|
Dossier: il carcere raccontato dai volontari
Redattore Sociale, 24 ottobre 2009
Indice Sconforto, solidarietà, denuncia. Il carcere visto dai volontari
In Italia oltre 9 mila persone operano gratuitamente negli istituti di pena. Ascoltano, danno sostegno morale, materiale e psicologico, lavorano con le famiglie. E denunciano i problemi. Le loro voci in un’inchiesta con 20 lanci dal territorio. Il carcere visto con gli occhi dei volontari. Di chi quotidianamente vi opera e tocca con mano quei problemi oggetto spesso di proclami e proposte astratte. Nelle ultime settimane numerose sono state le denunce e tantissimi gli allarmi lanciati dagli addetti ai lavori, in primis dagli agenti di polizia penitenziaria. E i dati parlano di un record negativo, raggiunto solo pochi giorni fa, in merito alle presenze e ai conseguenti disagi della popolazione carceraria. Stavolta Redattore Sociale ha voluto sentire proprio la voce degli operatori. Tra loro si respira un’aria di impotenza, a volte di rassegnazione. C’è il sovraffollamento, certo, ma non è solo questo a creare disagi e vere e proprie tragedie. Attraverso le loro voci abbiamo raggiunto i maggiori penitenziari, come Rebibbia, Poggioreale, Ucciardone, Sollicciano, Dozza; ma anche quelli meno noti, dove però i problemi sono ugualmente pesanti: Como, Brescia, Busto Arsizio, Forlì, Piacenza, Cagliari… Abbiamo sentito la voce di alcuni sacerdoti operanti nelle carceri, a partire da don Virgilio Balducchi, coordinatore dei cappellani della Lombardia, e don Sandro Spriano, cappellano a Rebibbia. Tante le storie raccolte: dai detenuti che rinunciano all’ora d’aria pur di godersi la cella in assoluta libertà, a quelli che inscenano atti di autolesionismo pur di attirare l’attenzione; dagli sportelli d’ascolto aperti dai volontari, alle tante iniziative di solidarietà tra detenuti e dei volontari per gli stessi reclusi. Un mondo, insomma, dove sempre più spesso la volontà sei singoli sopperisce alle carenze di sistema. Ma chi sono i volontari? Si tratta di un piccolo "esercito di persone", analizzato pochi mesi fa in una ricerca curata da Renato Frisanco, della Fondazione Feo-Fivol (Fondazione Europa occupazione e volontariato) e da Marco Giovannini per conto della Conferenza nazionale volontariato giustizia. In generale: sono oltre 9 mila i volontari e gli operatori nelle strutture carcerarie italiane. Sono sempre più numerosi (+10%) e hanno un’età media abbastanza alta (al nord è nella fascia d’età dai 46 ai 65 anni, mentre al sud l’età è più bassa). In aumento le donne. Secondo la ricerca, le attività svolte dai volontari e dagli altri operatori esterni sono molteplici e complementari in considerazione del diverso titolo con cui operano nelle strutture detentive. Quella maggiormente praticata è l’attività che si basa su di un rapporto personalizzato in funzione dell’ascolto attivo, del sostegno morale e psicologico a beneficio di soggetti deprivati di una normale vita relazionale. Quasi altrettanto diffuso e di pertinenza dei volontari è il sostegno materiale vero e proprio, soprattutto con l’assegnazione di indumenti ai soggetti privi di qualunque possibilità di rifornirsene o impossibilitati ad ottenerli attraverso l’assistenza pubblica. Al terzo posto ci sono le attività religiose, sia quelle a spiritualità cristiana che di altre confessioni per l’elevata presenza nelle carceri italiane di immigrati che chiedono di poter professare la propria fede religiosa. Anche il lavoro sulle famiglie nel duplice compito di sostenerle e di mantenere vivi i legami con il membro detenuto, se non proprio di recuperarne le relazioni compromesse, vanno nella direzione di promuovere il rientro nella cellula primaria della vita di una persona. Assistenti o volontari "puri". Attualmente ci sono due possibilità per operare in carcere come volontari, facendo riferimento principalmente a due articoli dell’Ordinamento penitenziario, l’articolo 17 e l’articolo 78. Secondo la ricerca citata, la quota più cospicua degli operatori (l’85,5%) è ammessa nelle strutture detentive attraverso l’applicazione dell’art. 17 che prevede la "partecipazione della comunità esterna" al trattamento rieducativo. Si tratta di 7.869 persone, presenti in media con 32 unità per istituto (10 in meno rispetto al precedente monitoraggio che però era annuale e su un numero più ridotto di unità esaminate) e per lo più appartenenti al mondo della cooperazione sociale e dell’associazionismo di promozione sociale. Di questa quota il 64,4% è costituito da volontari che nel mese di maggio erano presenti nelle strutture per realizzare attività o progetti della durata superiore alle due settimane. I volontari autorizzati in base all’art. 78 sono 1.334, con una presenza media di 9 unità per struttura (erano 7 nel 2005); sono i cosiddetti "assistenti volontari", singole persone o appartenenti ai gruppi dediti esclusivamente al volontariato in carcere e più propensi ad un intervento individualizzato e più orientato al sostegno morale e materiale dei detenuti. La loro presenza si registra nel 81,8% degli istituti. (Daniele Iacopini)
Aumentano i problemi dei detenuti: nei volontari un senso di impotenza
Luca Massari, responsabile dell’area carcere della Caritas Ambrosiana: "Il volontario entra in carcere per dare sollievo e sostegno a chi è dentro, ma si trova spesso impossibilitato a farlo". E gli stranieri ne risentono maggiormente. I volontari in carcere vivono i problemi dei detenuti dall’altro lato delle sbarre e, quasi sempre, con un senso di impotenza. "Il volontario entra in carcere per dare sollievo e sostegno a chi è dentro -spiega Luca Massari, responsabile dell’area carcere della Caritas Ambrosiana-, ma si trova spesso impossibilitato a farlo perché il detenuto si trova in condizioni di particolare sofferenza. Il suo compito, in teoria, sarebbe quello di accompagnarlo in un percorso di recupero e di reinserimento, ma se i detenuti sono troppi, i volontari non riescono a seguire tutti. E certamente non si può dire che ci sia un clima politico che facilita il reinserimento e la rieducazione. Il volontario quindi incontra spesso persone che gli chiedono aiuto, ma può offrire loro sempre meno prospettive". A risentirne maggiormente sono però i detenuti stranieri. "Lo scorso maggio ho incontrato i 21 cappellani della Lombardia e abbiamo fatto il punto della nostra attività - spiega don Virgilio Balducchi, cappellano nel carcere di Bergamo e coordinatore dei sacerdoti lombardi che lavorano negli istituti di pena-. Dalla riunione è emerso che nelle carceri della Lombardia la presenza di stranieri varia dal 40% al 70% e in alcune carceri si arriva anche a 40 nazionalità diverse. La Tunisia e il Marocco sono le etnie più presenti, ma sono in aumento le persone appartenenti alla comunità europea e c’è una forte presenza anche di persone dall’America Latina, da stati africani e da paesi asiatici". Secondo le rilevazioni dei cappellani, la religione musulmana è quella più presente dopo la cattolica, con una percentuale che si aggira sul 60% di tutti i detenuti non cattolici, ma sono pochi quelli che possono contare sull’assistenza religiosa". Uno dei ruoli più importanti del volontario, però, è anche quello di fare da ponte tra il detenuto e la famiglia. "L’impossibilità di incontri frequenti acutizzano la sofferenza del carcerato - spiega don Virgilio Balducchi - Il non poter conoscere con costanza ciò che succede all’esterno provoca un profondo senso di vuoto e di paura. Pensiamo, ad esempio, ad un colloquio concordato in un determinato giorno e non avvenuto, ad una telefonata non riuscita, alle incomprensioni durante i brevi incontri. I volontari assumono un ruolo di ponte comunicativo che va dalla semplice richiesta di notizie all’opera di mediazione nei conflitti. Ci si inserisce da estranei nei legami affettivi più profondi, in una storia familiare quasi del tutto sconosciuta". Nelle relazioni familiari i problemi più grandi li hanno ancora una volta gli stranieri. "Sono loro che più facilmente perdono i contatti con i parenti e che, una volta usciti, non hanno un luogo dove andare -commenta il sacerdote-. Per loro bisognerebbe pensare a dei centri di aiuto e accoglienza non appena escono di prigione. Inoltre, sarebbe utile anche avere luoghi dove ospitare le famiglie stesse, quando arrivano da lontano per fare visita ai parenti in prigione. A Bergamo ci sono due appartamenti disponibili: uno è a casa mia, l’altro è gestito dalla Caritas". (Stefania Culurgioni)
Sovraffollamento? Don Spriano: "Non è questo il problema principale"
Parla il cappellano di Rebibbia: "Sono le istituzioni ad avere abbandonato a se stesso il sistema penitenziario", senza cercare "soluzioni alternative alla detenzione". A Rebibbia, dice, i carcerati "stanno comunque meglio che in altri istituti". Emergenza sovraffollamento? Non è questo il problema principale delle carceri italiane. Il problema è "chi muore perché si ritiene innocente". Scandisce bene le parole don Sandro Spriano, da 17 anni cappellano del carcere di Rebibbia, mentre riporta la vicenda del detenuto tunisino, lasciatosi letteralmente morire di fame nel carcere di Torre del Gallo a Pavia, per protestare contro una condanna che riteneva ingiusta. Per il presidente dell’associazione Volontari in carcere, organi di informazione poco attenti dettano parole d’ordine inesatte sullo stato di abbandono in cui versa il sistema penitenziario del nostro paese. I problemi, dice, sono ben altri: "Dieci detenuti in una cella da sei che hanno a disposizione un rotolo di carta igienica ogni tre quattro mesi. Un medico per 400 persone, nessun trattamento educativo, la mancanza cronica di fondi pubblici". L’elenco potrebbe continuare all’infinito ma, forse, non spiegherebbe più di ciò che mostra. Don Spriano lo ripete da anni, la responsabilità è della "nostra politica". L’abbandono è quello delle istituzioni "che non sono interessate a trovare una soluzione", che sia l’indulto ("anche se non è risolutivo"), o le pene alternative. "Non arriva nessuna proposta" - accusa. E mai arriverà, lascia intendere, finché non si "mette mano al nostro codice alla ricerca di un’alternativa". Nel nuovo complesso del carcere di Rebibbia (dove sono detenute sia persone in attesa di giudizio, sia condannati in via definitiva), dove il cappellano opera in prima persona da anni, la situazione è però migliore che in altri penitenziari italiani. "C’è una vivibilità migliore rispetto ad altre carceri, grazie all’impegno di direttori illuminati, e a una forte presenza nella capitale di organizzazioni no-profit e di volontariato". Un vantaggio che si traduce in benefici pratici per i 1.600 detenuti del Nuovo complesso, nonostante, da regolamento, non dovrebbero essere più di mille.
Rondoni (Arci Ora d’Aria): "Grande spaesamento. Da anni non si respirava un clima così"
Silvia Rondoni: "A fatica cerchiamo di proseguire il nostro lavoro. La rabbia dei detenuti non si riesce a contenere: risse, liti durante le ore d’aria; tossicodipendenti aggressivi che urlano per avere metadone o farmaci nelle crisi di astinenza". Ancora testimonianze e considerazioni sulla situazione delle carceri umbre. Nel carcere di Capanne, a Perugia, la situazione è, se possibile, ancora più drammatica che nel resto della regione: circa 500 detenuti, di cui la maggior parte tossicodipendenti e un numero imprecisato di sieropositivi. "A fatica cerchiamo di proseguire il nostro lavoro - afferma Silvia Rondoni, referente dei volontari Arci Ora d’Aria nel carcere perugino - lo sportello di accoglienza e orientamento sarà attivo due volte a settimana e faremo ripartire i laboratori ludici e culturali. Ma ovviamente non possiamo nascondere le difficoltà, poiché a fronte di un aumento smisurato del numero dei detenuti le risorse del volontariato sono sempre le stesse, così come quelle della struttura penitenziaria. Iniziare nuovi percorsi di sostegno con immigrati e tossicodipendenti, per esempio, sarà più difficile perché sono molti di più. Tutti noi operatori, dai secondini ai volontari fino ai responsabili della struttura, abbiamo la percezione di un stato di grande confusione e di decisioni prese dall’alto senza una conoscenza reale del contesto in cui si opera e della capacità che questo contesto territoriale ha di dare le giuste risposte, in termini di rieducazione e reinserimento". Ancora una volta, dunque, è il sovraffollamento l’emergenza principale e nel carcere di Capanne, in particolare, la rabbia dei detenuti non si riesce a contenere, "come non succedeva da anni" sottolinea la volontaria dell’Arci - risse, liti durante le ore d’aria, l’aggressività dei tossicodipendenti che urlano per avere il metadone o i farmaci necessari nelle crisi di astinenza". "Se gli agenti sono impegnati ora per ora ad affrontare questi problemi - conclude la Rondoni - non possono seguirci nelle nostre attività. E d’altronde non possono fare diversamente; chi come noi volontari sta dentro il carcere non può che avere comprensione e solidarietà per gli agenti di custodia, vittime insieme ai detenuti di questa situazione insostenibile". E proprio nove poliziotti nelle scorse settimane sono rimasti lievemente feriti a causa di un incendio scoppiato in una cella: un detenuto ha dato fuoco al proprio materasso per protesta, rischiando di provocare un inferno. "L’inferno è quello che vivono ogni giorno i reclusi - racconta Luigi Lucarelli, volontario della cooperativa Il Quadrifoglio", attiva nel carcere di Orvieto - anche se nella casa di reclusione di Orvieto non c’è l’emergenza sovraffollamento, risentiamo comunque dei problemi di chiusura del territorio e della scarsa collaborazione con le istituzioni. Su ottanta detenuti, oltre la metà è formata da cittadini immigrati che sono considerati di serie C. Per loro, ancora di più rispetto ai reclusi italiani, il problema più grave è l’assenza di prospettive fuori dal carcere. Che per forza di cose si trasforma in un contenitore inutile, dove non si fa esperienza di rieducazione vera e ancora meno si offre la possibilità di un reinserimento sociale e lavorativo. L’esasperazione e la rabbia di chi vive in carcere è anche il segno di una assenza di speranza e di futuro. Le istituzioni centrali dovrebbero cogliere questi segnali e trasformarli in progetti reali. Garantire la sicurezza ai cittadini non è solo garantire la galera a chi commette reati, ma soprattutto fare in modo che chi esce dal carcere abbia un’altra possibilità". (mtm)
Mattone (Sant’Egidio): "Perché non applicare finalmente la legge Gozzini?"
Il problema delle carceri è visto con occhi particolari dai volontari e dagli operatori che vi operano. E sono proprio quelli che con forza chiedono una maggiore umanizzazione e la possibilità per chi lo merita di usufruire di pene alternative. Il problema delle carceri è visto con occhi particolari dai volontari e dagli operatori che ogni giorno hanno modo di constatare da vicino la realtà dei penitenziari. E sono proprio quelli che con forza chiedono una maggiore umanizzazione e quindi possibilità per chi lo merita di usufruire di pene alternative. Così Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio: "È statisticamente dimostrato, che i detenuti che hanno potuto usufruire di pene alternative, in caso di buona condotta, sono meno recidivi. Perché non pensare all’applicazione della legge Gozzini. una buona normativa attualmente disattesa, che va proprio in questa direzione? Al contrario sento parlare sempre più spesso di carcere duro. È chiaro che così il carcere finisce veramente per essere una scuola di violenza". "La crisi che sta attraversando il sistema penitenziario ha radici profonde. Per questo la parola emergenza se da un lato è utile ad attirare l’attenzione dall’altro rischia di creare un frainteso. Oggi il sovraffollamento è così evidente che non si può più negare. In Campania registriamo la presenza di oltre 7 mila detenuti per una capienza di 5 mila posti. Vorrei ricordare, a quelli che sono stati critici con il provvedimento dell’indulto, che se nel 2006 tale provvedimento non fosse stato approvato oggi vivremmo una situazione ancora più critica", dice invece il presidente dell’associazione La Mansarda onlus. Costruire nuovi carceri in Campania è difficile, una possibile risposta al sovraffollamento degli istituti di pena campani viene dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tommaso Contestabile: "Unica alternativa - dice il provveditore - è spostare i detenuti in altri penitenziari, entro il 2011 saranno costruiti nuovi padiglioni negli istituti di S. Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Avellino e Carinola, per un totale di 1000 posti". Di fronte a questa situazione rimane la possibilità delle misure alternative, che ovviamente vanno valutate con cautela. "Certo, non esiste una ricetta e non è giusto generalizzare - aggiunge Mattone - esistono tante diversità, gente che ha commesso reati perché sotto usura, delinquenti incalliti, stranieri utilizzati per trasportare droga. Gente che vive per strada, stranieri che vengono utilizzati come corrieri per la droga. È chiaro che bisogna rivolgere l’attenzione alle persone più recuperabili, i più soli non hanno avvocati sono per la prima volta in carcere. Se ai detenuti più fragili vengono lasciati soli, ecco che il carcere diventa un serbatoio di povertà". Qualche segnale positivo. A Poggioreale è stato recentemente ristrutturato il padiglione Firenze. In cantiere c’è un’idea importante quella di una sala di accoglienza è per i familiari che attendono di fare i colloqui. Attualmente essi sono sottoposti a lunghe file fuori dal carcere anche quando piove e d’estate sotto il sole, per cui molti rinunciano anche ai colloqui. "Al momento attuale intravedo solo due possibilità - dice infine Ciambriello - da un lato bisogna lavorare per migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena, per i detenuti e per chi ogni giorno vi lavora. È necessario investire risorse per potenziare l’offerta di corsi scolastici e formativi. È indispensabile garantire livelli di assistenza sanitaria decenti e che le ASL si facciano carico completamente della sanità penitenziaria. Dall’altro è necessario sostenere il ricorso a misure alternative che ridurrebbero le presenze negli istituti. Sono previste dal nostro ordinamento ma spesso sia la lentezza dei tempi della giustizia sia un atteggiamento poco favorevole da parte della magistratura di sorveglianza ne riduce il ricorso. A ciò dobbiamo aggiungere che si fa ricorso con troppa facilità all’istituto della custodia cautelare, e questo peggiora la situazione. Io penso che persone che hanno problemi di tossicodipendenza debbano avere la possibilità di disintossicarsi in strutture protette. Così come credo che il decreto sicurezza penalizzi gli immigrati al di là di ogni logica di diritto". (Elena Scarici)
Garanti dei detenuti: "No al piano del governo, servono riforme"
"Grave preoccupazione" per la situazioni delle carceri italiane e per "l’assenza di riforme" utili a risolvere il problema del sovraffollamento, con un no secco al piano governativo per la costruzione di nuovi penitenziari. Sono le posizioni dei Garanti comunali e provinciali dei detenuti riportate ieri dalla coordinatrice nazionale, Desi Bruno, alla luce dell’assemblea che si è tenuta il 18 settembre a Bologna. Il Coordinamento dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale esprime dunque "grave preoccupazione per il tasso crescente di carcerizzazione e per l’assenza di un progetto di riforme legislative capaci di incidere sulle cause dell’attuale sovraffollamento, a cominciare dalla ormai dimenticata riforma del codice penale, sino alla modifica delle leggi sull’immigrazione, sulla recidiva e sulla droga". Riforme, come si legge in una nota, che dovrebbero "ridimensionare la centralità della risposta penale a qualunque trasgressione, anche non lesiva di interessi primari, e della pena detentiva come unica risposta sanzionatoria adeguata". I Garanti ribadiscono poi la loro "contrarietà al piano governativo che prevede la costruzione di nuove carceri, se non nei casi in cui ogni intervento di ristrutturazione risulti vano", perchè questa non è "la risposta adeguata al problema del sovraffollamento, anche in ragione di una crescente carenza di personale (educatori, psicologi, agenti di Polizia penitenziaria), che rischia di ulteriormente acuirsi in presenza di nuovi istituti sino a vanificare in modo definitivo il mandato costituzionale sia per quanto riguarda la finalità della pena sia per l’inammissibilità di trattamenti inumani e degradanti". I Garanti dei detenuti chiedono, invece, che venga data "piena attuazione al regolamento penitenziario del 2000, ampiamente disatteso, soprattutto per quanto riguarda le condizioni igienico-sanitarie dei luoghi di detenzione", e che "venga privilegiata la custodia attenuata" per la popolazione femminile e "gran parte di quella maschile, composta da tossicodipendenti, persone in stato di disagio sociale e di grave infermità fisica e mentale, stranieri senza radicamento sul territorio, e comunque autrice di reati che richiedono una risposta adeguata e risocializzante". Il Coordinamento sollecita quindi un incontro con il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, "al fine di confrontarsi sugli orientamenti di politica penitenziaria che il Governo sta sviluppando". Intanto, i Garanti, oltre a partecipare alla presentazione di "una proposta concreta capace di ridurre la popolazione carceraria a cominciare da quella tossicodipendente", diffonderanno "un facsimile di istanza, che verrà distribuito ai detenuti, da inoltrare ai Magistrati di Sorveglianza", per "sollecitare la vigilanza diretta sull’attuazione del trattamento rieducativo e assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti", in particolare sullo "spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto secondo le Convenzioni internazionali". Il Coordinamento dei Garanti territoriali ha inoltre ultimato l’elaborazione di un progetto di legge "per l’istituzione di un organismo nazionale di garanzia per la tutela dei diritti delle persone ristrette", che verrà presentato ai presidenti di Camera e Senato. Annunciata infine l’adesione del Coordinamento "alla giornata di dibattito, organizzata dall’Associazione Liberarsi a Firenze il 19 ottobre, sulla tortura nelle carceri italiane".
Daniela De Robert: in carcere anche una telefonata diventa un lusso
De Robert: "Ma la solidarietà non smette mai di stupirmi". Parla la giornalista, volontaria del Vic: "Sovraffollamento? A Rebibbia i problemi sono altri. Cruciale la convivenza tra detenuti con pene lunghe e altri in attesa di giudizio. Due modi differenti di vivere e affrontare il carcere". In tutto il Lazio, i posti regolamentari sono 4.449 - secondo una statistica elaborata dal Centro studi Ristretti Orizzonti. I detenuti sono però 5.458. Una cifra che il Ministero giudica nella norma, secondo una categoria declinata in "presenza tollerabile", che ne ingloba ben 6.486. Scelta linguistica che non tiene conto - fa notare la giornalista Daniela De Robert, volontaria V.i.c - delle eccezioni. "Nella casa di reclusione di Rebibbia, (istituto con attualmente 200 detenuti, tra condannati e semiliberi) ad esempio, una sezione è stata chiusa -racconta. Mettiamo anche questa nel conto?". I problemi nella casa di Reclusione sono altri rispetto al sovraffollamento che - spiega - "da noi si sente meno che in altri istituti". Mentre è cruciale "la convivenza nella stessa cella tra detenuti con pene lunghe da scontare e altri in attesa di giudizio". Due modi differenti di vivere e affrontare il carcere, che comportano per un ergastolano, ad esempio, di cambiare continuamente il compagno di cella. Anche la convivenza con gli stranieri, non è facile, e "con il reato di immigrazione clandestina la situazione diventerà ingestibile, soprattutto nel giudiziario". Non solo, come immaginabile, per un fisiologico aumento dei detenuti. La questione per De Robert riguarderà piuttosto il sentimento di chi "sarà incarcerato senza avere commesso un reato ma solo perché, ora, la clandestinità è classificata come tale. Cresceranno autolesionismo e suicidi, e i gesti estremi di chi si lascia morire di fame perché ritiene di non aver fatto nulla di male nel cercare una vita migliore". Il lavoro dell’associazione non si ferma però alle mura del carcere. V.i.c offre infatti anche una casa alloggio di 14 posti letto per ospitare detenuti in permesso, uomini e donne, insieme alle loro famiglie. Si tratta di un’accoglienza prevista solo per brevi periodi, che deve fare i conti con richieste d’aiuto da parte di chi, finito di scontare la pena o ottenuta la detenzione domiciliare, non ha un luogo in cui andare. Ultimo caso, un anziano signore di 87, "rimasto in carcere perché senza una casa". Negli ultimi tempi, Rebibbia ha dovuto fronteggiare un aumento del numero di detenuti, trasferiti qui dal carcere stracolmo di Poggio Reale (Napoli). "Per loro, questo significa allontanarsi dalla famiglia. Ossia, solitudine e povertà, racconta De Robert. Che rintraccia nell’aumento delle richieste di vestiario - "nonostante i 100 pacchi che consegniamo settimanalmente" - l’indicatore di una miseria in costante crescita. Quella dei trasferimenti è un’ulteriore piaga delle carceri italiane, che rappresenta uno tra i principali motivi che portano a recidere il legame con un congiunto privato della libertà. "Il 37% dei carcerati del nostro paese sono stranieri, il 38% tossicodipendenti con famiglie allo sfascio, il 20% proviene dalle borgate povere delle grandi città. Resta un 20% legato alla criminalità organizzata che ha dei soldi", riporta don Spriano, dando la misura di come anche una distanza facilmente colmabile come Roma-Napoli diventi inaffrontabile per chi non dispone di mezzi sufficienti. Senza soldi e con la famiglia lontana, è facile perdere il senso. Soprattutto se anche una telefonata diventa un lusso che pochi si possono permettere. "La solidarietà che esiste tra carcerati, non smette mai di stupirmi", afferma De Robert, raccontando di collette fatte per aiutare chi non ha nulla - "nemmeno i vestiti" -, o semplicemente per offrire delle sigarette. "Tutti si adoperano per dare una mano, ma è chiaro che non possono farlo all’infinito".
Bologna, i volontari in carcere: "A rischio anche la nostra salute"
Giuseppe Tibaldi (Avoc): "Le condizioni igieniche alla Dozza di Bologna preoccupano soprattutto in vista dell’influenza A". L’associazione ha appena ottenuto dal comune due appartamenti per ospitare i detenuti in permesso e le loro famiglie. Le condizioni igieniche della Dozza mettono a rischio anche la salute dei volontari. L’allarme arriva da Giuseppe Tibaldi, presidente di Avoc (Associazioni volontari del carcere). "La Dozza è stata progettata per una capienza di 480 persone, ma ha da tempo superato le mille presenze - spiega Tibaldi -: in questa situazione è difficile anche avere l’acqua calda, e le condizioni igieniche peggiorano. Siamo a rischio anche noi, soprattutto se l’influenza A comincerà a diffondersi". Avoc, nata nel 1993, conta oggi una sessantina di volontari e si occupa soprattutto di mantenere i legami fra i detenuti e le loro famiglie. L’associazione, ad esempio, distribuisce francobolli e assicura la possibilità di telefonare, ma soprattutto dà ospitalità alle famiglie e ai detenuti in permesso, soprattutto quando i parenti risiedono fuori Bologna. "Per molto tempo abbiamo utilizzato locali delle parrocchie - spiega Tibaldi -, ma finalmente quest’estate il comune ci ha assegnato due mini-appartamenti che saranno gestiti completamente da noi". I due appartamenti, che possono ospitare tre famiglie in totale, si trovano a Borgo Panigale e saranno destinati a un nuovo progetto di Avoc. "Da novembre - illustra Tibaldi - praticheremo l’ospitalità alle famiglie indigenti che vengono ad incontare i detenuti, offrendo anche la possibilità di trascorrere insieme i giorni di permesso". (ps)
"Bocche di lupo" e celle sigillate di notte: a Oristano protesta affidata a blog e volontari
I detenuti del carcere di piazza Manno a Oristano denunciano il sovraffollamento della casa circondariale. Sono il 118 in un complesso che potrebbe ospitare massimo una novantina di persone. Non sono servite petizioni, né le proteste pacifiche degli ultimi mesi. La situazione nel carcere di piazza Manno a Oristano è ormai sempre più oltre il livello di guardia. A denunciarlo sono gli stessi carcerati ed i volontari che lavorano a contatto con chi sta scontando la pena dietro le sbarre del penitenziario oristanese. Non ce l’hanno con la direzione della casa circondariale, né contro gli agenti di custodia, bensì contro le condizioni di vita all’interno di un complesso ormai insufficiente. Rinchiusi in tanti in spazi troppo angusti: 118 detenuti in una struttura che dovrebbe ospitarne al massimo novanta. "La situazione di vita è da Terzo mondo - scrivono gli stessi detenuti, affidando la loro pacata protesta a blog e ai volontari - siamo stipati come sardine, in una stanza da quattro si trovano anche sette persone. Ognuno di noi ha a disposizione appena una metro quadro e i letti a castello sfiorano il soffitto. Le condizioni del bagno è meglio non descriverle". Una protesta civile, per molti versi condivisa anche da varie associazioni che vivono la situazione carceraria oristanese. "Nelle celle non ci sono le finestre, ma bocche di lupo che sono considerate fuorilegge già da diversi anni - denunciano i carcerati - Di giorno e di notte le celle sono sigillate con il portone blindato e all’interno si raggiungono anche i quaranta gradi. Non c’è ricambio d’aria e si rischia di svenire. Anzi, di morire asfissiati". Ci sono poi i problemi della mensa. "La frutta e la verdura che ci viene rifilata è di pessima qualità - proseguono i detenuti che hanno deciso di firmare una petizione - e la sala colloqui non è a norma di legge: dai banchi spuntano chiodi che strappano i vestiti e provocano ferite. Gli scopini, che sono i detenuti incaricati di fare le pulizie, vengono pagati per una sola ora e hanno solo il tempo di pulire gli uffici". L’ultima denuncia riguarda una protesta: il 26 agosto, i carcerati di Oristano avrebbero manifestato il loro malcontento sbattendo contro le sbarre. "I due detenuti che erano considerati i promotori di questa protesta sono stati trasferiti d’urgenza e senza avere il tempo di prendere gli indumenti".
Spoleto, i volontari organizzano campagne di raccolta tra i cittadini
Spoleto, i volontari organizzano campagne di raccolta tra i cittadini. E a Terni i detenuti rifiutano i pasti. Tagli dei servizi, ridimensionamento delle attività, assenza di progettualità: le associazioni che operano nelle carceri pagano il prezzo dell’esasperazione di detenuti e agenti. "L’emergenza sta diventando pericolosa normalità". "Siamo di fronte ad una situazione critica, dove l’emergenza sta diventando pericolosa normalità e il nostro lavoro ne risente. In questi mesi navighiamo tutti, detenuti, agenti e volontari, sulla stessa barca che rischia di affondare". Non nasconde la preoccupazione Patrizia Costantini, coordinatrice del gruppo di volontari della Cooperativa "Il Cerchio" di Spoleto, che in questi ultimi mesi è in "trincea" nella battaglia contro l’improvviso sovraffollamento dell’istituto di pena e le condizioni invivibili di detenuti e agenti di sicurezza. "Alcune delle nostre attività, come i laboratori culturali e formativi, sono state sospese, visto l’arrivo in massa di circa trecento nuovi detenuti e la necessità di riorganizzare percorsi e risorse; anche le attività dello sportello di counselling hanno subito giocoforza un drastico ridimensionamento. In queste settimane lavoriamo sull’emergenza: il problema più grave è la mancanza di materiale di base, come indumenti, prodotti per la pulizia personale, beni di prima necessità. Stiamo organizzando campagne di raccolta tra i cittadini per coprire i bisogni reali ai quali anche la direzione del carcere non riesce a far fronte". Problemi, questi, che sono dirette conseguenze del trasferimento di detenuti che devono scontare pene di breve durata e che in un carcere di massima sicurezza, come è quello di Spoleto che ospita detenuti di lunga data, ha creato non poco scompiglio. "I detenuti che si trovano a Spoleto da molti anni hanno acquisito una sorta di responsabilità individuale che permette loro di non entrare in conflitto con i compagni e con gli agenti - prosegue la Costantini - al contrario i reclusi con pene brevi non hanno nulla da perdere e creano il caos. Ultimamente risse e liti sono all’ordine del giorno e fanno passare in secondo piano le attività di accoglienza e di accompagnamento". L’esasperazione dei detenuti sta diventando il primo problema da gestire e le stesse associazioni che da anni lavorano nelle carceri umbre si trovano loro malgrado in prima linea, solidali con i reclusi ma anche con gli agenti di custodia, sempre meno rispetto alle necessità. In questo momento, il rapporto tra poliziotti e detenuti negli istituti di pena umbri è di 1 a 50. Numeri che la dicono lunga sull’emergenza. "Se gli agenti devono pensare a sedare continuamente le risse che scoppiano in cella o nel cortile non possono essere presenti durante le nostre attività, così come è previsto dal regolamento - dice Federica Porfidi, volontaria di Arci Ora d’Aria nel carcere di Vocabolo Sabbione a Terni - è anche a causa di queste difficoltà logistiche che abbiamo rinunciato ad aprire lo sportello di consulenza due volte alla settimana; ci limitiamo ad un solo giorno, ma ovviamente non riusciamo a soddisfare le richieste e non possiamo dedicare il tempo necessario ai colloqui, soprattutto con i nuovi reclusi". "Il sovraffollamento sta portando a valanga una serie di conseguenze gravi sul nostro lavoro; per fortuna c’è una buona collaborazione con la direzione e con gli agenti di custodia, una sorta di alleanza strategica che ci consente di affrontare insieme i problemi quotidiani". Problemi che nel carcere di Terni si stanno aggravando: da giorni la maggior parte dei detenuti rifiuta i pasti, di notte si sente il frastuono di oggetti metallici contro le sbarre; non è mancato qualche atto di autolesionismo, come quello di un detenuto che nei giorni scorsi si è ferito con una lametta o i tentativi di aggressione agli agenti di custodia. "La situazione è critica ma la sinergia con la direzione e con le altre associazioni ci permette di resistere". A dirlo è Aldo Placidi, presidente dell’Associazione San Martino che, nell’ambito della Caritas di Terni, è presente con sei volontari nella casa di reclusione di Vocabolo Sabbione. "Mai come in questo momento la collaborazione con tutti gli operatori è fondamentale - dice ancora Placidi - anche le nostre attività in questi mesi si stanno adeguando alle nuove emergenze; lo sportello di consulenza integra il lavoro fatto dall’Arci e con loro ci occupiamo anche del reperimento di beni di prima necessità per i nuovi reclusi, che portano con sé solo quello che hanno addosso e hanno bisogno di tutto. L’unico servizio che in questo periodo non riusciamo ad assicurare è l’ospitalità nella casa di accoglienza esterna; le richieste sono troppe e abbiamo delle difficoltà logistiche ed organizzative, ma contiamo di ripartire il prima possibile".
Verona: c’è chi rinuncia all’ora d’aria per godersi la cella in libertà
In un carcere veronese con un turnover altissimo, il pericolo più grande è quello di far incontrare la vera criminalità con la povertà, mettendo nelle stesse celle delinquenti e persone disperate. Nel carcere veronese di Montorio, dopo gli scioperi registrati lo scorso inverno per denunciare il sovraffollamento, sembra essere tornata la quiete. Ma la situazione di calma potrebbe essere solo apparente: "L’estate è trascorsa tutto sommato tranquilla. Ma sembra l’atmosfera descritta da Buzzati ne Il deserto dei Tartari - spiega il presidente dell’associazione La Fraternità, Roberto Sandrini -. Tutti sono in attesa che accada qualcosa, che Alfano faccia qualcosa. È un momento carico di aspettative". Intanto a Verona non è cambiata la situazione dei detenuti che si trovano a dividere in quattro celle da 12 metri quadri dei quali, escluso lo spazio per brandine e tavolo, ne restano molti di meno calpestabili. "Per muoversi all’interno della cella praticamente bisogna fare dei turni - sottolinea Sandrini - e qualche detenuto ha iniziato perfino a rinunciare all’ora d’aria per godersi in pace quei pochi metri a disposizione mentre i compagni sono fuori". Nonostante il sovraffollamento - con 800 reclusi maschi e 50 donne - all’orizzonte non sembrano esserci nuovi scioperi e manifestazioni: "I detenuti soffrono ma, siccome con la legge Gozzini qualsiasi rapporto negativo a carico dei detenuti può influire sulla lunghezza della pena, sono restii a manifestare" spiega il presidente. In una casa circondariale con un turnover altissimo, il pericolo più grande è quello di far incontrare la vera criminalità con la povertà, mettendo nelle stesse celle delinquenti e persone disperate. "In questi casi si rischia di aggravare la situazione, perché qui la criminalità può pescare nelle fila dei poveri e reclutare nuovi criminali. Insomma, si crea l’effetto inverso rispetto a quello del recupero". Nelle celle veronesi sono in molti a dover trascorrere solo pochi giorni, in attesa di essere ricevuti dal giudice, ed è per questo che la convivenza e il primo approccio con la realtà carceraria può essere molto difficile. Da molto tempo, comunque, non si registrano atti di autolesionismo da parte dei detenuti, anche grazie all’intervento delle associazioni che da un anno e mezzo si impegnano a incontrare i nuovi arrivati per rispondere alle loro domande e placare le loro paure. "Il nostro servizio per i nuovi giunti si svolge sette giorni su sette - spiega il presidente - e mira a offrire un punto di riferimento per quelle persone che si trovano spaesate e che magari devono trascorrere in cella solo un fine settimana". Sono situazioni, queste, molto comuni, che rappresentano oltre il 60% dei nuovi arrivi: "Questo elevato turnover crea molti problemi sia alla persona che si trova carcerata sia all’amministrazione penitenziaria, che deve comunque svolgere tutte le pratiche burocratiche per ogni nuovo arrivo". E in condizioni di sovraffollamento questo significa un sovraccarico di lavoro che influisce anche sull’attività dei volontari, costretti a fare i conti con tempi di attesa per i colloqui che si allungano inevitabilmente. "La nostra associazione conta 10-12 volontari che entrano in carcere regolarmente - conclude Sandrini -. Ognuno di loro ha una particolare specializzazione: c’è chi incontra gli stranieri, c’è chi si occupa delle questioni legate al lavoro eccetera".
Don Balducchi: "Si respira una sensazione di sconforto e di rassegnazione"
Parla il coordinatore dei cappellani della Lombardia: "Ormai i detenuti sanno che delle loro vite e di quelle dei loro familiari non ci si interessa, se non per mandare alla società messaggi sulla sicurezza". "Il carcere non è la misura migliore per eseguire una pena. Per noi la strada principale sono le misure alternative. Chi non ne beneficia rischia di più di diventare recidivo". A dirlo è Luca Massari, responsabile della Conferenza regionale del volontariato e della giustizia della Lombardia. "Lo sosteniamo da tempo -spiega- e basta dare un’occhiata agli stessi dati diffusi dal ministero dell’Interno: il 70% di chi viene scarcerato senza mai avere beneficiato di misure alternative, facendosi quindi tutta la pena dietro le sbarre, torna a commettere reati. Fra coloro che vengono ammessi alle misure alternative i recidivi sono il 20%". In Lombardia i detenuti sono oltre 8500 in 18 istituti, circa 2 mila in più rispetto alla capienza regolare. Per don Virgilio Balducchi, coordinatore dei cappellani della Lombardia e attivo nel carcere di Bergamo da vent’anni, la sensazione generale che si respira all’interno del carcere è di sconforto e in parte di rassegnazione. "Ormai i detenuti sanno che delle loro vite e di quelle dei loro familiari non ci si interessa se non per mandare alla società messaggi sulla sicurezza. Il concetto che passa è più carcere per tutti – racconta -. Ormai da molto tempo c’è un clima sociale di estrema sfiducia verso le forme alternative al carcere e chi può si arrabatta a sperare che il proprio ufficio di sorveglianza sia ancora disponibile a difenderne l’applicazione". Ma le categorie più deboli, come gli immigrati, i tossicodipendenti, i malati mentali, questa speranza non la possono neanche avere. "Loro proprio non immaginano un futuro -spiega il cappellano- e l’unica cosa che sperano è un posto di lavoro all’interno della struttura. Oppure, nella peggiore delle ipotesi , confidano nella terapia medica come tranquillante per tutte le proprie sofferenze fisiche e mentali. Questa situazione genera un clima di conflittualità alta tra i detenuti stessi e l’istituzione in generale". Il sovraffollamento degli istituti penitenziari impedisce che la pena sia rieducativa. "Nonostante ciò - racconta don Virgilio Balducchi - mi meraviglio ogni giorno di come molte persone vivano il carcere come un momento per decidere diversamente della loro vita. Vi è un desiderio di cambiamento in meglio che avrebbe bisogno di maggior attenzione e di luoghi diversi dal carcere per esprimersi in totalità". Ovvero l’applicazione di alternative alle sbarre. (Stefania Culurgioni)
Sicilia: mancano i mediatori culturali, scarsa l’assistenza sanitaria"
La presidente dell’Associazione Asvope, Vanna Bonomonte: "Lavoriamo soprattutto con i detenuti per reati di stupro o pedofilia: sono quelli meno considerati. Non frequentano corsi scolastici, sono tanti ma non abbastanza per usufruire di corsi specifici". "Il primo problema è il sovraffollamento che fa degenerare i rapporti umani, facendo scoppiare contrasti ed esasperazione tra i reclusi". Ad affermarlo è Vanna Bonomonte, presidente dell’Asvope, associazione di volontari che da anni opera all’interno dei principali penitenziari siciliani. "Le situazioni peggiori le vivono gli immigrati - afferma -quando, per esasperazione si danno a forme di sciopero della fame o a manifestazioni autolesionistiche. Sono disperati perché non sanno cosa li aspetterà in futuro. Il carcere strutturato in questo modo non serve a niente perché è solo un sistema di restrizione della libertà e di soffocamento dei diritti. Gli immigrati sono una realtà dolorosa, un dramma nel dramma ed proprio con loro che a volte sentiamo tutto il nostro fallimento. Avvertiamo principalmente che hanno spesso problemi di incompatibilità etnica che determinano rivalità ed episodi di violenza. Purtroppo non ci sono mediatori culturali che potrebbero venire incontro ai bisogni di coloro che non conoscono la lingua italiana. Cerchiamo comunque di fare il possibile impartendo nozioni d’italiano". Tra i detenuti ci sono moltissime persone povere a cui l’amministrazione da solo il vitto. "La gran parte di loro si lamenta del sovraffollamento e della impossibilità di mantenere in condizione igieniche dignitose la cella per la mancanza di prodotti adeguati - prosegue -. Quasi tutti vorrebbero trovare un occupazione all’interno del carcere e proprio per questo sarebbe necessario, oltre ai corsi scolastici, realizzare molti più corsi di formazione artigianale e tecnica". Un discorso a parte merita la cosiddetta categoria dei "protetti" cioè quella dei detenuti per i reati di stupro e pedofilia: "Lavoriamo soprattutto con loro perché sono quelli che sono meno considerati; non frequentano i corsi scolastici insieme agli altri; sono tanti ma non abbastanza per usufruire di corsi specifici. Soffrono la solitudine e hanno meno possibilità di essere aiutati rispetto agli altri per la grave carenza anche di psicologi. Sono persone che andrebbero seguite con progetti individuali". "Sul piano sanitario poi c’è lo stretto indispensabile e si fatica a fare prevenzione - racconta ancora la Bonomonte -. Per i tossicodipendenti non sono sufficienti le cure riabilitative. Manca un’assistenza odontoiatrica adeguata considerato che, per gli interventi specifici ai denti, molti non hanno la possibilità economica. La stessa cosa si può dire per quanto riguarda i problemi alla vista dei detenuti che non hanno la possibilità di farsi degli occhiali". "Noi volontari, essendo numericamente pochi, possiamo lavorare solo con i piccoli gruppi. Il carcere ha il problema grosso della sorveglianza che si fa sentire soprattutto quando, in caso di iniziative culturali, dovrebbero distribuire più il personale. Capita così la necessità di accorpare più iniziative solo per motivi di sorveglianza. Inoltre il lavoro degli operatori è enorme perché, in teoria, dovrebbero seguire centinaia di detenuti". Nel 1996 nella casa circondariale Pagliarelli, grazie all’interessamento di tutti i volontari dell’Asvope, è stata costituita la biblioteca che contiene circa 10 mila libri pure in lingua francese, inglese e tedesca. "Da quando è stata inaugurata è stata subito oggetto di interesse da parte dei detenuti che l’hanno sempre considerata un luogo dove si respira ‘aria di libertà’. Da sempre abbiamo considerato la biblioteca uno strumento per entrare nel cuore delle persone. Tra le donne, attualmente presenti, abbiamo scoperto un livello d’ignoranza elevatissimo perché provengono da realtà poverissime e, per questo ci attiveremo presto per iniziare dei corsi di alfabetizzazione". La presidente della Asvope lancia infine un appello alla cittadinanza "perché mostri maggiore sensibilità nei riguardi dei reclusi che hanno bisogno di essere aiutati a ritrovare la propria dignità di persone. Auspico anche che la gente sia più accogliente e disponibile per il recupero e la ricomposizione di queste identità spezzate". (set)
Gioia (Asvope): se non corriamo ai ripari aumenteranno i suicidi
Ex insegnante di latino e greco, da 35 anni fa la volontaria nelle carceri Ucciardone e Pagliarelli di Palermo. "Oggi mettere facilmente dentro una persona è un investimento fallimentare che carica di costi solo lo Stato e non aiuta i detenuti". "Chiediamoci come può realmente avvenire il reinserimento sociale di un detenuto se lo Stato diminuisce i finanziamenti e non assume un numero di persone adeguate alla quantità di reclusi. Dobbiamo chiederci pure che cosa riesce a dare in queste condizioni il carcere ad ogni detenuto. Lo Stato ha il dovere di rieducare il detenuto, senza abbandonarlo". Le affermazioni sono di Giovanna Gioia, presidente onoraria dell’Asvope. Giovanna Gioia è presidente onoraria dell’Asvope, ex insegnante di latino e greco e da 35 anni volontaria delle carceri Ucciardone e Pagliarelli di Palermo. Dopo avere lasciato la presidenza dell’associazione , opera soltanto con i detenuti dell’Ucciardone. Da sottolineare che l’Asvope è l’unica associazione che opera nelle carceri Ucciardone e Pagliarelli e da sei anni anche all’istituto per i minori Malaspina di Palermo. I volontari in totale sono circa una ventina. Presto l’associazione svolgerà alcune sue attività in un immobile confiscato alla mafia del quartiere Zisa. "Se non corriamo ai rimedi aumenteranno i suicidi - afferma -, non solo dei detenuti ma anche della polizia penitenziaria che avrebbe diritto pure ad una formazione più adeguata. Oggi mettere facilmente dentro una persona è un investimento fallimentare che carica di costi solo lo Stato. Fare rieducazione significa soprattutto fare prevenzione: bisognerebbe puntare di più alle misure alternative, dando spazio maggiore all’affidamento in prova, alla semilibertà e all’occupazione esterna; dobbiamo evitare che il recluso non appena esca ricada nel giro della criminalità. Si devono studiare tutte le possibilità perché la permanenza in carcere non sia fatta di ozio e di disperazione che viene da gente che vive il dramma della povertà - prosegue Gioia -. Occorre inoltre dare e garantire soprattutto gli spazi vitali che attualmente vengono a mancare e fare acquisire scolarizzazione e conoscenze professionali che permettano di imparare un mestiere per il futuro". Il discorso si sposta anche sui bisogni principali dei detenuti. "Da sempre ci confrontiamo con tutte le grosse difficoltà che ci sono all’interno del carcere - continua Giovanna Gioia -. La mancanza di spazi fa facilmente scaturire esasperazione e violenza. Principalmente lavoriamo con gli immigrati che hanno maggiori necessità perché nella gran parte dei casi sono completamente soli. La situazione è molto precaria e i nostri stessi interventi sono a volte pure difficoltosi. Le maggiori difficoltà soprattutto sono legate alla mancanza di spazi dove noi volontari possiamo fornire le nostre prestazioni per agevolare l’uso della biblioteca e del guardaroba. Il sovraffollamento dei detenuti determina un sovraccarico di lavoro degli operatori che chiedono ancora di più il nostro aiuto. Se un detenuto richiede un incontro con noi, per capire di cosa ha effettivamente bisogno dobbiamo fare un colloquio con lui negli spazi consentiti quando le circostanze lo permettono. La maggiore lamentela è quella che riguarda la mancanza degli accessori per l’igiene personale e per la pulizia della cella. Purtroppo, diversamente da quanto avviene al Pagliarelli dove in buona parte questi accessori vengono forniti dai volontari, questo non è possibile all’Ucciardone. Acquistiamo la biancheria di cui hanno necessità i detenuti appoggiandoci alla generosità di amici e parenti. Come associazione ogni anno mettiamo una cifra in comune e, se il caso lo richiede ci autotassiamo". Le storie di cui vengono a conoscenza i volontari sono davvero tante. "Ho seguito personalmente il caso di un giovane albanese che, dall’età di 12 anni veniva utilizzato come corriere per il traffico di droga - racconta. Il ragazzo, che adesso ha 29 anni, ha dovuto scontare una condanna di 10 anni dovuta al tentativo di evasione dal carcere di San Vittore. Il giovane, lasciandosi alle spalle una storia di abbandono e di violenza, si è lasciato guidare e accompagnare da noi verso una vita diversa. Abbiamo scoperto un ragazzo di una intelligenza straordinaria che a poco a poco è riuscito a maturare con grande dignità, riflettendo sul suo passato e soprattutto è riuscito a farsi benvolere da tutti, perfino dalle guardie carcerarie - continua -. Dopo 4 anni passati a Palermo, adesso ad ottobre uscirà. Sappiamo che in Albania ha la madre e la zia ma cercheremo di farlo incontrare con alcuni padri missionari di Valona che si prenderanno cura di lui. Il giovane, che, per il momento vive con grande ansia quello che sarà il dopo carcere, ci dice che quando andrà via dal carcere manterrà vivo il ricordo di tutte quelle persone che non l’hanno schiacciato". (set)
Cagliari: carcere al collasso, familiari arrivano di notte per colloqui
Superata ormai la soglia dei 500 detenuti nel carcere cagliaritano di Buocammino, costruito per accoglierne 320. Dai volontari si solleva la protesta per i familiari: per riuscire ad entrare nei giorni dei colloqui arrivano di notte e restano fuori per ore. Un foglio sgualcito a quadretti per disegnare la piantina della sua cella: tre letti a castello sui lati opposti della cella, gli stipetti, il bagno alla turca ed un tavolino. E poi le misure: della finestra, delle sbarre, tutto indicato nei minimi particolari. A disegnarla è stata un detenuto di Buoncammino che, chiedendo l’anonimato, ha voluto mostrare come si vive dietro le sbarre del carcere cagliaritano di massima sicurezza. "Vorrei far capire come sto vivendo - si legge in una lettera - in sei dentro una cella di sedici metri. Per questo vi ho disegnato la pianta". Il problema maggiore è il sovraffollamento: troppi reclusi rispetto alla capienza massima consentita. "Ci sono molti detenuti - prosegue la lettera - che cercano di togliersi la vita perché è terribile vivere in queste condizioni. Qui non funziona nulla, perché questo carcere non è idoneo: non c’è acqua per poterci lavare e cuciniamo in bagno sopra un tavolino che non è igienico. Abbiamo i giorni alternati per poterci lavare e i nostri familiari restano ore e ore fuori per poter entrare a fare il colloquio. E con questo caldo, stando sotto il sole, la roba da mangiare diventa cattiva". "Nelle celle singole si sta in due ed in quelle da quattro si vive in sei - ammette il direttore Gianfranco Pala - ma vi posso assicurare che in altri penitenziari si vive molto peggio. Non mi risulta che manchi l’acqua e ormai, per fortuna, è già da qualche tempo che non ci sono tentativi di suicidio. Quando è possibile, cerchiamo di trasferire qualcuno nelle colonie penali di Mamone, Isili e Is Arenas, ma ci sono comunque nuovi arrivi pressoché giornalieri". I numeri testimoniano il dramma: a Buoncammino si è ormai superato quota 501 detenuti in un carcere progettato per ospitarne 320 detenuti, ma comunque non più di 410. I volontari che lavorano in carcere confermano i disagi per i detenuti, ma anche per i parenti. "Per essere certi di poter accedere al carcere - racconta un giovanissima volontaria - molti familiari aspettano fuori con qualunque condizione meteorologica, arrivando anche a notte fonda. Da qualche anno, per fortuna, c’è la possibilità di avere un riparo, sebbene col freddo sia comunque una condizione molto difficile. Ma la situazione è drammatica: servirebbe un gazebo o una struttura che permettesse alla gente che aspetta di ripararsi dalla pioggia".
Campania: emergenza continua, aumentano gli atti di autolesionismo
A Poggioreale e Secondigliano situazione al limite del collasso. Dario Stefano Dell’Aquila (Antigone): "Si contano 4 o5 episodi di autolesionismo al giorno in ogni istituto della Campania". Critiche le condizioni negli Ospedali psichiatrici giudiziari. Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie inadeguate, aumento del numero dei suicidi e degli episodi di autolesionismo, problemi psichici dei detenuti: quella delle carceri in Campania è un’emergenza continua. Passata l’estate, e con essa il caldo e l’afa che rendevano ancora più complicata la vita dei reclusi, non si ferma la denuncia delle associazioni campane impegnate in prima linea nei 17 istituti penitenziari della regione, tra cui Antigone Campania e La Mansarda. Secondo i dati dell’Osservatorio di Antigone (aggiornati al 20 luglio 2009), nelle carceri campane si trovano 7.494 detenuti, di cui il 12,69% è rappresentato da stranieri: oltre 2.000 in più rispetto alla capienza ufficiale di 5.362 posti. Nel 2005 erano presenti 7.310 detenuti (7.034 uomini e 276 donne), mentre, nel 2006, con l’indulto, i detenuti erano diventati 5.312 (5.155 uomini e 219 donne). Il caso più emblematico è quello di Poggioreale, che, con i suoi 2.541 detenuti su una capienza regolamentare di 1.385, risulta il più affollato d’Europa. Proprio considerando le condizioni di vita nel carcere e in linea con il Piano sociale regionale 2009-2011, la giunta della regione Campania ha deciso di destinare 120 mila euro alla realizzazione a Poggioreale di una struttura sportiva polivalente che sarà messa a disposizione dei detenuti. Non va meglio a Secondigliano, dove, i detenuti sono 1.161 contro i 1.079 previsti. Anche nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, i detenuti effettivi sono 949 su una capienza ufficiale di 547. Nemmeno Benevento fa eccezione: 423 sono le persone recluse, a fronte dei 247 posti previsti. Gli ingressi in carcere, sempre secondo i dati forniti dall’Osservatorio di Antigone, riguardano per oltre il 60% migranti e persone con problemi di tossicodipendenza. In Campania il 20% della popolazione detenuta complessiva è tossicodipendente, ma solo il 4% è in trattamento metadonico. L’aumento dei reclusi, inoltre, è inversamente proporzionale alle risorse, umane ed economiche, che vengono investite: ad oggi il rapporto tra figure sociali e detenuti è di 1 a 200. "Anche se non c’è un dato ufficiale - racconta il portavoce di Antigone Campania Dario Stefano Dell’Aquila - gli operatori sociali ci segnalano un aumento degli atti di autolesionismo: si contano 4/5 episodi al giorno in ogni istituto della Campania". Cresce anche il numero di suicidi. Basti pensare che a maggio di quest’anno - quando si tolse la vita Gennaro Iorio, il quarto suicida a Poggioreale e il sesto in Campania - era già stato raggiunto il numero dei suicidi verificatisi negli istituti di pena campani in tutto l’anno 2008. Non va meglio negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) della Campania. Secondo gli ultimi dati raccolti nel libro-inchiesta di Dario Dell’Aquila "Se non ti importa il colore degli occhi", dei 1.365 internati (su una capienza regolamentare di 1.003 posti) presenti nei sei Opg italiani, quasi 400 si trovano nei manicomi giudiziari campani. Più precisamente 262 si trovano nell’Opg di Aversa, in una struttura che può ospitarne fino a 259, mentre 116 sono nell’ospedale di Sant’Eframo, che ha una capienza di 103 posti. Come sempre, il problema fondamentale è quello delle risorse dedicate alla salute mentale, ma, secondo l’autore, un vero profondo cambiamento si dovrebbe realizzare attraverso un ripensamento delle "misure di sicurezza", ovvero il periodo d’internamento che può protrarsi all’infinito, indipendentemente dal tipo di reato commesso. (Maria Nocerino)
Pescara e Chieti: suor Livia; "Il rischio è la promiscuità"
Il parere di due organizzazioni che operano all’interno delle strutture: la Caritas e l’associazione "Voci di dentro". A preoccupare sono le condizioni di salute, la mancanza di medicinali e il numero di reclusi nelle celle. La situazione nelle carceri di Pescara e Chieti non è ancora al limite, ma certo è che la condizione in cui vivono i detenuti non è facile. A dirlo sono i volontari e volontarie che operano all’interno delle strutture e che fanno capo alla Caritas e dell’associazione Voci di dentro. Una di queste è suor Livia che quasi tutti i giorni, ormai da tre anni, si reca nel carcere di Pescara, dove fa servizio di ascolto, promuove la catechesi e organizza due volte a settimana un laboratorio artistico. In cella vivono dai tre ai cinque detenuti in una condizione di sovraffollamento dovuta alla chiusura di un padiglione del carcere che è in ristrutturazione. "Per ora - dice la religiosa - non si sentono lamentele, non ci sono proteste", ma quello che invece preoccupa maggiormente sono le condizioni di salute di alcuni di essi. "Ci sono persone che hanno seri problemi psichiatrici e di tossicodipendenza che sarebbe meglio venissero mandati in delle comunità terapeutiche. Nel carcere lavorano degli psicologi ma per queste situazioni occorrono terapie mirate". E il rischio, dice la suora, è che la promiscuità con persone che hanno questo tipo di problemi possa cerare delle tensioni in un momento dove le celle sono piene e occupate per la maggior parte della giornata. Dello stesso parere è don Marco Pagniello, cappellano del carcere e direttore diocesano della Caritas di Pescara. "In questo momento ci troviamo i una situazione difficile, con un’ala del carcere chiusa e un numero di detenuti per cella superiore ai due previsti. Inoltre soffriamo di problemi di organico e di scarsità di risorse che ci impediscono di lavorare. Il Ministro Alfano - aggiunge - ha tagliato del 40% i fondi, ha promesso la costruzione di nuove carceri, ma sappiamo che in Italia ci sono strutture pronte che non vengono aperte, o per qualche problema burocratico o per mancanza di personale. Un esempio - conclude don Marco - ce l’abbiamo anche in Abruzzo, il carcere di Avezzano una struttura pronta e ristrutturata ma che non viene ancora aperta". Chiuso da circa tre anni per manutenzione, l’edificio è completato, mancano solo gli arredi, i collaudi necessari e qualche altra autorizzazione. Può accogliere un massimo di 70/80 detenuti, una capienza non altissima ma che certo avrebbe potuto alleggerire la pressione nella altre carceri abruzzesi. Ad oggi però non è ancora creta la sua apertura. Di 130 posti è invece la Casa Circondariale di Chieti che al momento non ha raggiunto ancora la capienza massima. Al suo interno opera l’associazione "Voci di Dentro", nata un anno fa dall’esperienza pluriennale del giornalino scritto dai detenuti con la supervisione dei volontari. Tra queste Silvia Civitarese, da cinque anni operatrice in carcere. La sua impressione è che anche a Chieti la condizione dei detenuti sia dura: vivono in quattro nelle celle da due e in sei/sette in quelle da cinque. " La sensazione - dice - è che soffrono perché vivono in una condizione di forte promiscuità. Il problema maggiore però è quello sanitario. Con il passaggio al sistema sanitario regionale non ci sono più i fondi per la salute e non ci sono più farmaci. I detenuti mi dicono "per qualsiasi dolore ci curano con l’aspirina". Vedo invece - aggiunge - che si fa un uso massiccio di calmanti certe volte anche eccessivo tanto non permettere loro nemmeno di tenersi in piedi. Nel periodo estivo - conclude - mi hanno raccontato alcuni volontari che verso la metà di agosto tra i carcerati c’è stata una dissenteria diffusa e per tre giorni non hanno avuto di che curarsi".
Reggio Emilia: nuova vita all’Opg, nel segno dell’attesa
La vita in Opg recitata da 11 attori-detenuti in "Aspettando Godot". La regista Monica Franzoni (Teatro dei quartieri): "La situazione è migliorata da quando l’Ausl ha cominciato a gestire la struttura". Il sovraffollamento si fa sentire anche all’Ospedale psichiatrico di giudiziario di Reggio Emilia, dove i problemi comuni a tutte le carceri sono aggravati dalla malattia psichiatrica. "La situazione nelle altre carceri si ripercuote qui: se un detenuto tenta il suicidio finisce all’Opg - spiega Monica Franzoni dell’associazione Teatro dei quartieri, che si occupa di attività teatrale all’interno della struttura - A Reggio ormai siamo arrivati ai 300 ricoverati (dovrebbero essere 130), con celle che dovrebbero essere singole e invece ospitano tre persone". E proprio il sovraffollamento è al centro dello spettacolo diretto dalla Franzoni, "La stecca (Aspettando Godot)", che 11 ricoverati dell’Opg hanno portato in scena in anteprima il 20 settembre, nell’ambito della quarta "Settimana della salute mentale" (dal 19 al 26 settembre a Reggio Emilia). "Per queste persone il teatro non è un’attività ludica ma trattamentale - spiega la regista -. Parleremo come sempre della vita in Opg, e in particolare del tema dell’attesa". Lo spettacolo inizia alle 17.30, nell’area ex-San Lazzaro di via Amendola 2. Anche se la situazione rimane critica, a Reggio Emilia la situazione è migliorata da quando l’Opg è diventata una struttura sanitaria. "L’Ausl ha cominciato a gestire l’ambito sanitario - prosegue la Franzoni -: sono aumentati gli operatori, ci sono più psicologi, e in generale c’è l’appoggio della sanità". La transizione è stata avviata un anno fa, il passaggio di consegne è avvenuto a metà giugno e sta entrando a regime. Più luogo di cura e meno carcere, insomma, "ma per la parte che compete al ministero della Giustizia i problemi sono gli stessi delle altre strutture - conclude la Franzoni: non ci sono attività trattamentali ed educative, manca il personale e c’è un atteggiamento di chiusura. Il tutto sotto l’emblema della sicurezza".
Forlì: mancano spazi, con stranieri impossibile stabilire relazioni
Parla Manuela Raganini, vicepresidente della cooperativa Gulliver che fa laboratori di formazione lavorativa per i detenuti: "Il carcere ha carenze strutturali e gli irregolari vengono rimpatriati prima di iniziare percorsi di reinserimento sociale". "Un clima difficile, pari a quello di tutte le carceri italiane, aggravato dalla mancanza di spazi per attività formative o di rieducazione". È questa la situazione dell’istituto di detenzione di Forlì secondo Manuela Raganini, vicepresidente della cooperativa Gulliver che da qualche mese collabora con l’amministrazione penitenziaria per un progetto di formazione lavorativa dei detenuti (laboratori di smaltimento dei rifiuti). "Il carcere ha evidente carenze strutturali, non è a norma - denuncia Raganini - la colpa non è certo dell’amministrazione, che anzi è molto disponibile a varie iniziative, ma dell’architettura stessa dell’edificio, che non consente l’attivazione di laboratori. Le nostre attività con i detenuti, infatti, si svolgono tutte all’esterno, in un magazzino di smaltimento dei rifiuti. Attendiamo con ansia la progettazione del nuovo istituto, ma sembra essersi tutto fermato". La Casa Circondariale di Forlì ospita 464 persone (con una capienza di circa la metà), quasi tutti uomini tra i 20 e i 45 anni (le donne sono solo 35), con pene detentive a breve e medio termine. "La rieducazione lavorativa è fondamentale - conferma Raganini - perché, oltre ad essere una valvola di sfogo per ragazzi che stanno tutto il giorno stretti in celle microscopiche, dà loro autonomia e quei punti di riferimento necessari a farli inserire nella società, una volta usciti. È importante anche dal punto di vista economico, per coloro che devono contribuire al sostegno delle famiglie fuori dal carcere e a crearsi un piccolo risparmio". Un lento e graduale percorso di integrazione nella società, dunque, che sembra però non riguardare gli extra-comunitari: "Quasi tutti sono dentro per reati riconducibili alla clandestinità - spiega - molti sono stati arrestati prima ancora di imparare l’italiano, e non hanno soldi neanche per comprarsi lo spazzolino o la biancheria intima. Di recente è intervenuta la diocesi di Forlì per aiutarli. Con queste persone è quasi impossibile stabilire una relazione o addirittura creare un percorso formativo, visto che sono destinati ad essere rimpatriati". Tuttavia il bilancio del laboratorio è più che positivo: "Molti detenuti sono stati contattati dalle aziende del territorio - dice Raganini - speriamo che il consorzio decida di allargare questa sperimentazione ad altri carcerati". (gm)
Piacenza: i volontari hanno creato uno Sportello di ascolto
"È l’unica piccola valvola di sfogo delle tensioni". Nel penitenziario circa 400 reclusi, il doppio della capienza: metà sono stranieri. Parietti (Oltre il muro): "Il sovraffollamento crea forti tensioni, per ora abbastanza sotto controllo". Sempre in due, spesso anche in tre per cella. In un carcere che dovrebbe ospitare 200 detenuti vivono circa in 400, la metà stranieri, solo una ventina le donne. È una situazione di "costante tensione, per ora tenuta abbastanza sotto controllo" quella del penitenziario di Piacenza. A definirla così è Valeria Parietti, presidente dell’associazione di volontari "Oltre il muro", che dallo scorso giugno è riuscita a creare una piccola valvola di sfogo: uno sportello d’ascolto aperto all’interno della struttura ogni giovedì mattina. Uno spazio nato grazie alla collaborazione con la direzione del carcere, dove i detenuti possono parlare con i volontari, ricevere piccoli aiuti pratici, alleviare alcuni disagi della reclusione tra mura decisamente sovraffollate. "In alcune sezioni siamo alla terza branda - conferma Parietti - in celle che sarebbero singole. L’estate è stata calda, e in queste condizioni anche le piccole disfunzioni ordinarie si ingigantiscono. L’acqua corrente che manca per un guasto, i pasti che arrivano in ritardo per la rottura di un ascensore: sono piccoli episodi, ma in un clima esasperato creano tensioni forti". Quest’estate per fortuna - dicono i volontari di "Oltre il muro" - dopo una circolare del Dap nel carcere di Piacenza è stato deciso di lasciare aperte di notte le porte blindate delle celle, chiuse "solo" con le sbarre. "In altre carceri i blindi sono rimasti chiusi: così le celle, già sovraffollate, diventano veri e propri forni". "Allo sportello che abbiamo aperto da poco - continua Parietti - ascoltiamo ogni giovedì una ventina di detenuti. Prima noi volontari del carcere li incontravamo solo in occasione di progetti mirati - corsi di pittura e altre iniziative - mentre ora abbiamo una visione più complessiva. Ci chiedono aiuto soprattutto per trovare spazi vivibili: servirebbe un’aula di studio, per quelli iscritti all’università, che non possono studiare in celle da tre persone con un solo tavolino e magari gli altri due compagni che vogliono la tv accesa. Ma la richiesta più frequente è quella di aiutarli a tenere i contatti con i loro familiari e avvocati: possono telefonare solo una volta alla settimana, e sono vietate le chiamate a cellulari". "Lo sportello di ascolto - conclude la presidente di Oltre il muro - è stato ben accolto dagli educatori, psicologi e assistenti sociali del carcere. C’è una buona collaborazione anche con gli agenti penitenziari, che pure sono sovraccarichi di lavoro. Nel clima teso e sempre sul filo che si vive in carcere, la presenza dei volontari è una piccola valvola di scarico delle tensioni. Per i detenuti, e per tutti quelli che lavorano nella struttura".
Como, Brescia, Busto: peggiori istituti lombardi, secondo Antigone
Per l’associazione sono cinque i mali delle carceri lombarde: sovraffollamento, carenza del personale penitenziario, insufficienza di alcuni servizi per i detenuti, mancanza di educatori e l’abuso di psicofarmaci. Il "Bassone" di Como, il "Canton Mombello" di Brescia e, infine, il carcere di Busto Arsizio. Sarebbero questi, secondo l’Osservatorio della Lombardia dell’associazione Antigone, gli istituti in peggiori condizioni di tutta la regione. Strutture vecchie fatiscenti, a cui si aggiunge, spesso, una cattiva organizzazione interna. "Tranne a Brescia - precisa Antonio Casella, responsabile dell’Osservatorio -, dove la direzione è stabile e funzionanante, ma il sovraffollamento crea seri problemi". Per Antigone sono cinque i mali delle carceri lombarde: sovraffollamento, carenza del personale penitenziario, insufficienza di alcuni servizi per i detenuti, mancanza di educatori e l’abuso di psicofarmaci. Sovraffollamento. I guai più seri riguardano le carceri circondariali, ovvero quelle dove i detenuti sono di passaggio, anche per pochissimi giorni, in attesa di un processo. "Nel carcere di Voghera, per esempio, nella sezione di alta sicurezza ci sono celle da 9 metri e 30 con un solo detenuto, e quindi la situazione è a norma - spiega Antonio Casella -. Ma basta spostarsi di qualche piano, in un’altra sezione con un regime diverso, che nello stesso tipo di cella magari sono stipati 11 detenuti in letti a castello da tre". Un vero paradosso, secondo l’Osservatorio di Antigone, acuito dal fatto che nelle sezioni circondariali entrano persone che ci devono restare solo per due o tre giorni, di solito stranieri che vengono arrestati per violazione della legge sull’immigrazione Bossi - Fini. Secondo i dati di Antigone, sugli oltre 8mila detenuti della regione Lombardia almeno il 45% è rappresentato da stranieri. Carenza di agenti. - In Lombardia lavorano circa 4.200 agenti di polizia penitenziaria (dovrebbero essere 5.353) e di questi oltre 600 risultano distaccati ad altra sede. "Inoltre nelle carceri dove ci sono i collaboratori di giustizia i detenuti di alta sicurezza non possono mai incrociare altri reclusi - afferma Antonio Casella -. Questo comporta l’impiego di molti agenti di polizia penitenziaria e sono sempre sotto organico". Carta igienica e lenzuola. Il terzo problema è "ciò che in carcere manca quotidianamente". Dalla carta igienica alla regolare pulizia delle lenzuola."Ancora una volta la causa è il sovraffollamento - precisa il direttore dell’Osservatorio -, l’eccessiva presenza di detenuti fa aumentare il carico di lavoro, e se le lavatrici si riempiono, magari devi aspettare tre settimane per avere un paio di lenzuola pulite. A volte i carcerati sono costretti a pulirsi con i fogli di giornale. Tutto questo lede la dignità della persona". Mancanza di educatori. "Ogni carcere dovrebbe avere almeno sei educatori - dice Antonio Casella - invece in media ne trovi due, e questo è assurdo se si pensa che il carcere dovrebbe rieducare e non solo punire". Abuso di psicofarmaci. "I detenuti, in particolare nelle sezioni circondariali, tendono a chiedere sempre più psicofarmaci e i medici non possono fare altro che darglieli. Se ne fa un uso eccessivo perché le condizioni di vita dentro sono molto stressanti". (Stefania Culurgioni)
Firenze: l’associazione Pantagruel; autolesionismi per attirare l’attenzione
Nell’istituto penitenziario di Firenze i carcerati, stremati dal sovraffollamento e dalle condizioni igienico-sanitarie disastrose, si provocano ferite per attirare l’attenzione e denunciare le loro sofferenze. C’è chi si sfregia il volto e chi si lacera la pelle. C’è chi si provoca tagli negli avambracci e, addirittura, chi si cuce la bocca. Non è un film dell’orrore, ma la testimonianza di Salvatore Tassinari direttamente dal carcere fiorentino di Sollicciano. Lui, nella veste di presidente dell’associazione Pantagruel, è uno dei più assidui frequentatori dell’istituito penitenziario di Firenze come volontario. Almeno due volte a settimana si reca in carcere per incontrare i detenuti, raccogliere le loro richieste e ascoltare i loro disagi. "L’autolesionismo dei detenuti - spiega - è un modo barbaro ma efficace per attirare l’attenzione sul sovraffollamento della prigione, diventato insostenibile. In celle adibite per un carcerato, ce ne stanno tre. Ogni detenuto dovrebbe disporre di almeno sette metri quadrati, ma se è fortunato ne ha a disposizione cinque". Tassinari ricorda il drammatico episodio di poche settimane fa, quando un detenuto marocchino si è cucito materialmente la bocca per protesta contro il sovraffollamento e il mancato rimpatrio. Così facendo, ha ottenuto quanto per legge gli spettava e ha cominciato le pratiche per tornare nel suo paese d’origine, così come da lui richiesto, finora, invano. La situazione, già terribilmente drammatica, è resa ancora più insopportabile dalle "condizioni igienico sanitarie disastrose". "Se la Asl facesse un sopralluogo nel carcere di Sollicciano - commenta Tassinari - ordinerebbe la chiusura immediata del carcere, tanto più che la sanità in questo luogo sembra un optional". Tassinari tiene a precisare l’assenza di apparecchi per eseguire radiografie, ecografie, tac ecc. Non solo: "I medici del carcere non sono motivati e tendono a sottovalutare le sofferenze dei detenuti. Poco tempo fa una donna incinta ha abortito durante il trasporto in ospedale a causa, probabilmente, dei ritardi nell’assistenza e nelle difficoltà fisiche nello spostamento dal carcere all’ospedale a bordo della camionetta della polizia". Tra le problematiche dell’istituto penitenziario di Sollicciano, secondo il presidente dell’associazione Pantagruel c’è anche la carenza di beni primari per i detenuti. "Nei colloqui - spiega Tassinari - ci chiedono continuamente vestiti, biancheria intima, dentifricio, spazzolino da denti e sapone. Sono bisogni essenziali ma che spesso mancano e che l’amministrazione penitenziaria non si cura di ricomprare".
|