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Aspettando l'indulto... A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 25 luglio 2006
L’estate è un periodo di desolazione in carcere; mentre la gente fuori sembra divertirsi e godersi di più la sua libertà, dentro invece cresce lo stato di abbandono, spesso non ci sono neppure i volontari, le attività cessano. E paradossalmente ogni estate si torna a parlare di amnistia e indulto, con il rischio di creare illusioni e poi rendere anche più duro il ritorno alla "normalità" della galera. Quest’anno però forse c’è qualche speranza in più per i detenuti, che hanno cercato di raccontare, nelle testimonianze che seguono, cosa significa aspettare un indulto da anni e che senso abbia, per loro, parlare di "clemenza" dello Stato, in una situazione in cui lo Stato è inadempiente perché non riesce nemmeno a garantire una vita in cella dignitosa. Fuori, intanto, la gente vede con ansia la possibile uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti, e fatica ad affrontare in modo razionale questo problema: il fatto è che la questione che non viene mai abbastanza seriamente valutata, che ci sia o meno un indulto, è l’uscita dal carcere, che spesso avviene senza nessun "paracadute", in uno stato di totale abbandono. Il problema è tutto lì.
È un modo per poter ritornare a casa
L’indulto rappresenterebbe un sollievo per le migliaia di persone che in carcere vengono quotidianamente umiliate a causa delle condizioni in cui si trovano gli istituti di pena italiani. E non a caso ci sono detenuti che presi dalla disperazione si tagliano per manifestare che stanno male, ce ne sono che si suicidano o tentano di farlo, senza contare quelli che si imbottiscono di psicofarmaci fino a ridursi a larve umane. Da 12 anni sono in carcere e ogni volta che si parla di clemenza vedo tanti miei compagni di galera regalare gli abiti "buoni" agli altri ragazzi che in ogni caso non potrebbero uscire, e preparare i loro pochi "stracci" nei sacchi neri, e poi vedo crescere la delusione e la rabbia. Per noi stranieri la concessione di un atto di clemenza sarebbe giustificata anche dalle condizioni di povertà che spingono tanti di noi a delinquere, e poi dall’aggravio di pena rappresentato dallo scontare lunghi anni di carcere lontano dai propri affetti. Ricordiamoci anche che una pena perde ogni funzione rieducativa, se non ha come fine il reinserimento sociale del detenuto. E per i cittadini stranieri il reinserimento è quasi impossibile, dal momento che non esistono speranze di regolarizzazione. Ecco allora che un atto di clemenza sarebbe una possibilità, per noi stranieri, di fare rientro nel nostro Paese in anticipo rispetto al fine pena, e di tornare dai nostri cari che non vediamo da anni. La scarcerazione a seguito di un provvedimento di indulto infatti significa anche - come previsto dalla Bossi-Fini - l’espulsione. Il discorso è chiaro: te ne torni a casa prima, ti rifai una vita, però ti impegni a non mettere più piede in Italia, se trasgredisci e tornerai in questo paese, non solo ti beccherai una condanna, ma ti troverai sul groppone – da scontare fino in fondo - gli anni di galera che adesso ti abbuono. Chiudo la mia riflessione con una frase di Adriano Sofri: "In Italia non c’è la pena di morte, ma nelle carceri c’è la morte per pena; sono numerosi che si impartiscono da soli la sentenza capitale, preferita alla prospettiva di anni senza senso chiusi dietro una porta, con la prospettiva che, quando uscirai, dovrai imbatterti in porte che ti chiudono fuori".
Altin Demiri
Quando la clemenza significa giustizia
Alcuni giorni fa ci ha scritto in redazione una persona "libera", esprimendoci alcune perplessità sul fatto che un atto di clemenza venga adottato anche per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. A me invece non sembra una gran sciocchezza. Un atto di clemenza non è un segno di "resa", ma anzi un atto di coraggio per riportare alla soglia di decenza le strutture penitenziarie da parte dello Stato, che è tenuto a far rispettare la legalità sempre e ovunque, anche nelle galere. È vero che uscirebbero alcune migliaia di persone (detenuti con in ogni caso ancora poco tempo da passare in carcere), ma almeno l’amministrazione penitenziaria potrebbe finalmente "lavorare" su coloro che in carcere devono per forza rimanere; e chissà che in questo modo la detenzione non riesca davvero a restituire alla società persone migliori, e non invece abbrutite, come succede troppo spesso con l’attuale sistema. È anche opportuno tener presente che gli atti di clemenza hanno sempre una condizione: se il beneficiario dovesse commettere un reato, pagherebbe il conto nuovo ed anche il vecchio, una spada di Damocle, quella della eventuale revoca, che ha lo scopo di fungere da deterrente alla commissione di illeciti da parte di chi lascerebbe anzitempo la galera. Infine, un provvedimento di clemenza servirebbe a livellare le sperequazioni che si creano inevitabilmente ogni volta che vengono modificate alcune normative: tanto per fare un esempio, penso al mio amico Marco, che avrebbe potuto beneficiare del "patteggiamento allargato" se solo avesse avuto la fortuna di essere giudicato due mesi più tardi, e la sua condanna sarebbe stata ridotta di 2 anni e 4 mesi. Adesso è in carcere accanto a chi ha commesso lo stesso reato, ma ha riportato una condanna minore perché ha avuto la fortuna di essere giudicato più tardi. Ecco quindi che un provvedimento di clemenza avrebbe anche lo scopo di "spianare" queste diversità di trattamento, che altrimenti fanno percepire alle persone detenute un senso di ingiustizia difficile da accettare.
Marino Occhipinti
Per avere galere "quasi dignitose"
C’è un gran parlare degli effetti che può causare all’esterno la concessione di un indulto. Noi che, pur beneficiandone, non usciremo dal carcere, vorremmo parlare degli effetti che questo provvedimento può causare all’interno degli istituti di pena. Lo sfollamento permetterebbe a chi rimane di riprendersi gli spazi vitali, che l’attuale situazione rende disumani, e di rimpossessarsi di quelle attività di risocializzazione, ormai ridotte al minimo per mancanza di personale e luoghi fisici idonei; non solo, gli operatori penitenziari, ora largamente al di sotto del numero che servirebbe, tornerebbero a svolgere il loro lavoro con maggiore professionalità e attenzione alle difficoltà delle persone detenute. I primi benefici si sentirebbero dentro le celle, dove il numero di reclusi è tragicamente al di sopra di ogni umana immaginazione, e impedisce persino di fare un minimo di attività motoria, visto l‘esiguo spazio a disposizione. Molti più detenuti avrebbero un’attività lavorativa e un miglioramento della loro vita dal punto di vista economico e psicologico, perché oggi l’impossibilità di avere un minimo di risorse per essere autosufficienti rende le persone apatiche e frustrate. Ecco perché questo gesto di clemenza è politicamente necessario: non per questioni di umanità o di giustizia, ma per un fattore "fisiologico". Le carceri italiane sono fuori legge e con esse lo Stato che solo ora sembra rendersene conto. Le condizioni di vivibilità detentiva sono ben oltre ogni limite accettabile, non viene rispettata nessuna norma civile, umana e igienica. Per renderle minimamente legali bisogna svuotarle almeno un po’. E poi lavorare, a livello politico e sociale, affinché chi ora esce non rientri velocemente.
Sandro C. e Franco G.
Ma è soltanto uno sconto di pena
Sono settant’anni che nel vostro paese è in vigore il Codice penale Rocco, e durante questo periodo c’è stata l’emanazione di leggi emergenziali, espressione di politiche sempre più punitive. Sono vent’anni che tutte le carceri, di minima e di massima sicurezza, si stano riempiendo di stranieri e di tossicodipendenti. Ma alla fine qualcuno ha scosso il letargo dei politici dicendogli: "Ehi, non li possiamo tenere là dentro come animali. Siamo un paese civile, diamogli due o tre anni di perdono, leviamoci questo pensiero". E finalmente quasi tutti sembrano d’accordo. Questo dovrebbe essere un momento di riconciliazione tra lo Stato e quegli uomini che lo Stato stesso ha punito perché hanno rotto l’armonia sociale di cui è garante. Perciò, così come io ho la consapevolezza di aver sbagliato nei confronti della società e accetto di pagare per i miei sbagli (sennò mi sarei già impiccato), anche chi governa dovrebbe avere la consapevolezza che, nel momento in cui si impone ai condannati di vivere in condizioni disumane, bisogna pagare per il torto che si fa loro, almeno con un "perdono" parziale, senza distinzioni di sesso, di razza o di tipologia di reato. La verità è che qualche settimana fa il Ministro della Giustizia Mastella ha espresso senza esitazione il suo impegno in favore di un atto di clemenza, dimostrando di essere un Ministro coraggioso, dato che i suoi predecessori non si schierati con simile fermezza. Mi sono accorto però che i partiti si stanno già affannando a definire le categorie di condannati che devono essere esclusi da questo perdono. Insomma la destra e la sinistra sono d’accordo almeno su una cosa: il perdono non è un bene che va distribuito a tutti i condannati, poiché questi devono rimanere divisi in categorie, non importa cosa li abbia spinti a commettere reati, in che condizioni abbiano scontato fino ad oggi le loro pene e se siano cambiati, se siano ravveduti. Sembra che per i politici italiani ci debba sempre essere una categoria di persone messe alla gogna per far vedere che lo Stato lavora tutti i giorni per difendere i cittadini onesti dai pericoli incombenti. Ma perché tutta questa messa in scena quando in fin dei conti si tratta soltanto di uno sconto di pena, che non cambierà la vita a chi si è macchiato di gravi reati, ma che certamente potrebbe far sentire tutti i condannati, almeno per una volta, uguali?
Elton Kalica
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