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Giustizia: ddl Alfano; te le do io le misure alternative al carcere di Alessandro Margara
Il Manifesto, 17 marzo 2010
Nel carcere italiano, soffocato da una serie di leggi riempi-carceri, è stato abrogato l’art. 27 della Costituzione e, di conseguenza, il senso di umanità e la finalità rieducativa nella esecuzione delle pene. L’intollerabilità attinge sempre nuovi livelli e primati. Fra le soluzioni prospettate c’è il rilancio delle misure alternative alla detenzione. Le stesse sono calate verticalmente: è il momento tipico del cambiare tutto per non cambiare nulla. Il ministro Alfano presenta un articolato disegno di legge. A leggerlo però si conclude che questo progetto, produrrà solo qualche misura alternativa (molto poche e sempre più pesanti e analoghe alla galera) e ulteriori e abbondanti dosi di carcere. L’art. 1 del progetto prevede la detenzione domiciliare per le pene residue fino a 12 mesi. Va ricordato, per vero, che il comma 1bis dell’art. 47ter prevede già lo stesso beneficio per le pene fino a due anni, ma, certo, non ha inciso sul sovraffollamento. Il progetto Alfano, però, a parte il dimezzamento del beneficio previsto, prevederebbe due varianti. La prima è la competenza del giudice monocratico, come per la liberazione anticipata. Funzionerà? Il magistrato monocratico sarà meno o più guardingo e lento di quello collegiale? La seconda variante è che, contrariamente a quella di due anni del citato comma 1bis, potrebbe applicarsi anche ai recidivi. Ma, quanto a esclusioni dalla detenzione domiciliare di 12 mesi del progetto, questo non si fa mancare nulla e ne prevede varie, compresa la esclusione di tutte le pene inflitte per i delitti di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario, il cui numero cresce a ogni piè sospinto. La relazione al progetto è molto ottimista sull’effetto sfollamento del progetto. I detenuti fino a un anno sarebbero il 32%. Si tratta - notiamo - solo di detenuti definitivi, circa 10.000 (non gli oltre 20.000, delle indiscrezioni iniziali), di cui la grande maggioranza è detenuta per pene molto inferiori all’anno. Quindi, misure alternative poche, ma nuovo carcere tanto. L’art. 2, infatti, aumenta le pene per l’evasione (da sei mesi/un anno, si arriva a un anno/tre anni), evasione frequente nelle detenzioni domiciliari, i cui utenti generalmente stanno in appartamentini da far rimpiangere l’ora d’aria carceraria e vengono spesso denunciati e condannati per evasione per essere trovati in cortile o sul marciapiedi davanti a casa. Altra misura per i giudicabili: la sospensione del procedimento con messa alla prova, prevista per i minori, è ammissibile per tutti. Il ministro sciala: per tutti? Piano: solo per i reati puniti con pena pecuniaria o con il massimo della pena detentiva di tre anni, sola o congiunta a pena pecuniaria, reati minimi per cui eccezionalmente si finisce in carcere per pochi giorni o per pochissimi mesi; sono esclusi i recidivi; la prova dura due anni (o un anno se la pena è solo pecuniaria) in affidamento al servizio sociale, con gli obblighi consueti e non leggeri, cui si aggiunge necessariamente la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività e l’adoperarsi per la parte lesa fino al risarcimento del danno. La messa alla prova è revocata e si procede al giudizio sospeso: se l’interessato rifiuta il lavoro di pubblica utilità; se commette, durante la prova, un nuovo delitto non colposo ovvero un reato della stessa indole di quello per cui si procede; ovvero in caso di esito negativo della prova. Se la messa alla prova è revocata, l’interessato deve pagare per il periodo di prova svolto un giorno di pena detentiva (reclusione o ammenda) per cinque giorni di prova: ovvero 144 giorni per due anni. Seguirà probabile condanna e nuova pena nel procedimento già sospeso. Fortunatamente per chi, volendosi fare del male, ha richiesto ed ottenuto la messa alla prova, non può riproporla. L’occasione era buona per peggiorare l’affidamento in prova: fra le prescrizioni viene inserita anche quella della prestazione di lavoro di pubblica utilità. Inoltre, la persona che ha fruito per due volte della messa alla prova (la concessione avvelenata) può ottenere l’affidamento una sola volta. Si aggiunge, infine, oltre al rilievo delle impronte digitali, quello "dell’impronta fonica, nonché di altri eventuali dati biometrici". Innovazione tecnologica o ritorno a Cesare Lombroso? Giustizia:
Alfano: spero sì bipartisan su ddl misure alternative Dire, 17 marzo 2010 Un
sì bipartisan e in tempi brevi per il disegno di legge del governo sulla messa
in prova per i detenuti e le misure alternative. È l’auspicio del ministro
della Giustizia Angelino Alfano intervenendo alla presentazione della mostra
“La bellezza dentro, donne e madri nelle carceri italiane” organizzata a
vicolo Valdina dall’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà.
All’iniziativa hanno partecipato anche il vicepresidente della Camera Maurizio
Lupi, il questore di Montecitorio Gabriele Albonetti, il sottosegretario alla
Giustizia Maria Elisabetta Casellati, i deputati Renato Farina (Pdl) e Andrea
Orlando (Pd”). Il
guardasigilli ricorda che il disegno di legge è stato presentato alla Camera e
dice: “Spero venga affrontato nei tempi più rapidi possibili”. Poi aggiunge
di sperare in una “condivisione” del provvedimento anche da parte delle
opposizioni per dimostrare “tutti insieme” che “vi è un’altra giustizia
e che c’è una macchina che va avanti nel silenzio e fuori dai clamori della
macchina mediatica”. Quanto
alla politica del governo in tema di carceri, Alfano sottolinea che sarà “in
piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione”, vale a dire “che,
innanzitutto, bisogna garantire la dignità” alle persone sottoposte a misure
detentive. E questo in termini pratici vuol dire, continua, “più strutture e
più carceri dignitose”. Il ministro sottolinea che, dall’inizio della
legislatura al dicembre 2009, si sono ottenuti “1.600 posti in più nelle
carceri italiane. Lo stesso numero - continua Alfano - è stato ottenuto nel
decennio precedente”. Questo dimostra, osserva il ministro, che si può fare
una politica carceraria contro il sovraffollamento senza ricorrere a indulti e
amnistie”. Un’ultima osservazione sulle risorse a disposizione del
ministero: “Se ne avessimo per quanto ci occorre - conclude Alfano - sarebbe
troppo facile. Si deve fare i conti con l’olio che si ha a disposizione”. Per donne con bimbi vorremmo trovare
alternative “Il
nostro sogno è che non ci debbano essere più situazioni di mamme con bimbi
piccoli in carcere. Questa notte sono stati registrati cinquanta bambini in
situazione detentiva”. Lo dice il ministro della Giustizia Angelino Alfano,
alla presentazione della mostra fotografica sulle donne e le madri nelle carceri
italiane che sarà aperta al pubblico da domani e fino al 26 marzo a vicolo
Valdina. Per il guardasigilli, da un lato “occorre ampliare la possibilità”, soprattutto per le donne che hanno bimbi, “di espiare la pena in strutture che diano la certezza che si paghi il reato commesso” ma dall’altro “occorre che non vengano traumatizzati bambini che non hanno colpa per quel reato commesso dalle loro madri”. Il ministro sottolinea la necessità di garantire alle donne in carcere “un’assistenza dentro la struttura che sia dignitosa e misure di accompagnamento sia per le madri che per i loro bambini”. Giustizia: i sogni degli immigrati detenuti; non abbandonateci di Claudia Brunetto
La Repubblica, 17 marzo 2010
Hamid è scappato dalla Nigeria ed è finito dietro le sbarre per una serie di furti. Samou, originario dell’Egitto, ha rapinato una donna e nel tentativo di derubarla l’ha ferita al viso con un vetro di bottiglia. Habib del Ghana, invece, sta scontando una pena per traffico di stupefacenti. Storie diverse di immigrati detenuti nelle carceri siciliane accomunate dal disperato bisogno delle cose più essenziali. Slip, tute, maglie, accappatoi e scarpe comode. Coperte per scaldarsi al freddo di una cella. Fogli di carta e francobolli per scrivere ai loro cari lontani. Su ottomila detenuti in Sicilia - secondo i dati forniti da Orazio Farano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - 1.975 sono stranieri. Principalmente di origine africana e asiatica. Il 46 per cento di loro si trova in carcere per scontare una sentenza definitiva. Tre su dieci per reati legati al traffico di stupefacenti. Altrettanti per furti e rapine. Una percentuale minore, invece, per reati contro la persona. Tutti vivono nella paura di perdere quelle fragili relazioni conquistate a fatica in un Paese straniero. E scrivono numerose lettere alla Caritas chiedendo di non essere dimenticati e di essere accolti nei centri di accoglienza una volta fuori dal carcere. C’è un ragazzo ghanese che a tre anni dall’inizio della detenzione scrive "non ho nessuno che venga a parlare con me. Non ho alcun sostegno economico e morale. Voglio andare via da qui e andare in una casa famiglia. Non ho avuto nulla ancora dalla vita e vorrei costruire qualcosa finché sono in tempo". E un altro africano con problemi di tossicodipendenza che chiede di essere accolto in una struttura in cui "può essere curato e avere un giorno una vita normale e costruire una famiglia". Per loro, infatti, la Caritas di Palermo ha avviato in questi giorni il progetto "Oltre le sbarre" che rafforzando la rete fra gli istituti penitenziari, le parrocchie del territorio e la diocesi, cerca di sanare quella frattura sociale fra il detenuto straniero e la realtà che dovrebbe accoglierlo. E ogni anno destina una somma di circa diecimila euro per provvedere ai detenuti stranieri. "La gente pensa che lo Stato provvede ai detenuti - dice Benedetto Genualdi, direttore della Caritas di Palermo - ma non è così. Soprattutto se sono stranieri e non hanno un sostegno familiare all’esterno. Quando vengono presi e portati in carcere non hanno niente con loro. Se hanno i vestiti invernali rimangono con quelli anche d’estate e viceversa. Ai nostri operatori chiedono piccole cose che dentro al carcere diventano fondamentali. Anche i detersivi per lavare i panni. Si affidano completamente ai volontari. Per molti di loro noi siamo la loro famiglia. Spesso sono dentro per piccoli reati e ci chiedono di poter seguire dei percorsi alternativi alla detenzione. E se ottengono dei giorni di permesso, per esempio, li trascorrono nelle nostre strutture perché fuori non hanno nessuno". Giustizia: Radicali; il carcere è sparito dalle campagne elettorali
Adnkronos, 17 marzo 2010
"Nel silenzio della politica tutta, ormai impegnata con ogni risorsa nella conquista all’ultimo voto per le elezioni regionali, le carceri sono sempre più affollate e sempre più si riempiono, come gli ultimi dati del Dap oggi ci rivelano. La situazione è sempre più illegale, ma i provvedimenti che la possano riportare sotto controllo, approvati dal Parlamento dopo un lungo sciopero della fame di Rita Bernardini e dei dirigenti Radicali, continuano a essere disattesi da Governo e commissario, cui è stato affidato da ormai più di due mesi un pilatesco stato d’emergenza, che di tale emergenza è ben lungi dal venire a capo". Lo dichiara Irene Testa, segretaria dell’associazione radicale il Detenuto Ignoto, Lista Bonino-Pannella. "Proprio i candidati alle amministrazioni regionali, invece, non possono continuare a ignorare i problemi che affliggono le realtà intramurarie ovunque in Italia, perché una tale situazione, da quando la medicina penitenziaria è competenza delle Asl regionali, non farà altro che aggravare ulteriormente i già, in molti casi, devastati bilanci regionali che proprio sulla sanità, mediamente, investono quasi il 70% delle risorse", conclude. Giustizia:
Cucchi; la ricostruzione sanitaria di ciò che accadde Dire, 17 marzo 2010 Ecco la “ricostruzione sanitaria”
integrale di ciò che accadde a Stefano Cucchi, contenuta in 2 delle 6 pagine
della relazione finale approvata oggi dalla commissione d’inchiesta
sull’efficienza del Ssn, in merito alle cure prestate al giovane. “Il
signor Stefano Cucchi è arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 alle ore
23.30. Viene prima accompagnato presso la stazione CC Appia e scortato nella
casa famiglia, poi trasferito presso la stazione CC di Tor Sapienza per essere
detenuto nella cella di sicurezza. Alle ore 5.15 del 16 ottobre è soccorso da
una squadra delle ambulanze Ares 118 a causa di un malore, presumibilmente una
crisi epilettica, ma rifiuta il trasporto in ospedale. Gli operatori dell’Ares
118 riferiscono che lo stesso era oppositivo alle cure e acquisiscono in modo
approssimativo dati sullo stato di salute (frequenza cardiaca, ossigenazione del
sangue e pressione, presenza di eritema sotto la palpebra destra)”. Successivamente,
“alle ore 9 il detenuto viene condotto dai carabinieri presso la Procura della
repubblica di Roma per essere sottoposto al processo per direttissima davanti al
giudice e, quindi, viene consegnato al personale della polizia penitenziaria e
trasferito in camera di sicurezza. Svolta l’udienza di convalida intorno alle
13.30, il detenuto è visitato da un medico di ambulatorio della città
giudiziaria, il quale rileva lesioni ecchimotiche in regione palpebrale
inferiore bilateralmente di lieve entità e colorito purpureo; ed inoltre
referta: “Riferisce dolore e lesioni anche alla regione sacrale e agli arti
inferiori ma rifiuta anche l’ispezione. Evasivamente riferisce che le lesioni
conseguono ad accidentale caduta dalle scale avvenuta ieri”. A
questo punto, prosegue la relazione, “Il signor Cucchi, tradotto nel carcere
di Regina Coeli, viene sottoposto a visita medica di primo ingresso intorno alle
16.45. Il medico del carcere rileva in cartella ambulatoriale l’altezza (1,68
cm), il peso corporeo (52 kg), i dati anamnestici e la sintomatologia accusata,
caratterizzata da algia alla deambulazione e pertanto lo invia con urgenza al
Pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli. Nel modulo di richiesta di
visita ambulatoriale urgente si segnala: caduta accidentale ieri dalle scale.
Presenta ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale
periorbitaria, algia alla deambulazione arti inferiori. Riferisce senso di
nausea ed astenia. Rx cranio (controllo)”. “Il
paziente arriva alle 21.01 con diagnosi lesioni ecchimotiche di natura da
determinare, viene sottoposto ad esame radiografico della colonna lombo-sacrale
e sacro-coccigea, che evidenzia la presenza di ‘frattura corpo-vertebrale di
L3 sull’emisoma sinistro e frattura I vertebra coccigea. L’ortopedico,
chiamato telefonicamente per una consulenza specialistica, suggerisce riposo a
letto e controllo seriato dell’emocromo. Il neurologo, invece, raccolta la
notizia di un trauma contusivo del rachide lombosacrale occorso la sera
precedente (alle 23.30 come precisato dal paziente), obiettiva l’impossibilità
a deambulare a motivo della sintomatologia dolorosa accusata e consiglia di
eseguire eventualmente un esame elettrofisiologico per la valutazione
dell’integrità delle radici lombosacrali. Il paziente rifiuta il ricovero e
viene dimesso con diagnosi di ‘frattura del corpo vertebrale L3 sull’emisoma
sinistro e frattura I vertebra coccigea”. Passata
la notte in carcere, Stefano Cucchi “la mattina successiva del 17 ottobre
viene visitato due volte alle 11.20 e alle 11.50 dai medici dell’istituto
penitenziario, i quali lo inviano di nuovo al Pronto soccorso dell’ospedale
Fatebenefratelli per la valutazione dell’emocromo, per l’esecuzione di
un’ecografia dell’addome e di videat neurochirurgico. Presso l’ospedale
viene confermata la diagnosi del giorno prima e il paziente viene cateterizzato
per la comparsa di difficoltà alla minzione. Si dispone, inoltre, il ricovero
presso il reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma
per le cure del caso”. “Il
ricovero, formalizzato direttamente all’interno della Struttura ospedaliera
protetta, dopo il nulla osta di un dirigente del ministero della Giustizia che
era fuori servizio e si è reso disponibile in via del tutto eccezionale (qui si
rimanda a una nota della relazione che dice: “In sede di audizione, i
dirigenti del ministero della Giustizia responsabili di tale procedura hanno
riferito che le particolari modalità osservate nel caso di specie sono prive di
precedenti”), dura 4 giorni”. Al
Pertini “le prime analisi e radiografie confermano il quadro clinico
oggettivato dall’ospedale Fatebenefratelli, ma a partire da alcune ore dopo il
ricovero il paziente si oppone alla somministrazione di cure e cibo come forma
di protesta finalizzata ad ottenere contatti con l’avvocato, nonché con un
familiare e con un operatore del Ceis. Rifiuta di alimentarsi e bere acqua
regolarmente e di sottoporsi alla terapia endovenosa”. Da
questo momento in poi “il quadro medico si aggrava. E, in seguito
all’astensione dal cibo e dalla somministrazione di nutrizione e idratazione
per via endovenosa, il paziente dimagrisce drasticamente (al momento
dell’arresto pesava 52 kg e il peso al decesso, sei giorni dopo, era di circa
42 kg) e soprattutto sviluppa un blocco della funzione renale per mancanza di
idratazione”. Siamo
al 21 ottobre, quando “il medico di turno avvisa il primario della situazione
e questi fa predisporre una relazione clinica sulle condizioni del paziente da
inviare al giudice competente. Il signor Stefano Cucchi viene medicato e
ispezionato per l’ultima volta da un medico alle ore 22 e a ridosso della
mezzanotte chiede una cioccolata al personale paramedico. Alle 6.05 del 22
ottobre viene registrata la sua morte dopo un tentativo di rianimazione durato
45 minuti. Per i consulenti tecnici della commissione la morte è avvenuta
probabilmente due o tre ore prima che il paziente fosse rianimato. Pertanto,
anche il medico che ha praticato le manovre rianimatorie, notando una rigidità
dei muscoli del collo e dell’articolazione temporo-mandibolare, sapeva che il
paziente era morto da tempo”.
Le sette criticità rilevate dalla Commissione
Giustizia:
Cucchi; su esito Commissione commenti e polemiche Ansa, 17 marzo 2010 Sorella: relazione dice che Stefano è
stato vittima di pestaggio “Sono
molto soddisfatta perché la relazione parla chiaro: Stefano è stato vittima di
un vero pestaggio. Ora spero che sia riconosciuta la preterintenzionalità delle
guardie carcerarie e che la Procura tenga conto di questa relazione”. Così
Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, commenta la relazione finale della
Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del sevizio sanitario
nazionale, votata questo pomeriggio all’unanimità. “Sono
molto soddisfatta - ribadisce la sorella - perché la relazione conferma quanto
noi abbiamo sostenuto sin dall’inizio, ovvero che le fratture ci sono e che
sono recenti e compatibili con un pestaggio. Ora mi auguro - conclude - che la
smettano con tutte le varie insinuazioni e che non ricomincino a parlare di
altro come ad esempio di una caduta accidentale”. Soliani (Pd): lezione per futuro sanità
in carcere “Stefano
Cucchi è morto mentre era in condizioni di arresto e a carico del Servizio
sanitario nazionale. La nostra inchiesta ha cercato di accertare la verità nel
percorso sanitario”. Così la senatrice del Pd, Albertina Soliani, a seguito
dell’approvazione della relazione finale sulle cure prestate a Cucchi avvenuta
nella Commissione d’inchiesta sull’efficienza e l’efficacia del Servizio
sanitario nazionale. “Alla
fine dell’inchiesta - spiega Soliani - si restituisce dignità alla morte di
Stefano Cucchi: probabilmente ha subito lesioni inferte di recente, ha opposto
rifiuto all’alimentazione e alle cure chiedendo di vedere l’avvocato, un
familiare, un assistente del Ceis senza alcun risultato. Il giorno precedente il
decesso la situazione era grave ma non sono state assunte iniziative adeguate.
Stefano Cucchi è morto per arresto cardiocircolatorio a seguito di
disidratazione”. “La
sanità in carcere - continua la senatrice del Pd - ha bisogno di non essere
subalterna alle logiche dell’amministrazione penitenziaria. Il cittadino
Stefano Cucchi aveva diritto all’attenzione e alle cure più appropriate.
Bisogna partire da qui per dare attuazione alle norme che prevedono la piena
tutela del diritto alla salute per chi è in condizioni di restrizione
personale. La storia di Stefano Cucchi ci impegna ad agire perché cambino
mentalità e comportamenti affinché quello che è accaduto non si ripeta mai più”. Valeriani (Pd): Comune Roma sia parte
civile “Sulla
dolorosa morte di Stefano Cucchi sta emergendo, finalmente, la verità: grazie
all’importante lavoro della commissione d’inchiesta del Senato oggi sappiamo
che è stato ucciso in modo brutale e che ci sono delle colpe. Adesso è
necessario che la magistratura faccia piena luce individuando i responsabili e
assicurandoli alla giustizia”. È
quanto dichiara, in una nota, il consigliere del Pd al Comune di Roma e
presidente della Commissione Trasparenza del Campidoglio, Massimiliano Valeriani.
“Credo che il nostro pensiero debba andare alla famiglia Cucchi e al suo
straordinario coraggio - aggiunge Valeriani - di fronte a una vicenda che ha
sconcertato e scosso profondamente la nostra comunità e che chiama in causa la
nostra coscienza civile. Per questo, se la magistratura rinvierà a giudizio
qualcuno, chiedo al sindaco Alemanno di impegnarsi perché il Comune di Roma si
costituisca parte civile nel processo”. Favi (Pd): magistratura accerti
responsabilità “Le
conclusioni contenute nella relazione finale della Commissione d’inchiesta sul
servizio sanitario nazionale, che ha indagato sul caso di Stefano Cucchi, ci
restituiscono una prima luce di verità sulla tragica morte del ragazzo”. Lo
dice Sandro Favi, responsabile carceri del Pd, che aggiunge: “È così
accertato che all’origine della tragica concatenazione degli eventi vi furono
atti di violenza fisica. Ci auguriamo che, nel più breve tempo possibile, anche
la magistratura possa fornire le proprie risultanze al fine di consentire
l’accertamento delle responsabilità”. Saccomanno (Pdl): urge umanizzazione SSN
nelle carceri “Umanizzazione
del Servizio sanitario nazionale” nelle carceri italiane. L’efficienza del
Ssn “deve partire dai luoghi spesso dimenticati dalla società. Non vi sono
condizioni che possono rendere secondaria la tutela della salute”. Lo
scrive in una nota il senatore Michele Saccomanno, capogruppo del Pdl in
Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio
sanitario nazionale, commentando la relazione della stessa Commissione approvata
oggi sulla morte di Stefano Cucchi, il ragazzo romano deceduto il 22 ottobre
scorso nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini. Secondo
Saccomanno, “la morte di Stefano Cucchi evidenzia delle carenze nel rapporto
Ssn-carcere e individua la possibilità che nella struttura protetta del
Pertini, ma non solo, l’attenzione sanitaria sia stata secondaria a quella
giudiziaria. La relazione approvata evidenzia il dubbio - prosegue il senatore
del Pdl - che il rifiuto dell’acqua da parte di Cucchi sia stato determinato
da un possibile abbandono coperto da formalismi giuridici che hanno imbrigliato
anche l’attenzione medica”. “Il
momento sanitario - sottolinea Saccomanno - è strettamente connesso alla tutela
della dignità della persona. Se per alcuni versi è chiaro che nel mondo della
detenzione si crei talvolta un ghetto dove la fragilità rende muto anche il
bisogno, più forte deve essere la risposta dello Stato nella garanzia dei
diritti della persona. Emerge, nelle conclusioni, un filo conduttore che unirà
nel suo percorso la Commissione d’inchiesta: l’umanizzazione del Servizio
sanitario nazionale”, conclude. Donadi (Idv): non resti vergogna di stato
senza colpevoli “Le
conclusioni della commissione d’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi sono
drammatiche ed inquietanti. È purtroppo chiaro che ci troviamo davanti ad
un’altra vergogna di Stato. Accertata una parte di verità è doveroso ora
accertare le responsabilità, individuare e punire i colpevoli. Troppe volte in
Italia non c’è stata giustizia e la memoria delle vittime ha dovuto subire
anche l’offesa dell’impunità”. Lo afferma il capogruppo Idv alla Camera
Massimo Donadi. Pedica (Idv): non può rimanere simbolo
morti insolute “Dalla
Relazione emerge quello che abbiamo denunciato sin dall’inizio: le lesioni ci
sono state e sono compatibili con percosse. Adesso, accertato che il sistema
sanitario per i detenuti va completamente riformato, premettendo la tutela della
vita umana alle misure di detenzione, resta da accertare chi abbia procurato
quelle lesioni a Stefano”. Lo dichiara il senatore di Italia dei valori
Stefano Pedica. “Caserma, tribunale e carcere, tutte le ipotesi rimangono
aperte per il momento. Mi rivolgo ai magistrati che seguono il caso, ai quali ho
già avuto modo di esporre le mie perplessità, affinché individuino nomi e
cognomi dei colpevoli nel più breve tempo possibile, perché solo così sarà
possibile dissolvere - conclude Pedica - quei dubbi che ancora oggi adombrano le
forze dell’ordine e lo Stato nel loro complesso. Stefano Cucchi non può
rimanere il simbolo delle morti insolute, pena la tenuta democratica delle
nostre istituzioni e dell’autorità di pubblica sicurezza”. Testa: (Detenuto ignoto): adesso fare luce
anche su altri casi “È
davvero importante il lavoro svolto dalla Commissione sull’efficienza del Ssn
per quanto riguarda ciò che ha provocato la morte del giovane Stefano Cucchi.
Dalla relazione presentata oggi emerge che Cucchi è stato pestato, non è stato
messo in condizione di comunicare con un legale e per questo ha rifiutato per
giorni cibo e acqua, e infine non gli è stata prestata sufficiente assistenza
sanitaria ed è stato, insomma, dimenticato nel proprio letto di degenza, tanto
che i tentativi di rianimazione sarebbero stati eseguiti sul suo corpo ormai
cadavere già da ore”. Lo dichiara in una nota Irene Testa, segretaria
dell’Associazione Radicale il Detenuto Ignoto, Lista Bonino-Pannella. “Purtroppo,
il caso di Stefano Cucchi, non è il solo episodio di malocarcere e malasanità
occorso nel Paese - prosegue Testa - e solo alle famiglie degli altri
malcapitati e malcapitate è lasciato il compito di dare testimonianza
all’opinione pubblica di ciò che è successo ai propri congiunti”. “Famiglie
che si ritrovano spesso a lottare contro le istituzioni - aggiunge - contro le
richieste di archiviazione e contro i dinieghi all’ottenimento di atti e
documenti, all’esecuzione di perizie e riesumazioni, anziché essere dalle
istituzioni aiutate e sostenute a ottenere una verità che lo Stato in primo
luogo dovrebbe esigere. Famiglie che non sempre hanno e hanno avuto la forza e
la prontezza della famiglia Cucchi dinanzi alla tragedia occorsa”. “Di
alcuni di questi casi si è trattato recentemente in una conferenza organizzata
proprio al Senato dal Detenuto Ignoto - prosegue Testa - Queste situazioni sono,
più in generale, frutto dell’illegalità diffusa nei sistemi quando nella
loro azione vengono a mancare efficaci controlli e equilibri, e per contrastare
certe dinamiche risulta indispensabile che lo Stato si faccia carico di
ricercare ogni verità oltre ogni dubbio, dotandosi di un’opportuna
Commissione parlamentare di indagine, ed ancor più di mezzi di contrasto
giuridici quale può rivelarsi l’istituzione del reato di tortura nel nostro
ordinamento, come, tra l’altro, previsto dai trattati internazionali che
l’Italia ha sottoscritto in sede Onu”. Poretti (Radicali-Pd): morte poteva essere
evitata “Il
Senato e la commissione sul Ssn ha avuto la forza di approvare una relazione
finale dell’inchiesta sull’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza
delle cure prestate al Stefano Cucchi, morto per disidratazione. Un detenuto in
sciopero della fame e della sete che nella ricerca disperata di vedersi
riconosciuto un diritto, quello dell’assistenza del legale di fiducia forse
anche per cercare di denunciare chi gli aveva provocato le lesioni
traumatiche”. Lo ha dichiarato Donatella Poretti, senatrice dei Radicali-Pd. “Nel
suo percorso sanitario Cucchi purtroppo non ha avuto la corretta assistenza
sanitaria, questo dovevamo registrare nella commissione - prosegue Poretti - Il
Senato e il Governo sarà bene prendano in considerazione le nostre valutazioni
e le problematicità del caso singolo e più in generale dell’assistenza
sanitaria in carcere”. “Tutto
il materiale della commissione occorre ora che venga non solo inviato alla
Procura, ma anche desecretati e resi accessibili a tutti nell’ottica della
trasparenza e dell’accesso agli atti delle istituzioni - prosegue - Dopo mesi
dal fatto speriamo che anche la Procura riesca a concludere le sue indagini e a
individuare i responsabili di una morte che poteva essere evitata”. Ferrero (Sel): non sminuire caso, fu
comunque tortura Paolo
Ferrero, portavoce nazionale della Federazione della Sinistra, ha chiesto di non
minimizzare il caso di Stefano cucchi dopo le conclusioni sulla sua morte. “Secondo
i risultati della commissione parlamentare d’inchiesta, Stefano Cucchi, ucciso
in carcere dopo una settimana di agonia, sarebbe morto per una disidratazione
“non monitorata” che lo portò alla perdita di 10 chili”, ha ricordato,
“secondo la commissione, dunque, la responsabilità dei medici, ma la sorella
di Stefano giustamente dice: Anche i risultati della commissione confermano che
fu picchiato”. Di
certo, ha aggiunto, “se Stefano è morto per disidratazione non c’è stata
la dovuta attenzione da parte della polizia penitenziaria come delle strutture
mediche del carcere, che non hanno fornito neanche un minimo di assistenza
sanitaria, neppure quella coatta”. Di
certo, ha insistito, “non si può sminuire il caso: o per percosse o per
disidratazione si tratta comunque di un atto di tortura a danno di un ragazzo
inerme e dunque di un atto illegale di violazione del corpo di un ragazzo in
stato di fermo. Insomma, non vorremmo che venisse sminuito quanto effettivamente
avvenuto. Come se, per la morte di Gesù Cristo, ci raccontassero che è morto
per un colpo di sole”. Garante carceri Lazio: ora tocca alla
magistratura “Le
conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Cucchi
confermano che, in quella vicenda, ci sono delle responsabilità che ora tocca
alla magistratura penale accertare”. Lo dichiara in una nota il Garante dei
detenuti del Lazio Angiolo Marroni. “Quello di oggi è un pronunciamento
importante - ha aggiunto Marroni - che non concede ulteriori ritardi
all’accertamento della verità. Occorre che si sappia al più presto cosa è
accaduto a Stefano nei giorni di ricovero al Pertini e in quelle convulse ore
dell’arresto, della detenzione, del processo e delle visite negli ospedali”.
Sappe: gioco al massacro su polizia
penitenziaria Sulla
Polizia Penitenziaria si abbatte un continuo gioco al massacro, non accettabile,
per questo ci confortano le conclusioni della Commissione Parlamentare sul
Servizio Sanitario Nazionale, che ha escluso che la morte di Cucchi sia dovuta
alle conseguenze di traumi o lesioni ma sia invece la conseguenza di
un’eccessiva perdita di peso, volontaria, in pochi giorni. Così
Donato Capece, segretario autonomo del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria
(Sappe), commenta le conclusioni dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi.
Nel ribadire il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari
di Cucchi, - continua Capece - non accettiamo che il personale della Polizia
Penitenziaria, operante ogni giorno con zelo e abnegazione, venga rappresentato
come portatore di violenza e cinismo. Per questo - conclude il sindacalista - ci
auguriamo che la Magistratura faccia piena luce sulle responsabilità di questo
dramma, che comunque non possono essere che personali di chi ha sbagliato. Cimo Lazio: medici non siano capro
espiatorio “Non
si pronuncino sentenze improprie” sulla morte di Stefano Cucchi. È
“sbagliato e ingiusto additare il capro espiatorio nei medici prima dei
risultati dell’inchiesta”. Lo afferma in una nota Giuseppe Lavra, segretario
generale della Cimo (Confederazione medici ospedalieri) del Lazio, dopo la
relazione della Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del
Servizio sanitario nazionale sul decesso del giovane romano, il 22 ottobre
scorso nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini. “A
tutti i ruoli istituzionali è dovuto rispetto e quindi anche a quello di una
Commissione parlamentare d’inchiesta - afferma Lavra - È però lecito
ricordare che esiste un giudice naturale precostituito per legge, secondo i
principi costituzionali. Se poi i risultati cui, da notizie di stampa, sembra
essere pervenuta la Commissione d’inchiesta sono guarda caso gli stessi che il
suo presidente in sede non istituzionale aveva già clamorosamente manifestato,
i nostri dubbi sull’utilità di questo strumento ai fini dell’accertamento
della verità non possono che crescere”, aggiunge. Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena
Pagina di Radio Carcere su Il Riformista, 17 marzo 2010
Rimini: con l’hiv e in una cella con 18 detenuti. Carissimo Arena, mi trovo in carcere per un reato commesso nel 1999, ovvero durante un periodo in cui facevo uso di sostanze stupefacenti. Quel reato del 1999 fu infatti l’ultimo, mi sono disintossicato e mi sono anche creato una famiglia. Il fatto è che a causa della droga ho scoperto di essere sieropositivo. L’hiv inoltre mi crea tanti problemi di salute come cardiopatia, difficoltà di deambulazione e emorragie digestive. Ora sto aspettando una risposta dal dirigente sanitario del carcere di Rimini che si deve pronunciare sulla mia incompatibilità con il regime carcerario. Nel frattempo mi trovo detenuto in una cella del carcere di Rimini insieme ad altre 18 persone. Una cella dove rimaniamo chiusi per 22 ore al giorno. In verità la nostra non è neanche una cella vera e propria. Devi sapere infatti che fino a poco tempo fa questa era una saletta usata dai detenuti per la socialità. Beh con l’aumentare del sovraffollamento, visto che nelle celle non c’è più posto, hanno trasformato in cella questa saletta. Ci hanno messo sei letti a castello a tre piani, ed hanno risolto il problema. Ti lascio immaginare come siamo costretto a vivere. Nel frattempo io mi sento sempre peggio e posso solo ringraziare i miei compagni di cella che mi aiutano durante il giorno.
Vincenzo dal carcere di Rimini
Non è vita quella a Poggioreale. Cara Radiocarcere, ti scrivo anche a nome di altri detenuti nel Padiglione Salerno del carcere di Poggioreale, un carcere dove è difficile chiamare ancora vita la nostra esistenza. Ti diciamo solo che è da mesi che i termosifoni non funzionano e noi non sappiamo più come difenderci dal freddo. Inoltre non riusciamo mai a farci visitare dal medico, medico che dovrebbe esserci 3 volte a settimana ma che noi vediamo raramente. È questo un problema assai serio visto che molti di noi sono malati e visto che qui a Poggioreale neanche i farmaci ci sono. Sappi che ti scriviamo da una piccola cella dove siamo costretti a viverci ammassati in 7 persone. Una cella dove è piccolo anche il bagno: un cesso vecchio e mal funzionante. Pensa che i muri della nostra cella sono pieni di umidità, che ci entra nelle ossa e l’intonaco è talmente rovinato che cade a pezzi ogni giorno. L’igiene a Poggioreale è pressoché inesistente. Qui tutto è sporco e abbandonato e di fatto siamo esposti al rischio continuo di assumere gravi infezioni. Qui a Napoli il magistrato di sorveglianza è come se non ci fosse, con la conseguenza che le misure alternative non vengono quasi mai applicate. Con me ti salutano: Piero, Giuseppe, Toni, Antonio, Luigi e Vincenzo. Grazie per averci ascoltato.
Salvatore dal carcere Poggioreale di Napoli Liguria: Sappe; i candidati a presidente si occupino delle carceri
Ansa, 17 marzo 2010
"È francamente sconcertante constatare che nel programma elettorale dei due candidati Governatori della Liguria, Claudio Burlando e Sandro Biasotti, non trovino spazio le criticità penitenziarie, a cui non è infatti dedicata nemmeno una riga nei rispettivi progetti di governo": a dirlo è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per bocca del segretario generale aggiunto e commissario straordinario per la Liguria Roberto Martinelli. "Eppure - continua Martinelli - nelle sette carceri liguri (da Sanremo a Spezia, dalle due genovesi di Marassi a Pontedecimo a quella di Chiavari - dove per altro è in atto lo stato di agitazione del Personale per le gravi criticità operative -, da Savona ad Imperia) sono detenute quasi 1.700 persone a fronte di una capienza di circa 1.100 posti e prestano servizio circa 850 poliziotti penitenziari, ben 400 in meno rispetto alla previste piante organiche. E questo si traduce in condizioni detentive che ledono la dignità umana (basti vedere lo scandalo del carcere S. Agostino di Savona) e condizioni di lavoro dure e difficili per le nostre donne ed i nostri uomini. Non solo: da quando la sanità penitenziaria è di competenza delle Asl regionali questa va ad incidere notevolmente sui bilanci regionali, che proprio sulla sanità mediamente investono quasi il 70 per cento delle risorse. Ben altra, dunque, avrebbe dovuto essere l’attenzione di Burlando e Biasotti sui problemi penitenziari liguri". "La recente dichiarazione dello stato di emergenza del sistema penitenziario lascia intravedere, per il prossimo futuro, concrete prospettive di un progressivo ampliamento del lavoro di pubblica utilità con l’impiego di soggetti condannati a pene detentive brevi - prosegue ancora Martinelli -. Faccio riferimento agli interventi normativi, contenuti nel Piano carceri approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 gennaio scorso, che introducono la possibilità della detenzione domiciliare per chi deve scontare solo un anno di pena residua e la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, che potranno così svolgere lavori di pubblica utilità. L’impegno assunto dal Governo presuppone il contributo concreto di tutti gli enti locali per una ricognizione puntuale ed analitica, nel distretto territoriale di competenza, delle opportunità lavorative in cui utilmente impiegare i detenuti in lavori di pubblica utilità, in vista della futura messa a regime del sistema. E chi si candida a guidare la Liguria nei prossimi mesi non può sottrarsi a questi impegni. Credo che proprio nell’ottica di una maggiore implementazione del lavoro di pubblica utilità, specie in vista della prossima approvazione del relativo disegno di legge, chi si propone per governare la Liguria nel prossimo futuro debba indirizzare ogni sforzo, anche attraverso il coinvolgimento di Province e Comuni, affinché la Regione Liguria - d’intesa con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, le Direzioni delle 7 Case circondariali regionali ed il qualificato e fondamentale contributo del Personale di Polizia Penitenziaria - promuova l’impiego dei detenuti in progetti per il recupero del patrimonio ambientale, la pulizia dei greti dei torrenti e delle spiagge del nostro territorio regionale." Martinelli auspica infine che venga nuovamente istituita, nel contesto del Consiglio regionale della Liguria, la Commissione Speciale Sicurezza e Carceri ("inspiegabilmente soppressa dalla Giunta Burlando") che, integrata da tecnici come i poliziotti penitenziari, può essere un importante punto di riferimento per monitorare costantemente le criticità penitenziarie regionali. Torino: Radicali; dentro per droga più della metà dei detenuti
Agenzia Radicale, 17 marzo 2010
Questa mattina il senatore Marco Perduca (Radicali/Pd), accompagnato da Bruno Mellano e Giulio Manfredi (rispettivamente presidente e membro del Comitato nazionale Radicali Italiani), ha visitato la casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino. All’uscita dell’istituto sono stati forniti i dati sulle presenze: oggi sono detenute ben 1.586 persone, rispetto a una capienza ottimale di 994; i cittadini italiani sono 699, i non italiani 843. 569 reclusi stanno scontando una sentenza definitiva (solo un terzo del totale); 507 sono in attesa di giudizio, 246 sono ricorrenti in Appello e 95 sono ricorrenti in Cassazione. Ben 740 soggetti sono in carcere per violazione dell’art. 73 DPR 309/90 (spaccio); 64 sono reclusi per violazione dell’art. 74 DPR 309/90 (associazione a fini di spaccio); 38 per associazione a delinquere di stampo mafioso; 234 per furto; 356 per rapina. Il personale di Polizia Penitenziaria assegnato all’istituto è pari a 990 unità; gli agenti effettivamente in servizio in istituto sono 609; altri 201 sono assegnati al Nucleo Trasferimenti. Mellano e Manfredi hanno così commentato: "Ci occupiamo di problemi del carcere da almeno un decennio; abbiamo sempre detto che le 13 carceri piemontesi non dovevano essere considerate mondi a parte, posti extraterritoriali, ma erano e sono parte integrante della città e della regione. Anche oggi ci siamo comportati di conseguenza, sincerandoci, come militanti radicali e anche come candidati alle prossime elezioni regionali, delle condizioni di vita degli abitanti di questo quartiere speciale di Torino. E abbiamo anche verificato se tali abitanti, quei pochi perlomeno provvisti ancora dei diritti elettorali, fossero stati messi in condizione di esercitarli; abbiamo verificato che la Direzione del carcere aveva avvisato per tempo i detenuti sulla possibilità di poter votare in carcere per le prossime elezioni regionali. Rispetto alla situazione generale, è innegabile che il direttore Pietro Buffa e i suoi collaboratori, gli agenti di polizia penitenziaria, cercano ogni giorno di ridurre il danno prodotto da un’emergenza carceri che ormai è considerata da chi ci governa normale e accettabile, tanto da peggiorare la situazione - determinata, ricordiamolo, in gran parte dalla legge proibizionista sulle droghe - con il reato di immigrazione clandestina. Se la Lista Bonino-Pannella riuscirà ad avere almeno un eletto in Consiglio Regionale, sarà possibile riprendere il grande lavoro svolto dai consiglieri radicali fra il 2000 e il 2005 (oltre cento visite ispettive nelle 13 carceri piemontesi, raddoppio del numero degli educatori, predisposizione della proposta di legge sul garante regionale delle carceri, diventata legge in questa legislatura, scoperta e successiva incentivazione dell’istituto della Cassa delle Ammende per il finanziamento di progetti lavorativi dentro e fuori il carcere), a partire dalla nomina del garante regionale, che la legge regionale n. 28 del 2009 prescrive di compiere entro il 5 giugno 2010". Empoli: un nuovo mistero; il carcere è inspiegabilmente vuoto
Comunicato, 17 marzo 2010
La vicenda paradossale del carcere di Empoli si arricchisce di un nuovo capitolo. Dopo la inspiegabile cessazione dell’esperienza della custodia attenuata femminile e dopo un periodo troppo lungo di chiusura, era stata annunciata con grandi squilli di tromba la destinazione del carcere di Empoli per la custodia specifica delle detenute transessuali. L’apertura era prevista per il 9 marzo, ma così non è avvenuto. Non è stata data alcuna spiegazione e le detenute che erano con i bagagli in mano per il trasferimento da Sollicciano, non conoscono il loro destino. Si aspetta forse il 21 marzo per festeggiare così la primavera? Aspettiamo notizie dall’Amministrazione Penitenziaria. P.S: Ancora nessuna risposta è pervenuta dal Dipartimento della Giustizia minorile per la richiesta che ho rivolto, per l’apertura della seconda sezione e l’eliminazione del sovraffollamento ingiustificato.
Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze Teramo: ancora in obitorio salma del "negro che ha visto tutto" di Teodora Poeta
Il Messaggero, 17 marzo 2010
Sono trascorsi ormai tre mesi dal decesso del detenuto-testimone nigeriano 32enne Uzoma Emeka, indicato nella registrazione audio che fece scoppiare il caso Castrogno come "il negro che ha visto tutto", ma il suo corpo giace ancora in una cella frigorifero dell’obitorio del Mazzini. Per lui nessuna degna sepoltura è stata ancora data poiché, come aveva già spiegato l’avvocato Giulio Lazzaro, legale di Emeka che ora rappresenta i figli (suoi prossimi congiunti), "i familiari di Uzoma non hanno i soldi per poterlo riportare in Nigeria e il viaggio della salma costerebbe troppo". Ma a quanto pare il Comune di Teramo proprio qualche giorno fa, dopo l’ennesima sollecitazione del legale e della Procura (quest’ultima spinta da un "richiamo" dei gestori dell’obitorio che avrebbero fatto notare la lunga permanenza del cadavere nell’obitorio) ha rilasciato l’attestazione per la sepoltura nel cimitero della città. Uzoma, insomma, verrà seppellito in nuda terra, a spese dell’amministrazione comunale, nel cimitero cittadino, così come prevede anche la legge. La data verrà comunicata entro una settimana. Per quanto riguarda, invece, l’inchiesta giudiziaria sulla morte del detenuto-testimone, già nelle prossime ore potrebbe rientrare in Procura l’esito completo dell’autopsia e delle successive analisi. Dopodiché è probabile che la Procura disponga una perizia. Forlì:
gli Amministratori ad Alfano; carcere in estremo degrado Dire, 17 marzo 2010 Tre
richieste sul carcere di Forlì indirizzate al ministro della Giustizia Angelino
Alfano. Le stileranno tutti gli amministratori della provincia di Forlì-Cesena
in un documento comune, la decisione è stata presa dopo il sopralluogo al
carcere della Rocca avvenuto questa mattina da parte del vice-presidente della
Provincia Guglielmo Russo e degli assessori al Welfare di Forlì Davide Drei e
di Cesena Simona Benedetti, oltre ad altri amministratori locali. “Condizioni
di estremo degrado che non permettono la salvaguardia minima della dignità
della persona”: è questo il giudizio di sintesi all’esito della visita. Le
tre richieste sono quelle di confermare le previsioni di apertura del nuovo
carcere del Quattro, attualmente in costruzione, nel 2012, nel frattempo
effettuare almeno un minimo di manutenzione ordinaria all’attuale struttura, e
mettere mano al deficit di organico della polizia penitenziaria. “Non è un
atto di accusa nei confronti dell’attuale dirigenza del carcere, che sta
facendo il possibile - spiega Russo -, ma è una richiesta a Roma, affinché
metta a disposizione le risorse necessarie”. Il vecchio e vetusto carcere
della Rocca ha problemi contingenti, come buchi nei pavimenti, escrementi di
piccioni in molte superfici esterne e sotterranei infestati dai topi. “Il
nuovo carcere non diventi un alibi per non fare interventi d’emergenza”,
avverte l’assessore Drei. I problemi sono in generale il sovraffollamento,
l’igiene e la manutenzione ordinaria. “Quello che abbiamo visto è
estremamente critico, non c’è il rispetto dei diritti delle persone”,
sintetizza l’assessore Benedetti. Attualmente
i detenuti sono 268 (circa la metà sono stranieri) a fronte 165 posti
disponibili. “I carcerati si trovano in coppia in celle di otto metri quadri
compreso il bagno”, spiega Russo. Dall’altra parte gli agenti di polizia
penitenziaria dovrebbero essere 125, mentre l’organico attuale è di 103 unità.
“Ci dicono che si fanno turni anche di nove ore e mezza”, sempre il
vice-presidente della Provincia. Stipata è anche la sezione femminile,
l’unica di tutta la Romagna. Inoltre 53 detenuti hanno affidamenti esterni per
il lavoro, e queste attività, così come quelle delle cooperative sociali e
delle associazioni di volontariato che operano all’interno sul fronte della
formazione e del lavoro, “rischiano di essere minate dalle condizioni di
estremo degrado del carcere”, è il commento di Drei. L’invito al ministro,
quindi, è di rendere più vivibile la Rocca, fino a quando resterà aperta. Latina: carcere scoppia presente il doppio dei detenuti previsti di Viviana Donarelli
Il Messaggero, 17 marzo 2010
Convivono in pochi metri quadri, circa la metà di quanto stabilito da regolamento, i 162 detenuti del carcere di via Aspromonte a Latina. Una coabitazione forzata, più del dovuto, che va sotto lo spazio dei tre metri quadri per detenuto a causa della mancanza di strutture idonee e che peggiora di mese in mese a causa della continua crescita dei carcerati. La denuncia dell’allarmante situazione arriva ancora una volta da Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio, dopo la lettura dei dati raccolti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Provveditorato Generale dell’amministrazione penitenziaria. Iniziamo dal carcere di Latina: qui ci sono 162 detenuti, 130 uomini e 32 donne, contro gli 86, 57 uomini e 29 donne, previsti da regolamento. Peggiore la situazione nel carcere maschile di Velletri, dove sono rinchiusi molti detenuti pontini, con 353 carcerati al fronte dei 197 previsti, mentre sono 238 e 170 i reclusi in più nel carcere di Viterbo e Frosinone. Rimanendo nei penitenziari delle province laziali, escludendo le cinque carceri di Roma, gli unici detenuti che possono avere spazi adeguati sono quelli di Rieti dove si registrano 84 presenze al fronte delle 306 previste dal regolamento. Ulteriori dati preoccupanti, sempre secondo l’analisi di Marroni, derivano dallo status della popolazione detenuta. Nel Lazio il 50% del totale dei detenuti (2.969 persone) è in attesa di giudizio, carcerati costretti per periodi troppo lunghi a convivere fianco a fianco con i condannati (3.079 persone). Secondo il Garante va rilevato che la forzata convivenza, in pochi metri quadri, potrebbe essere all’origine degli atti di autolesionismo rilevati fra i detenuti e l’aumento delle richieste di aiuto da parte degli agenti carcerari e dei volontari. Viterbo: carcere di Mammagialla allo stremo, agenti in piazza di Federica Lupino
Il Messaggero, 17 marzo 2010
Di nuovo in piazza. Venerdì mattina gli agenti di polizia penitenziaria del Mammagialla torneranno a protestare. Piazza del Plebiscito non è una scelta causale. Lì si trova la prefettura, ovvero l’ufficio territoriale del governo. Lo stesso che parla di emergenza carceri. Lo stesso che, per risolverla, non trova di meglio che costruire nuove strutture. Nonostante ne esistano già, ma siano rimaste inutilizzate. Nonostante i soldi non si capisce bene chi li metta. Nonostante manchino gli uomini. E sì, perché il problema, da quando i poliziotti della casa circondariale sono scesi in piazza lo scorso anno, dopo gli scioperi della mensa e i ripetuti stati di agitazione, è rimasto tale e quale: pochi agenti, troppi detenuti. Un mix esplosivo. Non usano giri di parole i rappresentanti dei lavoratori. "La situazione oramai è talmente grave - dicono Sappe, Osapp, Sinappe, Uil, Cisl, Ugl e Cgil - da costituire un pericolo per l’incolumità degli operatori a scapito della sicurezza. E la direzione non sembra disporre, nonostante i tentativi fatti, degli strumenti necessari per ottenere dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria l’invio di un congruo numero di unità di personale all’istituto penitenziario di Viterbo". A oggi, mancano all’appello circa 150 unità di polizia penitenziaria. E dal dipartimento che fanno? "In principio - raccontano i sindacati - hanno previsto di mandare a Viterbo circa 40 unità, poi via via ridotte sino all’ultima decisione: 12 unità a completamento del 161esimo corso allievi agenti, di cui però lo stesso dipartimento ha poi annullato le procedure di assegnazione a causa di un ricorso al Tar del Lazio". Intanto, gli agenti andati in pensione non vengono sostituti e ogni tanto qualche unità si perde per strada. "In occasione dell’apertura di una sezione a Civitavecchia - spiegano - nove istituti del Lazio hanno dovuto inviare agenti in missione. E Viterbo, anziché ricevere un congruo numero di poliziotti penitenziari, ha dovuto mandare uno dei suoi". Ma se i nuovi arrivi di controllori saltano, quelli dei controllati procedono a gonfie vele: i detenuti sono arrivati a sfiorare i 700. La capienza regolamentare? È di 433. Tanto che, notizia recente, si è ricorsi addirittura all’apertura di un nuovo padiglione. Una tale sproporzione non può che acuire le difficoltà della reclusione. "Ci troviamo a gestire situazioni delicatissime e demotivanti, con il costante pericolo - ricordano - di aggressioni (numerosi episodi da un anno a questa parte, ndr) e umiliazioni. Nonostante ciò, ci prodighiamo per tutelare la sicurezza e la salute delle persone recluse, garantendo così anche la sicurezza della società". Esempi di situazioni limite ce ne sono a bizzeffe. Come lo sventare tentativi di suicidio. L’ultimo episodio, appena due settimane fa. Allora la protesta ci sta tutta. "Anche per far conoscere alla popolazione - concludono - l’importanza del nostro lavoro per l’intera comunità". Pochi sì, ma almeno non ignorati. Pordenone: Pd; il "Castello" è il peggiore carcere della regione di Stefano Polzot
Messaggero Veneto, 17 marzo 2010
"È senza dubbio il carcere nelle peggiori condizioni tra quelli visitati". L’europarlamentare Debora Serracchiani non ha avuto dubbi ieri mattina nel bocciare il castello di piazza della Motta dopo la visita effettuata insieme a una delegazione del partito. Il sindaco, Sergio Bolzonello, è però fiducioso sul futuro tanto da considerare archiviata l’ordinanza di chiusura dell’immobile. Accolti dal direttore dell’istituto penitenziario, Alberto Quagliotto, l’europarlamentare Debora Serracchiani, i consiglieri regionali Paolo Menis e Daniele Gerolin e il sindaco Sergio Bolzonello hanno potuto rendersi conto direttamente dello stato dell’immobile che ospita 84 detenuti a fronte di una capacità massima di 53, con anche una sezione destinata ai sex offenders. "Abbiamo già visitato le carceri di Tolmezzo e Udine - ha commentato la Serracchiani - e indubbiamente quello di Pordenone è il peggiore dal punto di vista strutturale. Le celle hanno spazi limitati e anche le aperture verso l’esterno sono ridotte". "Dalla visita dell’allora ministro Roberto Castelli, otto anni fa - ha aggiunto il sindaco di Pordenone, Sergio Bolzonello - a oggi nulla è cambiato. Se la situazione non degenera lo si deve solo all’abnegazione del personale, che garantisce condizioni umane nonostante una struttura vergognosa". Bolzonello ha spiegato di non voler procedere alla firma della più volte ventilata ordinanza della struttura per carenze igienico-sanitarie "sia perché l’Azienda per i servizi sanitari sta facendo degli sforzi importanti, sia perché abbiamo garanzie sul fatto che nel 2011 partiranno le procedure per la costruzione del nuovo istituto di pena, in Comina. Il provvedimento - ha ricordato - è sospeso fino ad allora". Il sindaco ha precisato che Regione, Provincia e Comune hanno messo a disposizione 20 milioni di euro (con stanziamenti nell’ordine di 15, 2 e 3 milioni di euro) per compartecipare alla spesa per il carcere, ma anche che ci vorranno due-tre anni per vedere realizzata la struttura, la quale sarà organizzata in moduli e potrà ospitare almeno 400 persone. In teoria, quindi, il trasloco dal castello di piazza della Motta in via Castelfranco Veneto, in Comina, dovrebbe avvenire entro nel 2015. "L’appalto sarà unico per tutte le strutture carcerarie del lotto in cui è incluso Pordenone - ha sottolineato Bolzonello - per cui questa dovrebbe essere una garanzia". Il primo cittadino ha rassicurato rispetto alla capacità della viabilità in Comina di reggere una struttura di dimensioni più grandi rispetto a quelle inizialmente prospettate e, a fronte dei rilievi della Lega, contraria alla compartecipazione regionale, ha rimarcato che "al ministero è depositata una lettera di impegno firmata dal presidente della Regione, Renzo Tondo". Lucca: era un antico convento è diventato un carcere fatiscente di Riccardo Arena
Pagina di Radio Carcere su Il Riformista, 17 marzo 2010
"Ministero della Giustizia, Casa Circondariale di Lucca". È la scritta, posta su una bella targa di marmo, che si trova all’ingresso della vecchia galera toscana. Una bella insegna che è forse l’unica traccia di civiltà presente nel carcere San Giorgio di Lucca. Oltre quella lastra di marmo, entrando nella buia prigione, c’è l’abbandono, la perdita di dignità di chi è detenuto in un luogo fuori legge, ovvero in un luogo assolutamente inadeguato a poter essere destinato oggi ad istituto di pena, in base alle leggi vigenti. Il carcere di Lucca, situato nel centro della città, nasce infatti, non come carcere, ma come un convento. Una struttura antichissima, costruita intorno al 1400, che poi è stata trasformata in carcere nel 1800. Una trasformazione, una mutazione di destinazione d’uso, che, dopo 200 anni, è rimasta immutata fino ad oggi. Le celle, piccole e anguste, sono rimaste le stesse che ospitavano i religiosi, con un’unica differenza. In passato dentro ogni cella c’era un solo monaco, mentre oggi in quelle cellette, grandi circa 9 mq, ci vivono ben 4 persone detenute. E già perché l’ex convento di Lucca non solo è vecchio e inadeguato, ma è anche sovraffollato. Potrebbe infatti ospitare solo 79 detenuti, contro i 178 presenti attualmente. Insomma, potendo visitare le celle del carcere di Lucca, si vedrebbero solo corpi ammassati, persone costrette per 21 ore al giorno a rimanere sdraiati sulle brande, a causa della mancanza di uno spazio sufficiente per potersi muovere. Potendo entrare in una di quelle celle si sentirebbe la puzza, l’aria irrespirabile. Si vedrebbero celle buie con finestre piccolissime, tipiche di un convento. Finestre che per questo non consentono l’ingresso adeguato della luce del sole e che non permettono un minimo di ricambio d’aria. Il tutto ovviamente connotato da muffa, da sporcizia e da mura scrostate. In poche parole chi è detenuto nella galera di Lucca è sottoposto ad un trattamento che va ben al di là di quello disumano e degradante per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Un degrado quello del carcere di Lucca che riguarda ovviamente anche chi in quale carcere ci lavora, come gli agenti della polizia penitenziaria. Agenti costretti a lavorare in corridoi fatiscenti dove si affacciano le celle. Agenti che devono fare i turni di guardia sulle mura esterne dell’antica prigione. Mura pericolanti, tanto da essere sottoposte a continui controlli dall’Università di Firenze. Ma il carcere di Lucca non è solo degrado della struttura, è anche spreco di denaro pubblico. Basti pensare che tre anni fa all’ingresso del vecchio penitenziario è stata installata una moderna macchina a raggi X, del tipo che si usano negli aeroporti. Uno solo lo scopo per l’acquisto del costoso macchinario: controllare chi entrava in carcere ed evitare l’ingresso di telefonini o oggetti vietati. Morale: la macchina a raggi X non ha mai funzionato, però in compenso l’amministrazione del carcere ogni sei mesi paga i controlli finalizzati a verificare se c’è la presenza di radiazioni all’ingresso del carcere. Ed ancora. Tempo fa è crollata una parte del carcere di Lucca, e, dopo lunghe riflessioni, si è pensato bene di spendere soldi pubblici per rifare soltanto il tetto di quella parte del carcere per poi lasciarla abbandonata. Per non parlare della palestra del carcere di Lucca. Anche in questo caso, soldi spesi inutilmente. La palestra è stata realizzata e gli attrezzi ginnici comprati, ma poi è stata abbandonata ed ora ci piove anche dentro. Ora al di là del carcere di Lucca c’è un aspetto che colpisce. La Toscana fino a poco tempo fa era ritenuta un’oasi felice, quantomeno per gli istituti penitenziari. Beh adesso guardando alla realtà di Lucca, ma anche a quella del carcere di Arezzo e di Livorno, sembra proprio che anche quest’oasi sia scomparsa. Sulmona: progetto per combattere disagi psicologici di detenuti
Il Centro, 17 marzo 2010
Partirà a breve in carcere un progetto per il "trattamento e sostegno del disagio psicologico" dei detenuti. Il progetto, presentato dal penitenziario sulmonese, è stato finanziato dalla Provincia per 5mila euro. Avrà la durata di un anno (324 ore) e prevede il coinvolgimento di due psicologhe e una criminologa. Ad illustrarlo è stata l’assessore provinciale alle politiche sociali, Teresa Nannarone. L’intervento è diviso in due fasi. La prima è la costituzione di due gruppi di aiuto di 10 persone; a loro verranno insegnate tecniche di gestione di stress e disagio che potranno poi trasmettere ai loro compagni. Previsti anche colloqui psichici individualizzati. La seconda parte consiste nel monitoraggio dei detenuti, soprattutto quelli sottoposti a stretta sorveglianza per 18 ore mensili (9 effettuate da una psicologa e 9 dalla criminologa). "Il finanziamento del progetto" spiega Nannarone "fa seguito ad un preciso impegno che ci siamo presi dopo il riesplodere di suicidi e aggressioni in carcere". Vicenza: progetto in A.S.; "carceri creative-liberi di progettare"
Giornale di Vicenza, 17 marzo 2010
È arrivato alla sua fase conclusiva il progetto "Carceri Creative - Liberi di Progettare" che ha coinvolto un gruppo di detenuti del reparto Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Vicenza e ha visto interagire aziende del Sud e del Nord Italia. L’iniziativa è stata realizzata anche grazie alla sensibilità e collaborazione, fin da subito dimostrata, del direttore della Casa Circondariale S. Pio X, dott. Fabrizio Cacciabue, a cui vanno i più sentiti ringraziamenti. "Il progetto" spiega Fabiano Palamara, imprenditore calabrese e promotore dell’iniziativa di responsabilità sociale "voleva dimostrare che la legalità conviene, attraverso un approccio utilitaristico e non, come spesso avviene, solo di tipo moralistico". "Abbiamo voluto dare, attraverso opportune giornate di testimonianza, formazione ed affiancamento" continua Palamara "un forte stimolo ed una metodologia per liberare la creatività dei detenuti". I detenuti di oltre 7 nazionalità diverse, dopo aver seguito corsi su creatività, innovazione, protezione della proprietà intellettuale, dopo aver ascoltato imprenditori e ricercatori ed essere stati supportati da esperti e consulenti, hanno sviluppato individualmente dei progetti incentrati su idee innovativa per nuovi prodotti da lanciare sul mercato. Sono stati presentati oltre 20 progetti che spaziano in diversi campi: da chi propone lattine innovative per bevande gasate a chi immagina nuovi concept per il mercato orafo, fino a chi prospetta nuovi macchinari per la raccolta del mais. Ma c’è chi ha anche generato un nuovo naming per il progetto: "Creativi Dentro", nella speranza che queste iniziative vengano riproposte. "Una commissione di esperti, professori universitari, ricercatori, consulenti", racconta Mauro De Bona di Campus Consulting che ha curato la formazione dei detenuti, "ha valutato le idee e i progetti presentati: ne è stato selezionato uno, che verrà premiato il prossimo 18 marzo con una cerimonia che si terrà presso la Casa Circondariale di Vicenza". Anche Technogym, società leader mondiale nel settore del Wellness, ha voluto condividere questa iniziativa, dando un contributo attraverso un premio all’autore di uno dei progetti presentati. "Questo progetto sperimentale, a costo zero per le istituzioni pubbliche perché completamente autofinanziato dalle aziende promotrici", conclude Palamara, "è stata un’esperienza emotivamente molto forte per tutti coloro che sono stati coinvolti: siamo più che soddisfatti di ciò che assieme ai detenuti siamo riusciti a costruire. Il nostro intento era quello di lanciare concretamente un messaggio: mettere a frutto il proprio ingegno in un contesto di legalità, giova a creare reale benessere per sé, per la propria famiglia e per l’intera società. Dalle testimonianze e dai riscontri avuti, riteniamo di aver raggiunto questo "obiettivo". E dell’innovatività del progetto si sono accorti anche gli esperti della Commissione Europea, che lo hanno inserito, unico progetto italiano tra i dieci selezionati, tra i casi di successo del programma " 2009 - Anno Europeo della Creatività e dell’Innovazione". Spoleto: studenti incontrano operatori della Casa di Reclusione
Spoleto News, 17 marzo 2010
I ragazzi dell’Istituto superiore Pontano - Sansi - Leonardi che partecipano al Corso sul giornalismo "Walter Tobagi" hanno incontrato in questi giorni un gruppo di studenti che frequenta la scuola superiore all’interno della Casa di Reclusione di Maiano. Gli allievi sono stati accompagnati dalle insegnanti Marta Sensi e Tomassini e accolti dai responsabili della polizia penitenziaria e dagli educatori. Intenso è stato il dialogo tra i giovani e gli operatori della struttura carceraria, seguiti dalle insegnanti Lidia Antonini e Luciana Santirosi: si è trattato soprattutto di uno scambio tra persone che vivono esperienze simili in contesti diversi. Alcuni detenuti, al quinto anno di scuola superiore, hanno spiegato infatti su quale argomento svilupperanno la propria tesina per il diploma. Allo stesso modo hanno fatto gli studenti dell’istituto che frequentano l’indirizzo Socio-psico-pedagogico, trovando anche un’analogia di interessi attorno alle opere di Luigi Pirandello. Al di là degli argomenti scolastici, intensi anche gli scambi a livello umano: "Ragazzi studiate - hanno raccomandato alcuni ospiti del carcere - lo diciamo a voi come ai nostri figli: qui dentro abbiamo imparato il valore della conoscenza". Insieme hanno parlato dell’importanza del dialogo per superare i pregiudizi ma anche della necessità di crescere umanamente e culturalmente: "Spesso si sbaglia - ha detto uno dei detenuti - perché si nasce in un contesto difficile, dove si cresce con falsi miti e non si offrono alternative". Una vera scoperta per i ragazzi del Socio-psico-pedagogico è stata l’esistenza di laboratori ben attrezzati e funzionanti all’interno della cittadella carceraria: da quello di falegnameria, alla tessitura, alla scenotecnica, fino alla tipografia: qui sono state donate ai ragazzi e alle insegnanti diverse pubblicazioni. Tra queste alcune raccolte di poesie e racconti scritti dagli stessi detenuti nel corso di programmi di scrittura creativa. La cronaca dell’incontro verrà riportata dagli stessi allievi del Corso di giornalismo "Walter Tobagi", nel prossimo numero di Notizie da Spoleto, bollettino dell’Associazione "Amici di Spoleto" in uscita per la fine di maggio prossimo. Il corso "Walter Tobagi", istituito nel 2005 nel 25° della morte del giornalista di origine spoletina, coinvolge quest’anno centocinquanta ragazzi, dieci classi tra istituto alberghiero, liceo scientifico e istituto "Pontano Sansi - Leonardi". L’iniziativa è realizzata per le scuole dall’Associazione Amici di Spoleto con il Comune, il sostegno di Fondazione CaRiSpo e "Antonini", in sinergia con Ordine dei giornalisti, Associazione stampa umbra, Curia arcivescovile e associazioni locali. Sei le insegnanti alla guida degli studenti: Elisabetta Comastri, Paola Ribeca, Paola Salvatori, Emanuela Valentini Albanelli, Marta Sensi e Pina Sambugaro. Livorno: Sinistra e Verdi chiedono subito il garante dei detenuti
Ansa, 17 marzo 2010
"Serve subito un garante dei diritti dei detenuti nel carcere livornese delle Sughere". Lo hanno chiesto i candidati alle elezioni regionali della Federazione della Sinistra-Verdi dopo la visita che hanno svolto stamani all’interno della casa circondariale livornese. Aldo Manetti, Paolo Marini, Renzo Cioni, Alessandro Trotta, Chiara De Cristofaro e Michele Mazzola hanno visitato la sezione femminile del carcere e incontrato i rappresentanti dei sindacati di polizia penitenziaria. "Purtroppo - hanno spiegato in una nota gli esponenti della Federazione della Sinistra-Verdi - il quadro che emerge è desolante. Sovraffollamento (con almeno 200 detenuti oltre la capienza massima consentita di 250) e seri problemi strutturali (pareti con vistose infiltrazioni e intonaco in cattive condizioni). Da mesi sono partiti i lavori per realizzare altri due padiglioni e ricavare circa 90 posti che non saranno sufficienti a risolvere il problema del sovraffollamento. A tutto questo si aggiunge la carenza di organico degli agenti penitenziari (almeno 80 posti) e il blocco del turnover". E proprio gli addetti alla sicurezza hanno manifestato ai candidati della federazione della sinistra-Verdi, conclude la nota, "il proprio disagio e la richiesta di maggiore attenzione da parte di Governo e enti locali". Rimini: l'APG23 promuove primo pellegrinaggio con i detenuti
Asca, 17 marzo 2010
La Comunità Papa Giovanni XXIII di don Benzi propone il primo Pellegrinaggio "Fuori lo Sbarre" Il cammino partirà dal piazzale del carcere di Rimini e si dirigerà al santuario della "Madonna di Bonora" di Montefiore. Il cammino parte dal piazzale del carcere di Rimini e si dirige verso il santuario della "Madonna di Bonora" di Montefiore Conca, passando attraverso altri santuari e ad alcune realtà d’accoglienza, in particolare presso la casa per detenuti comuni, "Casa Madre del Perdono". Il pellegrinaggio è storicamente riconosciuto come uno dei modi attraverso il quale il popolo si rivolge a Dio per chiedere il Perdono dei peccati commessi sia dalle singole persone, che dal popolo intero, come società. In questa occasione si implorerà Dio affinché intervenga nella soluzione dell’attuale drammatica situazione nazionale rispetto al problema del carcere e a sostegno di quanti, a vario titolo, sono coinvolti nell’universo penitenziario: agenti di polizia penitenziaria, educatori, direzione carceraria, cappellani, i tanti volontari e le associazioni impegnate in vari modi, infine, e soprattutto, i detenuti. La proposta è un’occasione per "unire simbolicamente chi sta dentro con chi sta fuori", attraverso una traccia di preghiere e riflessioni comuni effettuate in orari precisi. La preghiera, il silenzio, il confronto arricchito anche da alcune testimonianze, animerà il pellegrinaggio che si concluderà con la S. Messa celebrata alle 17,30 presso il santuario di Montefiore. Hanno aderito a questa preghiera, con una partecipazione spirituale, le monache carmelitane del monastero di Sogliano al Rubicone ("Carmelo Santa Maria della Vita"). Programma: ognuno può scegliere la partenza che vuole: alle 06.45, alle 10.45, alle 14.30. 06.45 ritrovo davanti al carcere di Rimini (Via Santa Cristina, 19) introduzione e preghiera con i partecipanti; 07.00 Partenza da Rimini; 10.15 arrivo alla Comunità Monastica di Montetauro: "Piccola Famiglia dell’Assunta"- Ristoro; 10.45 Partenza da Montetauro (Via della Chiesa, 1 - Coriano di Rimini); 13.00 Arrivo presso la Casa Madre del Perdono. Ristoro con spuntino, presentazione della casa e testimonianza di "recuperandi in cammino; 14.30 Partenza da Casa Madre del Perdono (Via Chitarrara 675-Taverna di Montecolombo (RN); 17.00 arrivo al santuario della "Madonna di Bonora" a Montefiore Conca; 17.30 Celebrazione della S. Messa; 18.30 ritorno ai propri mezzi, per chi è sprovvisto con apposito pullman. Ci sarà continuamente un mezzo a disposizione per chi avesse bisogno di interrompere il cammino. Il punto di partenza può essere scelto in base alla disponibilità. Da Montefiore i pellegrini sprovvisti di mezzo per il ritorno, verranno accompagnati nel luogo di partenza con apposito pullman. Richiedendo la traccia di preghiera,presso www.apg23.org sarà possibile unirsi spiritualmente a tutti i partecipanti: detenuti, pellegrini in cammino e suore di clausura. In caso di pioggia abbondante, faremo al mattino alle 06.45 comunque il momento di preghiera e la Santa Eucaristia verso le 10.00 a Montefiore. Un sacerdote sarà disponibile per le confessioni, strada facendo. Libri: "Prete da galera", di Luigi Melesi, cappellano a S. Vittore di Emilia Patruno
Famiglia Cristiana, 17 marzo 2010
La vita di tanti uomini attraverso il racconto di uno solo, che li ha aiutati. Il sacerdote dei detenuti si racconta in un libro di Silvio Valota appena edito dalla San Paolo. Intanto, vorremmo partire da una certezza, per chi ci legge: il libro scritto da Silvio Valota, Prete da galera (San Paolo, 281 pagine, 14 euro), incentrato sulla figura di don Luigi Melesi, cappellano a San Vittore da una vita, non è una biografia, un "monumento da vivo" o, peggio, un’agiografia. Molto difficile, se non impossibile, trovare qualcuno che possa sostenerlo, tra quelli che conoscono la vita e le opere di don Luigi. Il "prete da galera" è lui, ma il libro è soprattutto il racconto delle storie di mille altri uomini. Perché la scelta di don Luigi - una vita piena di amore ma anche di concreti gesti di solidarietà e di fratellanza - è una vita che parla degli altri, solo degli altri, e che negli altri trova senso. Non sappiamo se sia stata la domanda della quarta di copertina ("Che cosa ci fa, un prete, in galera?"), quindi una lecita, sana "curiosità", ad aver dato il "la" a Silvio Valota oppure la casualità di un incontro, la scoperta del racconto e delle imprese di un uomo speciale (anche se lui, don Luigi, lo sappiamo, ha orrore di questa definizione) che possono convincere a scrivere un libro anche a chi non fa lo scrittore di mestiere (Valota, nella vita, si occupa di formazione aziendale). Dice l’autore: "Ho conosciuto don Luigi quando mi è stato presentato da una comune amica, la signora Vanna Lebeau, che aveva da tempo in mente di nobilitare con un libro le vicende di questo sacerdote. Lei stessa s’è data molto da fare per i carcerati di San Vittore e quando ci siamo conosciuti, seduti insieme intorno al tavolo di un ristorante dal nome evocativo, ma forse stridente in questo caso, La dolce vita, abbiamo capito subito che l’immediata sintonia che sperimentavamo ci avrebbe spalancato visuali inconsuete". Don Luigi Melesi è stato ordinato sacerdote l’11 febbraio 1960. È un salesiano. Ha vissuto la prima esperienza di contatto con il mondo del carcere con i ragazzi del riformatorio, a Torino, al Ferrante Aporti. Presso la Casa di rieducazione di Arese ha operato poi come insegnante e catechista, per sette anni.
Ascolto, consolazione, speranza
Nel 1967, insieme a don Ugo De Censi ha creato l’Operazione Mato Grosso, un movimento giovanile impegnato per il Terzo mondo sulla linea della Populorum progressio. Tornato ad Arese, come direttore della Casa di rieducazione, fonda la rivista Espressione giovani, dedicata al teatro e al cinema. È quello il tempo in cui scrive testi teatrali: La parabola di Gesù in teatro, Gli atti degli apostoli in teatro e altri. Dal 1978 è cappellano presso il carcere di San Vittore. Ha conosciuto migliaia di persone, migliaia di storie. Ha consolato, ascoltato, lottato, sperato insieme a donne e uomini che spesso non sapevano neppure più che cosa fossero l’ascolto, la consolazione e la speranza. Ha combattuto, spesso e con vigore, contro l’ingiustizia che a volte si può trovare anche nei luoghi dove la giustizia si amministra. "Nelle pagine del libro scorre una storia del carcere che è anche storia di un’Italia spesso disconosciuta, dai ladri ai brigatisti, dai suicidi di Mani pulite alle storie di Vallanzasca, dalle armi lasciate presso l’Arcivescovado di Milano al sacrificio di chi va in galera al posto di un amico", dice Silvio Valota. "Storie di uomini, uomini che hanno sbagliato, ma rimangono persone. Storie che potrebbero essere i racconti di uno scrittore fantasioso, ma ormai sappiamo che la realtà va molto spesso ben al di là della fantasia più sfrenata". Sono tutte storie vere, continua l’autore del libro, "che parlano della vita e della morte, del dolore e delle speranze dei detenuti e di chi sta loro attorno, raccontano di sbarre d’acciaio e di anni col sole a scacchi. Esattamente come potrebbero narrare persone qualsiasi quali siamo noi, che viviamo fuori dalle porte con i catenacci e ci pensiamo liberi". Con don Luigi Melesi, attraverso le pagine di Prete da galera, e la scrittura di Silvio Valota, è possibile farsi un’idea di quello che è il carcere oggi. E di com’era ieri. Le cose, purtroppo, non sono molto cambiate. È apprezzabile l’uso della parola "galera" del titolo, perché ancora di galera, dura, inflessibile, inumana ma soprattutto non utile allo scopo che si propone di raggiungere (la restituzione alla società di un individuo migliorato rispetto al momento in cui è finito dentro) si tratta.
Rimettersi in carreggiata
Galera, dunque. Luogo in cui le persone sono considerate solo "reati che camminano". Posto in cui riconvertirsi a una vita perbene è praticamente impossibile, perché manca lo spazio e "rimettersi in carreggiata" è un sogno. Per cambiare i paradigmi di vita di un balordo, per fargli capire che senza "l’altro" non esistiamo, che la sopraffazione non paga. Spazio per dimostrare, come dice don Luigi, che bisogna "vivere secondo gli insegnamenti della propria madre". Nessuna madre al mondo darebbe mai al proprio figlio un’educazione per spingerlo verso il male. Argomento forte, anche per i non cristiani, leva giusta per condurre uno qualunque alla sincerità e alla coscienza del bene. Che forza, quel prete da galera. Diritti: Amnesty, l’Italia esporta strumenti usati per la tortura
Apcom, 17 marzo 2010
Alcune "aziende europee" partecipano "al commercio globale in strumenti di tortura, tra cui congegni fissati alle pareti delle celle per immobilizzare i detenuti, serrapollici in metallo e manette e bracciali che producono scariche elettriche da 50.000 volt". Lo sostiene Amnesty International che ha diffuso oggi un rapporto insieme alla Omega Research Foundation riferendo che tra le aziende che hanno messo in vendita manette o bracciali elettrici da applicare ai detenuti" ci sono anche "aziende italiane e spagnole". Il rapporto, intitolato ‘Dalle parole ai fatti’, denuncia che "queste attività sono proseguite nonostante l’introduzione, nel 2006, di una serie di controlli per proibire il commercio internazionale di materiale di polizia e di sicurezza atto a causare maltrattamenti e torture e per regolamentare il commercio di altro materiale ampiamente usato su scala mondiale per torturare". Il rapporto verrà formalmente preso in esame domani a Bruxelles, nel corso della riunione del Sottocomitato sui diritti umani del Parlamento europeo. Amnesty International e la Omega Research Foundation chiedono alla "Commissione europea e agli stati membri dell’Unione europea di tappare le falle legislative illustrate nel rapporto e di applicare e rafforzare la normativa esistente". "L’introduzione di controlli sul commercio di strumenti di tortura, dopo un decennio di campagne da parte delle organizzazioni per i diritti umani, ha rappresentato una pietra miliare dal punto di vista legislativo - ha dichiarato Nicolas Beger, direttore dell’Ufficio di Amnesty International presso l’Unione europea - Ma tre anni dopo la loro entrata in vigore, diversi stati europei devono ancora applicarli o rafforzarli". "Le nostre ricerche mostrano che dal 2006, nonostante i nuovi controlli, diversi stati membri tra cui Germania e Repubblica Ceca hanno autorizzato l’esportazione di strumenti per operazioni di polizia e di controllo dei detenuti verso almeno nove paesi, in cui Amnesty International ne ha documentato l’uso per infliggere torture - ha commentato Brian Wood, direttore del dipartimento di Amnesty International che si occupa di questioni militari, di sicurezza e di polizia - Inoltre, solo sette stati membri hanno dato seguito agli obblighi legali di rendere pubbliche le loro esportazioni. Temiamo che qualche stato non li stia prendendo sul serio". Le scappatoie legali esistenti permettono inoltre ad alcune aziende di commercializzare strumenti che non hanno altro scopo se non quello di infliggere torture e maltrattamenti. "Nell’ambito del loro impegno a combattere la tortura ovunque abbia luogo, gli stati membri devono passare dalle parole ai fatti, imponendo controlli davvero effettivi sul commercio di strumenti di sicurezza e di polizia e assicurando che i loro prodotti non vadano a finire nella cassetta degli attrezzi del torturatore", ha dichiarato Michael Crowley, ricercatore della Omega Research Foundation. Tra il 2006 e il 2009, si legge nel rapporto di Amnesty International, "la Repubblica Ceca ha autorizzato l’esportazione di prodotti quali manette, pistole elettriche e spray chimici, mentre a sua volta la Germania lo ha fatto per ceppi e spray chimici, verso nove paesi dove le forze di polizia e di sicurezza avevano usato quei prodotti per praticare maltrattamenti e torture". "Aziende italiane e spagnole - prosegue - hanno messo in vendita manette o bracciali elettrici da applicare ai detenuti. Una scappatoia legale permette tutto questo, nonostante si tratti di prodotti simili alle cinture elettriche, la cui esportazione e importazione sono proibite in tutta l’Unione europea". Nel 2005, continua, "l’Ungheria ha annunciato l’intenzione di introdurre l’uso delle cinture elettriche nelle stazioni di polizia e nelle prigioni, nonostante la loro esportazione e importazione siano vietate in quanto il loro uso costituisce una forma di maltrattamento o di tortura; solo sette dei 27 stati membri dell’Unione europea hanno reso pubbliche le loro autorizzazioni all’esportazione, nonostante tutti siano legalmente obbligati a farlo; gli stati membri paiono ancora poco informati sulle attività commerciali in corso al loro interno". Dopo che cinque stati membri (Belgio, Cipro, Finlandia, Italia e Malta) avevano dichiarato di non essere a conoscenza di aziende che commercializzassero materiali inclusi nei controlli, Amnesty International e Omega Research Foundation "hanno individuato aziende operanti in tre di questi cinque paesi (Belgio, Finlandia e Italia) in cui prodotti del genere vengono apertamente commercializzati su Internet".
Antigone: in codice italiano non c’è crimine tortura
"È una responsabilità grave perché ci deve essere un’etica negli affari ma è una responsabilità che segna anche una disattenzione e ricorda delle omissioni antiche. Non è un caso che in Italia non sia stato introdotto il crimine di tortura nel codice penale. Inoltre l’Italia non ha ancora ratificato un protocollo opzionale alla convenzione dell’87 sulla tortura che prevede che sia istituita un’autorità indipendente di controllo dei luoghi di detenzione". Lo ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale, commentando il rapporto di Amnesty International da cui è emerso che l’Italia esporta strumenti di tortura come le manette elettriche. "Fra l’altro recentemente il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani ha rivolto pressanti raccomandazioni all’Italia sia per introdurre il reato di tortura e per inserire il meccanismo della tutela - ha sottolineato - Una questione che è ancora più urgente di fronte a un sovraffollamento carcerario che rende oggettivamente degradante la vita nelle carceri, al di là dei fatti eclatanti come il caso Cucchi. C’è urgenza di colmare lacune anche per dare un segnale culturale di tipo liberal-democratico". Stati
Uniti: primo calo dei detenuti in 40 anni nelle carceri
statali Ansa, 17 marzo 2010 Per
la prima volta in quasi 40 anni il numero dei detenuti nelle carceri statali Usa
è diminuito, rivela un rapporto pubblicato oggi. La popolazione carceraria
all’inizio del 2010 era di 2,3 milioni di persone, cioè l’un per cento dei
230 milioni di americani in età da prigione. Il
totale dei detenuti delle prigioni statali (1.403.091 carcerati) ha visto una
leggera diminuzione (lo 0,4 per cento) rispetto all’anno precedente. Dopo
quasi 40 anni di aumento continuo il mutamento di tendenza, anche se lieve,
riflette le numerose iniziative adottate nei diversi stati per ridurre il numero
dei detenuti e le spese, in un momento di crisi economica, provocate dal
mantenimento dei carcerati. In California, ad esempio, il numero dei detenuti è
diminuito di 4.527 persone, il più significativo visto tra i vari stati
americani. Complessivamente il numero dei detenuti è sceso in 27 stati mentre
è aumentato negli altri 23. Ai detenuti statali bisogna poi aggiungere quello
delle prigioni federali (circa 200 mila) e i quasi 700 mila chiusi nelle
prigioni locali.
Stati Uniti: "giustiziato" il detenuto che aveva tentato il suicidio
Agi, 17 marzo 2010
La sua esecuzione era stata rinviata perché aveva tentato il suicidio: ma Lawrence Reynolds, 43 anni, non è sfuggito al braccio della morte ed è stato giustiziato nell’Ohio. L’uomo, condannato alla pena capitale nel 1994 per aver ucciso la babysitter 67enne di un suo vicino, aveva tentato di ammazzarsi perché contestava la "crudeltà" dell’iniezione letale. Secondo l’accusa l’uomo cercò di forzare la porta per rubare nell’abitazione in cui lavorava la vittima ma dopo essersela trovata davanti la strangolò. La sua esecuzione è stata rinviata due volte. Nella prima occasione il boia dopo due ore e mezzo di tentativi non riuscì a trovare la vena in cui iniettare il cocktail letale. Reynolds aveva tentato il suicidio ingerendo una grande quantità di pillole, ma era stato salvato dai medici. La Corte dell’Ohio aveva deciso quindi di sostituire il cocktail con un composto unico. "Spero che non dobbiate mai fare questi 15 passi che sto facendo oggi", ha detto prima di essere giustiziato rivolgendosi a quelli che chiamava i suoi "fratelli del carcere". Argentina: castrazione chimica ai condannati violenze sessuali
Adnkronos, 17 marzo 2010
Ad annunciare la drastica misura è stato il governatore di Mendoza, Celso Jaque. Secondo le autorità locali, è recidivo il 70% dei detenuti per stupro. I condannati per stupro verranno sosttoposti a castrazione chimica nella provincia argentina di Mendoza. Ad annunciare la drastica misura per contrastare un’ondata crescente di violenze sessuali è stato il governatore di Mendoza, Celso Jaque. Il trattamento farmacologico sui condannati per stupro inizierà tra maggio e giugno. Secondo le autorità locali, è recidivo il 70% dei detenuti per abusi sessuali, una percentuale che sfiora il 90% stando alle organizzazioni di difesa delle vittime. Per chi non vorrà sottoporsi al trattamento volontario, le nuove norme prevedono la perdita totale dei benefici di legge, come sconti di pena o indulto. Nepal: detenuti per proteste Cina, 23 tibetani in sciopero fame
Ansa, 17 marzo 2010
Ventitre tibetani detenuti in Nepal per aver protestato contro la Cina hanno intrapreso lo sciopero della fame per rivendicare la loro immediata scarcerazione. Il capo della polizia di Katmandu, Ganesh Chettri, ha indicato che i tibetani, in carcere per novanta giorni, oggi hanno rifiutato il cibo. Sono stati detenuti in base alla legge sulla pubblica sicurezza, che prevede di punire individui o gruppi che sono una minaccia alla popolazione.
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