Rassegna stampa 15 marzo

 

Giustizia: un malato muore in carcere domande senza risposta

di Dario Stefano Dell’aquila (Antigone Napoli)

 

La Repubblica, 15 marzo 2010

 

Il caso di Angelo Russo, sofferente psichico, che si è tolto la vita nel carcere di Poggioreale, pone una serie di interrogativi a cui bisognerebbe dare risposta. Innanzitutto perché questa morte riguarda una persona che, nel bene e nel male, era presa in carico dai servizio sanitario pubblico prima e dall’amministrazione penitenziaria poi. Angelo Russo, schizofrenico, era stato accusato di aver usato violenza a un’altra paziente, all’interno del dipartimento di salute mentale presso il quale entrambi erano in cura.

È entrato in carcere, quindi, con una diagnosi precisa, con una storia clinica nota e con l’evidente carico di complessità che comporta la presa in carico di un sofferente psichico. È entrato in un carcere, in questo caso Poggioreale (ma la storia si sarebbe potuta ripetere in una qualsiasi delle nostre carceri), affollato oltre ogni possibile criterio di capienza (2.500 detenuti su una capienza di 1.300 posti), con i limiti strutturali e di personale che sono ormai noti a tutti.

In un carcere dove, come in ogni altro carcere, a partire dalle 18 la vita si sospende, il personale civile va via, i blindati si chiudono e gli agenti si riducono a poche unità per centinaia di reclusi. Angelo Russo, a quanto ci risulta, ha dato nel corso della giornata segni di crisi, ma ciò non è stato sufficiente per determinare una sorveglianza a vista. Ma la catena di responsabilità non finisce qui.

A partire dall’aprile 2008 la sanità penitenziaria è entrata di diritto nel sistema sanitario regionale. Si doveva, così, garantire il pieno rispetto del diritto alla salute. Ciò significa che un detenuto che, in condizioni di libertà, è seguito dai servizi di salute mentale non dovrebbe vedere interrompersi né la continuità né la qualità di assistenza. Ma questa riforma, che tarda a concretizzarsi anche per il ritardo con cui il governo ha trasferito le risorse per la sanità, non ha inciso sui reali assetti dell’assistenza sanitaria all’interno delle carceri.

Gli psichiatri, persino nei manicomi giudiziari, rimangono convenzionati per un numero di ore insufficienti alla platea di detenuti e, per di più, la notte nei reparti rimane, in genere e se va bene, solo un medico generico di turno. Sulla questione salute mentale e sullo stato dei servizi nella nostra regione occorrerebbe una riflessione seria e ragionata. Bisognerebbe capire quale è il livello di assistenza che i sofferenti psichici e le loro famiglie realmente ricevono. E bisognerebbe anche comprendere come garantire che il filo dell’assistenza non si spezzi una volta varcata la soglia di un carcere o di un manicomio.

Non si tratta di cercare colpe, ma di individuare responsabilità, politiche e istituzionali. Sulla morte di Angelo Russo la magistratura aprirà un’inchiesta e nessuno vuole rivestire il ruolo di Cassandra, dicendo che si concluderà come tutte le altre aperte e poi archiviate in questi casi. Si può anche, giustamente, imputare al governo nazionale la responsabilità del sovraffollamento, chiedendo che faccia qualcosa in più che una politica di annunci. Ma si ha il dovere morale di impedire che simili episodi si ripetano, che a seguito di un caso del genere si costruiscano reali percorsi di presa in carico e protocolli operativi in grado di assicurare l’assistenza psichiatrica anche all’interno di un carcere.

E sarebbe anche opportuno che nel pieno di una campagna elettorale, in cui francamente è difficile comprendere idee e programmi, si affrontasse il tema della salute mentale. Sergio Piro, in occasione delle elezioni regionali del 2000, a nome degli operatori democratici di salute mentale e dei sofferenti della Campania, chiedeva, proprio dalle pagine di "Repubblica", un programma di civiltà, di giustizia e di libertà che fosse finalmente il punto di partenza per il riscatto della Campania. Perché, ci ricordava allora, "una società si giudica anche dal modo con cui tratta i suoi malati mentali". Sono trascorsi dieci anni e queste parole, oggi, sono più che mai attuali.

Giustizia: un viaggio dentro Poggioreale, nel girone dei dannati

di Elio Scribani

 

La Repubblica, 15 marzo 2010

 

Se ci vivi dentro, il carcere diventa un’ossessione anche metallica. E risuona come uno slang dentro la testa dei detenuti. Ogni chiavistello, ogni cancello, ogni portone. Un terremoto psicologico, dice un ispettore di reparto. Se sbatti con forza un’inferriata - spiega l’ispettore - i reclusi vivono quel rumore come un’intimidazione, quasi una violenza. Se, invece, la chiudi con delicatezza, sarà più facile la riappacificazione sociale e, forse, perfino il recupero delle anime perdute.

Entriamo a Poggioreale in un clima ovattato che appare surreale, mentre fuori infuria la polemica sulle carceri che scoppiano e sulla incessante litania dei suicidi in cella. Dal dipartimento della polizia penitenziaria di Roma hanno detto sì alla visita dei padiglioni, ma con un limite pesante: il cronista non potrà avere contatti con i detenuti. Tempi duri.

Il sovraffollamento ha toccato record di presenze che perfino il ministro è stato costretto a definire insopportabili. Uomini stipati come bestie. Dignità calpestata. E diritti umani ridotti a una speranza che richiederà tempo, denaro e fatica. Alla conta di oggi i detenuti di Poggioreale sono 2.690.

Dovrebbero essere al massimo 1.400, quasi la metà. Numeri in progressione aritmetica. Se entrano in carcere tre persone, ne esce una soltanto. Ecco il padiglione "Napoli", uno dei reparti più vecchi in una casa circondariale che è vecchia di cento anni. Quanti sono gli ospiti del Napoli? "Oggi 440", risponde il direttore Cosimo Giordano, un anno e mezzo di direzione, tante idee nella testa. Giordano fa progetti, programma ristrutturazioni, immagina il recupero del lavoro e della socialità in carcere. E trova perfino qualche cosa di cui vantarsi.

Il campo sportivo, che - promette - è già finanziato e sarà realizzato entro un anno. O la scuola, per esempio, con una quarantina di detenuti-allievi tra le elementari e le medie, o i laboratori dei tipografi, dei fabbri e dei falegnami che tengono in attività un’altra dozzina di reclusi e che ora stanno per essere ristrutturati con i 600 mila euro messi a disposizione dalla Regione. Un passo alla volta. È dura, però, la realtà da gestire. Un detenuto si è ucciso in cella solo qualche giorno fa, tre i suicidi nel 2009 con una decina di tentativi falliti per un pelo. Qui la vita resta appesa a un filo. Anche al "Napoli".

Cinque, sei, sette, otto reclusi in ogni stanza. E in alcune celle si arriva a dieci persone. Tre sole docce a settimana. Niente socialità. È un miracolo che non ci siano incidenti ogni giorno, ed è soprattutto merito degli agenti di polizia penitenziaria, sempre sotto organico e sempre sotto stress, ma bravi a gestire una bomba che può esplodere al primo errore. A guardarci dentro, anche le celle del "Napoli" sono un miracolo. Pochi metri quadrati e letti a castello che raggiungono i finestroni, ma i detenuti le tengono pulite e in ordine come non farebbero a casa loro. Si soffre, però.

E non solo della mancanza di libertà o per il pensiero struggente della famiglia. Il sovraffollamento - ammette il direttore Giordano - è una specie di pena accessoria e non è prevista da alcun codice. I muri raccontano sogni e desideri. Moltissimi giovani, addirittura ragazzi, scippi e rapine soprattutto, anche dodici anni di galera da scontare prima di tornare uomini liberi. Entriamo nelle stanze. Tutt’intorno, una mescola innaturale di oggetti e sentimenti. Frutta, cassette dell’acqua, fornelli da campo, foto e giornali attaccati al muro, panni stesi alle sbarre, lettere e abiti usati che ti bombardano la testa con immagini che scimmiottano quelle di casa.

E l’eterno tanfo di cucina mista a urina che appesta ogni bagno, ogni cella, ogni carcere. Ci fai l’abitudine, devi farcela. A questo e agli altri guai, perché tu tieni famiglia, e qua puoi ricevere quattro pacchi al mese, qua trovi alla cassa i soldi che tua mamma o il capoclan ti lasciano per le sigarette e il sopravvitto. E, allora puoi preferire la folla alla lontananza, il caos alla solitudine, l’ossessione al dolore.

È un paradosso, uno dei tanti di Poggioreale. Il padiglione "Firenze" è già un’altra musica. Ristrutturato da poco, il corridoio centrale sembra una corsia d’ospedale. Celle sempre sovraffollate, ma più grandi, e con più luce per immaginare che fuori, oltre le sbarre e le grate, ci sia ancora una vita da vivere. E docce in camera.

Detenuti comuni, quelli al primo arresto. Nello specchio di uno spioncino si staglia la figura di un uomo incollato a una sedia a rotelle, avrà 60 o 70 anni, sembra fuori di testa. Lo accudiscono i compagni di cella. Entriamo al "Roma". È il padiglione dei tossicodipendenti in cura farmacologica e dei trans, una ventina. Problemi e creatività. Disagi e fantasia. Ci lavora con impegno l’équipe del Sert guidata da Rino Pastore.

Ecco la psicologa Ornella Romanazzi. Mostra orgogliosa quelli che lei chiama "miracoli" del "Roma". Un murale dipinto da tre detenuti ricorda la funzione rieducativa della pena e richiama l’articolo 27 della Costituzione. Recupero e reinserimento sociale, parole che pesano come pietre. Sogni. Ecco la stanza delle diversità.

È appunto la diversità la tipicità del "Roma". Le pareti sono piene di fiori allegri e colorati, ma diversi tra loro, fiori che in natura non crescerebbero mai insieme. Si incontrano a Poggioreale, invece. Ed è una lezione per tutti. Pochi detenuti nelle celle, gli altri sono al passeggio o al colloquio. I colloqui? Un calvario nel calvario.

File interminabili di familiari dei detenuti che impegnano l’intero marciapiede di via Nuova Poggioreale, la gente si mette in coda anche alle tre di notte, e va avanti aspettando il proprio turno fino all’ora di pranzo. Ogni giorno 500 detenuti hanno diritto al colloquio, fino a tre familiari ciascuno oltre i bambini, mediamente tra 1.800 e 2.000 visite al giorno. Soprattutto donne. E un mare di perquisizioni, controlli, identificazioni. Uno sconcio insopportabile.

Cambierà tutto, annuncia il direttore Cosimo Giordano. Ci sono già i soldi, un milione e mezzo. La sua idea è quella di istituire un call-center che provveda alla prenotazione telefonica dei colloqui. I familiari telefonano, gli operatori fissano il giorno e l’ora della visita. Niente più file e niente più attese al freddo e sotto la pioggia. Sarà una prova di civiltà, ma ci vorrà tempo. E non sarà domani. Oggi, intanto, il dramma continua.

E davanti al carcere gira ancora a mille il business del dolore. C’è chi vende a cinquanta centesimi le buste trasparenti per confezionare i pacchi destinati ai detenuti. La veterana è una vecchietta chiamata Maria, 84 anni suonati, la borsa dell’acqua calda per dare sollievo alle mani gelate. Vende buste dal 1963. Altri, tra negozianti e ambulanti, custodiscono invece i cellulari che i parenti dei detenuti sono obbligati a lasciare fuori dell’istituto per accedere alla sala colloqui. Tariffa fissa. Ogni telefono un euro, un giro d’affari di centinaia di euro al giorno.

Giustizia: direttore di carcere, sono stato dalla parte dei reclusi

di Adolfo Ferraro (Direttore dell’Opg di Aversa)

 

La Repubblica, 15 marzo 2010

 

Una storia personale è sempre personale e quindi non sempre interessante, ma a volte capita che si interseca, anche non volendo, con avvenimenti di maggiore ampiezza. Mi ha costretto a fare un viaggio di scoperta, come avrebbe detto Proust, che non è vedere nuovi luoghi, ma avere nuovi occhi. E la solidarietà che ho trovato tra i "banditi" reclusi mi è sembrata a volte molto più straordinaria di quella che si trova nel mondo dei cosiddetti liberi.

Ma la solitudine, il rumore dei chiavistelli, la tristezza dell’ora del pasto, la "conta", l’ora d’aria, mi hanno raccontato quanto questo trattamento carcerario non può essere di giovamento ai malati di mente. Carcerare piuttosto che curare oltre a essere semplicemente crudele, rischia di produrre nuovi mostri sia tra gli internati che tra quegli operatori che rispettano le regole senza riconoscerne i valori.

E il suicidio pochi giorni fa nel carcere di Poggioreale di un giovane schizofrenico detenuto è stata la dimostrazione di un fallimento annunciato e non condivisibile. Per questo sono contento di rivedere i pazienti dell’Opg della teatro terapia, che stanno lavorando su un Caino di Byron di forte intensità, della agricoltura biologica, che stanno trasformando un campo incolto in scrigno di tesori perduti e adesso ritrovati, del Laboratorio Colore, che tira fuori i colori dei malati e quindi la loro identità.

Laboratori condotti da operatori volontari, non omologati, per cui la cura e l’attenzione diventano un valore. E che mi spingono a continuare il mio lavoro con una certezza in più: le regole sono necessarie, ma i valori sono indispensabili. Capita che essere vicini a soggetti sofferenti mettendo a disposizione le conoscenze e la professione, dare ascolto, tentare di trasformare la punizione in cura, rendono paradossalmente non omologabile, e quindi mostruoso, un comportamento. Essere non omologato, in genere, produce diffidenza da parte di chi riconosce le regole ma non i valori.

Le personali cronache recenti sono del resto indicative: sono stato coinvolto, mio malgrado, in una faccenda giudiziaria in cui la mia unica colpa era quella di avere dato attenzione professionale (sono psichiatra) a un soggetto ritenuto affetto da una patologia mentale da molti altri medici che l’avevano negli anni visitato. E che, senza che né io né altri tribunali ne fossimo stati a conoscenza, era giuridicamente latitante per un altro ufficio giudiziario a causa di una applicazione di misura di sicurezza, ovverosia per un ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (quindi non per anni di galera).

Favoreggiamento, si chiama. Per questo motivo sono stato ospitato in carcere per diciassette giorni, fin quando il Tribunale del Riesame di Napoli ha totalmente annullato l’ordinanza di carcerazione e i motivi di reato in essa esposti, riportandomi allo stato di uomo libero e con il pieno reintegro nel mio lavoro, che è quello di psichiatra e di dirigente sanitario dell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa.

Un Altrove ambiguo - un po' carcere un po' ospedale - che raccoglie gli ultimi degli ultimi, i "pazzi criminali", spesso dei poveracci che hanno incontrato nella loro vita la malattia mentale e la legge. Un Altrove che da anni si tenta di trasformare da luogo di reclusione a luogo di cura: impresa complicatissima, sia perché escludere è sempre più facile che curare, sia perché spesso i tentativi di reingegnerizzazione sono stati interpretati da chi non desidera i cambiamenti come pericolosi e "rivoluzionari" rispetto una tranquillizzante burocratica chiusura. Le regole, innanzitutto.

E del resto la mia forzata assenza di questi giorni ha prodotto nella struttura in cui lavoro una recrudescenza carceraria spaventosa: dagli ossessivi veti e controlli con inasprimento di regolamenti penitenziari, a una rigidità burocratica ancora più drastica che sta trasformando l’Opg in carcere con i "matti" rinchiusi. Per questo avere vissuto la carcerazione "dall’altra parte", dalla parte dei reclusi, mi ha particolarmente colpito.

Mi ha costretto a fare un viaggio di scoperta, come avrebbe detto Proust, che non è vedere nuovi luoghi, ma avere nuovi occhi. E la solidarietà che ho trovato tra i "banditi" reclusi mi è sembrata a volte molto più straordinaria di quella che si trova nel mondo dei cosiddetti liberi. Ma la solitudine, il rumore dei chiavistelli, la tristezza dell’ora del pasto, la "conta", l’ora d’aria, mi hanno raccontato quanto questo trattamento carcerario non può essere di giovamento ai malati di mente.

Carcerare piuttosto che curare oltre a essere semplicemente crudele, rischia di produrre nuovi mostri sia tra gli internati che tra quegli operatori che rispettano le regole senza riconoscerne i valori. E il suicidio pochi giorni fa nel carcere di Poggioreale di un giovane schizofrenico detenuto è stata la dimostrazione di un fallimento annunciato e non condivisibile.

Per questo sono contento di rivedere i pazienti dell’Opg della teatro terapia, che stanno lavorando su un Caino di Byron di forte intensità, della agricoltura biologica, che stanno trasformando un campo incolto in scrigno di tesori perduti e adesso ritrovati, del Laboratorio Colore, che tira fuori i colori dei malati e quindi la loro identità. Laboratori condotti da operatori volontari, non omologati, per cui la cura e l’attenzione diventano un valore. E che mi spingono a continuare il mio lavoro con una certezza in più: le regole sono necessarie, ma i valori sono indispensabili.

Reggio Emilia: Opg chiuderà in 3 anni, progetto della regione

di Michela Scacchioli

 

La Gazzetta di Reggio, 15 marzo 2010

 

Chiudere l’Opg di Reggio, restituire alla Pulce tutti gli spazi "persi", trasferire gli internati a Castelfranco Emilia, e costruire tra Modena e Piacenza - una casa-lavoro per il reinserimento. Il disegno di massima è stato tracciato venerdì mattina a Sadurano - frazione di Castrocaro Terme, a 10 chilometri da Forlì - dove l’assessore regionale alla Sanità, Giovanni Bissoni - affiancato dal consigliere regionale reggiano Gianluca Borghi - ha fatto il punto della situazione con i responsabili di quella che è, a tutti gli effetti, una residenza psichiatrica di tipo socio-riabilitativo: Casa Zacchera, nata nel 2007 proprio sulle colline di Sadurano.

Una struttura (innalzata su due piani e priva tanto di sbarre quanto di cancelli), che oggi ospita 16 internati provenienti dall’ospedale psichiatrico di Reggio, nel tentativo di "alleggerire" il peso che grava sulle spalle dell’Opg (uno dei cinque operativi in tutta Italia, ma l’unico esistente in Emilia-Romagna): un sovraffollamento - è stato il grido d’allarme lanciato di nuovo ieri - giunto in questi mesi ai suoi massimi storici.

Basti pensare, infatti, che se di norma la capienza dell’edificio (vera e propria parte integrante del carcere reggiano, e non costruzione a se stante) si aggira attorno alle 140 unità, negli ultimi tempi le quattro sezioni funzionanti di via Settembrini sono arrivate a ospitare ben 285 pazienti (prosciolti in sede di processo perché dichiarati incapaci di intendere e di volere: da qui la distinzione con il "classico" detenuto in prigione).

Di questi, però, soltanto 46 provengono dalla nostra regione: tutti gli altri arrivano dai territori del cosiddetto "bacino" (Marche, Veneto e Lombardia) oltre che dalle province più disparate d’Italia. Un’accoglienza, quindi, che va oltre i limiti del consentito. Ecco perché - secondo Bologna - è forte e urgente la necessità che l’amministrazione penitenziaria la smetta di inviare a Reggio internati da regioni extra-bacino.

E dunque, per superare la situazione, la Regione si è impegnata in un progetto che prevede la sottoscrizione di un accordo col ministero della Giustizia: il trasferimento dell’Opg reggiano nel forte urbano di Castelfranco Emilia, da ristrutturare peraltro con i soldi pubblici della Regione. Di contro, una volta smantellato, l’Opg non sarà più tale, e visto che le sezioni esistenti sono parte integrante del carcere, alla Pulce - sovraffollata anch’essa - verrà dato fiato grazie a questi locali totalmente liberati.

La tempistica? Innanzitutto si attende la firma del ministro Alfano. Dopo di che, inizieranno i lavori di restyling di Castelfranco, che, a occhio e croce, dureranno tre anni. Contestualmente, però, la Regione intende proseguire sulla strada dell’alleggerimento. Affinché quando fra tre anni sarà ora di chiudere l’Opg di Reggio, i pazienti da trasferire in provincia di Modena non ammontino più a 285, ma - almeno nelle intenzioni - a 120. Un punto di partenza "sopportabile" per poi scendere ulteriormente. Ed è in questa ottica che torna in ballo Sadurano.

Dove i 16 internati - selezionati a priori, anche se le ipotesi di reato contestate oscillano tra l’omicidio e la violenza sessuale, l’estorsione, il furto e lo spaccio - circolano senza palla al piede. Se da una parte, infatti, a breve termine Casa Zacchera significa "16 pazienti in meno" per l’Opg di Reggio (che alla collettività costano così 180 euro al giorno contro i 300 abbondanti dell’ospedale psichiatrico giudiziario), dall’altra la struttura ha una finalità ben precisa sul medio-lungo termine: far sì che gli internati si reinseriscano nella società. Lavorando, rendendosi utili, rientrando nel proprio nucleo familiare.

Un obiettivo ambizioso, che tuttavia ha ricevuto il sostegno pieno dell’amministrazione di Castrocaro (di centrodestra) e che dalla cittadinanza non ha incassato alcun cartellino rosso nonostante il rischio derivante dal forte allarme sociale di questi nuovi vicini da casa. Sadurano però è partita. In nemmeno due anni ha ospitato 27 internati provenienti dall’Opg reggiano: di questi, 16 "sono andati a buon fine - ha spiegato Stefano Rambelli, presidente della cooperativa sociale Sadurano Salus - e dunque sono stati reinseriti nel territorio. Due, invece, sono tornati alla casa madre", vale a dire all’Opg, perché non ritenuti idonei all’uscita libera. Stanze comode, finestre aperte, spazi ricreativi comuni: chi esce da Casa Zacchera alla mattina lo fa per trasformarsi in elettricista, cuoco, panettiere o agricoltore.

E la sera rientra in camera. Ma - sottolineano da Sadurano - l’obiettivo non è tenere le persone a carico perché noi con questo lavoro ci campiamo. Non vogliamo vivere sulle disgrazie delle persone, noi vogliamo che tornino a casa loro". Tecnicamente, si chiama de-istituzionalizzazione dell’internato. L’idea partì in Regione nel 1997, quando Borghi capì che per metter mano al problema dell’Opg forse bisognava muoversi piazzando in campo una scommessa. L’obiettivo, oggi, è di creare una "Sadurano due". Possibilmente in Emilia, non è esclusa Reggio.

Bologna: 11 detenuti "studiano" da muratori 3 hanno già lavoro

 

Dire, 15 marzo 2010

 

Si è concluso con un successo "Dozza in cantiere", il progetto di formazione e reinserimento lavorativo dei detenuti, organizzato e gestito dall’Istituto professionale edile (Iiple) di Bologna e finanziato dalla Provincia attraverso il Fondo Sociale Europeo. Undici detenuti, cinque stranieri e sei italiani, hanno seguito in carcere un percorso di formazione che li ha portati a ottenere il patentino di "Operatore edile alle strutture", una qualifica regionale che li aiuterà a rientrare nel mondo del lavoro.

Inoltre, tre di loro, i più meritevoli, sono già stati assunti dal servizio di manutenzione interna del carcere e, malgrado debbano ancora scontare una parte della pena, hanno già cominciato a lavorare.

L’Iiple ricorda in una nota che "poter esibire una qualifica professionale è una grande opportunità per chi esce dal carcere. Spesso gli ex detenuti, nel momento in cui finiscono di scontare la pena o escono in regime di semi-libertà, si trovano in condizioni di isolamento e di discriminazione, e hanno enormi difficoltà a trovare lavoro".

Il progetto "Dozza in cantiere" contribuisce al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, grazie all’esperienza dell’Istituto professionale edile che, essendo bilaterale, cioè composto da rappresentanti degli imprenditori e dei sindacati, garantisce un collegamento con il sistema delle aziende. Inoltre, continua l’Iiple in una nota, "l’edilizia è un settore meno discriminante di altri, per quanto riguarda la provenienza dei nuovi addetti, grazie al forte e continuo ricambio della manodopera".

I partecipanti a "Dozza in cantiere" sono stati selezionati in base a motivazioni individuali, precedenti esperienze professionali e secondo le indicazioni della dirigenza carceraria sulle eventuali situazioni di incompatibilità. I tecnici dell’Istituto professionale edile li hanno quindi guidati in un percorso formativo teorico e pratico, sviluppato interamente all’interno del carcere, durante il quale i detenuti hanno imparato a lavorare in sicurezza sulle opere in muratura. Per le parti pratiche, i detenuti hanno realizzato interventi sulle aree del carcere che avevano bisogno di piccole ristrutturazioni, e hanno avuto la possibilità di partecipare a uno stage nel servizio di manutenzione della Dozza. Al termine del percorso formativo, c’è stato anche un esame finale.

L’Istituto professionale edile organizza iniziative simili presso il carcere da oltre dieci anni, ma è la prima volta che è stato possibile permettere ai detenuti di partecipare ad uno stage. Forte di questo successo, l’Iiple ha deciso di rinnovare il suo impegno con una nuova edizione di "Dozza in cantiere", che partirà dal prossimo giugno.

Busto Arsizio: il cioccolato che darà lavoro a quaranta detenuti

 

Asca, 15 marzo 2010

 

Sei mesi di formazione e poi via alla produzione. Da oggi, lunedì 15 marzo, il progetto di realizzare una cioccolateria nella Casa Circondariale di Busto Arsizio è una realtà. In mattinata 48 persone detenute hanno fatto il loro ingresso nella zona delle cucine del carcere dove sono stati allestiti laboratori dotati di tutti i macchinari necessari per realizzare cioccolato e dolci. "Sono previsti sei mesi di formazione, spiega Rita Gaeta, responsabile dell’area educativa -. Poi verranno assunte almeno 35 persone, ma forse anche di più".

Il progetto è nata dall’iniziativa di una società che ha creato la Srl "Dolce e libertà" che in futuro assumerà i detenuti come dipendenti. Quando la produzione di cioccolato, pasticceria fredda e biscotti sarà a regime, partirà anche la vendita in Lombardia, Piemonte, Liguria e Triveneto. L’esordio però dei dolci targati "Dolce e libertà" c’è già stato ieri quando, dopo la partita Bologna-Sampdoria, sono state vendute delle uova realizzate in carcere. Lo stesso verrà fatto nella prossima partita del Bologna e il ricavato verrà devoluto in beneficienza per un ospedale. Prossimo traguardo da raggiungere ora è l’allestimento di un laboratorio fisso nell’istituto. Entro giugno infatti verrà sistemata l’area fino ad oggi era adibita a palestra che diventerà la sede fissa per la produzione.

Viterbo: a Mammagialla situazione gravissima, protesta agenti

 

Comunicato stampa, 15 marzo 2010

 

Gli scriventi, delegati delle organizzazioni sindacali più rappresentative del corpo di Polizia Penitenziaria per la provincia, ritengono oltremodo doveroso informare la società circa la gravissima situazione in cui versa l’istituto penitenziario di Viterbo. Quanto sopra, atteso che le problematiche esistenti sono talmente gravi da risultare potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza sociale del territorio viterbese.

Spesso viene dimenticato che la polizia penitenziaria è una delle cinque forze di polizia a livello nazionale, dipendente dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i cui compiti istituzionali sono descritti precìpuamente nell’art. 5 della Legge 395/90, istitutiva del Corpo stesso (Il Corpo di Polizia Penitenziaria attende ad assicurare l’esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale; garantisce l’ordine all’interno degli istituti di prevenzione e di pena e ne tutela la sicurezza; partecipa, anche nell’ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati; espleta il servizio di traduzione dei detenuti ed internati ed il servizio di piantonamento dei detenuti ed internati ricoverati in luoghi esterni di cura.,), il che comporta la gestione quotidiana di soggetti in condizioni di profondo disagio dovuto alla restrizione della libertà personale, che enfatizza qualsiasi tipo di comportamento, in positivo ed in negativo, e richiede profondo autocontrollo, intelligenza e sensibilità di gestione e di prevenzione delle situazioni di pericolo e tentativi dei detenuti di ledere l’incolumità propria ed altrui.

Sovente il poliziotto penitenziario si trova a gestire situazioni delicatissime e snervanti e demotivanti, con il costante pericolo di aggressioni e umiliazioni ma nonostante ciò si prodiga giornalmente nel tutelare la sicurezza e lo stato di salute delle persone recluse e, conseguentemente, ciò influisce sulla sicurezza della società. Sono moltissime le occasioni in cui vengono sventati tentativi di suicidio dei detenuti, con grave rischio personale, e non è affatto giusto che si sia sempre additati come "aguzzini" e maleducati, solo perché l’ambito lavorativo evoca, erroneamente, una situazione di degrado complessivo. La casa circondariale di Viterbo, è da anni carente di circa 150 unità di polizia penitenziaria per l’adeguata copertura dei posti di servizio, atti a garantirne la sicurezza interna ed esterna.

Ad aggravare quanto sopra vi è un’altissima concentrazione di detenuti altamente pericolosi. Non da ultimo, si è verificato il passaggio dalla sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale, che ha fatto sì che decadesse quella branca della sanità dedicata alle specifiche necessità dei detenuti, con l’intento di offrire agli stessi una sanità più qualificata. Tale provvedimento, ha aggravato in modo esponenziale il lavoro del nucleo traduzioni e piantonamenti, vanificando la necessità di evitare una ingente movimentazione di detenuti sul territorio, comportando un continuo andirivieni di detenuti in transito sul territorio e creando continuo disagio alla popolazione comune nei corridoi degli ospedali che, fra l’altro, ben si presterebbero ad una potenziale via di fuga.

A causa di tutti i motivi suesposti, già dall’inizio dello scorso periodo estivo si sono verificate anche numerose aggressioni ai danni del personale di polizia penitenziaria da parte di detenuti, in alcuni casi con conseguenze gravi. Ciò nonostante, il lavoro della polizia penitenziaria in forza alla casa circondariale di Viterbo continua con immutata abnegazione. Il personale di polizia penitenziaria di Viterbo è perfettamente conscio dell’importantissimo mandato istituzionale, e resiste alle molteplici difficoltà e ai turni massacranti, con copertura di due o tre posti di servizio contemporaneamente, con tutti i rischi che questo comporta, in termini di accumulo di stress negativo, senza peraltro grandi possibilità di recupero psicofisico, data la difficoltà di fruire delle ferie e degli altri diritti spettanti. È lecito domandarsi se tutto questo sia giusto. Se sia giusto che queste persone debbano essere svilite e sfinite nelle loro energie ed esposte gratuitamente a grave rischio per l’incolumità personale.

La situazione ormai è talmente grave da costituire un pericolo per l’incolumità degli operatori a scapito della sicurezza e la Direzione non sembra, nonostante i tentativi effettivamente messi in atto, disporre degli strumenti necessari per ottenere dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria l’invio di un congruo numero di unità di personale presso l’istituto penitenziario di Viterbo. In principio infatti il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva deciso di assegnare presso l’istituto circa 40 unità di polizia penitenziaria, per poi ridurle progressivamente fino ad arrivare all’ultima decisione: 12 unità a completamento del 161° corso allievi agenti di cui il Dipartimento ha annullato le procedure di assegnazione a causa di un ricorso al Tar del Lazio.

Recentemente, poi, in occasione dell’apertura di una sezione presso la casa circondariale di Civitavecchia, 9 istituti del Lazio hanno dovuto inviare unità in missione, la casa circondariale di Viterbo, "ovviamente", anziché ricevere un congruo numero di poliziotti penitenziari, non ha potuto esimersi da tale invio perdendo una ulteriore unità. Per i motivi esposti, chiediamo sostegno in occasione della manifestazione di protesta indetta per il giorno 19 marzo 2010 in piazza del Plebiscito".

 

Sappe, Osapp, Sinappe, Uil, Cisl, Uglpp, Cgil

Roma: mercoledì apre mostra fotografica sulle donne detenute

 

Apcom, 15 marzo 2010

 

L’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà ha promosso la mostra fotografica "La bellezza dentro - Donne e madri nelle carceri italiane". Mercoledì 17 marzo alle ore 17, presso la Sala del Cenacolo, Complesso di Vicolo Valdina, si terrà il convegno di inaugurazione della mostra. Interverranno il Vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, il Questore della Camera, Gabriele Albonetti, i deputati Renato Farina e Andrea Orlando. Sarà presente il Ministro della Giustizia Angelino Alfano.

Lo riferisce una nota. L’esposizione sarà aperta al pubblico dal 18 al 26 marzo 2010, dalle ore 10 alle ore 18 (con chiusura il sabato e la domenica). Ingresso da Piazza Campo Marzio, 42. Si tratta di un reportage fotografico di Giampiero Corelli volto a rappresentare la quotidianità delle donne, in particolare delle madri con i bambini, all’interno delle carceri italiane. L’autore delle foto ha visitato i diversi istituti di pena, da Roma a Messina, da Genova a Forlì, da Napoli a Palermo, da Milano a Venezia. La mostra è corredata dal catalogo "La bellezza Dentro - Donne e madri nelle carceri italiane" edito da Danilo Montanari Editorie. Il catalogo è introdotto dalla senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, Sottosegretario alla Giustizia, dagli interventi di Maurizio Lupi e Gabriele Albonetti, entrambi membri dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. La presentazione è di Donatella Stasio, giornalista del Sole 24 Ore.

Assisi (Pg): i detenuti? diventino pellegrini, sulla via di Santiago

 

La Nazione, 15 marzo 2010

 

"I detenuti? Facciamoli andare a Santiago, permettiamo loro di diventare pellegrini...". Provocazione? Nemmeno per sogno. Un modo nuovo - almeno per l’Italia - di aiutare a scontare una pena: dietro al pellegrinaggio ci sono devozione, cultura, e la possibilità di recupero di detenuti. Ecco allora che l’idea viene resa ancora più esplicita: "Proporremo alle autorità giudiziarie e penali italiane di offrire ai giovani internati di essere recuperati e reinseriti in società tramite dei pellegrinaggi da effettuare a Santiago De Compostela, a Roma e a Gerusalemme. Un’antica tradizione che dà la possibilità ai detenuti, in Spagna e in Belgio, di scontare parte della loro pena effettuando un pellegrinaggio".

COSÌ il professor Paolo Caucci Von Saucken, ordinario di Letteratura spagnola all’Università degli Studi di Perugia e presidente del Centro italiano compostellano nel corso delle "Giornate d’incontro" tra le città gemellate Assisi e Santiago De Compostela; "Giornate" che si sono svolte ad Assisi e a Perugia, presiedute da Claudio Ricci e Josè Sanchez Bugallo, sindaci, rispettivamente di Assisi e di Santiago. E chissà che la proposta non faccia breccia nel muro del Ministero, e si possa arrivare a unire pellegrinaggi e rieducazione.

Intanto sul gemellaggio si prosegue spediti. Fra le iniziative, la mostra fotografica, promossa dall’amministrazione comunale di Santiago De Compostela, in corso ad Assisi, nella sala "Le Logge" dal titolo "Santiago Une l’Europa - Santiago unisce l’Europa", con venti foto realizzate da fotografi spagnoli sulla città.

Libri: "Abolire le carceri"; un libro, un’idea… e tante proposte

 

Ristretti Orizzonti, 15 marzo 2010

 

È in libreria il volume del Prof. Claudio Saporetti "Abolire le carceri - un’idea dalla Mesopotamia" (Aracne editrice - Roma) con la prefazione dell’Avv. Lino Buscemi.

Perché abolire le carceri? Due esperienze personali (la frequentazione di carceri nell’ambito di un’attività universitaria e la conoscenza dei sistemi punitivi descritti nelle più antiche testimonianze dell’umanità) hanno indotto l’autore Prof. Saporetti a considerare la storia passata e l’odierna realtà del carcere per giungere alla conclusione che deve essere assolutamente abolito, non solo per il catastrofico fallimento dei suoi fini, ma perché la sua esistenza va contro le più elementari norme morali contro la sopraffazione e la violenza.

L’Autore non rinuncia ad avanzare qualche suggerimento, da intendersi soprattutto come stimolo per un contributo di altri e di più competenti esperti. Sulla medesima linea fondamentale si è posto l’Avv. Lino Buscemi con la sua prefazione.

Claudio Saporetti, Docente Universitario, ha scritto numerosi libri e articoli scientifici prevalentemente in campo assiriologico, ma anche su argomenti riguardanti l’archeologia greca e l’arte medioevale. Dirige la rivista "Geo-Archeologia" ed è vice presidente della Società Italiana per la protezione dei beni culturali. Su richiesta del Ministero degli Esteri si sta occupando della Catalogazione informatica di testi e reperti del Museo di Baghdad.

Lino Buscemi, avvocato, giornalista pubblicista, Docente di comunicazione pubblica, è Segretario generale della Conferenza Italiana dei garanti regionali dei diritti fondamentali dei detenuti. È Consigliere nazionale dell’Associazione Italiana Comunicazione pubblica istituzionale. È Presidente nazionale del Comitato scientifico dell’Andci (associazione nazionale difensori civici). Autore di numerose pubblicazioni, si occupa prevalentemente di diritti umani e di cittadinanza. Collabora con "La Repubblica" edizione siciliana.

Immigrazione: i "detenuti" sul tetto una rivolta a Ponte Galeria

 

Il Manifesto, 15 marzo 2010

 

Inseguiti e ammanettati faccia a terra dalla polizia. Quando ormai la protesta era finita, e dopo aver manifestato per tutto il pomeriggio sul tetto del centro di espulsione in cui sono rinchiusi, stavano tornando nelle loro camere. Ma la punizione è scattata lo stesso. È stata una giornata di altissima tensione ieri nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Terminata con il blocco della linea ferroviaria Roma-Fiumicino da parte della rete "antirazziste e antirazzisti contro i Cie" e un corteo a Trastevere per denunciare la repressione contro gli immigrati.

Tutto è cominciato ieri mattina, quando la rete contro i Cie è arrivata sotto gli altissimi muri del centro romano per iniziare il sit-in, organizzato anche per dare visibilità alle proteste degli immigrati detenuti, che difficilmente "bucano lo schermo" ma che da diverso tempo si verificano all’interno dei centri di espulsione: scioperi della fame, battiture e purtroppo anche atti di autolesionismo.

"Siamo solidali con tutti e tutte coloro che non vogliono più accettare passivamente lo sfruttamento e la reclusione, denunciando e ribellandosi contro le condizioni in cui vivono", scrivevano gli attivisti che ieri hanno organizzato l’appuntamento. La comunicazione con l’interno è riuscita: qualche detenuto ha iniziato a incendiare materassi, il fumo si vedeva dall’alto. Poco dopo gli immigrati hanno voluto far vedere in modo ancora più forte la loro protesta per le condizioni di vita all’interno del Cie: in una trentina sono così saliti sui tetti, alcuni si sono arrampicati sulla rete che separa il padiglione degli uomini da quello delle donne.

Gridavano anche loro "Libertà", chiedevano di poter uscire da quella specie di carcere, dove la permanenza per le persone che secondo la legge italiana devono essere espulse dal paese ormai si è prolungata fino a sei mesi. La polizia, in tenuta antisommossa, più volte è salita sul tetto cercando di far scendere le persone. Alla fine, sono rimasti in una decina e ad un certo punto si sono legati anche con delle corde ad alcuni pali, minacciando di impiccarsi: hanno denunciato che lì dentro è un inferno, che ci sono violenze da parte delle forze dell’ordine.

Nessun parlamentare si è presentato all’appuntamento, ad accorrere al centro sono stati soltanto i due consiglieri regionali Peppe Mariani (Lista civica) e Luigi Nieri (Sinistra e Libertà). Ma nessuno dei due è stato fatto entrare, neanche Nieri che è rimasto fino alla fine della manifestazione, per accertarsi che tutto filasse liscio (per quanto possibile). "È incredibile - ha dichiarato il consigliere - posso girare tutte le carceri, posso controllare le condizioni di detenzione dei mafiosi, ma dentro ai centri di espulsione non si riesce ad entrare, sono luoghi in cui c’è una reale sospensione del diritto".

Francia: nuove prigioni sono progettate per favorire la violenza

 

Redattore Sociale, 15 marzo 2010

 

Locali decadenti, difficoltà di reinserimento dei detenuti, assenza d’umanità dei nuovi edifici: il bilancio stilato dal controllore generale dei luoghi di privazione della libertà (figura pubblica indipendente) è molto pessimista.

L’ispettore generale Jean Marie-Delarue, che ha il compito di controllare il rispetto dei diritti fondamentali della persona, ha stilato un rapporto molto critico sullo stato delle prigioni in Francia. "Da questi luoghi le persone escono arrabbiate o distrutte - ha constatato Jean-Marie Delarue durante la presentazione del secondo rapporto annuale -. Rispetto all’anno scorso non abbiamo trovato nulla di nuovo. Gli edifici sono vecchi, c’é molta povertà, violenza, e una totale assenza di dignità umana. Sono stati fatti pochi progressi e resta ancora molto da fare". L’ispettore generale si è poi detto molto pessimista sulle nuove prigioni "progettate per favorire la violenza e l’aggressività".

"Sono state inviate tre squadre in simultanea in tre nuove prigioni inaugurate durante l’anno 2009, e sono tornate con molto pessimismo su come sono state concepite queste prigioni, che alla sicurezza hanno sacrificato tutto il resto" ha sottolineato Jean-Marie Delarue durante la presentazione del secondo rapporto annuale.

Georgia: i condannati potranno scontare la pena nei monasteri

 

Ansa, 15 marzo 2010

 

Dal carcere ai monasteri ortodossi: i condannati per crimini minori in Georgia potranno da oggi scontare le loro pene tra monaci e clero ortodosso, dedicandosi a "lavori socialmente utili". Lo prevede un accordo tra la chiesa ortodossa e la giustizia del Paese caucasico, che ha un dichiarato doppio obiettivo: alleggerire le carceri sovraffollate e aiutare nella ricostruzione dei monasteri distrutti in epoca sovietica. I condannati potranno ricostruire dove serve, o anche dare una mano nella manutenzione, ha spiegato il metropolita Theodor. L’accordo segnala anche la crescente vicinanza tra governo georgiano e chiesa ortodossa autocefala, erede di una delle prime chiese cristiane al mondo e considerata un elemento inalienabile dell’identità della Georgia anche rispetto all’ortodossia russa.

Kenia: agricoltura urbana per gli ex detenuti, con Ong italiana

 

Redattore Sociale, 15 marzo 2010

 

Cavoli, spinaci, peperoni e cipolle: la speranza di una vita nuova in un sacco, dove è possibile piantare fino a 40 piantine diverse. "Ogni residente ha la responsabilità di mantenere il proprio sacco". Progetto di Coopi.

Dovendo vivere con gli alti prezzi del cibo, il basso reddito ed un minuscolo appezzamento di terra arabile, centinaia di residenti dei bassifondi densamente popolati di Nairobi hanno adottato una nuova forma di agricoltura intensiva: una fattoria in un sacco. L’ex detenuto John King’ori spera che il progetto, gestito dalla Ong Italiana Coopi, lo aiuterà a rigare dritto dopo otto anni dietro le sbarre per rapina violenta. King’ori presiede il Gruppo di Auto-aiuto Juja Road, i cui 76 membri, anch’essi per la maggior parte ex prigionieri, sono fra i 1000 residenti di Mathare ed Huruma che sperano che i loro sacchi forniranno una scorta sostenibile di verdure come cavoli, spinaci, peperoni e cipolle.

"Possiamo piantare più di 40 pianticelle in ogni sacco; ogni residente ha la responsabilità di innaffiare e mantenere il proprio sacco. Speriamo che le verdure saranno pronte per il consumo in poche settimane di tempo", ha detto King’ori in un appezzamento di terra dimostrativo. Coopi ha recintato l’appezzamento, ha migliorato l’immagazzinaggio dell’acqua ed ha fornito la migliore terra, sabbia, concime e piantine.

"Lo scopo del progetto di agricoltura urbana è quello di permettere alle persone di avere un cibo migliore acquistando potere," ha affermato il direttore della Ong Claudio Torres. "Abbiamo stipulato un contratto con un agronomo per formare professionalmente i beneficiari delle sei basi sul terreno e la gestione delle razioni dei sacchi e su come intraprendere l’agricoltura urbana in maniera sostenibile", ha detto. "Credo che tali progetti incoraggino l’interesse di altri gruppi, come le banche, ad investire in queste persone, arricchendo così la loro vita in generale."

Simon Kokoyo, direttore di Ongoza Njia - una rete di almeno 150 organizzazioni locali, ha dichiarato che la maggior parte dei gruppi che lavorano con Coopi sul progetto di agricoltura urbana sono stati identificati attraverso la rete. "Quando è pronto per il consumo, un sacco contente verdure come il sukuma wiki (cavolo riccio), spinaci e peperoni può nutrire un residente per almeno due mesi," ha detto Kokoyo.

"Proprio ora l’acqua è la sfida più grande per questo progetto.. talvolta l’acqua è scarsa e questo può essere un problema". Stephen Ajengo, segretario del Gruppo di Auto-aiuto Juja, è uno dei membri del gruppo che ha ricevuto un mese di formazione in agricoltura urbana in un istituto di ambiente ed agricoltura di Nairobi. "Ho imparato come prendermi cura delle piante, lo spazio richiesto per piantare e la stratificazione dei vari tipi di terreno richiesti per sacco," ha detto Ajengo. "Si deve sapere anche la quantità d’acqua necessaria alle piante; durante il periodo iniziale dopo la piantagione, si ha bisogno di almeno 40 litri al giorno; questa quantità si riduce man a mano che le piante mettono radici finché l’innaffiamento è solo circa una volta a settimana."

Susan Wanjiru, un membro delle Sorelle della Visione, un’altra delle basi identificate da Coopi per il progetto di agricoltura urbana, ha detto che questa era la prima volta che provava a piantare in un sacco. "Precedentemente il nostro gruppo di donne è stato coinvolto nell’agricoltura urbana ma per lo più piantavamo verdure in piccoli appezzamenti di terra; ora cerchiamo di piantare nei sacchi. Spero di riuscire a piantare fino a tre sacchi fuori casa una volta che il progetto sarà completato," ha detto Wanjiru. Ha affermato che il progetto aveva aiutato il suo gruppo ad espandere il numero delle persone coinvolte nell’agricoltura urbana. "Prima eravamo solo 14 membri; poiché i sacchi occupano poco spazio, abbiamo esteso l’invito ad unirsi a noi ad altre donne e bambini delle scuole, così molte famiglie hanno accesso a verdure economiche." "Sai ci sono delle volte che uno non ha nemmeno uno scellino in tasca ma con un sacco di verdure la propria famiglia non deve andare a dormire affamata; tutto quello che fai è cogliere qualche foglia di spinaci, prendere un peperone e un po’ di coriandolo ed hai qualcosa da accompagnare all’ugali (pasto di granoturco)."

 

 

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