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Noi esseri umani che viviamo in spazi più ristretti di quelli di un canile a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 18 maggio 2009
Vorremmo non dover essere noiosi, e non parlare così spesso di condizioni di vita indecenti nelle carceri, ma la situazione sta precipitando anche in un carcere, fino a poco tempo fa considerato migliore di tanti altri, come la Casa di reclusione di Padova. La terza branda che stanno aggiungendo in celle singole, già usate come doppie, rende lo spazio così invivibile, che il dirigente sanitario si è rifiutato di firmare l’abitabilità di quelle che, elegantemente, vengono chiamate "stanze di pernottamento". Purtroppo, mai come ora è stata attuale la vecchia idea di Voltaire che "il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri".
I numeri che non tornano. Le carceri che non ci sono
Nel gioco del poker il bluff è quell’escamotage per cui il giocatore simula di avere in mano carte migliori di quelle reali. Succede lo stesso con i numeri dei posti nelle carceri, la cui capienza regolamentare nel Veneto è di 1910 posti, ma per le quali si parla anche di una capienza "tollerabile" che pare crescere a colpi di bacchetta magica. Essendo io in carcere da parecchio tempo, ho spesso assistito a questi fenomeni, ricordo che tra la fine degli anni 70 e la fine degli 80, è stato aperto in Italia più di un centinaio di nuove carceri, tutte rigorosamente con celle singole, monolocali con servizi compresi, pari a 11 mq. circa (bagno compreso), in tutte poi negli anni i posti sono raddoppiati, ovvero due posti per ogni cella, così in un carcere predisposto per 350 i posti sono diventati 700: 5,5 mq. a detenuto. Però nella nostra regione siamo arrivati a più di 3100 detenuti, e abbiamo superato anche la capienza tollerabile, che è di 2900, e quindi anche per il Ministero, evidentemente, un essere umano non può più tollerare questa situazione. In molti istituti ci sono già tre detenuti per ogni cella, le attrezzature però (cucine, docce, scuole, spazi dedicati ad attività lavorative) che allora erano state calcolate per 350 persone, oggi devono fornire un servizio per il doppio delle loro possibilità. Ora ci dicono che costruiranno nuove carceri, ma dove? All’interno di quelle già esistenti, perché così si risparmia, non solo sull’acquisto dei terreni, ma anche sulle attrezzature, togliendo ovviamente ulteriore spazio alla rieducazione e alla risocializzazione del detenuto. Ma in fondo a cosa servono questi spazi, se esiste fin d’ora una carenza cronica del personale che dovrebbe occuparsi proprio della nostra "rieducazione"? Il Sappe, uno dei più importanti sindacati di Polizia penitenziaria, lamenta la mancata applicazione delle misure alternative per i reati minori, che davvero ridurrebbero il sovraffollamento. Ma lamenta soprattutto di non essere stato consultato per i problemi che riguardano l’emergenza delle carceri, con il risultato che già oggi i detenuti sono oltre la soglia delle 62mila presenze e si stima che, con il ritmo attuale, si arriverà a 70mila entro la fine del 2009, ma con quali risultati? Che sempre più carceri aggiungeranno una branda alle loro celle già raddoppiate, il personale sarà sempre più carente, sottoposto a turni massacranti, il lavoro da parte degli educatori e degli assistenti sociali verrà vanificato, i detenuti verranno posti nella condizione di vivere sempre più compressi in spazi invivibili, in attesa della costruzione di questi nuovi padiglioni negli spazi delle carceri esistenti. In questo contesto auguro a tutti buona fortuna, annunciando che gira voce che qualcuno dal suo cilindro stia estraendo il sistema per trasformarci in lillipuziani, così in una cella riusciremo a stare comodamente in 4 e lo spazio per le attività sociali sarà addirittura abbondante.
Maurizio Bertani
Cosa significa un po’ di intimità
Il carcere bavarese dove sono stata è duro. Segue la filosofia secondo cui la pena è punizione e ripensamento. E per questo fa sì che il detenuto abbia uno spazio tutto suo dove "poter pensare al male fatto". Il proprio spazio fisico dà la possibilità di avere anche un proprio spazio mentale. Se però lo spazio fisico manca, se si è ammassati come spazzatura in una discarica, diviene molto difficile trovare un luogo dove mantenere un equilibrio, dove riflettere su quello che si è fatto nella vita. Tutti gli esseri umani hanno un momento in cui ripensano a quello che hanno vissuto durante il giorno e, molto spesso, quel momento coincide con il tempo in cui si rimane soli. Ma quasi nessuno è in grado di ritrovarsi solo con se stesso, di concentrarsi su se stesso e su quello che vive, stando in mezzo alla folla. Voglio allora parlare della mia esperienza di carcere: due anni e cinque mesi in una cella singola in Germania, poi per essere vicina ai miei ho chiesto il trasferimento in Italia e i seguenti 5 anni li ho passati in uno stanzone dove siamo state da un minimo di 8 a un massimo di 12, con continuo arrivare e andarsene di donne di tutte le nazionalità, di tutti i caratteri, di tutte le abitudini. Convivenza forzata dove anche la cella, unico posto dove una persona dovrebbe trovare un po’ di privacy, diviene "luogo pubblico". Più di una volta ho chiesto di andare in isolamento, ma mi è stato risposto che in isolamento ci vanno solo quelle che meritano una punizione per qualche comportamento fuori dalle regole, che però prevede anche la perdita della liberazione anticipata (45 giorni di sconto di pena a semestre!). Coriacea e un po’ fortunata, mi sono ritagliata uno spazio di solitudine nelle aule scolastiche dove avevo accesso "per motivi di studio": unico modo per non scoppiare, per non perdere completamente l’equilibrio, per riuscire a "rivisitare il mio reato". Nella mia esperienza, nessuna delle donne costrette a vivere 24 ore su 24 in mezzo alle altre è riuscita a mettersi in discussione. Anzi. Si sono convinte di essere delle vittime invece che delle "carnefici", perché a questo risultato porta l’essere costretti a vivere senza neppure il rispetto degli spazi vitali. Nel mio letto a castello a Venezia, avevo imparato a isolarmi dalle altre 8, 9, 10, 11 compagne di cella: cuffie con la musica nelle orecchie per leggere, tappi di cera e maschera sugli occhi per dormire. Alienante! Ma qualcuno pensa davvero che una persona possa diventare migliore in queste condizioni? È questa la soluzione per aumentare la sicurezza e diminuire i reati?
Paola Marchetti
Vivere cercando di non calpestarsi a vicenda
Otto metri quadrati. Tre persone che ci devono vivere dentro con tre letti, un tavolo di 80 centimetri per 60, tre sgabelli, tre armadietti. Ma questi otto metri quadrati erano pensati per far vivere una sola persona. Oggi però anche nella Casa di reclusione di Padova la situazione è cambiata, e quelle celle che all’inizio dovevano ospitare una detenuto, ne ospitano tre. Ho vissuto per anni in una di quelle celle, che già da molto tempo non erano più occupate da una persona, ma da due. Sì, da anni infatti anche a Padova non esistevano più celle singole, per cui pure le persone con pene lunghe e lunghissime si sono trovate a dover condividere quegli spazi cercando di sopravvivere, e di mantenere giorno dopo giorno un livello di vivibilità meno indecente possibile. Insomma, credo non sia difficile capire che cosa significhi stare chiusi in così poco spazio e costretti a condividere quella misera superficie e tutto ciò che la riempie, con una persona che nemmeno si conosce, a volte con una persona che ha cultura, usanze e religione differenti, con una persona che in altre situazioni magari non avresti neanche mai avvicinato. Be’, non è certo facile, ma in linea di massima tra due persone si riesce, anche se non sempre, a trovare un punto d’incontro e a condividere tutto cercando di non calpestarsi a vicenda, e io, come altre migliaia di detenuti, ci sono riuscito. Ma oggi che quello stesso spazio deve essere diviso per tre, temo non si riuscirà a trovare un modo per sopravvivere con qualche dignità. Dividere quei metri quadrati per tre significa che, per esempio, può stare in piedi una sola persona alla volta. Significa che il già limitato spazio vitale di una persona si deve ulteriormente ridurre di un terzo. Significa che in una cella nasceranno più conflitti, perché sappiamo tutti quanto sia difficile far ragionare tre teste chiuse insieme in spazi ristretti, ma se queste teste arrivano una dal nord Africa, l’altra dalla Cina e la terza dall’Italia? Io credo che questa situazione prima o poi sia destinata ad esplodere, perché per quanto si dica che l’uomo alla fine si abitua a qualsiasi situazione, in questo caso credo non ci sia da fare i conti solo con lo spirito di adattamento dell’essere umano, che potrebbe anche abituarsi a vivere in un metro quadrato, ma con un sistema di esecuzione delle pene già di per sé in piena crisi. Mi limito a fare delle considerazioni pratiche, senza stare ad analizzare grosse questioni: una sezione della Casa di Reclusione di Padova è stata studiata per far sì che ci potessero convivere venticinque persone, per cui in ogni sezione ci sono venticinque celle, cinque docce, uno spazio comune e un’area passeggi, pensati per farci star dentro venticinque persone, come potranno mai viverci settantacinque persone in quello stesso spazio?
Andrea
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