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Giustizia: il giustizialismo tra gli "immacolati" ed i "pregiudicati" di Luigi Manconi
L’Unità, 13 febbraio 2010
La scena, vista nel corso di Annozero, è sommamente istruttiva: l’uno di fronte all’altro, Niccolò Ghedini, avvocato e parlamentare del PdL, e il giornalista Marco Travaglio. Il primo accusa il secondo di essere un "pregiudicato" in quanto condannato per diffamazione; il secondo sventola il proprio Casellario giudiziario che definisce "immacolato", privo cioè di condanne. Ghedini, a sua volta, risponde che quel documento non riporta le sentenze di primo grado, che sarebbero state inflitte a Travaglio. Pertanto, il match si conclude alla pari, e il pubblico pagante mostra di non apprezzare quello che Gianni Brera chiamava "il risultato perfetto", ovvero lo 0 a 0. Quello scambio solleva un quesito: e se, invece, Travaglio avesse una condanna definitiva? Forse che, solo per questo, sarebbe meno titolato a muovere le sue accuse all’avversario? Per me, ovviamente no: e per qualunque serio garantista, ma anche per chiunque consideri la lotta politica altra cosa rispetto ai "mattinali di questura", e al "Forum" del non dimenticato Sante Licheri. È piuttosto lo stesso Travaglio, coerentemente con la propria ideologia, che dovrebbe considerarsi interdetto dal poter muovere accuse, in caso di condanna definitiva: o meglio già al momento in cui ricevesse un’informazione di garanzia. Cosa che io ritengo un abominio giuridico, mentre è Travaglio a considerarlo un fattore di legalità. Si dirà: ma i giornalisti che coltivano una concezione sostanzialista del diritto non sono rappresentanti del popolo, per i quali ultimi sarebbe richiesto un surplus di prudenza e maggiore rigore politico-giudiziario. Non è così per tre ragioni: perché l’azione pubblica può comportare atti amministrativi tali da determinare indagini della magistratura; perché l’attività politica può indurre alla violazione di regole e norme, e - quando non è motivato da interesse privato, bensì da una buona causa - ciò non è meritevole di riprovazione morale; perché chiunque può essere vittima di un errore giudiziario. Da settimane, mi capita di scrivere a favore della candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della Campania: sia perché l’interessato non ha finora riportato alcuna condanna, sia perché ha sempre indicato nella necessità di difendere il posto di lavoro di 200 operai la motivazione dei reati imputatigli. Il quotidiano Il Fatto risponde: "è una superballa" e racconta come in quelle vicende giudiziarie trovino posto interessi personali e clientelari di un gruppo di potere, che farebbe capo a De Luca. Ma questa è la tesi dell’accusa. Tuttavia, ciò che più mi colpisce è che tutte le critiche rimandino a quella condizione di "indagato". E a ciò si limitino. È, alla lettera, una abdicazione della politica: e, infatti, a De Luca, non viene contestato ciò che andrebbe contestato, e che io contesto. Ovvero l’aver assunto, in più circostanze, posizioni di destra (sulla sicurezza, sull’ordine pubblico, sull’immigrazione). Ne risulta confermato che una impostazione tutta e solo legalitaria porta esiti paradossali: riduce l’azione pubblica alla sola dimensione giudiziaria, sacrifica le domande di diritti e di libertà a un tetro richiamo all’ordine, mortifica la politica a un cupo conflitto tra opposti casellari giudiziari. Ma proprio nel momento dell’apparente trionfo, si consuma il fallimento del giustizialismo, al punto che il suo tonitruante alfiere - Antonio Di Pietro - vi deve rinunciare per un momento senza alcuna spiegazione esauriente: sulla base di un calcolo politicistico. Esito malinconico, ma prevedibile di una cultura politica tutta fondamentalmente di destra: non a caso, Di Pietro assicura che se De Luca non rispetterà il patto sottoscritto, dopo Mani Pulite vi sarà "Mani tagliate" (si dirà: è solo una metafora ironica, ma possibile che non gli venga mai in mente qualcosa di diverso dal più truce linguaggio sbirresco?). E torniamo a quel "pregiudicato". Ad esempio Marco Pannella e altri militanti radicali sono stati condannati in via definitiva per aver distribuito derivati della canapa indiana. Qualche giorno fa un giudice di Avezzano ha autorizzato la somministrazione gratuita di farmaci a base di cannabinoidi a un malato di sclerosi multipla. Ma chi fa politica non avrebbe dovuto sentire il dovere, ancor prima di quella ordinanza, di violare la legge per tutelare il diritto alla libertà di cura per quel malato? Intanto, Di Pietro viene criticato da De Magistris che viene criticato da Travaglio che viene criticato da Grillo che viene criticato da Sonia Alfano e più in là, sullo sfondo, un corrucciatissimo Elio Veltri… giova ripeterlo: c’è sempre un puro più puro che epura. Giustizia: Ardita (Dap); più lavoro e meno attesa per il giudizio di Danilo Paolini
Avvenire, 13 febbraio 2010
Può sembrare strano, ma per uscire davvero dal carcere (cioè per non tornarci più) bisognerebbe restarci per un periodo idoneo a imparare un mestiere o a rapportarsi con la società. Sebastiano Ardita, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento amministrazione penitenziaria, sintetizza il concetto con la formula "stabilità della detenzione". Una stabilità che oggi non c’è. Le prigioni italiane scoppiano, ma hanno le porte girevoli: troppo spesso si entra e si esce nel giro di pochi giorni. E dopo un po’ si rientra e poi si riesce... Una triste giostra che sta per andare in tilt.
È stata sfondata quota 66mila. Di questo passo, quando saranno pronti, i circa 20mila posti in più previsti dal piano straordinario non basteranno... Certo, è fin troppo evidente che la logistica non basta a risolvere e il problema. Occorre un’azione su molti piani. In primo luogo serve un approccio di tipo normativo, che serve a comprendere che cosa il carcere deve "coprire" come spazio di sicurezza e di repressione. È utile riflettere su un dato: in Italia, la metà circa degli arrestati esce dal carcere in meno di un mese. In questo senso, con la costruzione di nuove strutture, noi abbiamo un’opportunità che non abbiamo avuto in passato.
Quale? In passato abbiamo adeguato vecchie strutture alla nuova realtà della popolazione penitenziaria: l’85% del nostro patrimonio immobiliare carcerario è formato da costruzioni antecedenti al 1800, penso a Regina Coeli, a San Vittore, a Poggio Reale. È arrivato il momento di disegnare la detenzione del futuro.
Lei come se l’immagina? Si potrebbe dividere il carcere in due grandi realtà: l’area dell’accoglienza per coloro che, a causa di un fenomeno di disfunzione del sistema penale, entrano e stanno pochi giorni; l’area del "trattamento" vero e proprio per tutti gli altri.
Ha parlato di "disfunzione del sistema penale". Vuole dire che molta gente finisce in cella inutilmente? È chiaro che, a monte, si dovrebbe pensare a interventi normativi in grado di mettere fine alla detenzione "di flusso". Ma questo compito non spetta a noi dell’amministrazione penitenziaria. Il Parlamento può, ma ormai da anni si va affastellando una legislazione penale basata solo sulla repressione e sulla dissuasione sociale.
Nel Lazio, il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio. Molte volte anche in attesa di misure confermative della custodia cautelare... Appunto. Abbiamo un sistema penale che non garantisce né sicurezza né trattamento.
Così, per molti, il carcere diventa solo un posto dove farla finita. Purtroppo. I suicidi sono tanti, sono troppi comunque. Anche se negli ultimi 10 anni la media è calata, scendendo sotto l’1 per mille. Nel 2009 è stata di 0,8 ogni mille detenuti: 58 suicidi. In ogni caso troppi, ripeto. Il carcere non può, non deve condurre alla morte. Mai.
Lei ha presieduto la commissione d’indagine del Dap sulla morte di Stefano Cucchi. Che idea si è fatto di quell’assurda tragedia? Il giudizio sulle responsabilità potranno darlo soltanto i magistrati. Noi, con il massimo rigore, abbiamo riscontrato, segnalato e modificato diverse cose che non andavano sul piano organizzativo.
Il tasso di recidiva tra i detenuti che lavorano è molto inferiore rispetto a quello dei reclusi che non fanno niente. Ma quanti sono? I lavoratori presso ditte esterne, per lo più cooperative sociali o aziende private, sono meno di 2mila. Si tratta di dipendenti a tutti gli effetti, con busta paga e applicazione dei contratti collettivi nazionali. Poi ci sono 10-12mila che svolgono servizi interni, finanziati con i fondi del Dap: pulizie, minuta manutenzione dei fabbricati, spesa. È una condizione meno qualificante del lavoro esterno, ma aiuta a ritrovare l’autostima.
Perché è così difficile far decollare progetti formativi dietro le sbarre? Il presupposto è proprio la stabilità della detenzione. Oggi, su 66mila presenti, abbiamo una larghissima fetta di persone che transitano per pochi giorni, al massimo per pochi mesi. Poi c’è una fetta minoritaria di detenuti più stabili, ma per lo più sono soggetti classificati come pericolosi per aver commesso reati gravi, per esempio di mafia. In questi casi esistono vincoli normativi al trattamento, dettati da esigenze di sicurezza e di prevenzione. Resta infine una porzione di qualche migliaio di detenuti, per la quale la speranza di recupero è maggiore. Giustizia: Osapp; secretati gli appalti, per vitto e "sopravvitto"
Asca, 13 febbraio 2010
"La crescita della popolazione detenuta comincia ad essere molto di più che una emergenza, visto che alle 17,00 di ieri 11 gennaio, rispetto al giorno precedente, sono risultati presenti nelle carceri italiane 129 detenuti in più, distribuiti tra Piemonte (+53), Lombardia (+34), Lazio (+26), Campania (+18) e Emilia Romagna (+16), ma l’attenzione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dicastero della Giustizia è rivolta ad altro". A dichiararlo è il Segretario Generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, Leo Beneduci che aggiunge: "Del tutto inspiegabilmente, infatti, si starebbero secretando le procedure di appalto per la fornitura ai detenuti del vitto e dei generi extra che i ristretti possono acquistare (il cosiddetto sopravvitto) durante la detenzione". Secondo il segretario dell’Osapp: "Ciò consentirebbe, con procedure di assoluta urgenza in ciascuna regione, di circoscrivere l’affidamento delle forniture a quelle tre o quattro ditte conosciute e di fiducia, per un business che in ambito nazionale non è inferiore ai 250/300 milioni di euro l’anno". "Peraltro - conclude Beneduci - tanta fretta in ambito penitenziario, ovvero l’adozione di modalità di aggiudicazione ultimamente definite "metodo Bertolaso" rispetto a forniture alimentari che dovrebbero essere più che altro affidabili, sicure e di qualità, sarebbe stata indispensabile nell’assunzione e nell’immissione in servizio di nuove unità di Polizia Penitenziaria, viste le oltre 800 che ogni anno lasciano il Corpo, ma ciò non accade assolutamente". Giustizia: Radicali; sciopero della fame per i diritti dei detenuti
Agenzia Radicale, 13 febbraio 2010
Esecuzione della Mozione approvata sulle carceri; diritti di voto dei detenuti non interdetti; verità e giustizia per tutti i casi Cucchi e Lonzi. Dichiarazione di Irene Testa, Segretaria dell’Associazione Radicale il Detenuto Ignoto e membro della Giunta di Radicali Italiani: "Dalla scorsa mezzanotte ho iniziato uno sciopero della fame per sostenere l’analoga azione di lotta nonviolenta della deputata radicale Rita Bernardini, in corso dal 3 febbraio scorso, con diversi obiettivi, tra cui la richiesta che sia data rapida esecuzione alla mozione parlamentare approvata alla Camera l’11 gennaio, ove si prevede una riforma organica e non più rinviabile del sistema carcerario; e l’attivazione tempestiva da parte dei direttori degli istituti di pena di tutte le procedure per garantire il diritto di voto per quei detenuti che possono e devono votare. Oltre a voler sostenere questi obiettivi, il mio sciopero della fame è rivolto anche a una doverosa richiesta di verità e giustizia per alcuni casi che ancora la attendono, di cui chiedo si occupino la politica e le istituzioni, allo stesso modo di come è successo recentemente per il caso della morte di Stefano Cucchi successivamente al suo arresto. Mi riferisco ad altri casi sui quali è urgente sia fatta chiarezza, come, tra gli altri, il caso della morte del giovane Marcello Lonzi, avvenuta presso il carcere Le Sughere di Livorno nel 2003, che per la seconda volta rischia, nei prossimi giorni, di venire archiviato senza che si siano individuate responsabilità, sul cui cadavere, ufficialmente morto di infarto, sono state riscontrate lesioni gravi e inspiegabili. Di alcuni di questi casi si parlerà, con i familiari coinvolti, nel corso della conferenza stampa indetta presso il Senato per martedì 16 febbraio prossimo, dal titolo "Quando lo Stato sbaglia. Casi, storie e proposte al Senato", dove si farà anche il punto su alcune iniziative legislative che possono essere attuate per dotare lo Stato di mezzi utili di prevenzione, riconoscimento e intervento in simili vicende". Giustizia: i genitori di Cucchi; "troppi misteri in quelle perizie"
Ansa, 13 febbraio 2010
Sono stati lontani dalle polemiche finché hanno potuto, ma ora Rita e Giovanni, i genitori di Stefano Cucchi, il "ragazzo" di 31 anni arrestato il 15 ottobre del 2009 per il possesso di una ridotta quantità di stupefacenti e morto, una settimana dopo, all’ospedale Pertini di Roma, per cause ancora misteriose, non vogliono più tacere. Nei mesi scorsi aveva parlato soprattutto la sorella di Stefano, Ilaria, che alla vicenda ha dedicato anche un blog. Ma ora si ribellano anche i genitori: "Finora siamo stati in silenzio - dicono all’Avvenire, che riporta con evidenza le loro parole, sotto un’inchiesta dedicata al sovraffollamento esplosivo delle carceri - ora non possiamo più tollerare questa situazione". Accadono fatti gravissimi. "Non abbiamo parole per quanto sta accadendo", aggiungono. "Accadono fatti gravissimi che ci portano a non capire cosa stanno facendo i consulenti medici nominati dalla Procura". "Trapelano informazioni - sottolineano i coniugi Cucchi - su improbabili e ridicoli referti, secondo i quali una frattura sarebbe una malformazione e l’altra sarebbe pregressa". Due fratture documentate dalle lastre. "Eppure - dicono i genitori di Stefano - i nostri consulenti ci riferiscono dell’esistenza di nuove lastre dell’ospedale Fatebenefratelli che documenterebbero la frattura coccigea, oltre a quello della vertebra L3. Non occorre essere professori - aggiungono - per accorgersi della loro esistenza, tanto che i medici del Fatebenefratelli le hanno subito diagnosticate e per quelle hanno tentato di curare Stefano". La denuncia: ci consegnano i Cd sbagliati. Ma le accuse non si fermano qui. "Da due mesi - spiegano i signori Cucchi - i nostri legali chiedono di poter avere la documentazione relativa alle radiografie e alla Tac eseguite dopo la riesumazione della salma, ma il materiale che si sono visti finora consegnare contiene immagini che nulla avrebbero a che vedere con le lesioni alla colonna vertebrale. Il solo risultato - commentano amaramente i genitori di Stefano - è che noi continuiamo a spendere centinaia di euro per ritirare Cd che non contengono ciò che serve ai nostri consulenti". Sarà un semplice caso? Giustizia: una notte in cella senza motivo, vale più di 200 euro
Ansa, 13 febbraio 2010
Accolto il ricorso dell’imprenditore, arrestato per traffico di opere d’arte - Renato Raimondi era finito in manette il 9 giugno del 2008, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Macerata, condotta dalla Polizia e dai Carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico di Ancona, su una presunta truffa legata alla tentata esportazione di opere d’arte autentiche e copie, alcune spacciate come vere, di Parmigianino, Rubens e Leonardo da Vinci Una notte trascorsa in cella vale più di 200 euro di indennizzo se l’arresto si rivela illegittimo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sezione IV penale), accogliendo il ricorso di un imprenditore marchigiano di 71 anni. Renato Raimondi era finito in manette il 9 giugno del 2008, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Macerata, condotta dalla Polizia e dai Carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico di Ancona, su una presunta truffa legata alla tentata esportazione di opere d’arte autentiche e copie, alcune spacciate come vere, di Parmigianino, Rubens e Leonardo da Vinci. Compresa una falsa "Vergine delle rocce". Il provvedimento restrittivo a carico dell’imprenditore, incensurato, non era stato però convalidato dal gip, che lo aveva ritenuto illegittimo. L’inchiesta penale, che coinvolge sei persone, è ancora in corso, ma il difensore di Raimondi, l’avv. Giampaolo Cicconi, aveva sollecitato un indennizzo adeguato alle "gravi conseguenze familiari e personali subite" dal suo assistito per la notte trascorsa in una cella del carcere di Ancona. Il 3 febbraio 2009 la corte di Appello di Ancona liquidò a Raimondi 200 euro a titolo di risarcimento. Un indennizzo ridicolo, secondo il ricorso dell’avv. Cicconi. E i giudici di Cassazione gli hanno dato ragione, nonostante il parere negativo del pg. L’ordinanza della corte d’Appello è stata impugnata con rinvio alla stessa corte per un nuovo esame della vicenda, e per la liquidazione all’interessato, "privato della propria libertà personale, anche se per un solo giorno", di un importo superiore, che tenga conto del disagio subito. E cioè, almeno stando alla tesi prospettata dal difensore, "i gravi danni esistenziali e psicologici derivanti dal clamore suscitato dalla notizia dell’arresto e dal trauma subito al momento dell’ingresso in carcere, con l’imprenditore schedato, fotografato, e costretto a lasciare le impronte digitali". Senza considerare "il disagio e lo stress di dover condividere la cella (con un solo bagno) con altri detenuti", e "un malessere diffuso persistente anche dopo la scarcerazione, con conseguente assunzione di farmaci". Livorno: detenuto algerino 57enne muore giorno dopo arresto
Il Tirreno, 13 febbraio 2010
Mercoledì pomeriggio era stato arrestato dalla polizia per detenzione di droga ai fini di spaccio. In serata s’è sentito male ed è stato ricoverato in Chirurgia, poi ieri alle 15 è deceduto durante un’operazione all’intestino. Una morte su cui la magistratura dovrà fare chiarezza quella di Adel Ben Massoud, algerino di 57 anni, detenuto alle Sughere. La sua salma ora è sotto autorità giudiziaria e il magistrato oggi deciderà quando effettuare l’autopsia. Si tratta comunque di una persona con gravi problemi di salute. In base a quanto appreso, dopo l’arresto per droga, il 57enne è stato ricoverato in ospedale perché s’è sentito male con forti dolori all’addome. Dalle Sughere perciò è stato accompagnato in pronto soccorso e poi ricoverato. Ieri mattina è stato quindi sottoposto a una serie di accertamenti; dopodiché, verso ora di pranzo, è stato portato in sala operatoria. Ed è lì che per una complicazione avrebbe avuto un infarto intestinale. Secondo i medici, si tratta di una persona diabetica, con problemi di cuore e anche e soprattutto di intestino. In pratica, durante l’operazione potrebbe essere partito un embolo dal cuore che ha ostruito le arterie all’altezza dell’intestino. Questa è comunque solo un’ipotesi clinica che l’esame autoptico dovrà confermare o smentire. L’algerino era stato sorpreso in casa con altri due magrebini con quasi 21 grammi di cocaina. I tre erano stati arrestati mercoledì dalla sezione Narcotici della squadra mobile. In manette insieme a lui erano finiti Chedli Mzoughi, tunisino di 60 anni, e Aicha Houidi, tunisina 44enne. I tre abitavano in via Santo Stefano 12 con l’accusa di detenzione di 20 grammi di cocaina ai fini di spaccio, in concorso. Le segnalazioni erano arrivate da cittadini vicini di casa: movimenti sospetti e continuo viavai da un appartamento in via Santo Stefano. Dopo giorni di appostamenti e osservazioni in centro nell’ambito di servizi antispaccio, gli agenti della narcotici mercoledì avevano deciso di fare irruzione in quella casa. Gli investigatori della mobile si erano nascosti all’interno dell’edificio per tenere sotto controllo l’appartamento che, in base agli accertamenti, sembrava il fulcro dello spaccio di droga. A un tratto, s’era aperta la porta e a quel punto i poliziotti avevano approfittato per infilarsi all’interno, bloccando tutte le persone presenti. In cucina, c’erano Adel Massoud e Chedli Mzoughi. Ad aprire la porta invece era stata la donna, Aicha Houidi. Sul tavolo della cucina c’era un involucro di cellophane, con i 20.8 grammi di cocaina. Per la polizia, la droga sarebbe stata venduta in zona. In casa, inoltre, come emerso dalla perquisizione, c’erano vari pezzi di cellophane, secondo la polizia usati per il confezionamento delle dosi, telefoni cellulari, fogli manoscritti con nomi e cifre in lingua francese, ed altra documentazione che è stata sequestrata. La polizia nel giubbotto di Mzoughi aveva anche trovato 1.800 euro in banconote da 50 euro ritenute provento dello spaccio. Altri 2.550 euro erano nella camera da letto di lei, insieme a un altro involucro contenente polvere del peso di 6.8 grammi, secondo la polizia utilizzata per tagliare lo stupefacente. Indagini anche sulla carta di identità di Mzoughi: apparentemente rilasciata dalle autorità francesi, aveva però un nome diverso. Lo stesso tunisino ha ammesso che era falsa e per questo è stato denunciato. Tutti e tre erano quindi stati arrestati e portati alle Sughere. Poi il malore dell’algerino. Reggio Emilia: l’Opg si trasforma, non più agenti nelle sezioni
Il Resto del Carlino, 13 febbraio 2010
Nei progetti, l’Opg verrà gradualmente "decarcerizzato". Gli internati saranno affidati a personale medico, gli agenti se ne andranno. Si muovono da Reggio Emilia i primi passi per portare al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Il capoluogo emiliano è infatti al centro di un intesa tra Regione e Amministrazione penitenziaria che in sostanza "aprirà" i reparti degli Opg e affiderà il controllo degli internati esclusivamente a personale medico e paramedico dell’Ausl. La polizia penitenziaria invece si dovrebbe occupare solo della sicurezza esterna delle strutture. Una riorganizzazione che il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe saluta nel complesso con favore, perché contribuirà a liberare unità di personale per colmare le diffuse lacune delle piante organiche. Ma anche da valutare attentamente in alcuni aspetti perché, come spiega il segretario generale Giovanni Battista Durante, "negli Opg ci sono soggetti che vanno curati, ma anche contenuti: una nuova legge Basaglia sarebbe non utile". A Reggio, dove già tre su sei reparti dell’ospedale psichiatrico sono aperti "part-time", cioè senza le celle chiuse (e dal primo marzo se ne aggiungerà un quarto), il progetto è poi tanto più ben visto perché va nella direzione dell’unificazione tra casa circondariale e ospedale da tempo auspicata dai sindacati. La richiesta è avanzata da tutte le sigle per razionalizzare il personale e alleviare i disagi del sovraffollamento da un lato e della carenza di organico dall’altro. Su questo fronte c’è una buona notizia: da lunedì arriveranno alla "Pulce" cinque nuovi agenti. Una boccata di ossigeno per i 114 presenti, anche se la carenza di organico registra un fabbisogno di 25 unità. Altrettanti sono gli agenti di cui necessiterebbe l’ospedale psichiatrico dove prestano servizio 80 agenti. Inoltre, stando ai numeri del Sappe sul sovraffollamento, "La Pulce" potrebbe ospitare 161 detenuti mentre i reclusi sono 334. Nell’ospedale psichiatrico giudiziario invece la capienza ottimale sarebbe di 120 pazienti. Ce ne sono 294 più 61 che godono di licenze esterne - che potrebbero essere ritirate - e quindi suscettibili di tornare dentro aggravando ancora di più una situazione che ha raggiunto il livello di guardia. Lo dimostra il recente tentativo di suicidio, sventato dagli agenti, di un detenuto tunisino che è ora "tenuto in osservazione". Il sindacato stima che accorpando carcere e Opg, oltre a razionalizzare i costi di due strutture amministrative separate, si potrebbero recuperare in tutto una ottantina di agenti, sufficienti a gestire un nuovo padiglione carcerario (che con il Piano carceri del Governo non è escluso). "Poiché il superamento degli Opg non avverrà in tempi brevi pensiamo che intanto si debba procedere alla unificazione delle strutture", tira le somme Durante. Che sugli Opg commenta: "Sembra che l’Amministrazione penitenziaria voglia andare verso il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, attraverso la decarcerizzazione. Questo dovrebbe portare in pratica la polizia penitenziaria ad occuparsi esclusivamente del controllo perimetrale quindi della sicurezza della struttura, mentre il controllo interno dovrebbe essere affidato prevalentemente a personale medico e paramedico perché siamo in presenza di soggetti che necessitano soprattutto di cure". Però, avvisa il segretario Sappe, "bisogna fare attenzione al concetto di decarcerizzazione: sono soggetti che vivono un forte disagio psichico, ma non possono essere messi fuori in strada. Vivono un disagio ma sono sempre pericolosi perché hanno commesso dei reati e sono il più delle volte aggressivi verso se stessi e gli altri". Conclude quindi Durante: "Un’altra legge Basaglia per gli Opg credo che non vada bene e debba far riflettere: siamo in presenza di soggetti che vanno curati ma anche contenuti". Avezzano (Aq): nuovo carcere pronto da un anno resta chiuso
Asca, 13 febbraio 2010
Ad Avezzano c’è un carcere nuovo e moderno, ancora chiuso. La struttura è completamente rinnovata, all’interno del quale ci sono già dei dipendenti al lavoro, con più di 40 celle spaziose e fornite di servizi interni con doccia. Secondo i piani del ministero, doveva riaprire all’inizio del 2009., invece niente. Gli avvocati del Foro marsicano sono sul piede di guerra. Si ipotizza una riapertura ad aprile, ma dal Provveditorato ancora non ci sono conferme. A chiedere chiarimenti è anche il presidente dell’Ordine degli avvocati, Giovanni Colucci, che nei prossimi giorni incontrerà il procuratore della Repubblica di Avezzano, Vincenzo Barbieri, e il presidente del tribunale, Giovanni Garofoli. "Oltre ad affrontare tutte le altre questioni che riguardano la giustizia sul territorio marsicano", ha spiegato Colucci, "cercheremo di capire anche la situazione del carcere di San Nicola". L’incontro è previsto la prossima settimana. Da settimane si parla di eccessivo affollamento delle carceri italiane, di celle nate per ospitare tre persone e invece trasformate in camerate da sei o otto posti. Così da Avezzano si leva la protesta degli avvocati, che da anni attendono la riapertura della struttura in via San Francesco. Padova: aumentano le commesse per la pasticceria del carcere
Vita, 13 febbraio 2010
Va a ruba la "Noce del santo", il dolce ispirato a Sant’Antonio, di cui ci sarà l’ostensione del corpo dal 15 al 20 febbraio 2010. L’ostensione delle spoglie mortali di sant’Antonio, evento straordinario programmato da lunedì 15 a sabato 20 febbraio, avrà i suoi effetti anche nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova, e più precisamente nella pasticceria gestita dal consorzio sociale Rebus, nella quale 12 detenuti sfornano ogni giorno squisitezze di ogni genere, imparando al contempo un lavoro effettivamente spendibile anche per il proprio futuro, come fanno gli altri detenuti impiegati nelle diverse attività del consorzio Rebus, un centinaio in tutto. In questi giorni, visto l’elevato numero di richieste, si sta sfornando a ritmi da record la Noce del Santo, specialità che un anno fa si è aggiunta agli ormai pluripremiati panettoni, alle colombe, ai biscotti e ai dolci tipici, presentati come eccellenze del made in Italy anche al G8 de L’Aquila della scorsa estate. "La produzione è più che raddoppiata", spiega Luca Passarin, responsabile della ristorazione in carcere, che oltre alla pasticceria comprende anche la cucina, "d’altra parte i pellegrini ormai hanno adottato la Noce del Santo come il dolce di sant’Antonio per eccellenza, sia per la qualità del prodotto, sia per il contesto sociale in cui nasce, sia perché ad ogni unità venduta viene destinato un euro alle opere di misericordia della Caritas antoniana". La Noce verrà inoltre proposta in una confezione celebrativa che ricorda la straordinarietà dell’evento (l’ultima volta fu 29 anni fa, la penultima oltre seicento anni prima e una futura ostensione non è ad oggi prevedibile). Per una coincidenza non prevista, proprio nella settimana dell’Ostensione è programmata la fase degli assaggi definitivi del secondo prodotto della linea "I dolci di Antonio", che si affianca alla classica "I dolci di Giotto". "Ci siamo orientati verso la pasticceria secca", spiega il presidente del consorzio Nicola Boscoletto, "e contiamo di far debuttare la nostra nuova proposta in occasione della tredicina del Santo, a inizio giugno, come già fu per la Noce". La sperimentazione del nuovo prodotto è particolarmente accurata, anche perché il richiamo ad Antonio non vuole rimanere un pretesto. Per la Noce del Santo, ad esempio, i pasticceri del consorzio hanno studiato a fondo il contesto storico e alimentare del dodicesimo secolo, mantenendo, spiega Passarin, "l’equilibrio tra prodotti tipici dell’antica modalità di alimentazione che si affidava alla raccolta di ciò che la natura direttamente offriva e quelli provenienti dalla nuova cultura della coltivazione agricola che cominciò ad affermarsi proprio con l’epoca medievale di Sant’Antonio". Ecco quindi le noci, anzitutto. E poi altri frutti di raccolta come le mandorle e le nocciole, miele, lievito naturale, farina integrale di frumento, zucchero di canna. Un mix evidentemente apprezzato, se è vero che nel chiostro della basilica del Santo e del Santuario antoniano di Camposampiero la Noce del Santo è andata a ruba. Anche le prenotazioni sul sito internet www.idolcidigiotto.it stanno andando molto bene. "E d’altra parte con un partner così", azzarda la battuta Boscoletto, "fare miracoli non è strano". Battuta solo fino a un certo punto, però. L’alleanza tra frate Antonio e il carcere di Padova è ormai consolidata. Nel giugno 2008 le sue reliquie sono state portate nella casa di reclusione di via Due Palazzi. Un vero evento. Lunghe file di agenti, volontari, personale a chiedere una grazia, pregare, affidare i propri cari e le proprie speranze di vita nuova. E i detenuti? Sono stati visitati dal Santo cella per cella, in un pellegrinaggio segnato dal protendersi delle mani fuori dalle sbarre per toccare la reliquia. Un fatto che ha segnato in profondo lo stesso rettore della Basilica del Santo, padre Enzo Pojana: "Quella giornata, attraverso la preghiera e la devozione sincera di tanti tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria e operatori ha portato molti frutti, tra cui il cambiamento del cuore di alcuni". Non è un caso quindi che durante la settimana ci sarà anche un momento in basilica del Santo dedicato al mondo del carcere. "Potremmo dire che il Due Palazzi restituisce a sant’Antonio la visita", commenta Boscoletto. Di certo la rappresentanza sarà qualificata, con il direttore, magistrati, personale, educatori, agenti di polizia penitenziaria, operatori interni ed esterni e una ventina di detenuti. D’altra parte parliamo del personaggio che nel 1231 compì un gesto pubblico eclatante: chiese e ottenne dal Comune di Padova di modificare la legge per liberare dal carcere le vittime dell’usura. E che quindi di quel luogo, maledetto o dimenticato dagli uomini, non cessa di avere una cura e una predilezione del tutto particolari. Bologna: niente fondi chiude laboratorio letterario del carcere
Dire, 13 febbraio 2010
La letteratura all’interno delle carceri come strumento di riflessione aiuta i detenuti a sentirsi meno abbandonati a loro stessi, ma dal 2008 mancano i soldi per portare avanti il progetto. Così è finito da più di un anno e mezzo "Anonima scrittura", una sorta di laboratorio letterario promosso dalla Onlus Artemisia all’interno della Casa circondariale Dozza di Bologna. Da quell’esperienza è nato un libro che racchiude e conserva gli scritti delle quindici carcerate che per sei mesi si sono ritrovate una volta alla settimana a parlare di libri e letteratura assieme alle volontarie dell’associazione. La Onlus ha ottenuto il finanziamento per questo progetto vincendo, nel 2007, il concorso di Coop adriatica "C’entro anch’io: nessuno escluso" ma dopo la realizzazione, e nonostante "la piena disponibilità da parte del carcere" a replicare l’iniziativa, non si sono più visti finanziamenti e "questo Governo taglia sempre più fondi soprattutto sulla giustizia", come denuncia Francesca Chiaravallotti di Artemisia. Chiaravallotti ne parla in occasione di un incontro alla biblioteca delle Donne di Bologna per la presentazione del libro, che "testimonia la grande partecipazione delle detenute al progetto. Con questa iniziativa - continua - ci è stata data la possibilità di trasformare la perdita e di trasformarla in qualcos’altro attraverso la letteratura o la poesia". Il volume contiene una selezione di scritti delle detenute: lettere rivolte a loro stesse, ma anche riflessioni sulla propria madre o parole rivolte ai figli che il carcere non permette di riabbracciare. Gisberto Cornia, rappresentante del Garante dei diritti delle persone private di libertà del Comune di Bologna, ricorda anche il sovraffollamento alla Dozza: "Dovrebbero esserci 480 detenuti ma normalmente sono 1.200", dice, e in totale ci sono "3.500 persone che entrano ed escono dal carcere ogni anno". Cagliari: Sdr; subito il ricovero, per detenuto in pericolo di vita
Agi, 13 febbraio 2010
"Tre interventi per tumore al retto, stomizzato, ha subito anche l’asportazione dell’apice del polmone destro, è invalido al 100%, ma, quel che è più grave, ha un aneurisma sottorenale in soglia di allerta. Insomma è un soggetto ad alto rischio di vita che non può restare in carcere. È urgente un provvedimento che ne disponga il ricovero in una struttura idonea alla cura". Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" lancia l’allarme sulle condizioni di salute di Efisio Gerina, 57 anni, di Cagliari, detenuto nel centro clinico di Buoncammino, con diverse gravi patologie, tra cui una, l’aneurisma, ad alta incidenza familiare. "È vero che Gerina - sottolinea l’esponente socialista dopo aver ricevuto l’ennesima lettera del detenuto - aveva ottenuto nel 2008 i domiciliari e ha fatto rientro in carcere per reiterazione del reato, ma è altrettanto vero che il suo stato di salute si è aggravato e la permanenza all’interno di una struttura detentiva, nonostante lo sforzo dei medici che lo sottopongono a costante monitoraggio, non è comunque paragonabile a una residenza sanitaria assistita. Non si può del resto ignorare la condizione di sovraffollamento dell’Istituto di Buoncammino, compreso il Centro Diagnostico Terapeutico, e la scarsa disponibilità di agenti di polizia penitenziaria. È infine assurdo ritenere di poter lasciare in un carcere una persona che da un momento all’altro potrebbe avere una pericolosa crisi. L’auspicio è dunque quello che venga fatto prevalere il principio della salute su quello della pena in un momento come quello attuale dove anche le condizioni climatiche non possono garantire condizioni accettabili in una struttura vecchia e inadeguata". Agrigento: detenuto albanese manda 3 agenti pronto soccorso
Agi, 13 febbraio 2010
Tre agenti della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di contrada Petrusa ad Agrigento sono stati aggrediti ieri mattina da un detenuto di nazionalità albanese mentre stavano svolgendo il loro lavoro all’interno della struttura. L’aggressione si è consumata nell’arco di pochi minuti. Nel corso di un controllo nella cella del detenuto - che ha un’indole violenta e che deve scontare 2 anni e mezzo per reati di droga e armi - l’uomo si sarebbe scagliato contro i tre poliziotti con pugni e calci. Il detenuto è stato bloccato a fatica dagli altri colleghi. I tre agenti sono stati accompagnati al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni di Dio dove sono stati giudicati guaribili in 5 giorni: sono stati comunque sottoposti anche alla Tac. Infatti, uno dei tre agenti è stato colpito con pugni sul viso, mentre un altro ha battuto la testa contro un muro. Domani l’energumeno sarà denunciato in Procura per lesioni a pubblico ufficiale. Si tratta infatti di un detenuto che non è nuovo a episodi violenti del genere: anche in altre carceri dove era stato rinchiuso si era reso protagonista di atti di violenza. A denunciare il fatto è stato il segretario provinciale della Uil Pa, Lillo Speziale, che in una nota ha chiesto di "rimodulare al meglio le forze disponibili". Trieste: presentato libro "In carcere del suicidio ed altre fughe"
Il Piccolo, 13 febbraio 2010
"Un libro serio e ben fatto, che si fa notare per la completezza delle analisi, espressa nella ricca articolazione dei vari capitoli", esordisce il magistrato ed ex direttore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Alessandro Margara nella prefazione del volume "In carcere: del suicidio ed altre fughe", uscito nel 2009 nella collana Ristretti Orizzonti, a firma di Laura Baccaro e Francesco Morelli. Ieri il libro è stato presentato, presente l’autrice, al meeting "Trieste 2010: che cos’è salute mentale?", relatori Enrico Sbriglia, direttore della Casa circondariale di Trieste e Alessandra Oretti, psichiatra dirigente del Dsm. Il 2009 è stato l’anno più nero in assoluto per le carceri italiane, dove 71 persone detenute si sono tolte la vita, altre 104 vi sono morte per cause diverse. Dall’inizio del 2010 sono stati già 8 i suicidi in carcere, e il 19 gennaio il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza. "La nostra ambizione - ha spiegato Baccaro, psicologa criminale a Padova - è che il libro venga studiato e utilizzato dagli agenti della polizia penitenziaria, e da tutti coloro che sono a stretto e quotidiano contatto con i detenuti". Vivo apprezzamento per il libro è stato espresso da Sbriglia, che per la prima volta, al meeting, ha letto pubblicamente alcune pagine del suo intenso "diario di bordo" tenuto nei 28 anni del suo mandato. "Occorre il cuore, accanto alle conoscenze tecniche o scientifiche - ha sottolineato - e quella dell’operatore penitenziario è più un’arte che una professione. L’arte di salvare". Il volume è stato una fonte irrinunciabile per un altro strumento destinato agli agenti penitenziari: la versione italiana del manuale Oms "Prevenire i suicidi in carcere", che uscirà prossimamente a cura del programma triestino Telefono Speciale e con il patrocinio del Ministero della Giustizia. A partire dal quale Telefono Speciale, condotto dal Dsm/Ass n. 1 in collaborazione con la Provincia e Televita spa, ha presentato al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria una proposta per un Programma sperimentale nazionale di prevenzione del suicidio in carcere. Tra le azioni contemplate una campagna di comunicazione sociale prodotta nell’ambito di laboratori con persone detenute. Il primo, curato dalla giornalista Kenka Lekovich, sarà avviato all’interno della Casa circondariale triestina, in controtendenza rispetto alla realtà italiana (non più di 3 suicidi negli ultimi 20 anni) grazie anche all’assiduo lavoro al fianco dei servizi sanitari territoriali, già dal 1979.
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