L'opinione dei detenuti

 

Il carcere entra a scuola. la scuola entra in carcere

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 1 giugno 2009

 

Iniziato in modo sperimentale cinque anni fa con 10 classi, il progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere" ha coinvolto quest’anno 108 classi, delle quali 65 sono anche entrate in carcere, e tutte hanno incontrato volontari e detenuti, operatori, magistrati, agenti di polizia penitenziaria per parlare di come si finisce a commettere reati e qual è il senso della pena. Il progetto è gestito dall’associazione di volontariato Granello di senape, in collaborazione con la Casa di Reclusione e con il sostegno e il finanziamento del Comune di Padova. È disponibile anche una pubblicazione "Parole in libertà tra carcere e scuole", realizzata grazie anche al Centro di Servizio per il Volontariato. I testi che seguono sono degli studenti, che hanno vinto un concorso di scrittura collegato al progetto, i primi due sono statati scelti dallo scrittore Edoardo Albinati, il terzo dai detenuti.

 

A contatto con gli abitanti del palazzo degli invisibili

 

Gentile Daniele, non le darò del tu, non la conosco ed il fatto che lei sia in carcere non mi autorizza a portarle meno rispetto di quanto ne porterei per un altro adulto. Mi piace, prima di imporle i miei ragionamenti e interrogativi a senso unico, ripensare alla prima impressione che mi ha fatto. L’ho vista seduta con un gruppo di persone e subito ho pensato a lei come a uno psicologo, visto l’abbigliamento, ma forse hanno giocato anche tutti i preconcetti che avevo sui carcerati. Dopo una breve presentazione da parte di una volontaria, Lei assieme a Paola, una ex carcerata, ci ha raccontato la sua storia, i suoi sbagli. Ma non voglio parlare di questo, voglio parlare del "criminale".

Quando le dicono "criminale" cosa si sente, cosa prova? È una parola difficile, fastidiosa. "Cri", ha un suono secco, molesto come quando fai stridere il gesso sulla lavagna; "Mi" ancora un suono nasale, acuto, le labbra si schiudono e la lingua si appiattisce sulla mandibola; "Na" ancora un suono nasale, ma ottuso, la lingua ora va dal palato verso il basso; "Le" è un suono aperto, finalmente mi libero di questa dannata parola. Io preferisco "invisibile".

Quando entra in carcere non è più "Daniele", ma un numero. Le tolgono un diritto fondamentale: l’identità. Quando togli l’identità ad un uomo è come se esso cessasse di esistere. È una cosa così banale che mi fa sentire stupida scriverlo. Gli uomini e le donne che hanno "peccato" vanno nel palazzo degli invisibili, un palazzo alto e grigio. Le persone che abitano nel palazzo grigio perdono la loro identità e vengono dimenticate dalla "Gente-Per-Bene". La superbia umana ha toccato livelli allucinanti se un uomo è convinto di poterne giudicare un altro, credo ci faccia sentire molto simili a un fantomatico Dio.

Lei ci crede in Dio? Se fossi nella sua situazione penso che avrei bisogno almeno della fede ma ora non ci credo. Quando ho appreso che non è un omicida, ci sono rimasta male, ho notato che per tanti altri è stato così. Mi emozionava l’idea di un faccia a faccia con un killer, sentivo l’adrenalina che saliva insieme al terrore nelle vene.

Mentalmente mi do della stupida, già mi immaginavo la scena: lui che racconta del suo efferato crimine ed io che tiro fuori domande mezze filosofiche, lette sui libri di Harris. Che idiota! Mi ha sconvolta più di quanto immaginassi quest’incontro. Mi ha fatto riflettere. Mi ha dato una svegliata su molti fatti. Mi ha aiutata a uscire da stupidi luoghi comuni. Ho capito un po’ di più il valore della libertà che cercherò di assaporare meglio. Per questo io la ringrazio.

 

Claudia Gusella 3ª Scuola Media Levi Civita

 

Seduti davanti a noi ci raccontano la loro vita

 

Me lo sono chiesto anch’io: "Elena, perché hai aspettato così tanto?" E non mi sono risposta, non subito. Forse perché buttare emozioni su un foglio, cosi, alla mercé di tutti, non è poi così facile. Ma prima o poi il momento doveva arrivare, dovevo scrivere le mie impressioni sull’esperienza del carcere. Quel momento è ora. Comincio dal cuore, stavolta. Non descriverò come siamo entrati o i pensieri prima. Partirò dall’interno.

Noi, là seduti davanti a loro. Come se fossero dei professori, schierati, e noi il pubblico, gli studenti attenti. Per me che ero nelle ultime file era difficile riconoscere i volti, sentivo solo voci a volte ferme a volte rotte. E quando alzavo la testa vedevo le loro sagome e una luce troppo forte filtrare attraverso quelle sbarre. Abbassavo gli occhi. Cercavo di fermare il cuore che accelerava quando sentiva parole troppo forti.

Un padre dice che ormai le sue figlie non le vedrà più, fuori da quelle mura. A me, che sono fuori, viene voglia di abbracciare mio padre e una lacrima fa capolino. Ma butto dentro e mi dico che quell’uomo sta scontando una pena e affiora una scritta nella mia testa, quella frase classica, che tutti almeno una volta abbiamo pensato: "poteva pensarci prima". Perché, secondo te non c’aveva pensato, Elena? Sì, eccome.

L’aveva fatto tante volte, ma al bivio lui ha preso la strada sbagliata e ora quell’errore ha un prezzo che noi al di qua delle sbarre non possiamo comprendere quanto grande sia. È una punizione. Come quando da piccola combinavo qualcosa e venivo mandata in camera mia a pensare al mio errore. Loro sono stati puniti e ora stanno scontando la loro pena. È inevitabile essere colpiti dalle loro storie, rimanerci male. Perché del resto, se sono finiti là, qualcosa dev’essere andato storto.

Ma cosa? Cos’è stato quel click che li ha fatti finire così? Nel caso dell’albanese, quel click è stato il rumore di un grilletto e l’uccisione di alcuni suoi connazionali. Movente: la vendetta. "Il momento peggiore", racconta in un italiano incerto, "non è stato quando ho ucciso, ma quando sono stato perdonato. Io sono stato perdonato, io, che cercavo vendetta, sono stato perdonato", ripeteva sconvolto, quasi come tutto fosse successo ieri.

Non dev’essere stato facile per loro parlarne, visto che non è stato facile nemmeno per noi ascoltarli. Tutto finito, chi si asciuga le ultime lacrime col fazzoletto ormai zuppo, chi scambia coi compagni commenti sull’esperienza. Sicuramente ne sono uscita cambiata, più consapevole. Perché tutti commettiamo errori e certe situazioni non sono poi così lontane come sembrano. È giusto che i carcerati paghino per l’errore che hanno fatto, solo è strano girare la testa e vedere il mondo fuori, sapendo che loro, gli stessi che erano nella sala con noi a parlarci delle loro vite, girando la testa verso la loro finestra, vedono la stessa luce accecante che ho visto io, filtrare attraverso le sbarre.

 

Elena Mazzardo 4ª B Istituto P. Scalcerle

 

Sul filo della vita con troppa sicurezza

 

La mia scuola ha organizzato un incontro con alcuni carcerati per far conoscere questo mondo, che a noi giovani pare lontano e surreale, reso distante dalla nostra inconsapevolezza del limite.

Già dopo averne discusso in classe, le cose mi sembravano meno "velenose" di quanto le fanno apparire i mezzi di comunicazione che spesso arricchiscono le notizie di cronaca nera con più cattiveria possibile, trasformando persone che hanno compiuto un’azione sbagliata in veri e propri demoni che rovinano la società. In realtà i demoni sono persone come noi, capaci di provare sentimenti ed emozioni, alle quali il carcere ha tolto tutto: la loro vita normale, la libertà, le cose principali e vitali.

L’unica differenza è che loro hanno commesso uno sbaglio grave e quindi sono stati nascosti e cancellati dal mondo. Ma che scopo ha la prigione se non quello della rieducazione? La maggior parte degli individui è recuperabile, altrimenti che senso avrebbe reintrodurli nella normalità dopo anni passati senza aver preso consapevolezza di ciò che hanno compiuto? Tornerebbero alla criminalità in men che non si dica, e ciò potrebbe compromettere la sicurezza del mondo esterno.

Quindi, è già un bel passo avanti fare questo progetto, che mi è piaciuto molto per le esperienze che ci sono state trasmesse in modo spontaneo, anche difficoltoso, ma con un messaggio incisivo: la linea di confine tra legalità e illegalità è facile da superare, un momento di debolezza può essere fatale. Questo è capitato a un detenuto che passando da sigarette a droga ha commesso un reato grave.

La sua storia mi ha colpito nel profondo e mi ha fatto comprendere come il carcere non sia un mondo a sé, ma qualcosa di vivo, nascosto, onnipresente come un fantasma, una paura dimenticata in uno sgabuzzino buio della mente di cui potresti sempre ritrovare la chiave. H incredibile come questa situazione rispecchi noi adolescenti, che ci muoviamo con sicurezza sul filo della vita credendo dl sapere tutto.

Cerchiamo un equilibrio, ci troviamo tra due burroni, da una parte la trasgressione classica della nostra età, dall’altra i precetti, i genitori, ma anche il timore di non essere accettati dagli altri per come siamo; questo ci spinge ad azioni quasi involontarie: prima le sigarette, poi le canne, l’alcool, la droga. Tutto questo per cercare di avere un’identità montata, falsa che, però, ci fa sentire perfetti. Ma forse è ora di lasciare i vecchi pregiudizi e cominciare a dare una seconda possibilità ai detenuti meritevoli, cosicché tutti gli esseri umani possano vivere la loro vita in sicurezza e libertà.

 

Eleonora Rigo 3ª B Scuola Media Falconetto

 

 

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