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Dal carcere, un volontariato che aiuta a capire la complessità delle vite umane A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 13 ottobre 2008
Fare volontariato oggi con soggetti come i detenuti non è facile, si ha come la sensazione di doversi quasi giustificare di dedicare il proprio tempo a quelli che sono la causa prima dell’insicurezza dei cittadini onesti. E invece proprio questo volontariato può essere una sfida importante per creare un ponte e tessere relazioni tra due realtà, quella del carcere e quella del mondo "libero", che sarebbe utile si conoscessero di più. Raccontiamo allora tre esperienze di volontariato, per ragionare su una realtà complessa come quella del carcere.
A fianco di persone che vogliono recuperare il rispetto di sé
A Padova si respira una brutta aria. In piazza, di fronte a un banco di verdura, in fila alla cassa del supermercato o in tram, in tutti i luoghi in cui quotidianamente ci si trova a condividere un po’ di tempo con i propri concittadini si sente crescere inesorabilmente l’odio e il risentimento. I "non se ne può più" ormai non si contano, e se con un sorriso gentile si prova a chiedere cosa c’è che non va, le risposte arrivano immediate, somigliandosi tristemente fra di loro: "Ma lei dove vive? Non si è accorta che Padova non è più la stessa di una volta? Ovunque stranieri, zingari, tossicodipendenti e giovani senza educazione. Non ci resta che augurarci di non essere scippati, aggrediti o peggio…. e, d’altra parte, i delinquenti sanno che non c’è certezza della pena, pochi entrano in carcere e chi entra esce poco dopo, pronto a ricominciare. Pene più dure, per liberarci da questa gentaglia!". Vivo anch’io a Padova e per quanto comprenda il disagio e il timore che possono suscitare i forti cambiamenti sociali degli ultimi anni, non riesco a provare rancore verso chi si trova a vivere in condizioni di marginalità sociale. Dopo anni di volontariato alle cucine economiche, da un anno e mezzo frequento il carcere "Due Palazzi", sono una volontaria che collabora alla redazione di un giornale nato dieci anni fa e divenuto la principale fonte di informazione per chi senta l’esigenza di superare i luoghi comuni, che la televisione e tanti quotidiani ci propinano sui temi collegati al carcere. Una trentina di detenuti e alcuni volontari si incontrano ogni giorno in una stanza messa a disposizione da una direzione per loro fortuna lungimirante, e coltivano con rigore e costanza l’arte del dubbio, imparando a motivare le proprie ragioni e talvolta a scriverle per il giornale. La prima regola per chi vuol far uscire la sua voce dalle sbarre è che non deve mai scordarsi che ogni parola va attentamente soppesata e che è essenziale riuscire a spiegare, attraverso il racconto e la testimonianza di sé, che dietro la sua persona c’è un percorso esistenziale complesso, spesso devastato da errori irrimediabili, ma in cui è comunque possibile recuperare il rispetto di sé e di ogni altro essere umano. Ho provato a spiegare il senso che ha per me entrare in redazione. Spesso vengo accusata di essere dalla parte dei detenuti e trascurare la fatica delle persone oneste che tutta la vita si sforzano di rispettare la legge ed evitare scorciatoie. Non mi ritengo né "buonista", né partigiana, sono semplicemente convinta che la responsabilità di ciascuno di noi incominci nei sogni. Il mio è quello di una comunità che non trovi rifugio in giudizi manichei, ma accetti di affrontare con passione la sfida di riconoscere nella complessità di ogni percorso umano una ricchezza profonda, riaccettando con fiducia anche chi, pur dopo aver arrecato tanto dolore, si dimostri pronto a ridare senso alla propria esistenza.
Lucia Faggion
Un laboratorio in cui si sperimenta il confronto fra "buoni" e "cattivi"
Di fronte a una informazione e a una politica sempre più aggressive sui temi della sicurezza, si apre per chi fa volontariato in carcere e si occupa poi di quelli che dal carcere escono, una stagione nuova, e più difficile anche: bisogna che impariamo o reimpariamo tutti a fare un lavoro paziente e capillare nel cuore della società per informare, per parlare, per spiegare che con la paura si vive male, che è meglio non lasciarsi condizionare da questo clima e riflettere davvero sul senso che devono avere le pene, e sull’importanza di non abbandonarsi alle semplificazioni della realtà. Non possiamo continuare a vivere immaginando che si riesca davvero a dividere il mondo nettamente tra il bene e il male, e a cacciare lontano tutto il male. Le cose non stanno così, e allora bisogna domandarsi se sia più sensato lasciare le persone in galera fino all’ultimo giorno della pena, vedendole poi uscire incattivite e sole, o invece lavorare per un loro rientro graduale nella società. Certo, convincere oggi la gente che una persona chiusa in gabbia a lungo è ben più pericolosa di una trattata con umanità e accompagnata passo passo a ritornare alla vita libera è come voler svuotare il mare con un cucchiaino, ma noi non ci dimentichiamo che in questo Paese ci sono state battaglie, come quella in difesa del divorzio e dell’aborto, che tutti davano per perse, sottovalutando la capacità della nostra società di recuperare, al momento necessario, uno spirito più libero e laico. Forse è un paragone che c’entra poco, ma almeno mi consola. E mi consola pensare che, nella desolazione di un momento storico così pesante, fare volontariato in carcere può anche voler dire, come per me, che faccio un giornale con una redazione "dentro", dar vita a uno straordinario laboratorio in cui si sperimenta il confronto fra italiani e immigrati, fra "buoni" e "cattivi", fra cittadini liberi e cittadini reclusi. E di recente questo "laboratorio" ha iniziato una riflessione sul rapporto autori-vittime di reato che è diventata un momento fondamentale del nostro lavoro. Perché noi lavoriamo con le parole, e abbiamo imparato che le nostre parole devono sì aiutare le persone detenute a vedere riconosciuti i propri diritti, ma devono anche essere parole che non offendono e non dimenticano chi il reato l’ha subito. Quello su cui vogliamo impegnarci è fare in modo che il nostro lavoro sulla comunicazione diventi motore di un cambiamento vero, coinvolgendo le persone detenute in progetti di confronto con le scuole, in cui le esperienze più negative, le testimonianze di come si finisce in carcere diventino per gli studenti una forma intelligente di prevenzione. Ma per dare un senso a questi progetti il volontariato deve capire che oggi è indispensabile mettere insieme le forze, se non vogliamo essere spazzati via, magari gentilmente, con l’invito ad andare a occuparci dei "buoni" invece che dei "cattivi" che stanno in galera.
Ornella Favero
"E che se la facciano tutta, la galera"
Che l’esperienza di volontariato in carcere fosse qualcosa di forte, l’avevo capito da subito. La prima volta che entrai, infatti, il solo passare attraverso cancelli spessi una spanna, aspettando che si chiuda il primo per poter attraversare il secondo, e dover lasciare più volte il mio nome, mi aveva letteralmente sfinito. Nonostante questo primo sentore, però, mai avrei pensato che questa esperienza mi potesse cambiare la vita. Anzi, me la potesse letteralmente distruggere. "Rovinare". Una volta era bello, quando si usciva con gli amici e si diceva "Dagli vent’anni a Previti… no dagliene trenta". Ora, invece, è diverso. Quei discorsi giustizialisti mi sembrano lontani un secolo. A sentir parlare di anni di carcere mi salgono i brividi lungo la schiena, perché ogni giorno mi scontro con il fatto che anche una sola settimana senza libertà è un inferno. Capite il risvolto sociale di questo cambiamento? Faccio un esempio. Ieri ero in farmacia e il farmacista parlava con un cliente. Dicevano che dalle parti della fiera c’è troppo spaccio e ci vorrebbe un inasprimento delle pene. "E che se la facciano tutta, la galera", commentò, poi, il farmacista. "Come si fa a dire una cosa del genere"?, pensai. Poi, mi venne in mente la storia di un ragazzo della redazione di "Ristretti Orizzonti" che, per spaccio e con un processo in contumacia, sta scontando diciotto anni di reclusione. Pensai alla disgregazione delle famiglie dei detenuti e alle difficoltà di ritorno ad una vita Normale, con la N maiuscola. Mi vennero in mente le statistiche, sconosciute ai più, che dicono che, con un reinserimento progressivo, tramite le tanto bistrattate misure alternative, la probabilità di recidiva crolla: dal 70% al 19%. Ovviamente, in questo groviglio di pensieri, pensai anche ai momenti di discussione sulle vittime, in cui più persone detenute dicevano che solo l’incontro con l’altro li aveva costretti a riflettere su ciò che avevano fatto, mentre il carcere duro e chiuso aveva sortito il solo effetto di farli sentire a loro volta vittime. Come in un flash mi attraversò la mente il film degli ultimi cinque mesi della mia vita. Chiaramente, pensai anche che i soldi, a quel farmacista, non li avrei mai dati, così mi spostai in un’altra farmacia, mettendomi nuovamente in coda. Ecco perché l’esperienza in carcere mi sta "rovinando la vita". Gran parte delle notizie sui giornali mi sembra senza senso, mentre i venti pedestremente giustizialisti non fanno altro che riempirmi le narici di un pessimo odore. Fatico a tornare a quella visione semplificata, da tv, dove chi fa il male e chi lo subisce sono ben riconoscibili. Fin dal primo sguardo. La domanda quindi è: sarà mai possibile ricominciare a prendere le cose sottogamba? Sinceramente credo di no. Riflettendoci, spero di no.
Alessandro Busi
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