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Giustizia: Alfano; senza dignità, in cella non c’è "rieducazione"
Adnkronos, 9 febbraio 2010
Occorre "rendere effettiva la portata dell’articolo 27 della Costituzione" perché "non si può immaginare una rieducazione se non c’è dignità nella presenza in carcere". Questo uno dei passaggi dell’intervento del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, al convegno della Uil Pa Penitenziari in corso a Roma. Alfano che ha reso omaggio alla memoria dell’ispettore della polizia penitenziaria Pasquale Campanello, ucciso dalla camorra, e al quale è dedicato il convegno affermando, rivolto agli agenti di polizia penitenziaria presenti in aula, "ieri come oggi lo Stato non dimentica i suoi migliori servitori", ha affrontato alcuni temi relativi all’emergenza carceraria ricordando i recenti provvedimenti annunciati dal governo in materia. Per il Guardasigilli, "l’Italia non può essere un Paese che di fatto non garantisce la certezza della pena nella sua pienezza". Alfano ha poi aggiunto che il governo "non intende procedere ad amnistie ed indulti". Per il Guardasigilli, "dobbiamo fare sì che il carcere rappresenti una nuova chance della vita di chi è detenuto". Quanto alla polizia penitenziaria, Alfano ipotizza un ruolo che non sia "un puro presidio di sicurezza ma che sia di partecipazione alla governance del sistema carceri". Poi rivolto all’ex Guardasigilli Claudio Martelli, anch’egli presente al convegno, si è detto "grato da cittadino siciliano e da cittadino italiano a Martelli per aver adottato il 41-bis". Un provvedimento, ha spiegato Alfano, che "ho difeso in sede nazionale e internazionale". Alfano ha infine ricordato che il primo governo Berlusconi fece la scelta di "stabilizzare il 41 Bis" che prima era sottoposto a rinnovo, e che poi con questo governo, il provvedimento "è stato inasprito portando da carcere duro a durissimo". Giustizia: Mancino; non bastano annunci, subito piano carceri
Adnkronos, 9 febbraio 2010
Per fare fronte all’emergenza penitenziaria occorre costruire "al più presto" nuove carceri. Lo ha detto il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, nel corso del suo intervento al congresso della Uil Pa Penitenziari, in corso a Roma. "All’emergenza si risponde non solo con un provvedimento preso in Consiglio dei ministri - ha detto Mancino - ma anche con la costruzione di nuovi penitenziari e bisogna costruirli a più presto". Il vicepresidente del Csm, nel suo ragionamento, ha anche citato l’intendimento del premier Berlusconi a voler adottare, per l’emergenza carceri il "modello L’Aquila" sottolineando però la necessità di costruire "al più presto" nuovi istituti carcerari. Il vicepresidente del Csm ha inoltre rilevato che "per non essere costretti a fare altri provvedimenti di clemenza, dobbiamo pensare a rivedere il diritto sostanziale penale e lo stesso processo penale" nonché che "le pene alternative sono risposte che uno Stato moderno non può non dare". Giustizia: Uil-Pa; sistema penitenziario in crisi senza precedenti
Agi, 9 febbraio 2010
Il sistema penitenziario è "avviluppato in una crisi senza precedenti, che oggi si manifesta in tutta la sua drammaticità attraverso l’incredibile sovrappopolamento delle strutture, attraverso gli eventi che hanno scandito il tempo di quest’ultimo triennio e per la sistematica violazione dei diritti delle persone". Lo ha evidenziato Eugenio Sarno, leader della Uil Pa Penitenziari, nel corso del congresso del sindacato che si sta svolgendo a Roma a cui partecipano circa 300 delegati. Tale crisi, secondo Sarno, "ha origini lontane e responsabilità ben definite perché la situazione di oggi è figlia dell’insensibilità di ieri: dopo il varo dell’indulto da parte del Governo Prodi realizzammo immediatamente lo scenario che si sarebbe determinato senza il varo di quelle riforme strutturali necessarie a stabilizzare il flusso di presenze. Avevamo previsto ciò che sarebbe stato, ed oggi è, il sistema penitenziario. Un sistema illegale che, per oggettivo impedimento, non assolve ai propri compiti. Un sistema degradato che calpesta la dignità. Un sistema autoritario che comprime i diritti. Un sistema alla deriva che rischia di trasformare la pena in supplizio e il lavoro in tortura. Ripetere gli errori del passato, quindi, sarebbe insensato oltreché irresponsabile". Dunque, "se davvero il ministro Alfano e il Governo Berlusconi non vogliono varare il 31esimo atto di clemenza della storia repubblicana - rileva Sarno - devono impegnarsi molto e bene sul fronte delle carceri. Se da un lato si vuole intervenire sull’ampliamento dei posti detentivi, che presuppone tempi medio-lunghi, dall’altro occorre intervenire sul sistema delle pene e delle sanzioni. Non tutto può essere carcere, non tutto può sanzionarsi con il carcere. Nella patria di Cesare Beccaria serve quanto mai recuperare l’attualità e la modernità della Gozzini, ricorrere a pene alternative e prevedere percorsi alternativi alla detenzione che abbiano anche una utilità sociale". Dal segretario della Uil penitenziari, infine, sono state avanzate proposte per una nuova organizzazione del Corpo di Polizia Penitenziaria: "rivendichiamo una Polizia Penitenziaria che abbia una propria dirigenza, il Comandante del Corpo e l’istituzione della Direzione Generale del Corpo". Giustizia: Lila; profilattici e siringhe, contro l’aids nelle carceri
Ansa, 9 febbraio 2010
La Lega italiana per la lotta contro l’Aids (Lila) ribadisce come profilattici e siringhe sterili in carcere siano un valido strumento di prevenzione dell’Hiv e, per questo, cita anche quanto pubblicato sul sito del Dipartimento antidroga della Presidenza del Consiglio: "I trattamenti sostituiti devono essere introdotti nelle carceri come parte dei programmi di prevenzione dell’infezione Hiv che prevedono la distribuzione di profilattici e siringhe sterili". La Lila così risponde al ministro della Salute, Ferruccio Fazio che, in occasione della giornata mondiale contro l’Aids, aveva dichiarato ad Anlaids notizie (periodico bimestrale dell’Associazione nazionale per la lotta contro l’aids) che "non esistono evidenze di efficacia di tali interventi nel ridurre la trasmissione dell’infezione da hiv". L’associazione, però, ha risposto con una lettera al ministro spiegandogli di "essere andato contro le indicazioni di Organizzazione mondiale della sanità, Nazioni Unite, Consiglio d’Europa e la letteratura scientifica". In Italia "il sesso in carcere è praticato e non attende certo la nostra legittimazione - spiega Alessandra Cerioli, presidente Lila - ma non può essere sicuro. Così come esiste, per quanto proibito, il consumo di stupefacenti, ma non con aghi sterili". In Italia, secondo quanto riporta una nota della Lila, la percentuale di detenuti sieropositivi degli Istituti penitenziari è del 7%. Giustizia: Dpa; nelle carceri non c’è nessuna "emergenza aids"
Asca, 9 febbraio 2010
Non c'è "alcuna discordanza" tra la posizione del Dipartimento per le politiche antidroga e il ministero della Salute sulla distribuzione di siringhe e profilattici nelle carceri. Lo precisa in una nota il Dipartimento politiche antidroga, dopo quanto denunciato ieri dalla Lila, la Lega italiana per la lotta contro l’Aids: "Le frasi che ci sono state attribuite - spiega il Dipartimento - non corrispondono ad una nostra posizione ufficiale ma sono contenute in uno studio, riportato (al pari di tutti gli altri studi) nel portale informativo Droganews. Questa ricerca è stata eseguita dal National Drug and Alcohol Research Centre (Ndarc), della University of New South Wales di Sidney, in Australia dove le condizioni di rischio sono ben diverse da quelle italiane. Inoltre non ci sono evidenze che dimostrino, che l’ incidenza e cioè il numero di nuovi casi di infezione da Hiv (e non la semplice prevalenza e cioè il numero delle persone già infette) nelle carceri italiane sia elevata o si possa pensare, anche sulla base di casi aneddotici, che vi possa essere un reale problema di sanità pubblica al di là del rischio teorico". "Crediamo invece - prosegue il Dipartimento - che sia scorretto e inaccettabile l'intenzionale deformazione delle informazioni per creare una artificiale quanto inesistente contraddizione tra strutture Governative. Prima di pensare a qualsiasi azione preventiva all'interno delle carceri è necessario considerare i dati reali, che ad oggi seppur scarsi non depongono per l' esistenza di emergenze infettive in quegli ambienti. Evidenziamo, anche il pericolo che potrebbe esserci nel fornire siringhe potenzialmente utilizzabili anche come armi improprie nei confronti sia dei detenuti che degli agenti. Ci dispiace infine - conclude la nota - che l'associazione Lila invece di percorrere la strada del dialogo e dell'approfondimento tecnico del problema, abbia invece spostato l'attenzione tentando di creare una pretestuosa polemica tra istituzioni". Prima di pensare a qualsiasi azione preventiva all’interno delle carceri è necessario considerare i dati reali, che ad oggi seppur scarsi non depongono per l’esistenza di emergenze infettive in quegli ambienti. Evidenziamo anche il pericolo che potrebbe esserci nel fornire siringhe potenzialmente utilizzabili anche come armi improprie nei confronti sia dei detenuti che degli agenti. Giustizia: Brambilla; prevedere carcere per i "pirati della neve"
Asca, 9 febbraio 2010
Giro di vite per i pirati della neve, carcere per chi provoca valanghe e si rende responsabile della morte di altre persone. Il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, auspica una rapida approvazione dell’emendamento del governo al decreto sulle emergenze, all’esame del Senato, che inasprisce le pene per chi mette a rischio la propria vita e quella degli altri sciando fuori pista quando i bollettini meteorologici indicano una situazione di pericolo. "Tanti, troppi incidenti si sono verificati e continuano a verificarsi - ricorda il ministro -. Il contributo delle forze dell’ordine e del soccorso alpino sulle piste da sci, sui percorsi delle escursioni è molto forte, e per questo meritano il ringraziamento di tutti, ma c’è bisogno di un ulteriore intervento attraverso l’educazione della popolazione, canali di informazione martellanti, regolamentazione più rigida, sanzioni pesanti; compreso il carcere, nei casi più gravi. Tutto questo sempre e soltanto nell’interesse di chi vive e frequenta la montagna". Ma la risposta sanzionatoria non è l’unica alla quale ha pensato il governo. Il ministro Brambilla ha infatti recentemente presentato un disegno di legge sul riordino delle professioni legate al turismo montano (dal maestro di sci alla guida alpina, dalla guida speleologica alla guida equestre) con l’obiettivo di aumentare le garanzie per gli operatori e la sicurezza dei turisti. Il testo, che ha già cominciato il suo iter, prevede l’individuazione di nuove figure professionali del turismo montano e la fissazione dei requisiti minimi per l’esercizio delle professioni, mentre è rimessa alla competenza regionale la formazione delle figure professionali individuate con la legge dello Stato. Giustizia: Ilaria Cucchi; non accusare il Ceis per ritardi lettera
Ansa, 9 febbraio 2010
"Chiedo all’opinione pubblica di non accusare il Ceis per averci consegnato solo ora la lettera scritta da Stefano prima di morire". Lo afferma, in una nota, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il detenuto morto il 22 ottobre scorso nell’ospedale Sandro Pertini di Roma, una settimana dopo il suo arresto per possesso di droga. La presa di posizione scaturisce dalla missiva scritta da Cucchi il giorno prima di morire e trovata dalla comunità terapeutica Ceis. Nella lettera, Stefano afferma di essere giù di morale e invoca aiuto dagli esponenti della comunità. "Siamo grati - afferma Ilaria Cucchi - al Ceis e a tutti gli operatori per quanto hanno fatto per mio fratello e siamo convinti che lo avrebbero aiutato ancora, se solo glielo avessero permesso". Lucca: la situazione sanitaria nel carcere è molto preoccupante
www.toscananews24.it, 9 febbraio 2010
Cinque casi di Aids, 29 tossicodipendenze, 46 malati di epatite. Sono queste le patologie più diffuse nel carcere S. Giorgio di Lucca secondo il "report clinico" dell’Azienda Usl n. 2 analizzato in questi giorni dal "Gruppo Istituzionale Carcere ed Ufficio Esecuzione Penale Esterna", coordinato dall’assessore provinciale alle politiche sociali Mario Regoli. L’indagine, realizzata su una struttura carceraria che presenta un ormai cronico sovraffollamento (168 detenuti su una capacità di accoglienza ottimale di 80 persone), fa emergere numerose e differenti problematiche cliniche, tale da sollecitare il "Gruppo istituzionale carcere" a chiedere un potenziamento del servizio sanitario, l’aumento della copertura della presenza della guardia medica nelle 24 ore e del servizio sociale, oltre ad una serie di interventi rivolti al miglioramento dell’assistenza infermieristica e psicologica. Le richieste saranno rivolte alla Regione, competente in materia attraverso le Aziende sanitarie, in forza di un Decreto ministeriale che, nel 2008, ha sancito il passaggio delle funzioni di assistenza sanitaria dal Ministero della Giustizia a quello della Salute. L’indagine indica anche la provenienza dei detenuti. Su 174 reclusi del S. Giorgio 65 sono gli italiani e 109 gli extracomunitari. Dei 65 italiani, 13 sono di Lucca e 18 di Viareggio e 34 arrivano da fuori provincia. Tra gli stranieri, 48 provengono dal Marocco, 10 dall’Albania, 18 dalla Tunisia, 14 dalla Romania, 6 dall’Algeria, 13 da altri Paesi. La "fotografia" della situazione sanitaria all’intero del carcere di Lucca, indica dettagli interessanti sotto l’aspetto delle patologie diffuse. Numerosi i detenuti tossicodipendenti: a fronte di 29 casi accertati, ben 48 risultano quelli dichiarati. Piuttosto diffusi anche i disturbi all’apparato digerente (45), così come le epatiti, 36 i "B" e 10 "C". Gli alcoldipendenti accertati sono 4 a fronte di 20 dichiarati; 5 le patologie all’apparato cardiovascolare, 5 a quello respiratorio, 8 i casi di disturbi mentali e 3 di diabete. Quattro i detenuti affetti da ipertensione, 4 le patologie renali. Sono 5, inoltre, i casi di Aids, 1 di sifilide, 6 le sofferenze osteoarticolari, 4 le patologie otoiatriche, 1 sordomutismo e 1 ipertiroidismo. "Il passaggio di competenze di assistenza sanitaria nelle carceri alle Aziende sanitarie - dichiara l’assessore provinciale alle politiche sociali Mario Regoli - è stato positivo. La Regione e l’Azienda sanitaria Lucca 2 hanno stanziato risorse consistenti, ma la situazione carceraria, delicata e difficile in tutta Italia soprattutto a causa del sovraffollamento, impone uno sforzo in più. Ci impegneremo affinché siano garantiti livelli di cura e di assistenza all’altezza per tutti i detenuti, anche attraverso la fornitura di apparecchiature e strumentazioni adeguate". Terni: caso di Tbc tra detenuti; il carcere messo in quarantena di Nicoletta Gigli
Il Messaggero, 9 febbraio 2010
Un detenuto extracomunitario malato di tubercolosi ha fatto scattare la quarantena nel penitenziario di vocabolo Sabbione. "Nessun allarme - precisa il direttore del carcere, Francesco dell’Aira - abbiamo solo rispettato il protocollo sanitario che obbliga la massima cautela per evitare rischi di contagio. Ma per fortuna, grazie alla tempestività dei provvedimenti presi, non si sono registrati altri casi. E a breve tutto tornerà nella norma". Da una quindicina di giorni il carcere di Sabbione non accoglie detenuti. E sarà così ancora per un po’. Con la conseguenza che da un paio di settimane tutte le persone arrestate a Terni vengono portate direttamente nel carcere di Orvieto. Tutto è cominciato durante i controlli sanitari che vengono svolti con regolarità e con la massima attenzione tra gli ospiti del penitenziario ternano. Un extracomunitario è stato trovato positivo al test per la tbc ed è stato subito ricoverato nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Terni per gli accertamenti del caso. Le radiografie hanno confermato la presenza della tubercolosi e lo straniero, dopo le prime cure prestate a Terni dall’infettivologo Giuseppe Edoardo Crapa, è stato trasferito nel penitenziario di Paliano, dove c’è un sanatorio giudiziario che accoglie i malati di tubercolosi polmonare provenienti da altri istituti penitenziari. Messo al sicuro lo straniero malato di tbc, nel carcere di Terni è partito il monitoraggio a tappeto dei detenuti. Con particolare attenzione nei confronti di tutti quelli che si trovavano nella stessa sezione dell’extracomunitario. Dai controlli sono emersi cinque casi sospetti, che però andavano confermati o smentiti con accertamenti mirati. I cinque detenuti sono stati portati all’ospedale di Terni e sottoposti alle radiografie che per fortuna hanno dato esito negativo. Nessun contagio, dunque, ma misure precauzionali che hanno fatto chiudere il portone d’ingresso del carcere di Terni. Il direttore dell’Aira sottolinea che "il penitenziario ha reagito bene di fronte all’emergenza". E che "il fatto che la malattia sia stata presa in tempo, è la conferma che c’è la massima attenzione per evitare il diffondersi di malattie che siano veicolo di contagio". Il caso di tubercolosi a Sabbione, preso in tempo, ha fatto scattare il piano di controllo senza creare problemi a detenuti e personale del carcere. Ma i rischi maggiori di contagio arrivano dove non ci sono controlli. Negli ultimi tempi a Terni si sono registrati molti casi di tubercolosi polmonare, in media uno al mese. Nel 2009, nel registro di monitoraggio delle malattie infettive dell’Asl 4, figurano ben 12 casi di tbc. E un caso di tubercolosi polmonare si è verificato a gennaio. La conferma del diffondersi della malattia arriva dal dottor Giuseppe Edoardo Crapa, responsabile del reparto di malattie infettive dell’azienda ospedaliera. "Nel nostro reparto abbiamo registrato diversi casi di tubercolosi - afferma il dottor Crapa - che hanno riguardato soprattutto extracomunitari". E aggiunge che "non c’è motivo di creare allarmismi anche perché - sottolinea l’infettivologo - non tutte le tubercolosi sono contagiose". Il ritorno di malattie che sembravano ormai debellate, a Terni come nel resto d’Italia, è dovuto alla presenza di stranieri clandestini che vivono in condizioni disagiate. Gente che dorme al freddo, persone che dividono una stanza in dieci. Tutte situazioni che possono provocare l’insorgenza di malattie come la tbc e che ne favoriscono il contagio. Queste malattie infettive vengono monitorate costantemente dall’azienda sanitaria locale, che interviene per la profilassi delle persone potenzialmente a rischio, come i familiari e le persone che frequentano gli stessi ambienti di chi si è ammalato. Avellino: detenuto evade approfittando dei lavori giardinaggio
Apcom, 9 febbraio 2010
Evasione lampo dal carcere di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) per un detenuto 38enne che deve scontare ancora una pena di oltre tre anni. L’uomo, approfittando di alcuni lavori di giardinaggio nei pressi della recinzione della struttura carceraria, è riuscito a scappare nelle campagne circostanti. Domenico Gargiulo, originario della provincia di Caserta con precedenti per rapina, stupefacenti e lesioni personali, è fuggito poco dopo le tre del pomeriggio, ma dopo poche ore è stato bloccato e ricondotto nel casa di reclusione. Per catturarlo sono intervenuti, oltre alla polizia penitenziaria, anche i carabinieri e gli elicotteri del Nucleo di Pontecagnano. Dopo circa tre ore di perlustramento della zona, i militari dell’Arma sono riusciti a bloccare l’evaso nella zona industriale di Lioni. Gargiulo aveva sottratto un’auto a un anziano di Morra de Sanctis cercando, così, di far perdere le proprie tracce. L’uomo, però, ha immediatamente dato l’allarme chiamando il 112. A quel punto, le auto dei carabinieri hanno iniziato l’inseguimento dell’evaso che, nel frattempo, si era diretto sulla strada Ofantina. L’automobile è stata, però, circondata e Gargiulo arrestato nuovamente. Napoli: 4 agenti condannati portarono droga in casa direttore
Ansa, 9 febbraio 2010
Collocarono droga nella casa del direttore del carcere di Pozzuoli per incastrarlo e punirlo per alcuni provvedimenti disciplinari che il dirigente aveva adottato. Un’accusa che oggi è stata riconosciuta valida dalla undicesima sezione del Tribunale di Napoli che ha emesso condanne varianti dai 4 ai 3 anni di reclusione per dirigenti e agenti di polizia penitenziaria per i reati di calunnia, abuso di ufficio, falso in atti pubblici, e detenzione di droga. I condannati sono Aniello Giardinetto, vice commissario di polizia penitenziaria, Giuseppe Rinaldi, sostituto commissario, Nunzia Grieco, assistente attualmente in pensione, Antonio Carnevale, figlio di quest’ultima ed agente di polizia penitenziaria, Ciro Turco, assistente. A Giardinetto, Rinaldi, e Grieco, la pena inflitta è di 4 anni di reclusione, mentre Turco e Carnevale sono stati condannati a 3 anni e sei mesi. Per tutti interdizione dai pubblici uffici per cinque anni oltre la condanna al risarcimento del danno nei confronti di Francesco Saverio De Martino, l’ex direttore del carcere femminile di Pozzuoli che si è costituito parte civile, assistito dall’avvocato Ernesta Siracusa. È stato assolto Franco Grieco, agente di polizia penitenziaria. I fatti risalgono al 17 luglio 2005 quando gli agenti, secondo quanto accertato dai magistrati, eseguirono una perquisizione nell’abitazione di De Martino collocando diverse dosi di droga. De Martino - che attualmente dirige il carcere di Santa Maria Capua Vetere - fu arrestato. "Mi hanno incastrato, si tratta di un complotto. Ma dimostrerò la mia estraneità a tutte le accuse", dichiarò il direttore del carcere. L’azione secondo i giudici fu preordinata e realizzata al solo scopo di danneggiarne l’immagine ed il prestigio e di causarne l’allontanamento dalla casa circondariale. De Martino fu cautelativamente sospeso e poi inviato in missione presso la casa circondariale di Potenza, dove rimase in servizio per circa un anno. I motivi di rancore nei confronti del dirigente dell’istituto penitenziario erano maturati a seguito di provvedimenti disciplinari assunti nei confronti di alcuni agenti. "In attesa della definizione del processo gli agenti incriminati hanno continuato tranquillamente a svolgere la loro attività, anche sindacale ed addirittura all’interno dell’istituto attualmente diretto da De Martino (Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere), senza essere mai raggiunti da alcun provvedimento cautelativo o disciplinare, neanche a seguito del loro rinvio a giudizio avvenuto sin dal marzo 2006", ha sottolineato la difesa del dirigente penitenziario. Rovigo: ventesima assemblea "Centro Francescano di Ascolto"
Comunicato stampa, 9 febbraio 2010
Il Centro Giovanile San Giovanni Bosco di Rovigo ospiterà domenica 14 febbraio, con inizio alle ore 8.30, la ventesima assemblea dell’associazione di volontariato Centro Francescano di Ascolto dal titolo "La storia siamo noi, nessuno si senta escluso". Il programma dell’incontro prevede significative presenze. La prima quella della psichiatra Chiara Turola e dell’operatore psichiatrico Lodovico Tucci che presenteranno il volume "Un altro mondo. Racconti dal manicomio" raccontando la loro esperienza nell’incontro con i matti da slegare, con la testimonianza "Matti, pazienti, utenti: soprattutto persone", in questo momento in cui si sta ricordando la figura di Franco Basaglia a trent’anni dalla sua scomparsa. La seconda del Coordinatore Nazionale di Pax Christi don Nandino Capovilla, da anni impegnato nei territori più segnati dall’odio e dalla guerra: la Palestina e il Medio Oriente, per alimentare percorsi di pace, con l’intervento "Ponti e non muri tra le macerie di Gaza". La terza di Beppe Battaglia, dell’associazione Progetto Arcobaleno di Firenze che racconterà di tanta "galera", vissuta in tutte le dimensioni possibili e sempre con grande impegno e sentimento, nella relazione "Carcere e diritti umani". L’incontro, che è aperto a tutti, inizierà con la relazione del direttore dell’associazione Livio Ferrari, da oltre un anno anche Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo, con "La storia siamo noi, nessuno si senta escluso", una frase presa a prestito da Francesco De Gregori, che vuole significare la necessità di riprendere per mano il futuro di questo Paese in un momento di grande sbandamento, dove sono a rischio i principi fondanti della democrazia e nel quale ogni giorno vengono calpestati i diritti delle persone più fragili e in difficoltà. Attraverso questa affermazione l’intendimento è di sottolineare come ogni persona sia protagonista con la sua storia, e nessuna è meno o più importante di altri, ma insieme formiamo quel quadro inimitabile e strabiliante che compone l’esistenza terrena. Si parlerà anche di quanto il Centro Francescano ha prodotto nel 2009, con i suoi servizi: ascolto, carcere, stranieri, laboratorio di studi; con lo sportello luna, quello di avvocato di strada e lo sportello a colori; dei progetti e delle ricerche per l’anno in corso.
Centro Francescano di Ascolto Civitavecchia (Rm): detenute attrici con "Siamo tutti emigranti"
Comunicato stampa, 9 febbraio 2010
Si intitola "Siamo tutti emigranti" lo spettacolo teatrale, liberamente adattato al racconto di Leonardo Sciascia "Il lungo viaggio", che le detenute della sezione femminile del carcere di Civitavecchia hanno messo in scena nei giorni scorsi. Dopo quello delle sezioni maschili "Tango della gelosia", "Siamo tutti emigranti" è il secondo appuntamento del progetto di Educazione Permanente, realizzato dai detenuti dell’associazione "Sangue Giusto", finanziato dall’assessorato alle Politiche della Scuola della Provincia di Roma e fortemente voluto dal Garante dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni, e dalla direzione della Casa Circondariale di Civitavecchia. "Siamo tutti emigranti" è uno spettacolo che, attraverso i canti e le parole delle detenute in maggioranza straniere, racconta il peso che l’emigrante porta con sé. Nelle notti di viaggio sulla barca degli scafisti le detenute/emigranti raccontano la famiglia, le preghiere, le feste e le speranze nei canti della tradizione di Marocco, Brasile, Russia, Perù, Nigeria, Tunisia, Italia e del popolo Rom. "Un’esperienza di grande coinvolgimento - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - non solo per le detenute, ma anche per tutti coloro che hanno assistito allo spettacolo, compresi gli studenti delle scuole di Civitavecchia, invitati ad assistere ad uno spettacolo che ha dimostrato come l’immigrazione porti con sé anche tesori di conoscenza che possono anche arricchire. Le voci, le parole e le musiche delle detenute ci hanno ricordato che siamo tutti uguali e, per la durata dello spettacolo, sono state capaci di abbattere ogni confine, compreso quello che separa un detenuto da un cittadino libero". Il Garante si è detto "molto soddisfatto" della circostanza che, attorno a questi spettacoli, sia nata una stretta collaborazione tra Provincia di Roma, Garante, direzione del carcere e società civile, espressione concreta di un lavoro in rete che quando svolto con attenzione porta a frutti concreti. Prossimamente le foto degli spettacoli e i quadri realizzati dai detenuti dal laboratorio di pittura saranno esposti a Civitavecchia in una mostra di beneficenza.
Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio Lecce: spettacolo per conclusione laboratorio teatrale detenuti
Comunicato stampa, 9 febbraio 2010
"Why can’t I be good": questo il titolo del lavoro che concluderà il laboratorio teatrale che ha impegnato per 60 ore un gruppo di detenuti del circuito "protetti" della Casa Circondariale di Lecce. La rappresentazione finale, alla presenza delle Autorità cittadine, si svolgerà mercoledì 10 febbraio nel teatro dell’istituto. Conduttore del laboratorio e regista dello spettacolo è Luigi Lezzi, esperto con una vasta esperienza nel teatro di strada, alla terza collaborazione consecutiva con la direzione dell’istituto. Lo scorso anno, con un impegno analogo, aveva portato in scena lo spettacolo "Suggestioni dantesche", molto applaudito da un pubblico composto da Autorità e detenuti. Il laboratorio è stato finanziato con fondi destinati ai progetti finalizzati al recupero ed alla riabilitazione dei tossicodipendenti, ai sensi dell’art. 135 DPR 309/90 (Testo Unico in materia di droghe).
Fabio Zacheo Responsabile Area Trattamentale Casa Circondariale di Lecce Diritti: manicomi chiusi, ma sopravvivono luoghi di esclusione di Peppe Dell’Acqua (Direttore DSM di Trieste)
Il Manifesto, 9 febbraio 2010
Crollate le mura del manicomio, sopravvivono luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. Progettare luoghi diversi significa "demedicalizzare", ascoltare le persone che vivono l’esperienza della malattia, scoprire che i luoghi della cura altro non sono che i luoghi del quotidiano. Il rapporto tra le istituzioni della psichiatria e l’architettura ha una storia lunga e ricca di suggestioni. Tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del ‘900 il grande ottimismo per le conquiste e le certezze della scienza, l’elettricità, la velocità, le nuove vie di comunicazione: influenza anche il mondo della medicina. Il progresso delle discipline mediche è segnato da un susseguirsi di scoperte che generano incredibili aspettative. Il modello medico-biologico trionfa: la causa della malattia mentale è una lesione del cervello; il medico è il tecnico deputato al trattamento; la cura si fonda su strumenti di natura fisica e chimica (farmaci, contenzione, terapie di shock, isolamento); il luogo della cura è l’ospedale psichiatrico. Fedeli al paradigma positivista i medici arrivano a una definizione sempre più certa, meticolosa e ossessiva dell’organizzazione degli istituti e forniscono ai progettisti dei frenocomi indicazioni dettagliate e soprattutto scientificamente certe. La riforma dell’assistenza psichiatrica e la chiusura dei manicomi ha riportato in scena persone e storie, bisogni e relazioni, contesti e quotidianità e ha decostruito di fatto i luoghi vecchi e nuovi della psichiatria. Ma, potrebbe accadere che mentre la nave (il manicomio) affonda altri navigli (nuove tecniche, nuovi contenitori, nuove forme di controllo) si presentino minacciosi all’orizzonte. Tutta la rete regionale dei servizi di salute mentale del Friuli Venezia Giulia, per esempio, si è strutturata consapevole del rischio della riproposizione dei luoghi della malattia. A Trieste mentre si lavorava alla chiusura del manicomio, alla distruzione dell’istituzione nascevano i centri di salute mentale. Era chiara la ricerca ostinata del territorio, dei luoghi della città, della dimensione delle relazioni possibili. Non ci sono "porte chiuse" e tutte le forme di contenzione sono bandite. Il centro di salute mentale può diventare, negando quotidianamente la sua pretesa natura sanitaria, un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai "pazienti". Un luogo che progetta, costruisce e cura un suo dentro senza mai perdere di vista il fuori. Anzi è l’attenzione ossessiva al fuori che pretende la cura del dentro. Tra il dentro e il fuori si disegna una soglia che definisce il luogo dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia, in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale. La soglia è il luogo. Progettare e costruire un centro di salute mentale significa rendere concreto, praticabile, abitabile la soglia. Il centro allora oltre che essere un luogo bello, accogliente, confortevole deve coltivare la vocazione a essere punto di passaggio, confine, attraversamento. Disporsi instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l’irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell’ ozio e gli spazi dell’attività. Un luogo che contrasta la sottomissione e l’assoggettamento. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno. I luoghi della psichiatria, i manicomi, sono stati storicamente i luoghi della costruzione e della riproduzione della malattia mentale: luoghi senza ritorno. Nel nostro paese le leggi di riforma dell’assistenza psichiatrica e la conseguente chiusura del manicomio, hanno rappresentato la prima misura (nel mondo) che si è rivelata capace di garantire il ritorno e di avviare processi efficaci di prevenzione. Anche se il manicomio non c’è più e le mura sono letteralmente crollate, sono sopravvissuti ai cambiamenti luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. È evidente allora che non sono i luoghi in sé che inducono le cattive pratiche. Sono le pratiche che fondano su quella psichiatria che ha edificato il manicomio. Una psichiatria tutta interna al paradigma medico definisce malattie, oggetti, comportamenti, rischio, pericolosità, inguaribilità: "Lo psichiatra finisce per avere occhi ciechi e orecchi sordi". Sordità e cecità condizionano irrimediabilmente i luoghi. Oggi immaginare e progettare luoghi diversi significa disarticolare completamente il paradigma della medicalizzazione (demedicalizzare!), interrogarsi sulla natura della malattia, ascoltare le persone che vivono l’esperienza della malattia per scoprire alla fine che i luoghi della cura altro non sono che i luoghi del quotidiano. Il centro di salute mentale, con le persone che lo attraversano costituisce un insospettabile campo di contraddizioni (inconciliabili), di ricerca di singolari possibilità, di resistenza. È il luogo della indefinizione, della decostruzione, dell’incertezza. Ma anche il luogo della rassicurazione, della ricomposizione, della riflessione. La vivibilità del centro deve fare i conti con tutto questo. Garantire l’attraversabilità, la contaminazione e l’uso collettivo degli spazi e la possibilità di un uso riservato, privato, sicuro. Gli infermieri, i medici, i pazienti, i familiari giocano su un’immagine di sé, della malattia, del ruolo inconciliabile con il progetto di centro di salute mentale. Ognuno fa fatica a condividere la visione dell’altro. Tenere aperto questo campo, garantire la diversità, l’inconciliabilità, l’insieme delle voci diverse - l’eterofonia - costruisce la possibilità concreta di immaginare un centro di salute mentale. In conclusione, si potrebbe riconoscere uno spazio per le persone, un luogo di incontri che fa della orizzontalità, dell’ attraversabilità la sua forza; e uno per i pazienti che trova la sua conferma nella gerarchia, nella malattia, nelle codificazioni diagnostiche, nel lessico medico. Quanto più il luogo, il centro, è visibile, trasparente, attraversabile e attraversato dalle contraddizioni tanto più crescono le possibilità di radicamento. Un luogo dove chi sta bene può incontrare lo sguardo dell’altro che sta male soltanto se ambiente, relazioni, atmosfere non costringono a vivere drammaticamente la differenza, non connotano inesorabilmente sano e malato. In questo senso ritorna importante la questione dell’estetica, del bello, dell’accogliente che costringe alla cura dell’immagine di chi attraversa questi luoghi all’attenzione ai "dettagli": le cicche per terra, le porte sgangherate, le toilette infrequentabili, gli intonaci cadenti e tutti quei segni che condizionano lo sguardo prima ancora che incontri e riconosca chi il centro di salute mentale si trova ad attraversare. Diritti: Franco Basaglia; né un santo né un eroe, troppo umano di Ida Dominijanni
Il Manifesto, 9 febbraio 2010
Altro che santino, come scrive Marcello Veneziani sul "Giornale", lo zelante house organ dell’ordine costituito che non perde nemmeno questa occasione per spargere la sua dose quotidiana di veleno. La forza del film di Marco Turco è che di Franco Basaglia non fa né un santo né un eroe: "umano, troppo umano" per non urtare il senso comune berlusconiano regolato ormai su Superman. È l’umano il rovello del giovane psichiatra di fronte al trattamento disumanizzante dei "matti" legati, incatenati e torturati con l’elettrochoc. È l’umano la sua bussola, quando sostiene che la malattia mentale si combatte solo riconoscendo la dose ineliminabile di follia che abita i sani di mente. È l’umano la sua misura, quando di fronte agli inciampi e agli incidenti di percorso non li nega ma li ammette, perché errare è umano e chi è umano non si sente onnipotente come Superman. Perciò non è solo la riproduzione puntuale, realistica e cruda di ciò che era il manicomio a fare scandalo nel film: è l’umanità della malattia e del guaritore, un suono stridente nella favola glamour di veline piacenti e Superman gaudenti che la televisione ci somministra un tanto al giorno da decenni. Ed è anche la traccia di un’Italia di cui s’è persa la memoria. Lasciamo perdere la glorificazione politica dei favolosi anni Sessanta-Settanta, che pure saremmo autorizzati a fare: la possibilità di volere l’impossibile e di realizzarlo, le microfisica della rivoluzione in grado di sfidare la microfisica del potere, le personalità carismatiche che acquisivano peso solo nella dimensione collettiva, il vento della liberazione e della libertà che spirava dalla parte giusta. Ma volutamente o no, "C’era una volta la città dei matti" tocca corde persino più profonde. Riporta a galla un paese - quel "Popolo dei morti" di cui parla l’ultimo libro di Leonardo Paggi - colpito dalla guerra fin nell’inconscio, in cui le ferite del corpo diventavano ferite della psiche, la persecuzione del fascismo si installava nell’anima come fantasia persecutoria, il trauma di uno stupro che oggi definiremmo etnico si trasmetteva come un marchio d’infelicità da madre a figlia. Eppure fu in quel paese e in quel popolo che l’istanza della libertà riuscì a farsi strada e a prevalere: contro i carcerieri dei manicomi, e contro i secondini dell’accademia e delle corporazioni, quella psichiatrica compresa. Arriva al momento giusto, "C’era una volta la città dei matti". Perché come tutte le favole, anche questa è reiterabile. C’era una volta la città dei matti, adesso ci sono i lager degli immigrati e nuovi muri che si cerca di erigere per ogni dove per sottrarre allo sguardo quello che oggi, come la malattia mentale allora, va internato, recluso, messo fuori scena e reso osceno. Gli "altri" nei quali, come negli internati di Gorizia, è più facile isolare la diversità che ci separa che riconoscere il tratto di comune umanità che ci unisce. Non solo quando c’è di mezzo un diverso colore della pelle o una cultura distante o odori, sapori, suoni non familiari che sfidano i nostri sensi. Basta molto meno, basta che la diversità emerga dall’interno di ciò che viceversa ci assomiglia e ci è familiare, perché lo scandalo sia perfino più forte e la messa fuori scena perfino più repentina. Basta per esempio che dall’interno della società dello spettacolo uno dica che sì, ha sniffato cocaina, perché tutto un mondo abituato a sniffarla senza dirlo scatti sull’attenti pronto a internarlo e a dichiararlo osceno. E non è solo ipocrisia, quella che terrà Morgan fuori dalla scena di Sanremo rivestendosi di intenzioni moraleggianti e pedagogiche. Non è il tabu della droga che Morgan ha infranto, ma precisamente quello del disagio mentale; non è tanto l’uso di coca a fare scandalo in un mondo che ovunque e disgraziatamente la tollera, quanto che si possa usarla, la coca, per lenire la depressione. La società dello spettacolo vive di eccitazione e non può sopportare che si nomini il tarlo depressivo che la minaccia da dentro. Non meno della follia al tempo di Basaglia, è questo lo spettro da internare e punire, perché come quella inquieta e interroga chi la esorcizza per non riconoscerlo in se stesso prima che nell’altro. Diritti: la riforma voluta da Basaglia, oggi sarebbe impossibile di Pietro Ancona
Il Manifesto, 9 febbraio 2010
La scena finale del bel film televisivo su Basaglia si svolge davanti al mare di Trieste su un molo dove un uomo su una sedia a rotelle, con la schiena spezzatagli in un manicomio criminale, sta per suicidarsi ma viene salvato da un compagno frequentato nella sua lunghissima vita manicomiale che sopraggiunge su una motocicletta e lo invita a fare un giro. Il film si chiude appunto con i due amici sulla moto sullo sfondo di una bellissima Trieste dalle piazze disegnate da una mente razionale che evocano civiltà e libertà. Riflettevo sulla vicenda raccontata dal film, la vicenda della liberazione di diecine di migliaia di persone dalla istituzione manicomiale che ancora, dopo trenta anni, esiste seppur soltanto nella versione di ospedale psichiatrico giudiziario. Ce ne sono sei in Italia con circa duemila detenuti. Penso che se Basaglia fosse nostro contemporaneo e volesse provare a mettere in movimento la sua riforma oggi fallirebbe immediatamente. L’Italia di oggi è enormemente meno disponibile a spendere i suoi sold, il suo tempo, le sue attenzioni, verso un problema che riguarda quasi esclusivamente persone degli strati più poveri e marginali della popolazione. In Parlamento non c’è la maggioranza che allora approvò, seppur tra mille contrasti, la legge 180 e c’è semmai una maggioranza opposta che approverebbe una legge per incrudelire la condizione dei matti e murarli per sempre fuori dalla vista del mondo. Magari qualcuno proporrebbe di affidare i manicomi alla gestione di privati e considerarli delle vere e proprie aziende. Forse non si è "aziendalizzato" il servizio sanitario nazionale? La cultura che portò il gruppo di medici ed infermieri diretto da Basaglia al successo, una punta avanzata della ricerca filosofica, psichiatrica e sociologica europea, non avrebbe alcuna possibilità di farsi largo nell’Italia securitaria che vara leggi razziste, distrugge i campi dei rom, introduce norme vessatorie e di stampo nazista sui permessi di residenza, punta verso l’apartheid dei diversi e dei poveri. Oggi nessuno presterebbe attenzione alle idee del Prof. Basaglia nella maggioranza parlamentare ma anche nell’opposizione. Il giovane Presidente della provincia di Trieste che, controcorrente rispetto la lobby psichiatrica, cattolica e ai tantissimi pregiudizi ingenerati da anni di criminalizzazione della figura del malato mentale, ad una domanda di Basaglia che gli chiedeva come mai essendo DC si esponesse al rischio di sperimentarlo nell’ospedale come direttore, rispondeva: Sa non c’è solo quella DC, ci sono tante DC. Per dire che una vera e civile dialettica politica presente nei partiti offriva la possibilità di introdurre novità, attenzione ed interesse per questioni essenziali come quelle della istituzionalizzazione dei malati psichiatrici. Oggi il problema che tutti si porrebbero è quello della "sicurezza" e cioè risolvere con la violenza della legge questioni che Basaglia affrontava con la Ragione ed il Cuore e la Cultura L’Italia che dava la possibilità a Basaglia di liberalizzare lo spazio manicomiale e poi di abolirlo non c’è più. È morta con l’assassinio di Aldo Moro, raccontato dal film, assassinio che chiude un periodo dominato da una tendenza verso il meglio per tutti, verso l’estensione di diritti anche agli ultimi e si apre la lunga fase di agonia della democrazia che dura tuttora. I soldi dello Stato non servono più per avere ospedali e scuole migliori in cui si dedica tanto tempo alla cura ed alla crescita di tutti ma ad una casta di oligarchi che ne divora in grande quantità. La tendenza non è più quella di migliorare tutti ma di aumentare le disparità sociali a cominciare dai redditi. Da anni si tagliano finanziamenti alla scuola, alla sanità, alle pensioni, ai servizi sociali. La cittadinanza tende a scomparire ed avanza una società di individui in lotta tra di loro per accaparrarsi il meglio. Una lotta che non si svolge a condizioni di parità ma di estrema diseguaglianza. Oggi la Legge Basaglia viene disattesa ed ignorata dai bilanci dello Stato. Non escludo manifestazioni a favore della riapertura dei manicomi cosi come esistono pressioni per ripristinare l’altra terribile istituzione cancellata dalla legge Merlin: i bordelli. Bordelli, manicomi, lager per stranieri, prigioni ancora più dure di quelle che abbiamo dove è frequentissimo il suicidio, sono il portato logico della cultura liberista ed asociale che avvolge il Paese e ne fa la brutta, bruttissima copia di quello civilissimo in cui vissero Lina Merlin e Franco Basaglia che aveva dentro di sé la forza di produrre riforme che ci miglioravano tutti. Una Italia dal volto umano che non esiste più! Brasile: carcere del massacro di 111 detenuti diventa biblioteca
Ansa, 9 febbraio 2010
Il carcere di Carandirù a San Paolo, teatro nell’ottobre del 1992 del massacro di 111 detenuti in rivolta da parte delle forze speciali della polizia, è diventato una biblioteca che sarà anche un memoriale in omaggio alle vittime. Il governatore Josè Serra ha inaugurato oggi la biblioteca pubblica eretta al posto del malfamato penitenziario di Carandirù, un quartiere di case popolari e degrado sociale di San Paolo. È circondata da un piccolo parco dove si trovavano i muraglioni del carcere, con filo spinato e torrette di guardia con riflettori. La biblioteca si vuole il più allegra possibile, per far dimenticare gli orrori che si sono svolti nello stesso luogo: pareti dipinte a colori allegri, puff arancio e sedie e tavoli di lettura rossi, ampie vetrate e un’atmosfera più informale possibile. Tutto per attrarre la popolazione dell’area, che non ha molta dimestichezza con le biblioteche e la lettura in generale. Non manca però un riferimento agli episodi del passato: un angolo dell’edificio, di stile modernista, è adibito a memoriale del cosiddetto ‘massacro del Carandirù, nel quale 111 detenuti in rivolta furono uccisi con 515 colpi di armi da guerra da 320 agenti delle forze speciali che invasero il penitenziario dopo un lungo assedio e trattative senza esito.
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