Rassegna stampa 30 settembre

 

Giustizia: le tensioni tra Governo e Anm allontanano le riforme

di Stefano Folli

 

Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2009

 

L’aspra polemica tra il ministro Brunetta e l’Associazione nazionale magistrati è emblematica di una certa tendenza tutta italiana. Si gridano le proprie ragioni in modo urticante, ci si dà sulla voce al punto che un osservatore esterno - diciamo l’opinione pubblica - perde rapidamente il filo, si ottengono titoli sui giornali. Due o tre giorni dopo, talvolta anche meno, le acque si calmano e si passa oltre, mentre i problemi sollevati restano tali e quali.

Non c’è dubbio che la magistratura abbia bisogno di robuste riforme, in grado di ricostruire una credibilità in parte compromessa e di restituire al cittadino quella fiducia nella giustizia che oggi non esiste. Il libro di Stefano Livadiotti, che ha concorso a dar fuoco alle polveri, costituisce sotto questo. aspetto una lettura inquietante.

Ne deriva che Brunetta ha ragione nella sostanza, quando invoca maggiore efficienza e maggiore dedizione al lavoro: principi fondamentali in ogni settore della pubblica amministrazione, compresa, appunto, la magistratura o gli uffici giudiziari in generale. Allo stesso modo il ministro della Funzione pubblica non ha torto quando solleva un altro tema controverso, vale a dire l’iper-politicismo delle correnti che governano l’ordine giudiziario e che si riproducono anche nel Consiglio superiore della magistratura.

Il problema è che si può riuscire ad aver torto anche quando si ha ragione. Non è chiaro infatti quale risultato Brunetta si proponga di ottenere con i suoi ripetuti attacchi pubblici. Senza dubbio egli rafforza la sua immagine di castiga-fannulloni, che gli ha regalato in questi mesi un’estrema popolarità. In secondo luogo, si può immaginare che la fucileria ministeriale contribuisca a scavare un fossato tra l’opinione pubblica e i rami secchi, ossia improduttivi, della pubblica amministrazione.

Ma è dubbio che tutto questo sia sufficiente a risolvere i problemi, cioè a ridare agli italiani una magistratura in grado di smaltire il lavoro arretrato e di completare i processi in tempi ragionevoli. E probabile che gli scambi polemici fini a se stessi siano semplicemente un polverone che aiuta i conservatori, non certo gli innovatori. Fare le riforme è un lavoro duro e spesso oscuro. Eppure è quello che ci si attende da un governo. Le polemiche sono divertenti e più spesso irritanti, ma di rado avvicinano il traguardo delle riforme. Di solito offrono pretesti per creare altri muri: proprio quelli che i riformatori sono costretti a scalare superando le resistenze delle categorie.

Lo ha compreso molto bene il ministro Alfano, che si è affrettato a smussare la tensione, con ogni evidenza seccato per l’invasione di campo del suo collega della Funzione pubblica. La verità è che la riforma della giustizia resta uno dei passaggi più necessari, ma anche più delicati, che qualsiasi governo deve affrontare. Per l’esecutivo di Berlusconi il compito è ancora più arduo. Di conseguenza tutto quello che aizza gli animi è superfluo, anzi dannoso. Creare un clima favorevole lontano dalle luci del palcoscenico; coinvolgere gli organismi rappresentativi; sforzarsi di percorrere un pezzo di strada insieme: tutto questo è invece un modo saggio per avvicinare la riforma.

Non è un caso che un politico sperimentato come Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, abbia raccomandato questa via. Poi ognuno avrà la sua idea sulle riforme e il confronto sarà nel merito. Il peggio sarebbe avere tanti litigi e nessuna riforma.

Giustizia: se i detenuti sono vittime del reato di maltrattamenti

di Tullio Padovani*

 

www.radiocarcere.com, 30 settembre 2009

 

Su questa stessa pagina, mercoledì scorso, Riccardo Arena affrontava un tema grave e complesso, la cui premessa è peraltro di una semplicità lineare. Il sistema carcerario italiano ha di recente ricevuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo una sorta di certificazione di indegnità.

Le implicazioni e le prospettive della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte appaiono evidenti: il caso esaminato (concernente lo "spazio" in cui un certo detenuto era stato confinato) non rappresenta una pur deplorevole eccezione; corrisponde anzi ad una "regola" tanto comune quanto arbitraria, i cui contenuti antigiuridici si estendono peraltro ad una serie di aspetti fondamentali della detenzione: dai servizi igienici ai presidi sanitari, dall’alimentazione alle condizioni ambientali. Basta seguire questa rubrica per averne un’idea e restare basiti tra orrore e indignazione.

A questo punto, una domanda si impone con la forza di un grido, che Riccardo Arena non esita a lanciare. A fronte di situazioni che fanno della carcerazione un trattamento contrario al senso di umanità e in positiva contraddizione con le regole internazionali e la legislazione interna, si profila o non si profila una responsabilità personale?

In effetti, chi è detenuto in una situazione di promiscuità degradante, in ambienti malsani e fatiscenti, subendo condizioni igieniche vergognose, non solo non riceve nulla del "trattamento" compuntamente delineato da leggi e regolamenti, ma è al contrario vittima di maltrattamenti corrispondenti a quelli previsti e puniti dall’art. 572 del codice penale. Basta leggere la disposizione e scorrere un po’ di giurisprudenza per rendersi conto che il quadro di vita delineato dalla fattispecie è anche il nostro e che le sofferenze patite dalla persona detenuta costituiscono un evento antigiuridico.

Dovrà farsene carico qualcuno? Subito si staglia all’orizzonte il tipico meccanismo giustificativo delle organizzazioni burocratiche complesse che mira a sgretolare la colpa e a farla morir fanciulla. Il procedimento destinato a sfociare nel trattamento inumano e degradante è la risultante di una serie articolata e ripartita di passaggi che tende a rendere ogni soggetto agente "cieco" al prima e al dopo: rotella di un ingranaggio.

C’è chi ordina, chi assegna, chi ammette, chi dispone e chi organizza. Posso io - dirà il pubblico ministero - non emettere l’ordine di carcerazione imposto dalla legge? Posso io - dirà il funzionario dell’amministrazione - non assegnare il detenuto? Posso io - dirà il direttore - non accoglierlo in carcere? Posso io - dirà il magistrato di sorveglianza - liberare il detenuto maltrattato? E così ciascuno avrà alle proprie spalle il rassicurante sostegno di un dovere funzionale che lo estrania dall’esito finale e lo rende istituzionalmente indifferente alla riduzione di un uomo in belva carcerata.

È con questi meccanismi che le istituzioni immunizzano i propri agenti: l’esito criminoso si nutre di frammenti sparsi di legalità. E mentre questi dispensano giustificazioni personali, il crimine che ne risulta perde l’autore, e si colloca nelle placide secche della politica, dove la deplorazione per quanto accade si condisce di propositi sempre rinnovati e sempre vani. Salmi senza gloria, mentre il filisteo sogghigna dietro l’angolo: in fondo, si tratta solo di detenuti, scarti sociali o nemici della società. Così discendiamo feroci - noi sì come belve - verso la barbarie che tolleriamo e giustifichiamo.

Senza vie d’uscita, dunque, salvo le condanne internazionali che pioveranno e di fronte alle quali faremo spallucce? Forse non è così. Anzi, non può essere così. C’è una strada da percorrere e una soluzione da elaborare. Chi scrive il suo "debol parere" - come quello di Perpetua a don Abbondio - ce l’avrebbe anche. Ma lo spazio è finito: sarà per la prossima volta.

 

* Tullio Padovani è professore di Diritto Penale alla Scuola Superiore di Studi Universitari Sant’Anna di Pisa

Giustizia: alternative al carcere, iniziamo dai tossicodipendenti

di Stefano Anastasia

 

www.innocentievasioni.net, 30 settembre 2009

 

Quasi 65mila detenuti, a vele spiegate verso quello che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, considera la "soglia fisiologica" della detenzione in Italia: 70-80mila detenuti, circa 140 ogni 100mila abitanti. Non male per un Paese che ha vissuto i suoi primi quarant’anni repubblicani con un tasso di detenzione di quasi la metà di quello attuale, un terzo di quello preconizzato dal dott. Ionta.

Per carità di patria non stiamo a discutere le sue previsioni. In realtà, potremmo essere anche più foschi: e chi l’ha detto che la rincorsa all’incarcerazione debba fermarsi a 70-80 mila abitanti? Potrebbe andare ben oltre, come insegna il caso statunitense, dove un ordinario tasso di detenzione di circa 100 detenuti per 100mila abitanti - opportunamente stimolato da ogni genere di "lotta alla criminalità" - è arrivato in trent’anni di crescita a ben 760 detenuti ogni 100mila abitanti.

Del resto il leghista on. Cota, capogruppo del partito che detiene la golden share delle politiche criminali nella maggioranza che governa l’Italia, non ha avuto esitazioni - qualche tempo fa - a paragonarci proprio agli Stati Uniti, per concludere che, per raggiungerli nel rapporto detenuti/popolazione, dovremmo incarcerarne otto volte tanti.

Per non precipitare nell’incubo dei minacciosi paragoni di Cota, stiamo a Ionta e alle sue più miti previsioni:70-80mila detenuti. Intanto, però, le carceri possono ospitarne legalmente solo 43mila: che si fa? Inebriato dal successo dei prefabbricati trentini, Berlusconi nel one man show allestitogli da Vespa ha lanciato il proclama: faremo come all’Aquila! Le villette? Con le tendine? Edilizia, edilizia, edilizia: è l’unica cosa che sa dire il Governo (quando non si lancia nelle fumisterie delle prison boats, da far galleggiare di fronte alle città marinare). Lasciamo perdere. Bisognerebbe piuttosto liberarsi dalla ingenuità (o dalla malafede) di chi pensa che le incarcerazioni e il tasso di detenzione siano il frutto di congiunzioni astrali alle quali non possiamo sottrarci: e chi lo ha deciso che uno straniero per lavorare in Italia deve passare per la clandestinità, un centro di identificazione e il carcere? L’incrocio di Saturno con Venere? E chi lo ha deciso che il possesso di sostanze stupefacenti è causa di procedimento penale e incarcerazione?

E chi lo ha deciso che il carcere dovesse tornare a essere l’unica forma di pena per migliaia di detenuti che - guarda un po’! - hanno precedenti condanne che impediscono loro di accedere alle alternative? In realtà, la "fisiologia" degli 80.000 detenuti nasconde scelte di valore: contro gli immigrati, contro i consumatori di droghe, contro i "recidivi".

Si susseguono, dunque, tra le persone di buona volontà, le ipotesi per affrontare la catastrofe umanitaria in cui sono ridotte le nostre prigioni, dove la gran parte dei detenuti vive in condizioni giudicate inumane e degradanti dalla Corte europea dei diritti umani. Tra queste, quella immediata e lapalissiana avanzata da Forum droghe, Antigone, Arci e un ampio cartello di associazioni del volontariato in un appello che sarà illustrato domani in una Conferenza stampa alla Camera dei deputati.

La legge Fini-Giovanardi (non una legge fricchettona!) aveva previsto, insieme con il consueto bastone dell’aumento delle pene per tossici e piccoli spacciatori, la carota di termini più larghi per l’affidamento in prova ai tossicodipendenti: accessibile sin da sei anni dal fine pena. Fatto sta, però, che la norma, come ogni altra alternativa alla detenzione, risulta incredibilmente sottoutilizzata: prima dell’indulto, a fronte di 60mila detenuti c’erano 50mila persone in esecuzione penale esterna, oggi solo 10mila.

Intanto, almeno altrettanti sono i detenuti che sono nei termini per usufruire dell’affidamento in prova per tossicodipendenti. Un giorno vedremo, forse, le nuove carceri prefabbricate di Berlusconi o, al contrario, una riforma delle leggi sulla droga, l’immigrazione, la recidiva. Intanto, perché Governo e Regioni non si siedono intorno a un tavolo e non definiscono un programma credibile, fatto di risorse, mezzi e strumenti, per la scarcerazione immediata di quei 10mila tossicodipendenti che potrebbero già oggi usufruire di misure alternative alla detenzione?

(L’appello "Le carceri scoppiano: potenziamo le misure alternative, liberiamo i tossicodipendenti!" su www.fuoriluogo.it)

Giustizia: quando la detenzione diventa una perdita di tempo

di Stefano Anastasia

 

www.innocentievasioni.net, 30 settembre 2009

 

Il carcere, si sa, è una perdita di tempo. Lo è strutturalmente, per finalità istituzionale. Lo scorrere del tempo segna l’andamento della pena e la prima regola da imparare per sopravviverle è quella della pazienza. Avete presente il detto "chi ha tempo, non aspetti tempo"? Beh, in galera è tutto il contrario: chi ha tempo, aspetti, che tanto non c’è nulla da fare.

Quando poi il lento scorrere del tempo della pena si somma alla farraginosità di una struttura burocratica, i secondi possono dilatarsi in minuti, i minuti in ore, le ore in giorni, mesi, anni. Non succede niente, tanto il fine pena è lì, tra cinque, dieci, quindici anni, e perché affrettarsi a rispondere a un quesito, a soddisfare un piccolo diritto, così piccolo di fronte a quella aspettativa della scarcerazione, che tanto è così lontana nel tempo?

Il 9 luglio scorso, su queste pagine, avevamo già scritto di Pino, un ragazzo siciliano, condannato per un grave delitto, che alcuni anni fa era riuscito a essere trasferito al Nord per seguire un corso di studi. La famiglia, per stargli vicino e sostenerlo, l’aveva accompagnato, prendendo stabilmente la propria residenza a Padova. Ma il trasferimento era solo temporaneo. Temporaneo quanto può essere un trasferimento in carcere: quindici giorni o cinque anni, fa lo stesso.

Pino aveva chiesto l’assegnazione definitiva a Padova, e l’Amministrazione ha cominciato la sua valutazione. Quattro anni (quattro!) dopo il suo arrivo in Veneto, la Direzione generale competente acquisisce un parere negativo della direzione del carcere: motivi disciplinari. Pochi giorni prima di sostenere gli esami di maturità Pino torna ad Augusta (Siracusa), "sua sede di assegnazione". Quattro anni di "percorso trattamentale" buttati per un incidente.

Pino sa bene che, per gli usi e costumi penitenziari, lasciato un istituto per motivi disciplinari, non ci torni, se non hai santi in paradiso. Il percorso padovano ormai è chiuso per lui. Chiede allora semplicemente di poter andare in un posto non troppo lontano da Padova, dove ormai vive la sua famiglia, e magari in un Istituto dove possa proseguire gli studi.

Norme e buon senso dicono di sì, che un’Amministrazione accorta e sensibile dovrebbe accogliere una simile richiesta: le relazioni familiari e l’istruzione sono cose fondamentali per uno che è entrato in carcere poco più che ragazzo, se ne potrebbe fare una vita diversa. E invece no, ma non è un "no: no!", piuttosto un "no: boh ...": "allo stato è in via di valutazione una istanza tesa a ottenere il trasferimento in un istituto del Nord Italia" ci scrive gentilmente il Direttore generale competente, "in attesa di ricevere la documentazione necessaria alla corretta valutazione della richiesta". Tal quale la cortese risposta che ci era arrivata nell’ottobre dello scorso anno. Intanto Pino ha passato il suo primo anno ad Augusta, a mille chilometri dalla sua famiglia. Tanto il fine pena è lontano.

Giustizia: Berlusconi; piano per 20 mila nuovi posti in carcere

 

Adnkronos, 30 settembre 2009

 

Il governo starebbe lavorando a un piano per la costruzione di nuove carceri. Quelle vecchie, che saranno dismesse, potrebbero essere date in gestione ai privati per usarle a scopi commerciali. È quanto emerge dal pranzo che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha avuto oggi nella caserma della Guardia di finanza di Coppito con i vertici della Protezione civile, gli imprenditori e le maestranze che hanno realizzato le case antisismiche per i terremotati d’Abruzzo.

A quanto riferiscono alcuni partecipanti all’incontro il presidente del Consiglio avrebbe annunciato un piano carceri che prevede 20mila nuovi posti. Quanto ai detenuti tuttora nelle vecchie carceri questi saranno trasferiti nelle nuove. Le carceri dismesse invece potrebbero essere date in gestione ai privati per fini commerciali. Berlusconi, nel corso dell’incontro avrebbe ribadito che la maggioranza al governo è forte e rispetterà tutti gli impegni presi con gli elettori.

Giustizia: Sappe; 20mila nuovi posti in carcere, chi li controlla?

 

Comunicato stampa, 30 settembre 2009

 

Secondo quanto riportano alcune agenzie di stampa, nel corso del pranzo avuto oggi a L’Aquila con imprenditori e vertici di Forze Armate e Protezione Civile, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi avrebbe detto che il governo sta lavorando ad un piano per la creazione di 20mila nuovi posti nelle carceri.

Parallelamente l’esecutivo sta valutando la possibilità di affidare in gestione a soggetti privati per scopi commerciali le strutture penitenziarie che verrebbero dismesse. Vorremmo intanto sapere se queste indiscrezioni sono vere, visto che su queste indicazioni il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ed il Capo del Dap Franco Ionta nulla hanno comunicato ai Sindacati della Polizia penitenziaria. Ma ci chiediamo chi li controllerà, questi annunciati 20mila nuovi posti nelle carceri. Oggi infatti, che i detenuti sono quasi 65mila - un numero mai raggiunto nella storia d’Italia -, gli organici della Polizia penitenziaria sono carenti di ben 5mila unità...

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alle indiscrezioni odierne su alcune dichiarazioni del premier Berlusconi a L’Aquila sul sistema penitenziario nazionale.

Capece sottolinea come sia "urgente e fondamentale assumere i 5milia agenti di Polizia penitenziaria che mancano dagli organici del Corpo per gestire l’attuale emergenza carceri. Auspichiamo che alle parole facciano seguito presto fatti concreti. Si continua a parlare di un piano sull’edilizia di prossima attuazione, sembra che lo abbia fatto oggi a L’Aquila anche il premier Berlusconi, ma in realtà ci vorranno anni prima che venga costruito un singolo nuovo carcere e quando anche venissero costruite, allora dovremmo già mettere in cantiere anche un piano di assunzioni nel settore penitenziario con la previsione di concorsi da psicologo, educatore, assistente sociale e soprattutto di Polizia Penitenziaria.

Per ora il Governo, il Ministero della Giustizia ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si sono fatti scudo della drammatica situazione attraverso il senso di responsabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria; ma queste sono condizioni di logoramento che perdurano da mesi e continueranno a pesare sulle 39 mila persone in divisa per molti mesi ancora se non la si smette di nascondere la testa sotto la sabbia.

Quanto si pensa possano resistere gli uomini e donne della Polizia Penitenziaria che sono costrette a trascurare le proprie famiglie per garantire turni massacranti con straordinari nemmeno pagati? Un atto di serietà politica e di onestà intellettuale sarebbe quello di ascoltare chi in carcere ci lavora da anni, la Polizia Penitenziaria appunto e non improvvisarsi ad amministratori che non fanno i conti con la realtà.

Eppure Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non stanno più convocando i Sindacati del Corpo per dire come intendono gestire un’emergenza che ogni giorno di più aumenta. Auspico, allora, che ad incontrarci per dirci come il Governo intende affrontare la crisi penitenziaria sia direttamente il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

 

Premier presieda tavolo istituzionale su crisi penitenziaria

 

Un confronto sulla crisi penitenziaria a Palazzo Chigi, presieduto dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. È quanto auspica il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, dopo che ieri a L’Aquila il Premier ha annunciato l’imminente approvazione in Consiglio dei Ministri di un piano carceri che, tra l’altro, prevedrebbe la costruzione di 20mila nuovi posti per i reclusi.

Un confronto con il Presidente del Consiglio Berlusconi sulla situazione penitenziaria sarebbe importante e tanto più necessario visto che il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ed il Capo del Dap Franco Ionta nulla hanno comunicato ai Sindacati della Polizia penitenziaria su questo più volte annunciato piano carceri, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe, che aggiunge: "Contestualmente ad un sostanziale incremento di posti per detenuti, il Governo deve già mettere in cantiere anche un piano di assunzioni nel settore penitenziario con la previsione di concorsi da psicologo, educatore, assistente sociale e soprattutto di Polizia Penitenziaria.

Oggi mancano più di 5mila poliziotti penitenziari ed i detenuti sono quasi 65mila (un numero mai raggiunto nella storia del Paese) a fronte di circa 42mila posti, e questo determina condizioni di lavoro massacranti per le donne e gli uomini del Corpo. Ma riteniamo si debba rivedere complessivamente l’Istituzione penitenziaria, prevedendo un maggiore ricorso alle misure alterative alle detenzione con contestuale impiego in lavori socialmente utili per quei detenuti che hanno pene brevi da scontare ed affidando alla Polizia penitenziaria i relativi controlli".

 

Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Giustizia: i rimpatri? scontata la pena, i detenuti vanno nei Cie

 

Redattore Sociale - Dire, 30 settembre 2009

 

La Circolare del 2007 che prevede l’identificazione in carcere è rimasta lettera morta. E così, i detenuti stranieri, una volta pagato il conto con la giustizia per i reati commessi, devono scontare altri sei mesi di detenzione nei Cie.

Un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è costituito da cittadini stranieri, molti dei quali in attesa di giudizio. I reati più frequenti sono quelli legati allo spaccio di droghe illegali, ai furti e all’inottemperanza del decreto di espulsione. La legge prevede il rimpatrio a fine pena. E una circolare del 2007 del governo Prodi prevede che l’identificazione avvenga in carcere. Quella circolare però è rimasta lettera morta. E così, i detenuti stranieri, una volta pagato il conto con la giustizia per i reati commessi, devono scontare altri sei mesi di detenzione nei centri di identificazione e espulsione. Al Cie di Ponte Galeria quasi metà dei trattenuti sono arrivati dal carcere.

N. Mohamed è uno di loro. Tunisino, è dentro il Cie dal 15 giugno 2009. Da allora sono passati 106 giorni. Vive in Italia da 23 anni. Ma il suo problema è opposto a quello degli altri. Lui dell’Italia è stanco. E non ce la fa più. Vuole tornare a casa, in Tunisia. In più di vent’anni non ha mai avuto un permesso di soggiorno, non è riuscito a costruire niente. È stanco e arrabbiato, del carcere e dell’emarginazione. Ma da tre mesi, nonostante abbia fornito le proprie generalità e chiesto esplicitamente di tornare, ancora non ha alcuna notizia sul suo destino. E teme di essere di nuovo sbattuto in mezzo alla strada, alla fine dei sei mesi. Soffre di depressione. I suoi compagni dicono semplicemente che "ha perso la testa". Passa intere giornate in solitudine senza parlare con nessuno. "Si è ammalato a Regina Coeli", dicono. Era venuto in Italia inseguendo un sogno. Ma gli anni in carcere gli hanno tolto anche la voglia di vivere.

Mohamed non è l’unico a essere arrivato al Cie dopo il carcere. M. El Amri si è fatto un anno e mezzo a Verona per spaccio. Akmawi due anni per resistenza a pubblico ufficiale e rissa. "Qua è peggio del carcere" dicono, "è una noia mortale". Già perché non c’è veramente niente da fare tutto il giorno. Akmawi a Verona ha lasciato la moglie e due bambini, di 6 e 14 anni. L’ultima volta che li ha abbracciati è stato due anni fa, prima dell’arresto. È dentro il Cie da tre mesi. Chiedono perché non li hanno rimpatriati subito dal carcere, perché devono pagare altri sei mesi della propria libertà, visto che hanno già pagato il loro conto con la giustizia.

E dal carcere provengono spesso anche gli autori di atti di autolesionismo. Salah B. è arrivato a Ponte Galeria dopo due anni di carcere per spaccio. È un ragazzo di poco più di vent’anni. Lo scorso 2 settembre si è tagliato il braccio e la gamba con una lametta di rasoio. L’hanno ricucito con 25 punti. Ha ancora le bende. Non è la prima volta che si taglia. Entrambe le braccia sono disegnate da una fitta rete di cicatrici, ricordo indelebile della disperazione e della rabbia degli anni migliori della giovinezza buttati in carcere. L’altro a essersi tagliato si chiama Akref K., ha il braccio fasciato. Si è inciso con una lametta, lo stesso giorno di Salah. Ma con minore violenza. Se l’è cavata con otto punti di sutura.

Giustizia: l’Osapp lancia social network del mondo penitenziario

 

Il Velino, 30 settembre 2009

 

"Se il ministro Brunetta conta più di 56 mila contatti sulla propria pagina personale di Facebook, notizia di oggi, l’Osapp non vuole essere da meno. Per questo motivo abbiamo deciso di approntare Osappbook, che rifacendosi alla piattaforma network più conosciuta al mondo ha l’ambizione di raccogliere quello che sulle carceri non viene detto e mai riportato dai giornali"- Lo annuncia il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, la seconda realtà sindacale della polizia penitenziaria, che aggiunge: "Foto, sensazioni e racconti dei nostri agenti in servizio: tutto ciò che possa far emergere e che di buono esiste dell’attività svolta dal nostro Corpo di polizia. L’esigenza di riunirci e buttarci in rete nasce dal fatto che troppo spesso la polizia penitenziaria, apostrofata ancora da qualche ignorante con il termine di guardie, non riesce a farsi difendere da chi per Costituzione dovrebbe amministrarla".

"Almeno le guardie mostreranno una volta per tutte il loro volto - spiega il leader sindacale - ottomila colleghi hanno già aderito iscrivendosi sul sito www.osapp.it. La nostra rappresenta un’anomalia di un Corpo di polizia che dopo la riforma non ha mai avuto dei capi ben definiti e staccati dal resto dell’apparato ministeriale di riferimento, come la polizia di Stato o i carabinieri. Un’anomalia rappresentata oggi dal ministro della Giustizia Alfano, troppo attento a vicende che poco attengono alla collettività (vedi il lodo in discussione in questi giorni alla Consulta) e sempre più distratto nella cura e nella gestione delle strutture penitenziarie nazionali. Se di carceri si deve occupare esclusivamente il presidente del Consiglio, ancora ieri in Abruzzo parlando della possibilità di dismettere vecchie strutture, è ora che l’attuale Guardasigilli chiarisca una volta per tutte il ruolo che vuole e deve giocare".

"Ancora oggi - conclude Beneduci -, citando cronache riportate e lette su uno dei maggiori quotidiani romani, pare che Bertolaso debba prendere il posto di Ionta alla guida dell’emergenza carceraria. Se fosse vero, questa sarà la dimostrazione che il ruolo di Ionta, e dell’attuale amministrazione, è stato poco decisivo in questi ultimi mesi. Quegli stessi mesi che hanno visto l’ufficializzazione, sempre rimandata, di un Piano carceri che stenta ancora a decollare. Se il ministero della Giustizia deve essere ricommissionato ci dispiace ammettere la sconfitta di tutta l’amministrazione e del Guardasigilli in testa".

Firenze: detenuto 40enne si suicida, soffriva di crisi depressive

 

Ansa, 30 settembre 2009

 

Detenuto suicida a Firenze. Ha fatto una doccia, poi si è impiccato. Così è morto un detenuto del carcere a custodia attenuata di Firenze "Mario Gozzini", struttura attigua al penitenziario di Sollicciano. Il fatto risale a sabato scorso ma è stato portato a conoscenza oggi dal garante per i detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone. Secondo quanto appreso, la vittima, 40 anni, già sofferente di crisi depressive, da poco tempo era stata trasferita al Gozzini proprio da Sollicciano. Avrebbe dovuto scontare una pena fino all’ottobre 2010. "Questo nuovo episodio di suicidio contribuisce a dimostrare che il mondo del carcere è in piena emergenza", ha affermato Corleone, facendo notare che "negli ultimi tempi in tutta Italia stanno aumentando i suicidi e le morti in carcere senza una spiegazione plausibile. Ciò dovrebbe preoccupare l’amministrazione penitenziaria, invece si parla solo di costruire nuove carceri".

Sulmona: detenuto ucciso da overdose, polemiche sui controlli

 

Il Centro, 30 settembre 2009

 

Si è sentito male a metà mattina cadendo al suolo davanti agli altri detenuti della sezione internati. A nulla sono valsi i soccorsi prestati dagli agenti di polizia penitenziaria: il giovane, Daniele Salvatori di 26 anni, originario di Cattolica, ma residente a Benevento, è morto poche ore dopo all’ospedale di Sulmona.

A ucciderlo sarebbe stata (ma si attende l’esito dell’autopsia) una overdose di cocaina e di oppiacei. Sulla vicenda il procuratore della Repubblica di Sulmona, Federico De Siervo, ha aperto un’inchiesta per stabilire le cause del decesso, ma soprattutto eventuali responsabilità da parte degli agenti di polizia penitenziaria addetti ai controlli. Daniele Salvatori infatti è tornato a Sulmona domenica sera da una vacanza premio trascorsa nel beneventano, dove risiede la sua famiglia.

Il giovane è stato arrestato nel 2006 dai carabinieri di Benevento con l’accusa di detenzione a fine di spaccio di sostanze stupefacenti. Venne sorpreso mentre rientrava a casa con alcuni grammi di eroina. È probabile quindi che il giovane sia rientrato in carcere portando con sé le sostanze stupefacenti. Un fatto che è parso strano anche alla direzione del carcere che, parallelamente alla Procura, ha avviato un’inchiesta interna con l’obiettivo di ricostruire l’intera vicenda, compresi i passaggi che ci sarebbero stati dal momento in cui Salvatori è rientrato in carcere fino a quando è finito in overdose.

Tutto ha avuto inizio ieri mattina, poco prima delle 10, con la richiesta di aiuto da parte di alcuni internati che hanno visto il 26enne prima sbiancare in volto e poi stramazzare al suolo. Nel reparto degli internati (si tratta di detenuti che vengono trattenuti in carcere anche dopo aver scontato la pena in quanto ritenuti socialmente pericolosi), le celle vengono chiuse solo di notte. Mentre per il resto della giornata i detenuti possono socializzare e girare liberamente, senza alcuna costrizione.

All’inizio gli agenti, intervenuti in soccorso di Daniele Salvatori pensavano si trattasse di un leggero malore: i sintomi erano quelli. Poi, quando hanno visto che l’uomo non si riprendeva, hanno chiamato la guardia medica del carcere, che ha subito intuito che si trattava di overdose da stupefacenti. Quindi la corsa in ospedale, prima al pronto soccorso e poi nel reparto di rianimazione, dove è stata praticata la terapia d’urgenza prevista in questi casi per contrastare l’effetto degli oppiacei.

Dopo un primo momento di forte preoccupazione, sembrava che la situazione potesse essere tenuta sotto controllo e che il giovane potesse riprendersi. Tutto invece è precipitato nel primo pomeriggio di ieri, con il battito cardiaco che si è fatto sempre più flebile. Alle ore 15,10 il cuore del giovane si è fermato per sempre. Questa mattina il procuratore disporrà l’autopsia, affidando probabilmente le indagini al capitano dei carabinieri Domenico Caradonna.

 

Eseguita l’autopsia sul detenuto morto

 

È stata eseguita ieri l’autopsia sul corpo di Daniele Salvatori, 26 anni, di Cattolica ma residente a Benevento, internato nel carcere di Sulmona, morto alle 15,10 di lunedì dopo che aveva avvertito un malore durante la mattinata dello stesso giorno. L’indagine necroscopica, svolta ieri tra le 16.00 e le 20.30, è stata eseguita dal dott. Ildo Polidoro, consulente tecnico incaricato dalla Procura della Repubblica di Sulmona, che si è riservato, entro 60 giorni, di refertare le cause del decesso, dopo aver prelevato campioni di tessuto, organi e liquidi biologici, necessari all’esame tossicologico.

"Per adesso - ha riferito il consulente medico, Ildo Polidoro - è prematuro parlare di morte per assunzione di stupefacenti, solo questi ulteriori esami potranno fugare ogni dubbio". Il giovane era rientrato in cella domenica sera, di ritorno da un permesso premio durante il quale aveva fatto visita alla sua famiglia nel beneventano.

Era stato arrestato nel 2006 dai carabinieri della provincia campana con l’accusa di detenzione a fine di spaccio di stupefacenti ed era stato trasferito a Sulmona. Parallelamente all’indagine della Procura sulmonese ne è stata avviata una dalla direzione del carcere, per valutare ogni elemento utile alla ricostruzione della vicenda e per individuare eventuali responsabilità da parte degli agenti penitenziari in forza al supercarcere di via Lamaccio.

 

Sono dodici i decessi dal 1994 ad oggi

 

Quattro anni difficili, trascorsi tra aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria da parte di detenuti e molti tentativi di suicidio. Ma dal 2005, fino a ieri, nessun recluso del supercarcere di via Lamaccio era riuscito a portare a termine quel gesto estremo dettato da disperazione, solitudine e forse di incontenibile ribellione. Ora, con la morte di Salvatori si allunga la lista scritta col sangue. Una triste realtà che, a torto o ragione, ha marchiato a fuoco la struttura penitenziaria (entrata in funzione nel 1992 dopo il trasferimento da quello vecchio, adattato in un convento benedettino del XII secolo) fin dai primi anni della sua nascita.

La serie dei suicidi comincia il 19 gennaio 1994: Luigi D’Aloisio, 37 anni, di Barletta (Bari), malato di Aids, si impicca con il lenzuolo. Il 18 giugno 1999 Cosimo Tramacere (26) di Mesagne (Brindisi), si getta sotto a un treno al rientro da un permesso. Il 12 Luglio 1999 si impicca in cella con il lenzuolo Antonio Miccoli, 30 anni, di Foggia.

Il 23 gennaio 2000 l’ergastolano Luigi Acquaviva si impicca nel carcere "Badu e Carros" di Nuoro: era da poco arrivato da Sulmona. Il 2 luglio 2001 le guardie sventano un tentativo di suicidio. Poi la serie ravvicinata: 19 aprile 2003, si uccide la direttrice Armida Miserere . La donna si sparò un colpo di pistola alla tempia nei suoi alloggi. Il 14 ottobre si impicca in cella Diego Aleci 41 anni, mafioso di Marsala (Trapani), il 28 giugno 2004, allo stesso modo, si uccide Francesco Di Piazza (58 anni), del clan di Giovanni Brusca.

Il 16 agosto 2004 anche il sindaco di Roccaraso, Camillo Valentini, si toglie la vita durante l’isolamento. Un suicidio al quale, però, i familiari non hanno mai creduto. Solo 5 giorni dopo un pedofilo assassino si taglia le vene, ma la sorte con lui fu più generosa, infatti venne salvato dal personale di polizia penitenziaria. Il 3 gennaio 2005 si impicca Guido Cercola, braccio destro di Pippo Calò , coinvolto nella strage del "Rapido 904".

Il 1º marzo si impicca il pentito Nunzio Gallo, 28 anni, di Torre Annunziata (Napoli). Quindi l’ultimo della serie, almeno fino a ieri, il suicidio di Francesco Vedruccio che si tolse la vita il 28 aprile dello stesso anno. Quel suicidio mobilitò l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli che, scendendo dall’elicottero atterrato al carcere, assicurò: "Prenderemo misure molto forti. Il penitenziario di Sulmona presenta aspetti paradossali. Da un lato c’è un apparente stato ottimale della struttura, dall’altro una profonda realtà di disagio visti gli episodi che succedono". Provvedimenti che però non vennero presi. Alle morti in cella si sono sostituiti una miriade di tentativi di suicidio. Molti messi in atto solo per attirare l’attenzione verso un disagio profondo difficile da sanare.

Castrovillari (Cs): due detenuti suicidi in 20 giorni... nel silenzio

 

Quotidiano di Calabria, 30 settembre 2009

 

Un detenuto 39enne di Morano Calabro si è tolto la vita nel pomeriggio di domenica scorsa impiccandosi con la cintura dei pantaloni.

Un nuovo suicidio nel carcere di Castrovillari: stavolta a togliersi la vita è stato un 39enne di Morano Calabro, che nel pomeriggio di domenica scorsa, verso le 16.30 si è impiccato utilizzando la cintura dei pantaloni. Il suicidio del detenuto, C.N., arriva a poco più di quindici giorni da un altro decesso, quello di un diciannovenne cileno che si è ucciso impiccandosi con un lenzuolo. Il giovane, con problemi di tossicodipendenza, era stato arrestato nel luglio scorso per furto, ed era recluso "a disposizione dell’autorità giudiziaria".

Su questo nuovo caso è intervenuta Rita Bernardini, deputata dei Radicali/Pd e membro della Commissione giustizia. "Oggi in quell’istituto penitenziario - ha detto la deputata - erano presenti 258 detenuti su una capienza regolamentare di 128 posti. Credo che il Ministro Alfano non possa continuare a limitarsi a fare dichiarazioni che prospettano soluzioni a medio o lungo termine come quelle che si riferiscono alla costruzione di nuove carceri".

Secondo Bernardini, "occorrono misure urgenti da più parti proposte per arginare l’emorragia di vite umane che si manifesta con l’incredibile numero di suicidi o con la morte civile e senza speranza di chi è costretto a vivere in modo indegno di un Paese civile. E qui ci metto anche tutto il personale, direttori compresi".

Sassari: pestaggio San Sebastiano; 2 assoluzioni, 7 prescrizioni

 

L’Unione Sarda, 30 settembre 2009

 

Sono colpevoli, secondo il collegio del Tribunale di Sassari, sette agenti, imputati nel processo bis, che parteciparono al maxi pestaggio del 3 aprile del 2000 all’interno del carcere sassarese e non scelsero di affrontare il processo con il rito abbreviato. Colpevoli anche se i reati di lesioni, violenza privata e abuso d’ufficio sono stati derubricati in reati minori, e dunque meriterebbero di essere condannati, ma la prescrizione, arrivata dopo un processo durato troppi anni, ha evitato a tutti la condanna.

La sentenza è arrivata nel pomeriggio. Il presidente Massimo Zaniboni e i giudici a latere Antonello Spanu e Maria Teresa Lupinu hanno accolto in parte la richiesta dell’accusa. Il pubblico ministero Gianni Caria aveva chiesto per tutti l’assoluzione e la concessione delle attenuanti generiche, le stesse di cui avevano beneficiato tutti gli altri imputati che scelsero il rito abbreviato, compresi i vertici della polizia penitenziaria.

A questa richiesta si erano opposti gli avvocati di parte civile. Secondo i difensori delle parti offese chi ha scelto il rito ordinario non avrebbe dovuto beneficiare degli "sconti" ottenuti da chi è stato processato con il rito abbreviato. Due anni fa, per chi aveva scelto il rito abbreviato, era arrivata la condanna inflitta al capo delle guardie Ettore Tomassi, all’ex provveditore regionale alle carceri Giuseppe Della Vecchia, all’ex direttrice del carcere Maria Cristina Di Marzio e a otto agenti di polizia penitenziaria. Per altri 44 agenti era arrivata, invece, l’assoluzione in primo e secondo grado che la Cassazione aveva confermato.

Chieti: il carcere scoppia, a Villa Stanazzo protestano gli agenti

 

Il Centro, 30 settembre 2009

 

Carenza di personale, ricorso eccessivo agli straordinari, aumento dei detenuti, degrado della struttura carceraria: si alza la protesta degli agenti della polizia penitenziaria davanti al carcere di Villa Stanazzo. Gli agenti hanno organizzato un sit-in di protesta contro una situazione che loro definiscono "ai limiti della legalità".

"Una situazione inaccettabile sia dal punto di vista della sicurezza pubblica che per il personale in servizio", denunciano le sigle sindacali Cgil, Cils, Uil, Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), Osapp (organizzazione sindacale polizia penitenziaria), Sinappe (sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria) e Cnpp (coordinamento nazionale polizia penitenziaria). Il problema gira attorno ai tagli che hanno toccato anche le strutture penitenziarie.

Nel carcere di Villa Stanazzo vi sono ad esempio 135 agenti a fronte di 315 detenuti ospitati in un carcere costruito per accoglierne massimo 202; il numero degli agenti è diminuito del 20 per cento Il risultato, indicano i rappresentanti sindacali, sono i mesi di ferie arretrate non fruite; l’annullamento delle sentinelle per mancanza di personale; le ore di straordinario che superano le ore ordinarie; un agente che nelle ore notturne deve sorvegliare due reparti con 120 detenuti. Al sovraffollamento si aggiungono poi i problemi strutturali che si trascina Villa Stanazzo.

Sempre gli agenti di polizia penitenziaria segnalano ambienti fatiscenti con muffa e cattivi odori, perdite continue dall’impianto idrico, ratti e fogne che straripano. I rappresentanti sindacali: "Questa situazione è nota da 4 anni al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e al ministero e, anziché migliorare con il rientro del personale distaccato, è destinata a peggiorare con l’apertura di altre due sezioni, di cui una psichiatrica, in aggiunta alla sezione di alta sicurezza e alle due sezioni di congiunti di collaboratori".

Catania: al via "Anrel", Agenzia per reinserimento ex detenuti

 

Adnkronos, 30 settembre 2009

 

L’Agenzia nazionale reinserimento e lavoro ex detenuti (Anrel) prenderà ufficialmente il via a Catania questo fine settimana nell’ambito della tre giorni del Convegno Internazionale Sturziano, nel quale, da venerdì a domenica, verrà ripercorsa l’attualità e l’attuabilità della visione sturziana della storia e rilanciare nuove prassi di intervento sociale e di dialogo tra fede, politica e società.

L’agenzia, informa una nota, nasce da una Convenzione firmata oggi tra ministero della Giustizia e Fondazione "Mons. Di Vincenzo" e si avvarrà della collaborazione di importanti soggetti tra cui il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il Comitato nazionale per il microcredito, la Regione Lombardia, la Regione Veneto, la Regione Lazio, la Regione Campania, la Regione Sicilia, la Caritas italiana, Rinnovamento nello Spirito Santo, le Acli, la Coldiretti, la Fondazione "Sviluppo oasi città aperta".

L’attività dell’Anrel si rivolge a detenuti con una pena residua inferiore ai tre anni e ad ex detenuti a rischio di recidiva e privi di tutela per il reinserimento sociale, con la finalità di creare percorsi di formazione professionale e reinserimento lavorativo attraverso un tutoraggio personalizzato e di operare come un vero e proprio incubatore di impresa. Per agevolare l’incontro di domanda e offerta di lavoro sarà costituita una Banca dati nazionale che conterrà i profili significativi dei soggetti entrati nei percorsi di reinserimento, desiderosi di avviare un’impresa o di essere collocati in enti pubblici e privati.

Genova: maxi-rissa tra detenuti; sindacati di polizia protestano

 

L’Espresso, 30 settembre 2009

 

Il carcere scoppia, il 60% sono immigrati. E l’ora d’aria si trasforma spesso in una guerra tra bande. Pavimenti luridi, avanzi di cibo per terra e gente che dorme su letti a castello tripli. La droga entra dentro le celle e i gruppi si affrontano per il controllo dello spaccio L’alleanza si è spezzata. Nella logica dei clan, uno sgarro, un pestaggio, la violazione di un accordo nel business dello droga, può far vacillare in un attimo, se non saltare, un equilibrio precario. Le risse in carcere si susseguono, ma l’ultima, tra almeno cento detenuti marocchini e tunisini, si capisce, ha un significato particolare. La polizia penitenziaria, adesso più di ieri, ha buone ragioni per dirlo. "A Marassi ci sono 700 detenuti - spiega Mirko Manna, segretario generale del Lisiapp, dopo l’ispezione del sindacato in carcere - e il 60% sono stranieri. Ormai è normale che si creino gruppi che vogliono dominare".

C’è chi ha potere perché ha più soldi o perché fa girare la droga. "Non deve essere un segreto: a Marassi la droga entra, eccome, e gli accordi o le inimicizie ruotano anche intorno allo spaccio", denuncia il segretario regionale Gerardo Scarpato. I due gruppi si sono divisi i metri quadrati del cortile e li controllano come se fossero una proprietà privata. Ogni cosa ha un criterio ed è legata a doppio filo ai rapporti che si stabiliscono al di là delle sbarre. "Una settimana fa un detenuto africano è stato massacrato di botte - continua Scarpato - e quelli dell’altro gruppo hanno deciso di vendicarlo". La scintilla è scoppiata durante i passeggi, per capirci l’ora d’aria. "Erano almeno cento persone, ma solo una quarantina se le sono date di santa ragione. Siamo intervenuti in forze, intendiamoci, con quelle che abbiamo, e siamo riusciti a fermarli. Dieci, i veri protagonisti della scazzottata, sono finiti in infermeria".

Da un paio di mesi si vociferava che la convivenza tra tunisini e marocchini fosse diventata difficile. "La situazione in carcere non è mai stata così allarmante - spiega Claudio Panetta, segretario nazionale del Lisiapp - ed è arrivato il momento che le forze politiche sappiano quali sono i problemi che affronta tutti i giorni la polizia penitenziaria. Non è più possibile lavorare in queste condizioni: qui non si sono neppure duecento agenti, che lavorano anche venti giorni di fila senza riposarsi".

"Le ore di straordinario non si contano più - aggiunge Roberto Santini, segretario generale del Sinappe - e ci vengono pagate dopo mesi e mesi a 5 euro e 20!". Il direttore del carcere Salvatore Mazzeo non è presente quando i sindacalisti girano tra le celle e vieta l’ingresso in carcere alla stampa. "Le condizioni igieniche sono pessime: abbiamo trovato pavimenti luridi, avanzi di cibo sotto i letti, negli angoli. I detenuti sono costretti a vivere in condizioni disumane, dormono su letti a castello tripli, sfiorando con la testa il soffitto...".

Il sovraffollamento non solo crea tensioni, ma anche problemi di sicurezza. "Può capitare che un agente nell’ora d’aria si trovi a gestire anche 200 detenuti - sottolinea Mirko Manna - come è capitato il giorno della rissa. Per fortuna abbiamo la caserma interna e siamo riusciti a riportare alla calma una situazione davvero delicata. Ma solo perché sono intervenuti colleghi anziani, che i detenuti conoscono e rispettano. Se fosse stato in servizio un agente appena assunto, sarebbe stata la fine". I poliziotti feriti non si contano.

"Ma dobbiamo denunciare anche altro. Un collega si è trovato davanti venti detenuti che lo hanno sbattuto contro un muro, un altro è stato accerchiato e siamo arrivati in tempo prima che lo pestassero". "E pensare che il provveditore regionale sta puntando sul "controllo dinamico" - conclude Scarpato - . Si risparmiano forze e denaro, ma con un agente ogni uno due piani l’evasione o l’aggressione è più facile e la colpa è tutta nostra".

Treviso: Cgil-Fp; l’Istituto Penale Minorile deve restare in città

 

Comunicato stampa, 30 settembre 2009

 

Nei giorni scorsi abbiamo appreso dalla stampa locale che la Commissione Sociale del Comune di Treviso ha approvato un documento del consigliere Bolzonello, con l’appoggio dell’assessore Michielon, che chiede una risoluzione definitiva all’annosa questione riguardante la nuova sede per l’Istituto Penale per i Minorenni.

Il documento, dopo un passaggio in consiglio comunale, si è tradotto in una nota inviata al Ministero della Giustizia nella quale si evidenzia la necessità di costruire una nuova struttura oppure l’individuazione di una sede più idonea nel territorio interregionale.

Questa iniziativa è sicuramente meritoria, in quanto l’inadeguatezza dell’attuale struttura detentiva, rispetto alle finalità rieducative che la legge minorile prevede, è da tempo sotto gli occhi di tutti ed è stata oggetto di numerose segnalazioni al Ministero tra cui anche quelle formulate da questa Organizzazione Sindacale.

Tuttavia, particolare allarme sta suscitando nei lavoratori del carcere minorile l’indicazione di reperire, in alternativa, una struttura nel territorio interregionale il che significa, tenuto conto della ripartizione amministrativa della giustizia minorile, cercare una struttura nell’intero Triveneto! Quest’ultima soluzione, a parere della Fp-Cgil rischia di essere peggiore del problema che intende risolvere. In primo luogo, crediamo non sia un dettaglio da poco conto il fatto che per oltre 40 dipendenti, attualmente in forza all’Ipm, bisognerà trovare una ricollocazione professionale in un altro contesto lavorativo, aspetto questo che al momento non pare di semplice soluzione.

Inoltre, crediamo che chiunque abbia avuto modo di lavorare a vario titolo con una realtà detentiva, sappia quanto sia lunga e faticosa la strada per costruire relazioni tra il carcere e il territorio per consentire ai giovani detenuti di studiare, lavorare, curarsi, in altre parole reinserirsi in modo proficuo nella società.

Nonostante le importanti riforme che hanno fatto della giustizia minorile italiana una delle più avanzate al mondo, ancora oggi il carcere è visto come un luogo a parte che suscita timori e diffidenze. Solo grazie al lavoro costante e qualificato di tutto il personale dipendente ed alla preziosa collaborazione offerta da insegnanti, animatori, operatori socio-sanitari, volontari, fino ad arrivare ai vertici delle istituzioni locali e no-profit, è stato possibile far sì che la struttura sia una delle più dinamiche e innovative sul piano della progettualità nazionale per i giovani detenuti.

È quindi ovvio che l’eventuale spostamento della struttura fuori dalla città cancellerà in un colpo solo oltre vent’anni di lavoro costringendo tutti, compresi i minori, a ripartire da zero.

La Fp-Cgil condivide pertanto le preoccupazioni espresse sia dal personale di polizia penitenziaria che dai dipendenti civili, i quali rischiano di trovarsi impossibilitati a proseguire il proprio lavoro all’interno della struttura trevigiana.

Come Fp-Cgil chiederemo in breve tempo notizie al Dipartimento Giustizia Minorile sul futuro dell’Ipm, riservandoci di valutare ogni eventuale iniziativa utile a tutela dei lavoratori.

 

La Segreteria Fp-Cgil Treviso

Firenze: detenuto picchiato un agente penitenziario a processo

 

La Repubblica, 30 settembre 2009

 

"Ho fatto solo una battuta e sei agenti mi hanno pestato", denunciò nel dicembre 2007 un immigrato tunisino di 27 anni detenuto a Sollicciano. Dopo aver disposto una consulenza medica e aver ascoltato un gran numero di testimoni, fra cui i medici e gli infermieri del carcere, una insegnante e i compagni di cella del detenuto, che è assistito dall’avvocato Michele Passione, il pm Giuseppe Bianco si è convinto che il 20 novembre 2007 il giovane, in carcere per droga, sia stato effettivamente picchiato ma che, in base agli elementi raccolti, sia possibile contestare il pestaggio con ragionevole certezza a un solo agente di polizia penitenziaria, il capoposto in servizio quel giorno.

Nei confronti del graduato, 47 anni, difeso dall’avvocato Emilio Macari, è stata formulata richiesta di rinvio a giudizio per lesioni aggravate e falso nella relazione di servizio, nella quale non si faceva alcun cenno alla lezione data al detenuto. Lo stesso sottufficiale era già stato citato a giudizio per le botte ad un altro recluso, secondo le accuse colpito alla testa il 21 settembre 2007 con una gamba di un tavolo.

Belluno: Bottaccin (Lega); 63% di detenuti è extracomunitario

 

Il Corriere delle Alpi, 30 settembre 2009

 

Il presidente della Provincia Gianpaolo Bottacin, accompagnato dai consiglieri regionali Luca Baggio e Federico Caner, ha visitato il carcere di Belluno per verificare le condizioni in cui vivono i detenuti e le celle in cui sono rinchiusi. "La prima cosa che mi ha colpito è stato il numero di detenuti veneti, solo il 26% del totale", ha commentato Bottacin.

"Il 63% dei carcerati è extra-comunitario, ad indicare il fatto che se questi criminali venissero spediti a scontare la pena nei loro Paesi, le nostre prigioni sarebbero quasi vuote". "Ho trovato una struttura relativamente datata, con un’ala che è stata recentemente restaurata", prosegue. "L’organico in servizio sarebbe più che sufficiente se solo non si trovasse a dover gestire anche tutte quelle persone che anziché scontare la propria detenzione qui fossero rispedite a casa loro".

Immigrazione: monsignor Nogaro... se l’Italia perde l’umanità!

di Angelo Paoluzi

 

Europa, 30 settembre 2009

 

A chi ha esortato, di recente, a non disturbare il manovratore, per esempio, su un problema come quello dei provvedimenti restrittivi che riguardano i clandestini in arrivo sulle nostre coste, è arrivata una risposta, da prete a prete, suffragata da una illustre citazione. Il cardinale Angelo Bagnasco, nella relazione dì apertura al recente Consiglio permanente della Cei, ha riproposto le parole di Benedetto XVI contenute al n. 62 dell’enciclica Caritas in ventate: "Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati in ogni situazione".

Il presidente della Conferenza episcopale ha aggiunto altre considerazioni, sperabilmente condivise dalla maggioranza dei cattolici, e che, con la dovuta misura, si aggiungono ai rilievi altrimenti pesanti delle Nazioni Unite, dell’Unione europea, delle agenzie umanitarie e di tutela dei diritti dell’uomo, del presidente del Pontificio consiglio dei migranti, monsignor Antonio Maria Vegliò, nonché dell’unanime arcipelago dell’associazionismo cattolico, nei confronti dei dispositivi anti-immigratori approvati dal governo.

Una dura requisitoria è contenuta, a questo proposito, nel libro-intervista dal titolo Ero straniero e mi avete accolto, nel quale si raccolgono le riflessioni, a cura di Orazio La Rocca, di monsignor Raffaele Nogaro, già vescovo di Sessa Aurunca e poi di Caserta (Editori Laterza, Bari 2009, pagg. 130, 14 euro). Il capitolo si intitola "Gli immigrati non sono merce" e in esso monsignor Nogaro (notoriamente un vescovo "scomodo" al quale le

gerarchie, come lui stesso ammette, hanno dato qualche tirata d’orecchie) si esprime con decisa libertà, affermando fra l’altro: "La denuncia dell’abbandono o, addirittura, delle persecuzioni di certe categorie sociali non è sufficiente. È necessario - aggiunge - che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi nelle forme più attente e senza timori reverenziali". Riconoscendo peraltro il ruolo da protagonisti svolto, per esempio, dal compianto monsignor Luigi Di Liegro e da realtà associative e di volontariato, le Acli, l’Arci, la Caritas, "tanti giovani e tanta gente comune".

Monsignor Nogaro si dice "ulteriormente preoccupato per il clima culturale complessivo che si respira sull’immigrazione, non solo in Italia. È spaventoso - sottolinea - il decadimento del senso di umanità nei confronti di questi nostri fratelli più sfortunati. L’uomo è ridotto a merce, ed è colpito da con-tinue forme di violenza. Dispiace dirlo, ma si sta smarrendo il senso del valore inviolabile, supremo, della vita umana. E quel che dispiace ulteriormente è vedere che accade anche nel nostro paese, la civilissima Italia".

Eppure il libro (che ha come sottotitolo II Vangelo a Caserta) non si limita alla denuncia di situazioni chiaramente negative perché è in grande sintonia con le preoccupazioni espresse dalla Chiesa: basterà ricordare il Compendio della dottrina sociale, al quale si può osservare non sembrino adeguatamente attingere uomini pubblici che si professano rispettosi dell’etica cristiana. Il vescovo emerito di Caserta, in una serie di capitoli che toccano molti temi, dalla politica all’ambiente, dalla malavita alla guerra, propone infatti con passione pastorale la radicalità dei valori del Vangelo prima a se stesso e poi agli altri in una prospettiva di speranza e di impegno (talvolta, ci permettiamo di dire, esternato con una certa enfasi) che naturalmente sconcerta quelli che definisce "i professionisti del sacro", solleciti più delle forme che della sostanza.

Canta fuori del coro, ma non è il solo (si pensi alle denunce di Famiglia cristiana e a quelle che hanno procurato le note tensioni con Avvenire). Tanto per restare nell’attualità si potrebbe citare il cardinale arcivescovo di Monaco di Baviera, Reinhard Marx, che rilegge II Capitale del suo omonimo Karl, facendo la tara fra le radici di ricerca della giustizia e le esasperate conseguenze ideologiche. Monsignor Nogaro solleva i problemi che interpellano il popolo di Dio (un’espressione che a qualcuno, anche non mondo cattolico, non piace) e per i quali si attendono, a suo parere, altre risposte da quelle, giudicate blande, che si offrono.

Risposte che, per esempio, furono date dalle chiese tedesche, cattolica e protestante, con il documento comune dal titolo biblico Lo straniero che bussa alla porta, predisposto nel 1997 sul tema scottante della presenza in Germania di extracomunitari (sette milioni di persone) e fra loro di quelli che chiedevano asilo. Resta nella memoria delle cronache la foto delle suore cattoliche che si incatenarono dinanzi al loro convento per impedire alla polizia di arrestare un gruppo di "asylanten".

Ci fu una severa crisi di rapporti fra confessioni e stato: l’allora ministro degli interni, il democristiano Manfred Kanther, aveva minacciato l’intervento della forza pubblica. Desistette, e con lui il governo, di fronte alla levata di scudi ecclesiale e dopo che l’arcivescovo di Berlino, il cardinale Georg Sterzinsky, aveva affermato che di fronte agli agenti ci sarebbe stato anche lui. Bella lezione che potrebbe essere meditata dai cappellani del centrodestra. Il contrasto si compose con il ricorso a una serie di provvedimenti, ancor oggi in vigore, che tutelano i diritti di quanti richiedono asilo politico e che da allora non vengono respinti alle frontiere; come accade oggi da noi - costata amaramente monsignor Nogaro - senza neppure un tentativo di interrogatorio.

Immigrazione: 114 detenuti Ponte Galeria in sciopero di fame

 

Comunicato stampa, 30 settembre 2009

 

Da tre giorni 114 immigrati del Cie di Ponte Galeria sono in sciopero della fame per protestate contro le norme anti immigrazione del governo, soprattutto quella che prevede l’allungamento a sei mesi della permanenza nei Centri di clandestini. La notizia è stata diffusa dal Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Attualmente a Ponte Galeria sono ospitate 242 persone, 129 uomini e 113 donne.

Ieri sera, a quanto appreso dagli operatori del garante, gli immigrati in sciopero della fame hanno sigillato le serrature dei cancelli e lanciato oggetti contro gli operatori della Croce Rossa. Un immigrato quarantenne che non voleva partecipare allo sciopero della fame è stato colpito ad una spalla e costretto a ricorrere alle cure dei medici.

Anche questo episodio indica il grado di tensione che c’è nel CIE. "Ormai anche a Ponte Galeria è arrivata questa tensione, che si respira da giorni nei Cie di tutta Italia e che immagini come quelle di oggi del bus acchiappa immigrati di Milano non contribuiscono a sedare - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Marroni - È evidente che la norma che prevede, anche retroattivamente, un periodo massimo di permanenza nel Cie di 180 giorni sta trasformando questi Centri in vere e proprie carceri. Se continua così saranno i Cie e le carceri la prossima emergenza nazionale".

 

Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio

 

 

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