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Con meno diritti, in una società con meno libertà a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 16 febbraio 2009
La galera è sempre brutta, ma per gli immigrati lo è doppiamente: anni senza vedere i propri familiari, qualche volta anche senza telefonare, visto che si può chiamare solo ai telefoni fissi, che in molti Paesi quasi non esistono più, e poi ancora difficoltà ad accedere alle misure alternative, assenza di un futuro perché l’Italia alla fine della pena non li vuole più, e a casa loro spesso sono degli estranei. Ma oggi gli immigrati in carcere sono angosciati anche da quel che succede fuori, perché vedono i segnali di un inasprimento delle condizioni di vita dei loro connazionali, che si tradurrà, alla fine, in più gente che entrerà in carcere, senza per questo che la società fuori sia davvero più sicura.
Ricongiungimento familiare un antidoto per molti reati
Il pacchetto sicurezza dell’anno scorso aveva introdotto delle forti restrizioni nell’ambito del ricongiungimento familiare per gli immigrati, motivando questa scelta con la necessità di combattere la clandestinità. Ricongiungersi con un familiare implica il permesso dello Stato italiano per farlo, quindi non c’è nulla di clandestino in questa modalità per coltivare gli affetti, tutt’altro: uno straniero si poteva presentare al Consolato italiano e fare domanda per venire in Italia a vivere con il proprio fratello o sorella, padre o madre immigrati, e il Consolato, dopo aver accertato l’affidabilità dello straniero già residente in Italia, autorizzava o meno il familiare a riunirsi al proprio caro. Ricongiungersi significa quindi avere una persona, una casa e un reddito che garantisce la sussistenza all’immigrato che, arrivando per vie legali, può iniziare il proprio progetto di vita in un ambiente sano e controllato. Non a caso molti immigrati finiti in carcere raccontano proprio di non aver avuto un punto di riferimento «regolare» che gli garantisse un aiuto nella ricerca di un lavoro, e spesso è stata questa condizione a spingerli verso la vita da «delinquenti». Inoltre, un immigrato che ha la possibilità di venire in Italia grazie all’ospitalità di un familiare, si sente prima di tutto obbligato nei suoi confronti, e per questa ragione sarà più motivato a fare una scelta di vita simile a quella di chi lo ospita: cercare un lavoro onesto piuttosto che tradire la sua fiducia dedicandosi allo spaccio o ai furti. Noi immigrati sappiamo che i nostri familiari vivono in condizioni economiche disastrose e per questo cerchiamo di mandare parte dei nostri salari, anche quando lavoriamo in carcere e guadagniamo poco. Chi di noi fuori lavorava, ricorda che per risparmiare su tutto si viveva insieme ad altri, spesso degli estranei incontrati alla stazione o in altri punti di ritrovo di immigrati. Ma chi era in regola con i documenti prendeva una casa per conto proprio e spesso faceva venire un fratello, una sorella o un figlio perché questo significava non solo provvedere meglio a loro, ma anche avere una persona che aiutava con il proprio lavoro. Adesso molti si domandano il perché dell’aumento dei clandestini. Ma se hanno fatto una legge che rende più complicato far venire un familiare in Italia, questo non fa altro che aumentare la clandestinità, poiché chi ha un fratello che fa il muratore o una madre che fa la badante in Italia, si indebiterà fino al collo per pagare gli scafisti e raggiungere il suo caro in Italia, a costo di vivere da clandestino, e a questo punto mi domando: simili misure di lotta alla clandestinità non istigano invece all’immigrazione clandestina?
E. Makarov
Più c’è povertà più si delinque
Il nuovo decreto sicurezza introduce diverse misure che riguardano le condizioni economiche degli immigrati, stabilendo che da ora in poi, quando si chiederà o si rinnoverà il permesso di soggiorno, si pagherà «un contributo, il cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’interno». Inizialmente mi era sembrata una tassa simile alle tante che pagano gli italiani, e allora sono andato a vedere cosa pagava prima chi richiedeva il permesso di soggiorno. Ho scoperto che lo straniero di età superiore ai quattordici anni che si presenta a fare richiesta di permesso paga alle Poste italiane un contributo di trenta euro. Altri ventisette euro e cinquanta vanno alla tipografia che stampa il documento, mentre ulteriori 14 euro e sessantadue centesimi vengono pagati per la marca da bollo. E siccome la legge Bossi-Fini obbliga le questure a rilasciare permessi di soggiorno della durata di un anno e solo in alcuni casi di due, la maggior parte degli immigrati si ritrova a fare annualmente questa trafila. La cosa che più preoccupa l’immigrato è la situazione economica della propria famiglia nel Paese d’origine, e qualsiasi cosa è sacrificabile di fronte al timore che i genitori o i figli rimasti a casa rimangano senza denaro: uno è disposto a saltare un pasto o a rinunciare a comprarsi le scarpe, ma appena prende in mano la busta paga deve correre a spedire il vaglia a casa. Certo non è per tutti così, e non mi nascondo che c’è gente che viene qui e pensa solo a commettere reati, ma per molti davvero quello è il pensiero principale. Svuotare ulteriormente le tasche degli immigrati significa semplicemente rinforzare quei meccanismi che si mettono in moto quando una persona già povera si impoverisce ulteriormente, vale a dire lavorare di più a qualsiasi condizione. Si dice che questa nuova tassa viene introdotta perché c’è la crisi, ma si dimentica che già con il lavoro che fanno, gli immigrati pagano le tasse nella stessa misura dei lavoratori italiani, ed è vero che usufruiscono di servizi pubblici come scuole e ospedali, ma è altrettanto vero che contribuiscono a pagare questi servizi forse più di quello che poi ricevono, visto che spesso sono troppo grandi per andare a scuola e troppo giovani per andare in ospedale. Noi poi, che siamo detenuti, non possiamo ignorare il fatto che la crisi porterà in carcere molte persone e le nostre condizioni di vita, già disastrate, finiranno per diventare inaccettabili. La nostra esperienza ci insegna infatti che più c’è povertà e più crescono i reati, la Storia insegna invece che più lo Stato prende la cattiva abitudine di riempire le carceri, più si cade nel baratro dell’autoritarismo e della perdita generale della libertà.
Gentjan Germani
Oggi eviterei l’ospedale anche a costo di morire
Un giorno stavo uscendo da un bar quando mi è venuto un forte mal di stomaco, non riuscivo a camminare e mi piegavo in due dal dolore. Allora il proprietario ha chiamato l’ambulanza, che è arrivata velocemente e mi ha portato in ospedale. Al Pronto Soccorso mi hanno chiesto i documenti e io ho risposto che non li avevo perché ero entrato in Italia da clandestino. Allora mi hanno chiesto le generalità. All’inizio sospettavo che volesse darle alla polizia, e ho risposto che non volevo più essere visitato, ma il medico mi ha spiegato che i dati gli servivano solo per il loro registro. Così gli ho detto la mia identità e mi hanno portato subito a fare una radiografia, e appena il medico ha visto le lastre ha ordinato agli infermieri di preparare con urgenza la sala operatoria perché ero messo molto male. Così mi hanno operato. Mi sono svegliato dopo qualche ora e una infermiera mi ha informato che dovevo stare in ospedale per 15 giorni perché avevo bisogno di accertamenti e di cure. Dopo due settimane mi hanno dimesso, ma ho dovuto ritornare dopo un mese per fare un’altra visita. Alla fine la mia esperienza di malattia si è conclusa bene. Se fossi fuori di qui ora e mi dovesse succedere la stessa cosa, forse eviterei di farmi portare in ospedale e mi terrei il dolore, oppure chiamerei qualche paesano che si intende di medicina popolare e metterei la mia vita nelle sue mani. Ma non rischierei di essere preso dalla polizia e mandato in un Centro di identificazione e di espulsione. Anche a costo di rischiare di morire. Il decreto sulle misure di sicurezza che è appena passato al Senato consente che i medici denuncino i clandestini alle forze dell’ordine, mentre fino ad oggi era stato vietato. Noi stranieri che per arrivare in Italia abbiamo attraversato mari e monti nascosti negli angoli più sporchi delle navi, dei camion e dei treni, lottando con le zecche e con la scabbia, eravamo sollevati nello scoprire che, in questa spietata caccia che lo Stato dà ai clandestini, le cure mediche rappresentavano una specie di zona franca. Scopriamo invece oggi che in questo Paese non si concede più tregua nemmeno a chi sta male. In galera ho sentito tante storie di gente arrestata all’ospedale, perché se uno straniero delinquente finisce al Pronto Soccorso con una ferita da taglio o da arma da fuoco, il medico è già obbligato a denunciare il fatto alle forze dell’ordine. Noi sappiamo bene che i delinquenti che hanno i soldi non rischiavano prima e non rischieranno mai di mettersi in fila con la gente comune, ma cercano posti riservati, dove i soldi offrono protezione. Viene il dubbio allora se questa misura sia stata fatta davvero per non dare tregua ai clandestini, oppure perché non si sopportava la vista di tanti immigrati nelle corsie degli ospedali.
Kamel Said
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