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Quando si vive lo sgretolamento dei nuclei familiari a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 1 marzo 2010
Spesso parliamo di affetti delle persone detenute, c’è invece una specie di ritegno a parlare di coppie, di intimità, di legami fatti di amore, e anche di sesso. Ma c’è qualche coppia che sopravvive alla separazione forzata provocata dalla galera? Poche, e nel nostro Paese meno che in altri, perché nessuno ha il coraggio di proporre una legge di civiltà, che consenta, come succede in molti altri Paesi civili al mondo, di mantenere vivo, nonostante il carcere, un legame di coppia, anche attraverso spazi di vera intimità.
Più spazio agli affetti
Qualche anno fa stavo realizzando il sogno di una vita: il matrimonio con la mia fidanzata, la creazione di una famiglia, l’auspicabile arrivo di un bambino a rendere ancor più gioioso il nostro rapporto. Nessuno avrebbe immaginato che invece del matrimonio ci sarebbe stato un processo penale e che al posto della nuova abitazione mi sarei ritrovato in carcere. Ho sempre pensato che la pena fosse una punizione personale, legata alle proprie responsabilità. Ho cominciato a dubitarne nei primi mesi di carcerazione, quando non potevo avere colloqui con la mia ragazza, considerata per legge una perfetta estranea. Infine mi sono convinto che di personale ci sia ben poco, visto che da anni il rapporto con la donna che stava per diventare mia moglie è limitato a un’ora settimanale. È una costrizione che affligge entrambi, con la «fortuna» che non abbiamo figli piccoli ai quali spiegare perché papà lo si possa praticamente vedere solo in fotografia. Ma che tipo di relazione si può costruire nell’ora che abbiamo a disposizione? Questo è l’aspetto più indigesto della carcerazione: non poter fare nulla, se non aspettare tempi migliori. All’inizio mi chiedevo cosa ne sarebbe stato del rapporto con la mia ragazza. Non potevo certo pretendere che anche lei si vincolasse alla mia condanna, libera nella vita ma ristretta nel cuore. La sua decisione è stata quella di rimanermi comunque vicina. A molti non è concesso tale privilegio, succede di frequente che dopo anni di rinunce una persona che continua a vivere nel mondo reale perda il senso di questa attesa, non avverta più quella sensazione di benessere che si ha quando una persona cara ti vive vicino, e alla fine arriva la separazione. Penso che le condizioni di vita nelle carceri migliorerebbero di molto se si potesse dare più spazio agli affetti. La famiglia è un bene da tutelare sempre, ci aiuta più di qualsiasi trattamento, ci invoglia ad essere migliori, perché fa più male la delusione dei nostri cari di qualsiasi punizione.
Vanni L.
Intimità violate
A causa della mia condotta di vita, da molti anni vivo le privazioni affettive che il sistema carcerario impone a chi, come me, commette un reato. Ciò che trovo incoerente è che, mentre la Costituzione dà grande importanza a una pena che sia umana e tenda al reinserimento delle persone, e la legge penitenziaria si esprime a favore del mantenimento del rapporto famigliare e sentimentale, la realtà poi sia molto diversa. Vedo la mia compagna nella sala colloqui del carcere, e la totale assenza di intimità ci impedisce lo scambio di tenerezze, che sono fondamentali in un rapporto di coppia. Entrambi soffriamo di questo disagio, sentendoci impotenti, privati della naturalezza del rapporto di coppia. Penso a quanta voglia avrei di stare solo con lei, di abbandonarmi nelle sue braccia per ritrovare un po’ della serenità perduta. Sentirci nuovamente una coppia. E invece lo siamo solo in parte, mutilati nell’attrazione fisica che ci spinge l’uno all’altra. Il protrarsi di questa limitatissima affettività può avere nel tempo ripercussioni gravi sul rapporto di coppia. È difficile rimanere accanto alla persona che ami, se la privi del contatto fisico e di conseguenza emotivo. Molti rapporti si dissolvono nell’amarezza di non poter continuare in questo modo, quelli che resistono invece sono a rischio, in quanto un po’ alla volta, se la compagna che hai non ha più modo di sentirti vicino, perde una parte di te, e tu ti fai sopraffare dalla paura di non ritrovare più alla fine la stessa persona che hai lasciato. La privazione della libertà è una conseguenza del reato, però non credo sia giusto che la sfera personale degli affetti venga a mancare quasi totalmente. In Spagna, Svizzera, Russia, e tanti altri Paesi, l’incontro intimo è previsto per legge, solo una mancanza di attenzione e di rispetto da parte della politica per le famiglie delle persone detenute non permette che questo avvenga in Italia. I danni che tutto ciò causa nelle famiglie diventano col tempo motivo di separazioni e sgretolamento di nuclei familiari.
Vincenzo B.
In Svizzera è diverso
È difficile parlare di affetti in carcere, perché ogni volta che si chiede più intimità, si pensa al sesso. E questo disturba quella parte di questo Paese che non vede di buon occhio il fatto che in carcere ci si possa incontrare coi famigliari in spazi che non siano le solite sale colloqui: luoghi nei quali avere anche incontri intimi tra persone legate da un rapporto sentimentale. Ma anche alcuni di noi detenuti considerano un tabù l’intimità con la propria compagna, se consumata all’interno di una galera. Io credo sia normale, per degli esseri capaci di provare ancora dei sentimenti, trascorrere, anche in frangenti difficili della loro esistenza come una carcerazione, un po’ di tempo insieme alle persone cui vogliono bene. Durante i colloqui è capitato che la mia ex convivente volesse abbracciarmi o baciarmi, ma tutto questo non è consentito dal regolamento del carcere, e se capitava che lei mi baciasse gli agenti mi guardavano con disapprovazione, si creava una situazione imbarazzante, e io mi sentivo in colpa solo per aver scambiato dei gesti di affetto con la persona alla quale ero legato. In altri Paesi problemi di questo tipo non esistono. Sono stato detenuto in Svizzera, e lì, trascorsi dieci mesi dal giorno dell’arresto, ai detenuti veniva data la possibilità di incontrarsi coi familiari in luoghi appartati, in cui consumare un pasto e stare per alcune ore in intimità. Questo regime riguarda i primi tempi di detenzione. Invece, per chi deve rimanere in carcere a lungo, una volta ogni due mesi c’è la possibilità di fare colloqui della durata di un giorno, in una casetta all’interno dell’area dell’istituto di pena, un luogo un po’ appartato che permette il controllo da parte degli agenti e la privacy delle persone che la occupano. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una concessione troppo indulgente: in fin dei conti siamo sempre dei criminali. Ma nessuno pensa che proprio l’opportunità di coltivare gli affetti può diventare una prima forma di recupero del detenuto, e salvare rapporti che il carcere inevitabilmente spezzerebbe. Credo che basterebbe pensare che quando un detenuto esce e ha delle persone a cui tiene, ci sono meno probabilità che torni a delinquere, perché il legame coi propri famigliari spesso funge da vero controllo sociale. Mentre chi esce senza punti di riferimento perché il carcere l’ha separato dai propri cari, è più facile che torni a delinquere, a dispetto di chi crede che il carcere duro garantisca più sicurezza.
Pietro Pollizzi
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