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Giustizia: il Capodanno con Pannella apre i cancelli della galera di Ornella Favero (Direttore di Ristretti Orizzonti)
Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2010
Di mattine e pomeriggi in carcere ne ho passati tanti, da più di 12 anni faccio un giornale con una redazione di detenuti e volontari, dunque la galera la conosco e la frequento. Ma una notte dentro non l’avevo ancora passata, e tanto meno "LA NOTTE" per eccellenza, quella di Capodanno. E invece l’idea è venuta a uno che la fantasia, viva e pulsante, per trovare forme nuove per parlare di un tema poco appetibile come la galera ce l’ha ancora. Tutto è cominciato il giorno prima, mercoledì, con una telefonata di Rita Bernardini, parlamentare radicale: Pannella vuole passare il Capodanno nella Casa di Reclusione di Padova. Non ho pensato neanche per un attimo a uno scherzo, conosco Pannella quel che basta per sapere che è uno che le cose le dice e le fa, quello che non pensavo è che nel giro di poche ore arrivassero le autorizzazioni necessarie dal Ministero, e anche la disponibilità del direttore, Salvatore Pirruccio, a sacrificare la sua festa in famiglia per Pannella e soprattutto per tenere viva l’attenzione sul disastro delle carceri, sovraffollate come non lo sono state mai.
"Cenone" alle cinque del pomeriggio e a letto alle nove
Arriviamo davanti al carcere alla sera del 31, alle sette, Marco Pannella, Rita Bernardini, io, Michele Bortoluzzi di Radicali Italiani, il consigliere regionale del Partito Democratico Giovanni Gallo e un tecnico di Radio radicale. Ci accolgono il direttore e il commissario della Polizia Penitenziaria, poi cominciamo questo strano tour partendo da una piccola sezione, il Polo universitario. Con tutta la mia esperienza di carcere ancora immaginavo che almeno l’ultimo dell’anno le persone detenute, anche se davvero hanno poco da festeggiare, passassero la serata con i blindati delle celle aperte, cenando magari a un’ora "decente". E invece no, arriviamo che stanno già per essere rinchiusi a doppia mandata, il "cenone" l’hanno fatto alle cinque del pomeriggio, come in ospedale. Il nostro arrivo scombussola tutti i piani, o meglio uno solo, quello di cacciarsi a letto e dimenticare che in ogni altra parte del mondo si fa festa. Ci sediamo a tavola, mentre a occuparsi della cucina è Gianluca, il dottore, lo chiamano tutti così per rispetto alla professione che faceva prima di diventare un detenuto. Questa sera tutti tirano fuori il cibo che doveva servire al pranzo del primo dell’anno, e con i loro fornelletti da campeggio ci improvvisano un cenone "classico", cotechino e lenticchie. E anche un dolce sontuoso, così nemmeno noi ospiti dobbiamo rinunciare ai festeggiamenti, tranne Marco Pannella, che non tocca cibo perché è ancora una volta e pervicacemente in sciopero della fame.
L’emozione di Sandro, trenta Capodanni di galera e il primo Capodanno quasi umano
Mi colpisce l’emozione di Sandro, uno dei detenuti della mia redazione: è in carcere da trent’anni, e non gli era mai capitato di stare alzato così tanto, né di vedere intorno a sé per l’ultimo dell’anno persone "normali", la "società civile" che entra in galera anche in una notte così particolare. Io non so se siamo persone normali, né se esiste più la "società civile", so che mi fa quasi star male che una cosa piccola come due ore di una sera "speciale" come Capodanno passate respirando un po’ di libertà possano emozionare e commuovere dei "delinquenti". Sì perché nessuno di loro si vuol far passare per quello che non è, i reati li hanno commessi e nessuno li minimizza, ma nel nostro Paese una volta, quando hanno scritto la Costituzione, dicevano che le pene "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", quindi si ricordavano bene di avere a che fare con delle persone, oggi la tendenza è a dimenticarsene. Ecco perché l’idea di Marco Pannella e Rita Bernardini di essere qui con loro questa sera è un modo straordinario per riportare al centro dell’attenzione non il "problema carcere", ma gli esseri umani che ci vivono accatastati dentro.
Il profumo del pecorino albanese
Elton e Gentjan, albanesi, mettono in tavola del pecorino, ha un odore aspro di quelli che ormai è difficile sentire, l’ha portato in questi giorni la mamma di Elton, arrivata dall’Albania con grandi difficoltà per incontrare il figlio, in carcere da molti anni. Ricordo un articolo che Elton aveva scritto per il nostro giornale, quando raccontava che da ormai più di dieci anni ogni Capodanno telefona a casa perché la sua famiglia possa così rinnovare un rito che lo riporta per un po’ a festeggiare con loro: "I miei genitori mettono sempre il vivavoce in modo che la mia presenza diventi più forte e mi raccontano i piatti preparati. Poi mi commentano in diretta ciò che fa mio padre, che ha precedentemente aggiunto il mio posto alla tavola apparecchiata e ha riempito anche il mio bicchiere di vino". Penso che adesso a Elton restano "solo" due anni da scontare, si è laureato con centodieci e lode, fra poco farà la laurea specialistica, eppure quando uscirà lo aspetta solo l’espulsione. Agli stranieri non viene data nessuna seconda possibilità, oggi tanti di loro non riescono a vedere più un futuro da nessuna parte, non qui perché ormai siamo diventati intransigenti con loro, proprio noi italiani con il nostro scarso senso della legalità, e neppure al loro Paese, perché dopo quindici, vent’anni in Italia lì sarebbero più stranieri che qui.
Inizia un "porta a porta" da galera
Marco Pannella questa sera con i detenuti parla anche di informazione e racconta le difficoltà che hanno sempre avuto i radicali per Andare in televisione a trasmissioni come Porta a Porta o Anno Zero. Ripenso alle sue parole quando verso le undici iniziamo con il direttore il giro delle sezioni: Pannella ottiene di far aprire tutti i blindati e comincia, con Rita Bernardini, un paziente "Porta a porta" di quelli veri, una notte di autentico ascolto di sofferenze piccole e grandi, solitudine, angoscia. Quasi nessuno sta festeggiando, solo in lontananza si sente un botto provocato in una sezione da qualcuno che ha deciso di festeggiare comunque e con qualunque mezzo, e ha trovato a disposizione solo la bomboletta di un fornelletto da campeggio. Non sono ancora le undici dell’ultima notte dell’anno e quasi tutti stanno dormendo, vedo affacciarsi tra le sbarre dei cancelli facce che non riconosco subito, poi mi chiamano e mi salutano sbalorditi e capisco che, per la prima volta, incontro i detenuti che vedo ogni giorno in redazione nell’intimità della vita quotidiana. L’unico che trovo sveglio è Maurizio: seduto sul letto, con un computer davanti e le cuffie in testa, sta sbobinando materiali per i prossimi numeri del nostro giornale, e mi sento quasi fiera che ci siano persone che hanno deciso di usare il loro tempo per impegnarsi in qualcosa di utile, per informare gli altri, per "scommettere" su una possibilità di cambiamento che passa per la cultura. Sbircio dentro le celle, e mi viene in mente che il Regolamento penitenziario ora le vorrebbe chiamare "camere di pernottamento". C’è da star male: in poco più di nove metri quadri ci sono una branda singola e un "castello", mi fermo alla cella di Marino, Davor e Alberto e vedo accatastate tre vite intere, tre ergastolani che in quello spazio devono tenere insieme tutti i pezzi di esistenze rovinate. Mi offrono una camomilla, la accetto volentieri, mi prende l’ansia solo a provare a immaginare cosa significhi vivere così per anni.
Cosa vuol dire saper ascoltare la sofferenza degli altri
Stiamo in galera fino alle quattro del mattino, attraversiamo tutto il carcere, e nelle prime sezioni che visitiamo, il quinto piano e l’Alta Sicurezza, riusciamo davvero a fermarci a ogni cancello. Marco Pannella tra i detenuti è un mito, tutti gli vogliono stringere la mano, vogliono ricordare insieme qualche sua battaglia civile, qualche marcia per l’indulto o protesta per le condizioni disumane delle carceri. Rita Bernardini ascolta con pazienza e competenza ogni voce, e per lei si capisce che sono tutte storie importanti: un detenuto solleva un labbro e ci fa vedere che non ha più i denti, e lamenta che l’Azienda sanitaria non gli vuole pagare la protesi; un altro racconta che gli è morto da tre giorni un fratello e non potrà andare al suo funerale, un terzo si fa portavoce di tutta la sezione Alta Sicurezza per dire che non c’è lavoro, che hanno bisogno di lavorare, hanno pene lunghe e non possono pesare sulle famiglie. Mi colpisce una cosa rara e preziosa di due persone come Marco Pannella e Rita Bernardini: la capacità di ascoltare e di far sentire le persone ancora vive e degne, appunto, di quell’ascolto, la combattività, la conoscenza approfondita dei problemi del carcere, l’attenzione a tutti, e in particolare anche a ogni agente che sta lì a testimoniare quanto sia duro lavorare in condizioni di degrado e rischio. Questo Capodanno resterà nel ricordo di tutti il Capodanno di carceri ormai al collasso in cui qualcuno, che le ritiene indegne di questo Paese, ha deciso di iniziare il nuovo anno rendendole con la sua presenza un po’ più trasparenti, un po’ più aperte, un po’ meno abbandonate. Giustizia: il coraggio di Napolitano, per le carceri "fuorilegge" di Rita Bernardini
Il Riformista, 2 gennaio 2010
Le parole di Giorgio Napolitano nel messaggio di fine anno sono importanti e cariche di speranza per la comunità penitenziaria, e per i cittadini democratici che credono nello stato di diritto e nel rispetto della legalità costituzionale. Già, perché a essere fuorilegge, è proprio lo Stato nel momento in cui sistematicamente e pervicacemente viola le sue stesse leggi, a partire dall’articolo 27 della Costituzione per continuare con l’ordinamento penitenziario che stabilisce regole precise in cui deve realizzarsi lo stato della privazione della libertà negli istituti penitenziari. Proprio per questo l’Italia, da anni e in modo permanente, sconta una situazione di illegalità tale da aver generato numerosissime condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per questa situazione il nostro Paese è stato richiamato all’ordine a più riprese dal Consiglio d’Europa, che proprio di recente ha riconfermato nei contenuti e nei richiami un rapporto presentato dal Commissario Gil-Robles già nel 2005, il quale sottolineava proprio la necessità di un ripristino della legalità nel sistema giudiziario italiano. Paradossalmente, il detenuto è vittima di uno Stato "delinquente abituale" che, al momento, non manifesta, attraverso le sue istituzioni, alcuna volontà di redimersi. Anzi, peggiora ogni giorno di più se è vero come è vero che il 2009 si chiude con il massimo storico di carcerati (66mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43mila), il minimo storico di personale operante negli istituti fra agenti, educatori, psicologi, medici, infermieri, assistenti sociali e il minimo di risorse stanziate in bilancio per il trattamento rieducativo. Noi radicali che abbiamo ricevuto dal leader storico Marco Pannella l’insegnamento concreto di visitare le carceri per testare lo stato di salute del nostro Paese, noi che nelle carceri ci rechiamo tutto l’anno, comprese le feste comandate (a Natale ero con Pannella nella Casa Circondariale di Teramo e l’ultimo dell’anno fino all’alba di ieri nella casa di reclusione di Padova), conosciamo bene il significato delle parole coraggiose pronunciate dal presidente Napolitano quando, riferendosi al sovraffollamento carcerario, ha parlato della privazione di "diritti elementari", di luoghi in cui si è esposti ad "abusi e rischi" (come dimenticare il volto e il corpo martoriato di Stefano Cucchi?), dove "di certo non ci si rieduca". A Natale del 2005, l’allora senatore a vita non ancora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, era in marcia con noi "per l’amnistia". Allora i detenuti erano 58mila. Oggi ce ne sono ottomila in più, e siamo rimasti soli fra le forze politiche - che invece scelgono di proseguire con la loro politica il fallimentare sessantennio partitocratico - a pronunciare quella parola: "Amnistia!". Amnistia legale, contro quella reale, di classe, ipocrita e della quale nessuno si assume la responsabilità che si verifica con la prescrizione dei processi penali. Negli ultimi dieci anni, ben due milioni di processi cancellati! L’11 e il 12 gennaio l’aula di Montecitorio discuterà la mozione sulle carceri, promossa dalla delegazione radicale e sottoscritta da 92 deputati del Pd, del Pdl, dell’Idv, dell’Udc e dell’Mpa. Ci auguriamo che quell’appuntamento, che prevede precisi impegni del Governo per il rientro nella legalità degli istituti penitenziari, non cada nel tradizionale vuoto del sistema informativo italiano. Per ora, in questo inizio di anno, mi sento di dire "grazie". Grazie, caro presidente Napolitano; ci hai dato motivo per continuare a sperare e per tentare di "essere" speranza nella nostra vita quotidiana. Giustizia: libro racconta lavoro del magistrato di sorveglianza di Monica Bottino
Il Giornale, 2 gennaio 2010
"Ho fatto il magistrato di sorveglianza per tredici anni, probabilmente i miei migliori anni, se non altro anagraficamente, passando dal concorso in magistratura alle valutazioni di professionalità, zigzagando tra un’ospitata nel talk show più seguito e le botte che un tassista voleva darmi, appreso di aver a bordo uno di quelli che "liberano gli zingari". Brillante nella scrittura e con una buona dose di arguzia nello snocciolare aneddoti, Alberto Marcheselli riesce a farci fare pace con una magistratura che forse poco conosciamo. Genovese, marito di un avvocato, ha lavorato per molti anni al tribunale di sorveglianza di Torino, avendo a che fare spesso anche con la Liguria. Adesso, deposta la toga nell’armadio ha deciso di rimettersi a fare l’avvocato, ma non prima di averci regalato un bilancio della carriera con il volume "Magistrati dietro le sbarre" (editore Melampo), un libro che si divora per lo stato di grazia in cui è stato scritto. Divertente e istruttivo di un certo mondo con il quale, volenti o nolenti, tutti abbiamo a che fare. Vediamo perché. Intanto già la scelta di fare il magistrato di per sé - dice Marcheselli - andrebbe indagata. Ancor di più se si decide di fare il magistrato di sorveglianza, lavoro simile a quello dell’arbitro di calcio, che per definizione è difficile che accontenti tutti. Il libro scorre veloce dalla laurea in Giurisprudenza all’uditorato, con i trucchi per sopravvivere "come reduci dal Vietnam al ritorno nel Vermont" imparando alla svelta che "più lavoro smaltisci e più lavoro ti arriverà". Alla fine "se hai dei buoni maestri metabolizzi che il lavoro giudiziario deve essere prima di tutto normalità equilibrio e buon senso". Alberto Marcheselli spiega come nasce la scelta di fare il magistrato di sorveglianza: nel suo caso, per caso. O, forse più propriamente per necessità, visto che, al momento in cui un uditore deve scegliere la sede di lavoro, sospeso nelle retrovie di una graduatoria crudele fatta di pericoli (le sedi dei pubblici ministeri nelle città ad alta densità mafiosa), di distanze chilometriche, e di incarichi in penombra viene da privilegiare, almeno all’inizio, questi ultimi. Entra qui in scena Mario Canepa, indimenticato presidente del tribunale di sorveglianza di Genova, con il quale il giovane Marcheselli completa l’uditorato e che descrive come "Alec Guinness, Achille Campanile e Omero riuniti in un’unica persona", che aveva l’abitudine di chiudere la giornata uscendo dall’ufficio "mimando l’uscita dal palcoscenico di Macario (che raccontava di aver visto da studente a Torino)". Non manca un capitolo dedicato alle carceri liguri in "Cristo si è fermato a Zabriskie Point". Nello scrigno dei ricordi c’è "la prima visita in carcere, un carcere noto per la disumanità della sua vecchiezza (facile intuire che si parla di Marassi, ndr). Il suono terribile della successione di chiavistelli pesanti, la sequenza di porte a inferriate e cristalli spessi cinque centimetri, quasi sempre venati da una ragnatela di fratture. Avrei presto scoperto che quelle venature non erano il risultato di atti di violenza, ma del lento picchiare dei chiavistelli, usati tutti i giorni dalla polizia penitenziaria come batacchi per richiamare l’attenzione di un collega lontano e irraggiungibile. "Collegaaa..." è il tipico richiamo che risuona nei corridoi deserti del carcere, spesso nelle ore assolate del pomeriggio penitenziario quando il mondo fuori diventa addirittura inconcepibile, come la civiltà nel deserto del Mojave, in Zabriskie Point". Tanto oggi si parla del carcere genovese, tanto si contesta, ma poco si conosce. Leggendo il racconto di Marcheselli, invece, se ne scoprono lati di sconcertante umanità, come "l’odore penetrante di minestrone di cavoli", oppure l’assurdità rappresentata da "i grandi orologi elettrici, in bella vista sulle pareti dei corridoi e dei cortili, tutti fermi sull’ora sbagliata, alcuni addirittura senza lancette". Le visite di Mario Canepa nelle case circondariali liguri, racconta l’autore che lo accompagnava, erano come quelle del papa nella parrocchia più sperduta. Canepa aveva una parola per tutti quelli che desideravano essere ascoltati. "Quel magico ometto - si legge - sapeva toccare con uno sguardo, un cenno di sopracciglia, o una parola sempre ben detta, solo e invariabilmente la corda giusta: faceva prendere appunti dal cancelliere, ordinava controlli e impartiva disposizioni, troncava, sopiva e sollevava". È alla prima udienza da protagonista che Marcheselli entra nel vivo del mestiere e delle sue inconciliabili distorsioni. "Ero assegnatario di circa 90 procedimenti, in un’udienza nella quale venivano esaminate le posizioni di oltre 150 derelitti in tutto". "Dedicare anche solo 4 minuti a procedimento comporterebbe dieci ore di udienza ininterrotta. Nessun essere, di specie superiore o inferiore, evoluta o bruta, umano o giudiziario, può mantenere integra l’attenzione per più di 3-4 ore (anzi, ininterrottamente è difficile superare poche decine di minuti), e negare questa realtà della psicologia è una ipocrisia che ho visto praticare solo nelle aule giudiziarie. Dopo un po’ la mente si avvia inevitabilmente a fare delle volute, sempre più ampie e lontane dall’aula. Si comincia dalle cose prossime (Guarda che gambe la praticante dell’avvocato d’ufficio, come si chiama? Avrò chiuso il gas? La bolletta della luce?); si passa a riflessioni sistematiche in un crescendo di nervosismo (Certo che udienze organizzate in questo modo sono proprio una assurdità!), per poi planare decisamente nei territori dell’iperuranio (tornano in mente le versioni da Platone del liceo; avverti l’improvviso bisogno di contattare la tua fidanzata di quando avevi 19 anni, perché hai urgentissimo bisogno di chiarire una cosa; cerchi di risolvere mentalmente il teorema di Fermat; rivaluti la personale di Bondarciuk che hai visto in lingua originale la settimana prima, ecc.). Nessuno ha l’onestà intellettuale di dirlo, ma pensare di aumentare la produttività della professione giudiziaria aumentando le ore di lavoro o il carico di procedimenti è pura ipocrisia, o ignoranza". Il libro prosegue con ritratti di tante persone vere, incontrate nel corso di una vita e con una crescente consapevolezza del ruolo fondamentale del magistrato di sorveglianza che decide come i condannati debbano scontare la pena, se possano usufruire di permessi speciali, quale sia l’evoluzione del mondo carcerario italiano. E qui sta la grande forza del libro, che rivela un autore che ha il dono delle battuta come della sintesi, ma che sa analizzare, avendolo vissuto dall’interno, un mondo doloroso e complicato che tutti noi, volentieri, dimentichiamo dopo i processi che hanno portato al carcere i colpevoli già mediaticamente messi alla gogna. Marcheselli, racconta di essere diventato dopo alcuni anni di carriera come un chirurgo nell’analizzare i fascicoli personali dei detenuti. "Avevo già abbastanza esperienza per sapere che non si è mai indifferenti al male e che se non lo senti vuol dire che ti sta divorando nel profondo. E avevo ancora abbastanza memoria per ricordare che non era quello ciò che volevo. Mi è venuta voglia di scappare". Nella variegata galleria di personaggi incontrati dall’autore durante la sua attività di magistrato di sorveglianza non mancano tipi da cinema. E intuizioni che fanno la differenza. Come nella vicenda di S., un "ex ragazzo ormai" che aveva commesso un brutto omicidio. "In lui brillava qualcosa di diverso, che non sapevo individuare... Studiai a lungo il suo caso e ci fu un particolare che mi colpì, confermandomi l’impressione originaria: era quasi diplomato in pianoforte al conservatorio. Avevo ragione, non era nato guappo. Assumendo un grandissimo rischio, con la direttrice, decidemmo di ammetterlo al lavoro all’esterno e ai permessi premio, anche se gli mancavano venti anni di pena. Fino a che ho potuto seguirlo, fu inappuntabile". C’è anche una parte dedicata a uno spacciatore molto attivo in passato proprio in Liguria. "M.L., a quanto si sapeva dagli atti, faceva ogni tanto il giostraio e, professionalmente, lo spacciatore di droga. "Senta, mi dica chiaramente cosa pensa di me". Lo squadrai e, preso da una improvvisa ispirazione, gli dissi: "Io glielo dico, ma lei non si deve offendere, perché sarà un discorso da uomo a uomo". Mi disse che voleva sapere. "Lei, M.L., è quello che in gergo tecnico si definisce un gran fetente. Lei è un delinquente dentro. Lavorare non le piace. Però non è né un fesso, né un quaquaraquà". Tacque e se ne andò. Il mese successivo mi disse: "La devo ringraziare per avermi detto che sono un fetente" - questo esordio mi fece molto sorridere - "Perché lei mi ha detto la verità e questo significa rispetto. Quello che ha detto è verissimo. E ora, visto che lei è stato sincero con me, lo sarò io con lei. Le dico che, se lei mi concede qualcosa, io non combinerò nulla, anche se mi capita una buona occasione. Ma, poiché sono onesto, come ha detto lei, le aggiungo che dopo, quando sarò libero, se mi capita da fare qualche bel movimento, non mi tirerò indietro". In quel momento si compì una rivoluzione copernicana nella mia concezione del lavoro di mds: gli dissi: "M.L., lei da ora andrà in permesso premio". Giustizia: polemiche su revoca di isolamento al boss Graviano
Ansa, 2 gennaio 2010
Il boss Giuseppe Graviano, che sta scontando l’ergastolo nel carcere milanese di Opera, esce dall’isolamento assoluto che gli imponeva il regime del carcere duro: la Corte d’assise d’appello di Palermo, infatti, ha revocato al capomafia del quartiere palermitano di Brancaccio una parte delle prescrizioni previste dal 41 bis. Graviano in particolare non sarà più sottoposto all’isolamento diurno e potrà così fare vita comune con i detenuti che non abbiano condanne per mafia e usufruire dell’ora d’aria. I giudici hanno accolto il ricorso del suo avvocato, Gaetano Giacobbe, contro la decisione della procura generale di prorogare l’isolamento, assunta a settembre, all’indomani della condanna definitiva del boss ad altri due ergastoli. Il legale di Graviano ha spiegato che esiste un tetto massimo di tre anni per l’isolamento assoluto e che la proroga non poteva essere applicata, in quanto le nuove condanne si riferivano a fatti accaduti prima dell’arresto del boss, avvenuto il 27 gennaio ‘94.
Le reazioni
Immediate le reazioni al provvedimento: Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, spiega che "Graviano non ha diritto a nessuno sconto né di giorno né di notte. Le leggi durante questi sedici anni troppo spesso sono andate in una sola direzione, in favore della mafia terrorista, e oggi si vedono i risultati". "Se il buongiorno si vede dal mattino, mala tempora currunt. Il nuovo anno non inizia bene", dice il leader di Italia dei valori, Antonio Di Pietro. "È un segnale inquietante, pochi giorni dopo il silenzio omertoso del boss e, al di là delle intenzioni, rischia di apparire come una ricompensa".
Non aveva risposto al processo Dell’Utri
Lo scorso 11 dicembre, davanti ai giudici della Corte d’appello di Palermo che stanno giudicando il senatore Marcello Dell’Utri, Giuseppe Graviano - sentito insieme al fratello Filippo - aveva lamentato uno stato di salute precario, a suo dire provocato dai rigori del 41 bis, e per questo si era avvalso della facoltà di non rispondere alle domande dell’accusa sulla veridicità delle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza, che aveva parlato di rapporti tra il senatore e i due fratelli Graviano tirando in ballo anche il premier Silvio Berlusconi. Ma il boss condannato all’ergastolo aveva spiegato che la decisione poteva essere rivista qualora le sue condizioni fossero migliorate, lasciando intendere che questo sarebbe dipeso dal miglioramento del regime carcerario. Filippo Graviano, invece, aveva smentito la ricostruzione fatta da Spatuzza circa le stragi mafiose del ‘93 a Firenze, Roma e Milano.
Granata (Pd) chiede che il ministro Alfano verifichi
Intanto, il vicepresidente della commissione Antimafia, Fabio Granata (Pdl), chiede al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di "accertare la legittimità delle procedure". Preoccupazione analoghe vengono espresse anche da Laura Garavini del Pd: "Non vorremmo - dice - che nel sistema del 41 bis si fosse aperta una falla come già avvenuto nel 2005". Giustizia: posta censurata e vetri blindati, la vita con il 41-bis di Felice Cavallaro
Corriere della Sera, 2 gennaio 2010
Con il "regalo di Natale" elargito a Giuseppe Graviano, sembrano riesplodere le stesse polemiche del marzo 2001, quando l’isolamento fu sospeso perfino per Totò Riina, il gran capo dei Corleonesi. Si scoprì allora che quasi tutti i padrini di Cosa Nostra s’erano già scrollati questa misura aggiuntiva al regime duro del "41 bis". Come Leoluca Bagarella, il sanguinario cognato di Riina. Come Nitto Santapaola, il boss di Catania. Come Pippo Calò, condannato per la strage del treno 904. Come i Madonia o I Ganci, coinvolti nelle stragi del ‘92. Tutti rimasti inchiodati ai rigori del "carcere duro", ma dopo i primi tre anni non a quella pena accessoria e "a tempo" prevista insieme all’ergastolo per reati particolarmente gravi. Così, dei 645 detenuti al "41 bis" restano solo una decina i boss che durante le previste quattro ore d’aria non possono avere contatti con altri carcerati. Dati aggiornati ai primi di dicembre quando il ministro Angelino Alfano, firmando l’ultimo "carcere duro" per Gianni Nicchi subito dopo l’arresto del più giovane capomafia di Cosa Nostra, ha fatto notare il suo record: "Ho disposto 168 provvedimenti in 580 giorni di governo". Ovviamente bisogna poi vedere come tutto viene attuato nelle carceri. E tanti dubbi si posero nell’estate del 1997 quando si scoprì che proprio le mogli dei famigerati fratelli di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, avevano partorito due bimbi in una clinica di Nizza, a distanza di un mese l’una dall’altra, nonostante i mariti fossero sottoposti da oltre due anni al carcere duro. Si aprì un’inchiesta ipotizzando una fecondazione in provetta realizzata illegalmente, grazie a un avvocato compiacente. La misura dell’isolamento resta comunque la più temuta dagli stragisti di casa nostra, insieme con l’obbligo di vedere i parenti una volta al mese solo attraverso un vetro blindato. Una norma introdotta e dimenticata con l’articolo 41 bis della legge del 26 luglio 1975, quando l’apparato antimafia non faceva tanta paura alla mafia visto che, stando ad alcuni pentiti, proprio quell’anno sarebbe stato raggiunto un inconfessabile accordo sotterraneo fra avvocati di mafia e vertici della magistratura per insabbiare perfino le inchieste sulle associazioni a delinquere. Poi, la svolta culminata nelle sberle giudiziarie di Falcone e Borsellino. Fino alla reazione, alle grandi stragi. E fu allora, nella brutta estate del ‘92, dopo Capaci e via D’Amelio, che lo Stato si ricordò di quel 41 bis fino ad allora sostanzialmente mai applicata Sezioni separate, posta censurata, colloqui dietro i vetri, al massimo quattro ore al giorno di socialità in gruppi di cinque persone. Questo il protocollo del 41 bis che diventa una sofferenza ancora più grande se le ore d’aria in cunicoli stretti e lunghi si passano senza vedere nessuno. Appunto, la misura aggiuntiva, l’isolamento totale che prosegue in celle dove è vietato l’uso di radio a modulazione di frequenza, registratori o lettori di cd. Quasi una vita vegetale, fatta eccezione per le "attività di osservazione e trattamento" previste dall’ordinamento penitenziario. Perché anche i più pericolosi, se vogliono, "possono richiedere colloquio con gli operatori" e partecipare ad attività utili alla "realizzazione della personalità" e alla "rieducazione". Ma non hanno mai mostrato interesse a questo tipo di attività personaggi come Riina. Una delle ragioni per cui l’isolamento viene considerato "a tempo" sta nelle censure che rischiano di arrivare dalla Consulta e dall’Unione europea. Anche perché non manca un’area politica dubbiosa sulla misura e sul rigore dell’intero impianto del 41 bis. È il caso dei radicali che hanno puntato il dito contro questa "tortura", come l’ha chiamata Marco Pannella, e come l’hanno descritta in un libro inchiesta Sergio D’Elia e Maurizio Turco, n primo dell’associazione "Nessuno tocchi Caino", il secondo radicale e deputato Pd, qualche anno fa piombato nel carcere di Opera a Milano, faccia a faccia con Riina che gli consegnò una frase sibillina: "Dica a Roma che non parlo". Messaggio da qualcuno collegato alle confidenze fatte dallo stesso Riina nel 2001 appena finito l’isolamento, pranzando con un detenuto: "Io sono il parafulmine d’Italia, ma io, meschino, ho sempre travagliato, la vera mafia sta a Roma...". Echeggiano così i messaggi oltre le mura, alimentando polemiche su quei 645, a volte guardati addirittura con invidia dentro le carceri, come diceva ieri Lino Buscemi, direttore dell’Ufficio del Garante dei diritti del detenuto in Sicilia, dopo una visita all’Ucciardone: "Forse è meglio stare da soli, anziché in dodici con un gabinetto alla turca. Perché la vera tortura è il sovraffollamento". Giustizia: questi "bambini difficili", sono figli di genitori detenuti di Silvano Forcillo
www.ilmediano.it, 2 gennaio 2010
Sono migliaia i bambini che hanno uno dei genitori in carcere. Per evitare ulteriori guasti e disagi, è necessario intervenire con strumenti adatti per favorire la loro crescita personale e culturale. La complessa realtà carceraria e il peso che essa ha sulle famiglie e sui figli dei detenuti, è un fenomeno, che investe non solo i singoli individui, o le singole famiglie, ma tutta la società, chiamata a interrogarsi su questo tema, per trovare risposte che non riguardino solo la "rimozione" e la "delega coatta", che vede nel carcere l’unica soluzione dei problemi, ma anche soluzioni alternative, che prevedano la cura del disagio affettivo, economico, sociale, della devianza e della povertà. Nei paesi dell’Unione Europea sono 800mila i bambini separati ogni anno dai loro genitori detenuti e il 30% delle persone detenute è a sua volta figlio di genitori detenuti. In Italia sono circa 4.500 i bambini che hanno la mamma in carcere, mentre 90mila quelli che hanno il loro padre in cella. Ci sono tantissimi bambini, che hanno più di 10 anni e non vivono il carcere con la madre, ma ne varcano tutti i giorni la soglia per incontrare il loro genitore detenuto, ed è bene ricordarlo, senza voltare insensibili, o inconsapevoli, la faccia dall’altra parte, che anche il genitore detenuto, rappresenta per questi bambini il legame fondante e irrinunciabile per la loro crescita affettiva e sociale. Solamente ad un terzo dei bambini viene detta la verità sul genitore detenuto, agli altri vengono raccontate bugie o addirittura non viene data nessuna spiegazione per l’assenza, per anni e anni, del papà o della mamma, né tanto meno viene loro spiegato e ricordato, che il genitore continua a volergli molto bene, anche se è in carcere e che anche lui soffre terribilmente per la mancanza del figlio. I bambini di genitori detenuti sono, peraltro, quelli "doppiamente" colpiti, perché non soffrono solo per la separazione dal proprio genitore, ma soffrono quotidianamente, anche a causa del marchio del reato, della vergogna, del rifiuto sociale e del conseguente isolamento che ne deriva. Cosa si può fare per questi bambini e, in particolare, cosa possono fare i principali vicari e responsabili dell’educazione: docenti, genitori e professionisti della relazione d’aiuto, per favorire la crescita personale e culturale di questi bambini e il loro sano, attivo e partecipe inserimento sociale? Anzitutto, bisogna essere ben preparati e aggiornati sugli insegnamenti delle nuove tecniche educative e di apprendimento e sulle nuove teorie della psicologia scolastica, dello sviluppo e, soprattutto, sulla dinamica e l’importanza della soddisfazione degli irrinunciabili bisogni dell’essere umano così, come insegna la psicologia della "Terza Via", o "Umanistico-esistenziale" di Maslow e Rogers. I due studiosi, infatti, sostengono la necessità di saper riconoscere, definire e rispettare i bisogni fondamentali dell’individuo in crescita, perché si crei un efficace e motivato rapporto sociale, in particolare, nei bambini di genitori detenuti, ma anche nei bambini che non vivono questa difficile e complessa realtà: - "Need for affiliation": bisogno di stabilire o ripristinare rapporti positivi, sotto il profilo sociale e affettivo con gli altri. Il bisogno irrinunciabile di essere accettati, rispettati, stimati, amati e integrati nel gruppo-classe e nel gruppo-sociale. - "Need for power": bisogno di esercitare la propria influenza sugli altri, di determinare il comportamento degli altri, di controllare i mezzi atti a subordinare gli altri alle proprie decisioni, o al proprio volere. - "Need for achievement": bisogno di successo, bisogno di raggiungere parametri eccellenti nelle proprie "perfomances", di realizzare gli obiettivi prefissati nel migliore dei modi. L’adolescente cerca, sperimenta e costruisce la propria identità, attraverso le interazioni e le relazioni con gli altri e i rischi che comportano una conoscenza e un apprendimento statico e obsoleto sono molto pericolosi e, peraltro, sviluppano e reiterano maggiormente, in loro, gli atteggiamenti inaccettabili e negativi, quali: ostacolo alla crescita personale, sociale e interpersonale; impedimento al cambiamento e al miglioramento; aggressività, bullismo, violenza e anomia. Un efficace e positivo processo di cambiamento, lo determina, senza alcun dubbio, anzitutto, un diverso modo di vedere e di porsi nei confronti dell’adolescente. Il bambino/persona va visto come un "essere in sviluppo", senza condizionamenti legati al suo passato, o alla vita dei suoi genitori. Trattare e considerare l’altro, come diverso, immaturo, problematico, nevrotico o sofferente, ostacola il suo processo di cambiamento e miglioramento culturale, sociale e interpersonale e, soprattutto, diminuisce le opportunità di essere quello, che secondo la sua tendenza attualizzante tenderà a diventare. Spesso i docenti e i genitori si lamentano per l’atteggiamento aggressivo e violento, in classe e in casa, di questi bambini, visti, proprio per questa loro aggressività, come "diversi", "svantaggiati" e, come un serio pericolo per i bambini "buoni, attenti, volenterosi e meritevoli" che, invece, soddisfano le attese e le aspettative dell’adulto: "effetto pigmalione". I docenti e gli adulti dimenticano, o forse non sanno, che l’aggressività fa parte delle componenti affettive della persona, fa parte del suo potenziale di azione e di attività, e positivamente considerata può avere, anche, un valore di efficace e positivo dialogo. L’aggressività serve al bambino, proprio per soddisfare i suoi bisogni, quindi, è utile alla sopravvivenza e alla vita. L’aggressività, infatti, è una delle tre fondamentali emozioni primarie e positive (considerate positive e vitali, per lo sviluppo e la crescita personale e sociale dell’individuo, dalla psicologia umanistica) con le quali nasciamo: paura; rabbia; aggressività. L’aggressività è "Io sono", "c’è anche il mio spazio!". L’aggressione è sempre reattiva, essa è la reazione ad una minaccia interna, o esterna. Non a caso i grandi protagonisti della persona umana sono: l’amore e la paura. L’amore per se stesso e la paura dell’altro. Lettere: sul progetto "Mare Aperto"… replica e controreplica
Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2010
Spett. le Redazione di "Ristretti", ho letto sul vostro notiziario del 29 dicembre una lettera a firma della dr.ssa Antonella Lettieri, psicologa presso l’Uepe di Pisa e ritengo necessario offrire ai lettori alcuni brevi chiarimenti a rettifica delle inesattezze contenute nella lettera citata. Si lamenta, infatti, che "parallelamente" all’avvio del Progetto "Mare Aperto", realizzato dalla Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna e finanziato dalla Cassa delle Ammende, che prevede l’inserimento, dal gennaio 2010 e per un anno, di psicologi presso gli Uepe, "a metà dicembre 2009, gli psicologi che lavorano da anni presso i vari Uepe si sono visti revocare improvvisamente l’incarico. La comunicazione, notificata verbalmente non è stata accompagnata da alcuna valida motivazione se non quella fornita dai Direttori degli uffici che hanno fatto riferimento ad una disposizione emanata dalla Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria". Ancora sul notiziario del 31 dicembre la psicologa Carla Fineschi parla di "rottamazione" conseguente al progetto. In qualità di responsabile del progetto "Mare Aperto" devo smentire assolutamente che siano state emanate dalla Direzione Generale disposizioni in tal senso; al contrario, è stato esplicitamente ribadito, nella nota di presentazione del progetto inviata ai Provveditorati regionali, che "le prestazioni dello psicologo assicurate dal presente progetto vanno considerate non sostitutive, ma integrative del servizio di consulenza psicologica avviato negli Uepe a decorrere dal 2001" (n. 0348822 del 22.09.2009, pag. 2). Pertanto, non corrisponde al vero quanto affermato dalle dr.sse Lettieri e Fineschi, che incautamente presentano come riguardante la generalità degli psicologi operanti su tutto il territorio nazionale una decisione di revoca che, qualora davvero adottata, sarebbe stata assunta per scelta autonoma presa in sede regionale, e non è collegabile al progetto "Mare Aperto". Nessuna revoca di incarico, infatti, risulta adottata negli Uepe di altre regioni dove sono già presenti psicologi. Voglio, infine, sottolineare che il progetto è stato formulato con l’obiettivo non di dare una risposta alle, pur comprensibili, aspettative di lavoro dei 39 psicologi vincitori di concorso, ma per potenziare l’attività di osservazione e quella di trattamento dei soggetti ammessi alle misure alternative, al fine di incrementarne le probabilità di riuscita e, quindi, di incentivarne l’uso. E tutti sappiamo quanto ce ne sia attualmente bisogno. Ringrazio in anticipo per la pubblicazione di questa mia nel vostro notiziario.
Eustachio Vincenzo Petralla Direttore ufficio II DGEPE Responsabile Progetto "Mare Aperto"
Caro dottor Petralla, lei parla di affermazioni incaute, ma forse gli psicologi penitenziari lo sono stati troppo. Stanno lavorando da 32 anni (sa che siamo entrati a lavorare in carcere nel dicembre 1978?) con un "accordo individuale" che non prevede ferie e malattie a 13 euro all’ora ed improvvisamente scopriamo che esistono dei fondi da utilizzare per potenziare l’osservazione e trattamento. Nulla da dire su tale proposito, che abbiamo sollecitato da vari anni. Il problema è come vengono reperiti i professionisti. È vero che i colleghi vincitori di concorso hanno diritto al lavoro (come noi del resto) ma mi chiedo perché l’amministrazione penitenziaria ha bandito un concorso nel 2003, quando già sapeva che le funzioni sanitarie sarebbero passate al Sistema Sanitario Nazionale (L.01/01/00)? Tale quesito l’ho già rivolto alla sua Amministrazione ma non ho avuto risposta. Ma il quesito principale rimane: come avete reperito i professionisti del Progetto "Mare Aperto"?
Carla Fineschi, psicologa penitenziaria Lanciano (Ch): Uil-pa; detenuto tenta di strangolare un agente
Il Messaggero, 2 gennaio 2010
Sempre più pesante la situazione alle carceri "Villa Stanazzo" di Lanciano, dove gli agenti protestano per la carenza di personale e, dal 28 settembre scorso, sono in stato di agitazione. La scarsità di personale sta causando vari episodi allarmanti. La vigilia di Natale un detenuto ha incendiato un materasso all’interno della sua cella, con il rischio di soffocamento dei detenuti della stessa sezione, dove non c’erano agenti di custodia presenti. L’altra sera un agente è stato aggredito da un detenuto che ha tentato di strangolarlo. A denunciare l’episodio è il segretario provinciale della "Uilpa penitenziari" Ruggero Di Giovanni, che sottolinea i rischi che gli agenti sono costretti ad affrontare proprio per l’inadeguatezza dell’organico. "In quel momento l’agente in servizio al cancello d’ingresso della sezione detentiva, che dovrebbe tutelare quello in servizio all’interno - dice Di Giovanni - non c’era in quanto impegnato in altre attività nella sezione attigua distante e senza visuale. E questo perché al posto dei 2 agenti necessari, uno per ogni ingresso, per prassi ormai c’è in servizio un solo agente". L’agente aggredito è stato medicato all’ospedale di Lanciano con prognosi di 5 giorni. Opera: la "dolce vita", per i detenuti di Guantanamo in Italia?
Reuters, 2 gennaio 2010
Dopo otto anni nella prigione militare di Guantanamo Bay senza un processo, i detenuti Riad Nasri e Adel Ben Mabrouk potrebbero considerare una "dolce vita" il periodo di detenzione nel più grande carcere italiano, quello di Opera? I detenuti della prigione di Opera, alla periferia di Milano, devono lavorare come parte del loro percorso riabilitativo, e i più fortunati tra loro dedicano le loro giornate a coltivare peperoncini rossi piccanti e preparare gelati, pane e marmellate. Nasri e Mabrouk, due tunisini arrivati a novembre nel carcere che ospita circa 84 gangster, potrebbero conservare a lungo lavori come questi, se fossero condannati da un tribunale italiano. I due tunisini fanno parte di quei detenuti trasferiti dal carcere di Guantanamo, che il presidente Obama ha promesso di chiudere entro il 22 gennaio 2010. "Dal mio punto di vista, tutti i detenuti sono uguali, a prescindere dai crimini dei quali vengono ritenuti responsabili", ha detto il direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano. Ma anche dinanzi a torrette con uomini armati a ogni angolo è possibile divertirsi nel proprio lavoro. Ivan Saimir, 23 anni, che ha già scontato 22 anni di carcere per omicidio, sorride quando gli viene chiesto se gli piace il suo lavoro - occuparsi delle quaglie e delle piccole uova che producono, un’autentica prelibatezza per negozi e ristoranti. Ogni giorno, Ivan e altri detenuti si prendono cura delle serre e delle quaglie, sotto gli occhi degli altri detenuti meno fortunati che li osservano dalle celle vicine. Il carcere di massima sicurezza ospita anche dei noti mafiosi, tra i quali anche Salvatore "Toto" Riina, l’ex "boss dei boss" in carcere dal 1993, e Francesco Schiavone, l’ex capo della Camorra. Questi detenuti sono sottoposti a particolari controlli, per timore che possano ancora impartire ordini all’esterno. "Vengono lette tutte le lettere che scrivono e ascoltate tutte le conversazioni che fanno. Non è permesso nemmeno a volontari e religiosi di entrare", ha detto Emilia Patruno, 57 anni, che lavora come volontaria nel carcere da 22 anni. Poco più in là, i due detenuti di Guantanamo attendono che il loro processo cominci. Siciliano è stato di poche parole circa i due nuovi detenuti, ma Mario Leone, responsabile delle attività educative, ha detto che anche per i due tunisini vige uno stretto controllo. Nasri, conosciuto anche come Abu Doujana, è il più conosciuto dei due. È accusato di aver offerto supporto logistico e di aver addestrato all’utilizzo delle armi alcuni attentatori suicidi. "Lo abbiamo interrogato la notte del suo arrivo e gli abbiamo spiegato come funziona il sistema giudiziario italiano", ha detto a Reuters il giudice per le indagini preliminari milanese Guido Salvini. Salvini ha emesso un mandato internazionale per Nasri nel 2007, mentre il tunisino è stato catturato a Jalalabad alla fine del 2001. Mabrouk, invece, è considerato una figura secondaria dai magistrati italiani. Era il barbiere della moschea di Milano e i magistrati ritengono facesse parte della cellula che progettava attentati contro le cattedrali di Cremona e Milano. I detenuti del carcere di Opera che lavorano vengono pagati tra i 500 e i 1000 euro al mese, soldi che possono tenere per loro o spedire ai familiari. Nessuno si meraviglierebbe, quindi, se i due tunisini facessero parte di questo gruppo di detenuti, una volta che dovessero essere riconosciuti colpevoli e condannati. Ma il lavoro non è l’unica alternativa alla reclusione. In occasioni particolari, il carcere organizza attività ricreative, come produzioni teatrali, concerti e show natalizi. Per criminali conosciuti, esibirsi davanti ad altri detenuti spesso si rivela difficile e gli "attori" al loro debutto si mostrano talvolta timidi, ha commentato Siciliano. Ma esistono anche storie come quella di Francisco, trafficante di droga che ha scoperto in carcere la passione per la musica ed è diventato uno dei migliori artisti del carcere. "Francisco è sempre un successo. Un giorno il canto può davvero diventare il suo lavoro", ha detto Isabella Biffi, cantante di professione diventata una volontaria. C’è voluto un mese per i detenuti del carcere di Opera per preparare lo show di Natale e i due ex detenuti di Guantanamo potrebbero presto trovarsi a condividere i sentimenti di persone come Elio, convinto che la musica sia diventata una parte essenziale della sua riabilitazione. "Ci si redime molto più con un musical che con 11 anni di carcere". La Spezia: i racconti dei detenuti per una campagna animalista
Secolo XIX, 2 gennaio 2010
Il carcere della Spezia, diretto da Maria Cristina Bigi, ha aperto le sue porte alla città: ancora una volta. I detenuti hanno potuto raccontare le loro storie di affetto verso gli animali, per la campagna di educazione al rispetto per ogni forma di vita, promossa dalla Provincia: ne sono usciti racconti straordinari. Come quello di Pino, una vita dietro le sbarre: e del suo legame con un ragno, che tesse la sua tela in un angolo della cella. E Mario, che ha voluto adottare un meticcio, salvato da una storia di violenza: "Fate come me - scrive - vi sentirete migliori". Gli affetti "sono preziosi, in un percorso di riabilitazione", sottolinea l’educatrice Licia Vanni. E un affetto, è per ogni forma di vita. Il carcere della Spezia è molto aperto alla città: in Provincia, sono intervenuti anche il comandante Tiziana Babbini e due agenti penitenziari. "Quello che facciamo - spiega la Bigi - lo facciamo insieme". E infatti, tante immagini del carcere sono raccolte, accanto alle storie, nel calendario 2010 della Provincia: che sarà portato nelle scuole, grazie all’Aias presieduta da Andrea Lorenzini, affiancato da Paola Modenesi ed Emanuela Martini. Le storie sono di tutto il mondo, come i detenuti spezzini. Alì è algerino. "Ero solo un ragazzino. Ai piedi di un albero, ho visto un piccione senza vita. Ho guardato in su: c’era un nido. Mi sono arrampicato. Ho trovato un piccione piccolissimo, appena nato. Stava morendo. L’ho portato a casa. L’ho nutrito, e quando è stato pronto per volare, volevo liberarlo: ma lui no. Ha scelto di stare con me. Mi piacciono gli animali: perché non fanno del male". Halbi è nato in Marocco. "Ricordo la casa in campagna, il nonno, i suoi animali. Non si separava mai da una cavallina. Quando il nonno morì, lei cominciò a stare male. Non mangiava, non faceva più corse nei campi. Tre mesi dopo, morì". A.G. è georgiano. Parla di un lupo: "Nella vita, bisogna imitarlo. Sa quello che vuole, nessuno può controllarlo. Diventa aggressivo solo per difendere la sua famiglia. E se finisce in trappola, riesce a liberarsi da solo: anche a costo di un’infinita sofferenza". Alì è nato in Africa: "Lasciai la scuola a 10 anni, per stare col nonno. Il suo cavallo, viveva con lui da puledrino: la madre era morta. Quando il nonno divenne cieco, il cavallo lo portava in città a vendere il latte: si fermava col semaforo rosso, e poi ripartiva. I suoi occhi vedevano per il nonno, che non poteva più farlo. Insieme, erano sicuri: uno dell’altro. Mi ha insegnato cosa vogliono dire obbedienza, pazienza, e rispetto, affetto". Tarek racconta dei suoi piccioni viaggiatori: "Se togli loro la libertà, preferiscono morire". Torino: protesta dei meridionalisti contro il museo lombrosiano
Ansa, 2 gennaio 2010
"I meridionali contro il museo lombrosiano a Torino" è il titolo di un gruppo nato all’interno del social network Facebook che sta organizzando, per il prossimo 8 maggio, una manifestazione. Lo scopo è protestare contro l’allestimento del museo universitario di antropologia criminale nel Palazzo degli Istituti Anatomici, in via Giuria. Gli aderenti al gruppo, nell’arco di pochi giorni, sono già oltre 1.300. "Quel museo - sostengono i promotori dell’iniziativa - contiene studi utilizzati dagli stessi nazisti e ormai smentiti nettamente dalla scienza ufficiale. Cesare Lombroso, infatti, teorizzò l’inferiorità della razza meridionale, che sarebbe stata geneticamente portata alla delinquenza". E a questa conclusione giunse "sulla base di misurazioni di centinaia di resti e di crani prelevati al seguito delle truppe piemontesi che invasero il Regno delle Due Sicilie e massacrarono migliaia di meridionali che si erano ribellati a quell’invasione cancellandoli dalla storia come briganti". I "neoborbonici" chiedono al ministro Alfano la restituzione dei resti dei "briganti" meridionali. Riaperto nel 2009 dall’Università di Torino nella sede che già lo ospitò dal 1899 al 1947 e diretto dal professor Silvano Montaldo, il museo Lombroso contiene, oltre ai numerosi resti umani studiati dall’antropologo torinese, diversi oggetti realizzati da detenuti nel XIX secolo.
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