio cuore, ma la sofferenza è tanta, e il mio pensiero torna sempre alla consapevolezza che ho commesso un reato in famiglia, che ho causato un dolore che anch’io porterò a vita sulla mia coscienza. Allora non posso fare finta di niente e non pensare che ci sono alcune persone che una volta mi erano care e che oggi non festeggiano, e tutto per colpa mia. Forse penso a loro per non pensare alla mia sofferenza, ma è la verità, non riesco ad avere altro in testa, è come una ferita sempre aperta che ha lasciato uno squarcio indelebile e che non credo possa mai sperare in una guarigione. Allora, la mia fede mi aiuta a superare con un po’ di serenità questi giorni di festa che io non festeggio. La preghiera è molto per me, colma le mie giornate e mi aiuta ad avere fiducia nel prossimo, l’unica cosa che può veramente farmi sentire un po’ contento e che mi fa venire la voglia di augurare almeno agli altri un buon Natale, anche se il mio, in carcere, felice non lo può essere di certo.
Alì Abidi
Quel brindisi fatto per telefono
Non sono cattolico e non festeggio il Natale, ma la notte di Capodanno sì. E durante questi dieci lunghi anni di carcere che ho passato qui in Italia, telefono sempre a casa la sera del 31 dicembre. Non voglio mai mancare all’appuntamento per fare gli auguri ai miei genitori e a tutti quelli che si trovano seduti intorno al tavolo di casa mia. So benissimo che loro aspettano sempre con ansia la mia chiamata, perché la considerano come una mia visita in casa. Immaginano che io sia lì con loro e condividono con me quel momento. Mettono sempre il vivavoce in modo che la mia presenza diventi più forte e mi raccontano i piatti preparati. Poi mi commentano in diretta ciò che fa mio padre, che ha precedentemente aggiunto il mio posto alla tavola apparecchiata e ha riempito anche il mio bicchiere di vino. Perciò, quando io sono al telefono e faccio a tutti gli auguri, lui prende una forchettata da quello che sarebbe il mio piatto e mangia un boccone al posto mio, poi facciamo tutti un brindisi, dove lui innalza anche il mio bicchiere insieme al suo per poi berli tutti d’un fiato. Io, commosso, sorrido immaginando tutta la scena, e li prego di continuare a raccontarmi i tipi di dolce che hanno preparato. Quella di brindare anche per me è diventata una tradizione in casa mia, che si ripete durante ogni festa. I miei genitori mi dicono che lo fanno perché io sono sempre presente nei loro pensieri, in ogni momento della giornata, e a maggior ragione nei giorni di festa non posso mancare. In questo modo, oltre alla mia voce che riempie la stanza attraverso l’apparecchio telefonico, c’è anche un segno tangibile del mio passaggio, riconoscibile nel piatto colmo di cibo e nel bicchiere riempito di vino. La telefonata dura soltanto dieci minuti, ma per me e per i miei genitori anche la vera festa di Capodanno dura quei dieci minuti. Senza di me, senza un figlio, che è così lontano, in un carcere di un altro paese, non è mai festa.
Elton
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