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Giustizia: Alfano; da Europa soldi per costruire nuove carceri
Apcom, 28 settembre 2009
L’Italia porterà avanti un progetto politico insieme a altri paesi europei per indurre l’Unione europea ad aiutare i singoli paesi ad affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, durante il suo intervento al convegno all’interno della Festa della Libertà a Milano. Alfano ha ricordato che la Corte di giustizia europea alcune settimane fa ha sanzionato il nostro paese con una multa di mille euro perché un detenuto bosniaco "stava troppo stretto in carcere". Il Guardasigilli ha ricordato che il 35% dei detenuti nelle carceri italiane e straniere e che l’Unione europea non ci aiuta per niente a risolvere il problema. "La capienza regolamentare delle nostre carceri è di 43mila posti, quella effettiva è di 63mila ma oggi ne ospitiamo 64mila di cui oltre 20mila sono stranieri. Alfano si è lamentato del fatto che l’Unione europea non fa applicare i trattati che impongono il ritorno dei detenuti stranieri nelle carceri dei propri paesi e che l’Italia, oltre ha subire il danno dei reati compiuti nel nostro paese, deve pagare il costo dei processi e quello del mantenimento dei detenuti. Il ministro della Giustizia ha anche detto di stare lavorando di concerto con alcuni ministri della Giustizia di paesi europei per costringere l’Unione europea a far rispettare i trattati che impongono il rientro dei detenuti oppure "di farci dare i soldi per edificare le carceri". Il Guardasigilli ha anche ricordato che in 60 anni di Repubblica per risolvere il problema del sovraffollamento sono state fatte 30 tra amnistie e indulti, "una ogni due anni", mentre questo governo "vuole costruire nuove carceri". Giustizia: cappellano Poggioreale; sesso un diritto dei detenuti
Corriere del Mezzogiorno, 28 settembre 2009
Misure alternative obbligatorie per i detenuti che devono scontare fino a quattro anni di reclusione, beneficio della liberazione anticipata di 60 giorni ogni sei mesi di buona condotta, nuove soluzioni per affrontare la disciplina dei rapporti affettivi, ossia possibilità per i reclusi di avere momenti di intimità con le proprie mogli. Raccolta firme - Sono queste alcune delle proposte del Movimento "Uomo Nuovo", presentato sabato nella sede del centro diocesano di Pastorale carceraria, da cui prende vita. Il movimento intende portare all’attenzione del Parlamento e per cui, da domenica prossima, saranno raccolte delle firme. Il cardinale presente - Al battesimo del movimento ha partecipato il cardinale Sepe che ha ricordato come "nessun uomo è condannato a vita e che tutti devono avere la possibilità di redimersi", per questo Sepe ha lanciato un appello alle istituzioni per le umanizzazioni delle carceri. "Il movimento intende creare un ponte tra chi vive tra le mura di un carcere e la realtà esterna" ha spiegato il presidente don Franco Esposito, che è anche cappellano di Poggioreale e direttore dell’Ufficio di Pastorale carceraria della diocesi. Vi hanno già aderito oltre mille detenuti dalla Campania. "Le proposte di legge che presentiamo - hanno precisato don Franco Esposito e Nicola Trisciuoglio, vice presidente di Uomo Nuovo - sono tutte tese al miglioramento della vivibilità dei detenuti nelle carceri. Quanto alla disciplina dei rapporti affettivi, consideriamo che l’isolamento detentivo nella misura in cui agisce sul corpo agisce sull’anima e sull’identità di un soggetto. Il carcere come oggi concepito significa sequestro del corpo e soppressione delle sue pulsioni naturali primarie. L’attuale normativa non contiene alcun articolo che vieti la sessualità come espressione della propria affettività. Il livello istituzionale a questo riguardo è testimonianza di un grave inadempimento dello Stato rispetto ad una soluzione del problema". La denuncia - Continuano i responsabili dell’associazione: "A Poggioreale ad esempio, in una stanza di 200 metri quadrati, ci sono centinaia di persone che parlano tutti insieme con bambini e parenti, stare un po’ di tempo in tranquillità con il coniuge è anche un modo per non abbrutirsi". Don Franco ha anche ricordato i due progetti che il Centro di Pastorale carceraria sta portando avanti: "Mai più ai margini" ha consentito ad otto ex detenuti di ottenere borse-lavoro di 500 euro. "Non più legami" si propone di spezzare i legami che legano i detenuti alla camorra. È rivolto soprattutto ai quei giovani che vanno in carcere per la prima volta, nei quali la malavita trova la propria manovalanza, pagando i loro avvocati e sostenendo le famiglie. Una volta usciti, questi ragazzi sono in debito con loro e quindi costretti a delinquere. "Noi invece proponiamo alle parrocchie di adottare un detenuto - ha spiegato il sacerdote - sostenendo le spese necessarie, in questo modo li sottraiamo alla malavita". Giustizia: Franco Corleone ha interrotto lo sciopero della fame
Comunicato stampa, 28 settembre 2009
Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, ha sospeso il digiuno iniziato il 24.09.09, che aveva come scopo di denunciare la situazione al limite del collasso del carcere di Sollicciano e il silenzio del Dap alle richieste formulate personalmente e con una lettera al Capo del Dap, Dott. Franco Ionta. In seguito a questa iniziativa la Dott.ssa Maria Pia Giuffrida, Provveditrice dell’Amministrazione Penitenziaria per la Regione Toscana, ha promosso un incontro con il Garante, il Direttore del carcere di Sollicciano, Dott. Oreste Cacurri e con la Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Dott.ssa Antonietta Fiorillo, assicurando la massima attenzione per la situazione di Sollicciano e l’utilizzo di strutture come Empoli e il Gozzini, per diminuire le presenze nella Casa Circondariale di Firenze. È stato anche illustrato un progetto per un riordino complessivo delle presenze a Sollicciano, che avrebbe lo scopo di rendere più gestibile l’istituto sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Purtroppo i tempi per queste razionalizzazioni non sono brevi e nel frattempo a Sollicciano si sfiora la quota mille. "Ho anche avuto contatti telefonici con il Dap e ho ribadito le richieste che considero minime per dare un segno di attenzione a questo mondo in grave sofferenza. Ho ribadito quindi la richiesta della chiusura o comunque del trasferimento della Casa di Cura e Custodia per detenute donne seminferme di mente, un finanziamento straordinario per l’approntamento di una seconda cucina per la sezione maschile e per l’allargamento dei passeggi destinati all’ora d’aria. Infine ho chiesto una risposta per l’effettivo esercizio del diritto alle telefonate ai familiari e per la misura alternativa del rimpatrio per i detenuti stranieri con pena sotto i due anni, che ne facciano richiesta." È stata manifestata ampia solidarietà e interesse per la soluzione dei problemi del carcere da parte del Comune, Provincia e Regione. Non c’è molto tempo e fra pochi giorni sarà indispensabile fare un bilancio e decidere nuove iniziative. Giustizia: 81 mln € di risarcimenti per la lentezza dei processi di Andrea Maria Candidi
Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2009
A metterli in fila uno dopo l’altro ci riporterebbero in pieno pleistocene, quando i neandertaliani cominciavano a cedere spazio all’homo sapiens: sono gli 80mila anni di ritardo accumulati dalla giustizia per i quali lo Stato ha pagato risarcimenti. In tutto 81 milioni di euro. Per i processi che hanno una durata ritenuta "non ragionevole" è infatti prevista un’equa riparazione che - tradotta nei fatti - si aggira intorno ai mille euro per ogni anno di lungaggine. Un’innovazione, quella di chiedere conto all’amministrazione delle sue inefficienze, relativamente recente, perché in Italia l’apposita legge (la Pinto, che come costume porta il nome di chi l’ha proposta) data 2001. Fino ad allora ci si rivolgeva a giudici internazionali, i guardiani dei diritti dell’uomo di Strasburgo: in casa nostra nessuno si era posto il problema che sia un danno avere una macchina giudiziaria farraginosa, che soprattutto nel settore civile impiega lustri e decenni prima di arrivare a definire una controversia su una proprietà o su un inadempimento contrattuale. E come tutti i danni che si rispettino deve esserci qualcuno che paga, anche se poi è lo Stato, cioè i cittadini che risarciscono se stessi. Da quando è in vigore la legge Pinto, sono state definite circa 40mila richieste di risarcimento (questi i dati del ministero della Giustizia a fine 2008), con un trend in costante aumento nel tempo. Un’autentica debacle e non solo per le già esauste casse erariali, ma anche perché quello per la liquidazione dell’indennizzo è un procedimento vero e proprio che appesantisce ulteriormente il lavoro dei giudici. Il tutto a prescindere dal problema "a monte", cioè la lentezza delle cause, che è rimasto come era. Ecco allora che in parlamento è in discussione una proposta di modifica della legge Pinto che in parte dovrebbe rendere la procedura un po’ più veloce e che, qui e lì, mette qualche bastone tra le ruote del meccanismo per impedire che le cifre sin qui citate peggiorino ancora. La riforma fissa i tempi massimi dei procedimenti, ad esempio tre anni in primo grado. Stabilisce però che chi intende chiedere l’indennizzo dovrà presentare sei mesi prima della scadenza del termine "ragionevole" una richiesta al giudice affinché la causa sia trattata prioritariamente. Altrimenti non avrà poi diritto ad avere denaro o lo avrà in misura minore. In pratica dovrà usare lo spettro del risarcimento come una minaccia, agitarlo come una clava. Proprio come il Fred Flinstone degli Antenati.
Filtro agli indennizzi sui processi lunghi
Nuova chance per modificare la legge Pinto che regola l’indennizzo per la violazione della durata ragionevole dei processi. Il testo che è stato stralciato dal decreto Ronchi per l’attuazione di obblighi comunitari è infatti contenuto quasi alla lettera nel Ddl sul processo penale (atto 1440) che la commissione Giustizia del Senato dovrebbe licenziare a breve. Una serie di misure che - a partire dalla fissazione della durata ragionevole del processo in sei anni per i tre gradi - hanno il non troppo celato obiettivo di porre un freno al proliferare delle richieste di indennizzo (finora sono stati liquidati oltre 81 milioni di euro a fronte di circa 40mila ricorsi definiti). In barba anche ad alcuni dei paletti della Corte europea dei diritti dell’uomo (si veda l’intervento a destra), le cui condanne hanno indotto l’ordinamento italiano a dotarsi di un’apposita legge per governare il problema dell’eccessiva lungaggine dei processi. Una legge che stenta a produrre effetti sperati di "contrazione" dei tempi di giustizia, anche se sarebbe ingeneroso imputarle troppe responsabilità. Anche perché la questione centrale non è certo la verifica della sussistenza o meno del diritto all’indennizzo, ma è, e non potrebbe essere altrimenti, l’individuazione di una strategia di più ampia portata per ricondurre i tempi della giustizia a binari più in linea con quelli degli altri paesi europei. Le modifiche sono però necessarie, perché il numero sempre crescente di richieste di risarcimento - di competenza delle Corti d’appello - rischia di ingolfarne ulteriormente il lavoro. Al punto tale che si sono già registrati casi di indennizzi per l’eccessiva durata del procedimento di indennizzo, la cosiddetta "Pinto sulla Pinto". In quest’ottica, tra gli interventi che si vogliono approvare è interessante quello che punta a snellire il procedimento, scardinandolo dall’alveo prettamente giurisdizionale, riportandolo su un terreno di carattere amministrativo. In sostanza sarà il presidente della Corte d’appello, o un giudice da questi delegato, che con il contributo del personale amministrativo dell’ufficio deciderà se accogliere la richiesta e stabilire l’entità dell’indennizzo. Di fatto questo dovrebbe sgravare l’ufficio dal dovere seguire le rigidità della prassi, ad esempio non sarà più necessario convocare una camera di consiglio. Lasciando la fase tipicamente contenziosa ai soli casi in cui l’interessato non sia soddisfatto della decisione adottata. Per evitare però che tutto questo non si trasformi nell’ennesima causa di ritardo è necessario non solo che vengano presentate istanze che abbiano qualche possibilità di successo, ma anche e soprattutto che i giudici facciano buon uso dello strumento pre-contenzioso. Ad esempio, evitando di utilizzare parametri di riferimento troppo distanti da quelli accettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. In altre parole, se è universalmente riconosciuto un indennizzo tra 1.000 e 1.500 euro per ogni anno di ritardo, è inutile continuare a liquidare, come troppo spesso accade, cifre molto più basse. Giustizia: se lodo Alfano viene bocciato potrebbe essere peggio di Stefano Passigli
La Stampa, 28 settembre 2009
Ideato per rispondere all’esigenza tutta politica di "scudare" Silvio Berlusconi dal processo Mills, era forse inevitabile che, approssimandosi il giudizio della Corte Costituzionale, il Lodo Alfano tornasse a dar vita a un vivace scontro politico. Del tutto improprio ed evitabile era invece mescolare logica giuridica e considerazioni politiche come ha fatto la memoria dell’Avvocatura, assumendo di conseguenza l’aspetto di una indebita pressione sulla Corte. Distinguiamo dunque tra valutazioni giuridiche e giudizi politici e, lasciando questi alla coscienza di ciascuno, esaminiamo l’oggetto su cui la Consulta dovrà pronunciarsi. Il Lodo Alfano nasce dai tre profili di incostituzionalità rilevati dalla Corte nel precedente Lodo Schifani, a sua volta erede della proposta Maccanico: una violazione del diritto alla difesa di quel Capo di Stato, presidente del Consiglio o delle Camere che volesse vedersi giudicato e assolto; una lesione del diritto della parte offesa a essere risarcita dei danni morali e materiali subiti; e, infine, una violazione del principio costituzionale di eguaglianza.
Il principio di eguaglianza
I primi due profili appaiono ai più tra i giuristi essere stati sanati dalla nuova formulazione del Lodo. Non così la violazione del principio di eguaglianza, da intendersi - si badi bene - non come eguaglianza tra i titolari delle massime cariche dello Stato e i cittadini, ma eguaglianza tra chi ha parità di status. Introdurre nella giustizia penale un trattamento privilegiato per chi ricopre particolari cariche istituzionali può ripugnare alla coscienza democratica e apparire anacronistico (e infatti un’immunità - anche solo temporanea - dal giudizio penale non esiste per alcun capo di governo di una democrazia, ma solo per la Regina d’Inghilterra, il Re di Spagna, e per il presidente francese quale Capo di Stato e non per le sue funzioni di governo) ma non contrasta necessariamente con il principio di eguaglianza. Quest’ultimo infatti impone che una norma si applichi in egual maniera a chiunque abbia eguale status, ma non preclude che norme diverse si applichino a chi ha status diversi. Nel caso del Lodo Alfano, che al Presidente della Repubblica si applichi una norma diversa da quella applicabile agli altri cittadini può giustificarsi (ripeto: dal punto di vista della logica giuridica e non della teoria democratica) per l’unicità delle sue funzioni, ma è dubbio che ciò possa estendersi ai presidenti delle Camere (il cui status è diverso da quello degli altri rappresentanti solo per le funzioni svolte all’interno delle istituzioni parlamentari), ed è sicuramente non estensibile al presidente del Consiglio.
Il giudizio della Consulta
Nel nostro ordinamento, infatti, il cosiddetto "premier" resta formalmente, malgrado i recenti sviluppi della costituzione materiale, un primus inter pares all’interno di un Consiglio dei ministri che è organo collegiale. Il giudizio della Corte è dunque tutt’altro che scontato e vi sono ampi margini per una pronuncia di illegittimità. Quali ne sarebbero in tal caso le conseguenze? Non credo quelle ad arte paventate dall’Avvocatura. All’indomani di un giudizio negativo della Corte, il premier potrebbe infatti forzare il governo e la sua docile maggioranza parlamentare (docile perché da lui stesso nominata grazie alla legge Calderoli) a estendere a tutti i ministri l’immunità prevista dal Lodo a suo favore, e - se reso necessario dalla sentenza - quella dei presidenti delle Camere a tutti i parlamentari, così reintroducendo rafforzata quell’immunità parlamentare cacciata a furor di popolo soltanto quindici anni fa. Paradossalmente, potremmo insomma assistere a un effetto opposto a quello auspicato dagli oppositori del Lodo. Ma come reagirebbe la pubblica opinione a una simile manovra elusiva di una sentenza? E alla luce delle crescenti tensioni nel Pdl, esisterebbe ancora una maggioranza disposta a vararla? E ancora: i cittadini verrebbero informati a sufficienza dai media? Come si può vedere, il tema del conflitto di interessi resta attuale. E il tema di una riforma elettorale che restituisca autonomia al Parlamento sempre più urgente. Giustizia: l’Espresso e le bugie sul detenuto Mario Moretti di Sandro Padula
L’Altro, 28 settembre 2009
Il settimanale L’Espresso non risulta essere molto garantista e libertario come negli anni 70. L’ultima dimostrazione in ordine di tempo, presente sul proprio sito Internet e nel numero che porta la data del 22 settembre, sembra costituita da una "testimonianza di Francesco Fonti raccolta da Riccardo Bocca". Francesco Fonti, "pentitosi" nel 1994, è considerato un ex boss della ‘ndrangheta. Ad ogni modo, dato che metodologicamente non si deve dare retta a nessun pettegolezzo, diciamo subito che i "pentiti" forniscono informazioni allo Stato in cambio della propria libertà e per questo motivo non sono sempre e del tutto attendibili dal punto di vista della verità storica. In genere, miscelano qualche cosa vera e molti "sentito dire" perché specifiche leggi statali permettono e premiano tali operazioni. Non spetta a noi però il compito di stabilire il grado di affidabilità dei "pentiti". Noi possiamo fare solo delle considerazioni. Le parole di Francesco Fonti, soprannominato Ciccio, sui rapporti fra ‘ndrangheta e Democrazia Cristiana ai tempi del rapimento di Aldo Moro e sulle navi dei veleni, fatte sprofondare piene di residui radioattivi di fronte alle coste tirreniche e joniche della Calabria, tirano in ballo problemi di storia della Prima Repubblica. D’altra parte costituiscono due questioni molto diverse. Perfino il meno acculturato dei "pentiti" potrebbe parlare del caso Moro ripetendo ipotesi fantasiose già pubblicate sulla stampa degli ultimi decenni o citando solo i veri nomi e cognomi di persone che sono già morte, ad esempio fra quelle ex appartenenti ai servizi segreti italiani o fra quelle - come Zaccagnini - un tempo dirigenti della Democrazia Cristiana. In altre parole, Francesco Fonti sembra attendibile solo sulle vicende relative alle navi dei veleni. Per il resto sorgono domande e dubbi sia per quanto riguarda il metodo di analisi usato dal "pentito" che su certe sue affermazioni categoriche. Facciamo solo un piccolo esempio. Alla fine della dichiarazione pubblicata sul settimanale, Fonti narra di essere stato detenuto nel carcere di Opera e di aver lì conosciuto l’ex brigatista rosso Mario Moretti. Un giorno del 1990 quest’ultimo avrebbe ricevuto un assegno circolare tramite la posta, cioè per mezzo di qualcosa che nelle patrie galere è rigidamente controllato e sempre riscontrabile, e gli avrebbe detto: "Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell’Interno". In realtà Moretti non è mai stato stipendiato dal Ministero dell’Interno, come invece afferma di credere il "pentito" Fonti. Basta chiedere informazioni al carcere di Opera per sapere la verità. L’esperienza insegna, dal caso Tortora in poi, che ogni affermazione dei "pentiti" va sempre verificata e mai presa per oro colato. Mario Moretti è detenuto da quasi trenta lunghissimi anni. Oggi non si trova in "libertà condizionata", come si legge su Wikipedia. Attualmente usufruisce del beneficio della semilibertà, che poi non è altro che una forma di semireclusione. Dalla primavera del 1981 ad oggi ha trascorso quasi sempre la notte in prigione e non ha nessun mistero da nascondere. I veri misteri sono ben altri: come mai molti ex Br stanno ancora in carcere dopo così prolungati periodi di detenzione? Perché ancora non usufruiscono della libertà condizionale? Perché non viene discusso in parlamento il disegno di legge per rendere automatica, basata su dati oggettivi, la concessione della libertà condizionale? Perché non viene applicato il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana? Giustizia: Alberto Stasi scagionato dalla perizia medico legale
La Repubblica, 28 settembre 2009
Una delle perizie super-partes disposte dal giudice di Vigevano per chiarire la dinamica del delitto di Chiara Poggi, assassinata nella villetta di famiglia a Garlasco il 13 agosto 2007, scagiona di fatto l’ex fidanzato Alberto Stasi dall’accusa di omicidio e in più punti dà ragione alla sua difesa. "L’ora del delitto non è valutabile". Il professor Lorenzo Varezzo, perito del Gup, si è soffermato sull’ora della morte, elemento chiave per dimostrare l’innocenza dell’unico imputato. Secondo l’esperto, non è "valutabile con precisione l’epoca della morte se non affermando che essa avvenne nel corso della mattinata". Per quanto riguarda l’aggressione questa è avvenuta "almeno in due fasi cronologicamente ben distinte" e l’episodio "potrebbe essersi protratto anche per alcune decine di minuti". La perizia sul pc. Stasi aveva affermato che quella mattina si trovava a lavorare al pc alla sua tesi e, secondo indiscrezioni, nella perizia dell’esperto informatica, non ancora depositata, tra le 9.36 e le 12.20 effettivamente il giovane era al computer. "Sulla bici non è detto sia sangue". In un altro punto, la perizia medico legale ritiene che il materiale biologico di Chiara rinvenuto sui pedali della bicicletta sequestrata a Stasi, "potrebbe essere costituito da qualunque tipo di tessuto riccamente cellulato" e quindi non è detto che sia il sangue della vittima. "L’impronta sul sapone non è prova". Anche l’impronta digitale di Stasi mischiata al Dna di Chiara rinvenuti sul portasapone nel bagno di Chiara, non sono una prova d’accusa. "Che i due abbiano entrambi toccato l’oggetto in tempi e per un numero di volte a noi del tutto sconosciuto e non determinabile - spiega il perito - rende il rilievo del tutto irrilevante". "Scarpe pulite? Possibile". Inoltre Stasi poteva avere le scarpe pulite pur essendo stato sulla scena del delitto in quanto le macchie di sangue avrebbero potuto disperdersi sull’erba bagnata. Inoltre, spiega il perito, è presumibile che il sangue di Chiara sparso sul pavimento fosse "in buona parte secco" e quindi non potesse sporcare le suole delle scarpe. Alberto, nei suoi interrogatori, ha sempre affermato di aver visto il cadavere della fidanzata riverso sulle scale ma di non essersi avvicinato e di essere subito scappato via. Processo con rito abbreviato. Entro il 14 ottobre, saranno depositate le altre perizie ordinate dal magistrato per approfondire l’indagine. Il processo riprenderà con il rito abbreviato subito dopo. Monza: 18 anni in vana attesa di trasferimento, agente suicida di Antonio Corrado
Quotidiano della Basilicata, 28 settembre 2009
Si è ucciso con un colpo secco al petto, esploso dalla pistola d’ordinanza nella camera del suo alloggio di Monza, l’assistente capo di polizia penitenziaria, Antonio Bamunto, 38 anni, originario di Calciano, ma da anni in servizio presso la grande Casa Circondariale lombarda. La tragedia si è consumata sabato notte e si è appresa da una nota del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). Secondo la prima ricostruzione di fatti, a scoprire il corpo senza vita sarebbe stato un collega che era andato a svegliare Bamunto per consentirgli di prendere servizio, dando il cambio di turno. L’assistente si sarebbe sparato con la pistola di ordinanza. Ancora ignote le cause del gesto disperato, anche perché, apparentemente, l’uomo, che non era sposato, avrebbe sempre mantenuto una condotta impeccabile, lavorando senza manifestare malesseri. Evidentemente la depressione gli covava dentro. La direzione del carcere ha aperto un’inchiesta interna, per stabilire le probabili cause del suicidio, in queste ore saranno sentiti anche i colleghi di Bamunto, che alloggiava in una struttura esterna alla Casa circondariale, dove sono oggi reclusi circa 850 detenuti, con un personale carcerario pari a 300 unità, di cui solo 80 adibite ai turni di guardia, come il 38enne materano. Probabilmente lo stress da superlavoro, unito alla tipologia della mansione e al recente trasferimento nel nuovo carcere di Capanne nel Perugino, hanno dato il colpo di grazia a un uomo già sofferente. Infatti, secondo le prime indiscrezioni, Antonio Bamunto aveva chiesto il trasferimento a Matera, ma come prassi consolidata nell’organizzazione carceraria, era stato solo avvicinato, vista la situazione di congestione, anche per gli agenti penitenziari, negli istituti del Sud. Secondo quanto raccontano i suoi amici e colleghi, il giovane calcianese aveva manifestato subito dispiacere per questo trasferimento. Quello di Perugia, infatti, è un carcere più recente, aperto tre anni fa, e da poco era entrata in esercizio una nuova ala, con 150 detenuti. Bamunto doveva andare lì, aveva già fatto una piccola festicciola di arrivederci con i suoi colleghi e aveva promesso che proprio oggi (lunedì), sarebbe passato a salutarli. Dal 1997 sono ben 97 gli agenti di Polizia penitenziaria morti suicidi; solo ieri un altro caso a Venezia, nel 2008 si sono registrati ben 13 casi. "Bamunto vedeva che altri più giovani di lui venivano subito accontentati e a lui invece continuavano a rinviare la richiesta. Per questo sembra stesse cadendo in depressione". Il magistrato di turno ha fatto un sopralluogo nell’alloggio dell’agente nella caserma del carcere e poi ha fatto mettere i sigilli. "Era un grande lavoratore e il suo lavoro gli piaceva ma avrebbe voluto tornare vicino casa - hanno raccontato i colleghi. Da 18 anni lo spostavano da un carcere all’altro in Lombardia e si sentiva demoralizzato. Purtroppo era ancora celibe e quindi la precedenza nei trasferimenti, secondo prassi, viene data a chi ha moglie e figli". Alcuni giorni fa l’assistente capo aveva finalmente ricevuto la comunicazione del suo trasferimento, ma grande è stata la delusione quando ha scoperto che la destinazione era Perugia e non Matera. Si è sentito quasi preso in giro, è caduto nella disperazione, continuava a ripetere che per lui cambiava poca stare a Monza o Perugia, perché in ogni caso era troppo lontano da casa. Monza: Sappe; dove sono Centri d'Ascolto promessi dal Dap?
Comunicato stampa, 28 settembre 2009
Ancora una volta il Corpo di Polizia Penitenziaria piange l’ennesimo collega che ha tragicamente deciso di togliersi la vita. Questa mattina siamo stati informati dai nostri rappresentanti che un Assistente Capo in servizio nel penitenziario di Monza, originario di Matera, si è suicidato con la pistola d’ordinanza: una tragedia immane, che ci lascia ancora una volta impietriti. Ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile dei familiari, degli amici, dei colleghi. È il commosso commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, alla notizia del suicidio di un Assistente Capo della Polizia penitenziaria in servizio a Monza. Capece aggiunge: "Assume certamente aspetti estremamente preoccupanti il fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti alle Forze di Polizia ed a quelli della Polizia penitenziaria in particolare, come recentemente emerso in diverse corrispondenze giornalistiche. Bisogna comprendere e accertare quanto ha eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative dei colleghi suicidi nel tragico gesto estremo posto in essere. L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi lo scorso anno - nell’ordine dei 10 casi in pochi mesi! -, accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono, in taluni casi, le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Proprio per questo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria assicurò i Sindacati di prestare particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto. Ma a tutt’oggi non abbiamo ancora avuto assicurazioni circa su quanti sono e dove sono stati attivati questi importanti Centri di ascolto. È davvero un luogo comune pensare che lo stress lavorativo riguardi solamente le persone fragili. Al contrario, il fenomeno colpisce, inevitabilmente, tutti i lavoratori, e in modo particolare coloro che operano nei servizi di sicurezza e tutela pubblica, che non solo vivono sovente in una costante situazione di rischio, ma spesso vengono a contatto con situazioni di dolore, angoscia, paura, violenza, distruzione e morte non escluse anche le conflittualità interprofessionali in una struttura fortemente gerarchizzata quale è quella della Polizia penitenziaria. Il Sappe sottolinea infine "l’effetto burn-out tra i poliziotti penitenziari, una forma di disagio professionale protratto nel tempo e derivato dalla discrepanza tra gli ideali del soggetto e la realtà della vita lavorativa. Per questo riteniamo - e lo ribadiamo oggi con forza, dopo la tragedia di Monza - che l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico agli operatori di Polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - possa essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria". Venezia: ex Ispettore penitenziario, uccide moglie e si suicida
Adnkronos, 28 settembre 2009
Ha preso la pistola della donna, guardia giurata, ed ha fatto fuoco. Poi ha rivolto l’arma contro di sé. I due, 47 anni lui, 43 lei, con una separazione in vista, avevano rapporti molto tesi. Omicidio-suicidio nel veneziano. A Campalto un ex ispettore della polizia penitenziaria 47enne, si è impadronito della pistola della moglie, guardia giurata di 43 anni, ed ha fatto fuoco contro la donna, poi si è tolto la vita. I due, con una separazione in vista, avevano rapporti molto tesi. Forlì: "record" di detenuti presenti e alcuni dormono per terra
Ansa, 28 settembre 2009
Carcerati che dormono per terra. È accaduto giovedì scorso, nel giorno in cui, con 262 detenuti l’istituto penitenziario di Forlì ha raggiunto "il record negativo degli ultimi 25 anni". A sottolineare i disagi, oggi è una nota dei sindacati di polizia Sappe, Osapp, Cisl Fns, Uil Pa, Uspp: Giovedì "non solo si stava pigiati come sardine, ma non c’erano neppure le brande per fare dormire coloro che venivano accompagnati in carcere". Una situazione insostenibile. Questo, proseguono i sindacati significa "mancanza di dignità, degrado, denigrazione delle condizioni minime di vivibilità". Dopo la protesta del gennaio scorso, quando la metà dei poliziotti ha chiesto di andare a lavorare in altri istituti, "c’è stato il blando intervento del provveditore Regionale che ha assicurato un minimo di garanzie: nessun accesso durante i turni notturni, disinfestazione dei locali e accensione del riscaldamento". Ma ora è "diventato impossibile continuare a lavorare: i nervi dei ristretti sono a fior di pelle, bastano inezie a far scoppiare liti, proteste, reazioni spropositate", precisano ancora i sindacati. Inoltre, mentre il rapporto tra detenuti e poliziotti che dovrebbe essere di uno a uno, nel carcere di Forlì è arrivato a tre a uno, la direzione del carcere vorrebbe trasformare gli spazi destinati alla socialità, in celle detentive. Tutto questo ai sindacati non va bene: "Manifesteremo in ogni forma il nostro dissenso e il clima di diffuso malessere sempre più crescente tra i poliziotti", dicono. Pavia: Savi rifiuta cibo e cure, vuole trasferimento in Toscana di Paolo Fizzarotti
La Provincia Pavese, 28 settembre 2009
"Per stare vicino a mia moglie chiedo di essere trasferito in Toscana". Fabio Savi dal giugno scorso è detenuto nel carcere di via Prati Nuovi. In una lettera affidata all’avvocato difensore, il 49enne emiliano aveva detto fra l’altro: "So di dovere scontare una giusta pena, ed intendo farlo con la massima correttezza e dignità. Ma come io ho il dovere di rispettare le regole, ho anche il diritto della tranquillità di una cella singola, di un lavoro per poter sostenere la mia famiglia". Nel 2003 Savi si era sposato, ma non ha mai potuto trascorrere neppure un’ora in privato con la moglie. "Ho una moglie che vive e lavora onestamente a Firenze, tra affitto e bollette non si può permettere di venire qui. Più volte ho chiesto di poter essere trasferito in una casa di reclusione in Toscana: comunque sconterei la pena". Il killer non ha pietà, neanche per sé stesso: Fabio Savi, l’assassino della "Uno Bianca", si sta spegnendo. Oggi sono esattamente 30 giorni che il pluriergastolano bolognese non tocca cibo; si limita a bere acqua, e anche moderatamente. Se continua così, da un momento all’altro ci sarà il tracollo delle sue condizioni di salute. Savi da mercoledì scorso è ricoverato all’ospedale di Voghera. La camera blindata si trova nel reparto di urologia, ma in realtà il detenuto "eccellente" risulta in carico al reparto di medicina generale. Savi, che è nato a Forlì il 22 aprile 1960 e ha quindi 49 anni, sta facendo lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni della sua detenzione e per avanzare una serie di richieste all’amministrazione carceraria. Il killer ha iniziato la protesta il 27 agosto: da allora al giorno del ricovero ha perso 13 kg, passando da 93 a 80 kg. Adesso, a quanto pare, è vicino ai 78 kg. Fonti ospedaliere, autorizzate a parlare dalla famiglia e dai legali dell’ergastolano, confermano. "Il degente - spiega il direttore sanitario Luigina Zambianchi - continua a rifiutare il cibo e quindi a perdere peso. La situazione, per ora, è comunque stazionaria e sotto controllo". Non reagisce alle terapie? "Non c’è alcuna terapia e non ci può essere - precisa il medico - Non corrisponde a verità la circostanza riferita dai mezzi di comunicazione, e cioè che Savi sarebbe alimentato con delle flebo: il paziente rifiuta l’alimentazione e quindi anche questo genere di sostentamento. Per noi Savi è un paziente come gli altri: ciò significa che l’ospedale non può obbligare nessuno a curarsi, nemmeno un detenuto". Quindi? "Se il degente rifiuta il cibo e le terapie, non possiamo che rimetterci alla sua volontà. Stiamo già facendo tutto quello che possiamo, e cioè tenere la situazione sotto controllo ed eseguire una serie di esami per monitorare le sue condizioni di salute. È però chiara una cosa: se continuerà a rifiutare qualsiasi tipo di approccio sanitario, presto diventerà inutile la sua permanenza in ospedale". La posizione dell’azienda ospedaliera è chiara. Si può curare una persona contro la sua volontà solo in presenza di un Tso e cioè di un trattamento sanitario obbligatorio: un provvedimento che può essere preso soltanto in presenza di una manifesta incapacità di intendere e di volere. E non è questo il caso di Fabio Savi. Quanto può resistere una persona in queste condizioni? "Non esistono regole fisse - conclude la dottoressa Zambianchi - Dipende da molti fattori: età, costituzione fisica, metabolismo, peso di partenza e quant’altro. Se la situazione precipita siamo pronti a intervenire. Per lui, come avverrebbe per tutti gli altri: il suo certificato penale non ci riguarda". Intanto ieri il detenuto-degente ha ricevuto due visite speciali: sono andati a trovarlo il direttore del carcere di via Prati Nuovi, Paolo Sanna, e il suo legale, l’avvocato Fortunata Copelli del foro di Gioia Tauro. "Sono andata a visitare Savi due volte - spiega il legale - Venerdì pomeriggio e questa mattina. L’ho trovato stanco, provato, ma abbastanza sereno. È chiaro che è molto determinato nella sua azione, non ho visto segnali di cedimento. Ora qualsiasi tipo di rivendicazione e richiesta all’amministrazione carceraria passa in secondo piano rispetto al problema delle sue condizioni di salute: i prossimi giorni saranno decisivi. Voglio ringraziare pubblicamente il direttore della casa circondariale per la sollecitudine e l’attenzione con cui sta seguendo questa vicenda". Savi chiede di essere detenuto in una cella singola e di non essere più costretto a vivere con persone condannate per mafia: "reato con cui non ho mai avuto niente a che fare". Chiede anche un lavoro, per poter contribuire al mantenimento della famiglia, e soprattutto l’avvicinamento al carcere di Firenze, la città dove vive la moglie (che ha sposato quando era già detenuto). "Le richieste di Savi - spiega il direttore - non sono assurde in linea di principio, e sono quelle che ci si può attendere da un ergastolano. Si scontrano però con le condizioni oggettive delle carceri: in condizioni di sovraffollamento, è difficile garantire a qualcuno una cella singola". Quando è arrivato a Voghera, Savi era stato già "declassificato" e cioè considerato meno pericoloso: dal settore "alta sicurezza 1", era passato ad "alta sicurezza 3", lo status precedente a quello dei detenuti comuni. Bollate: detenuti in Marcia mondiale della Pace e Nonviolenza
Comunicato stampa, 28 settembre 2009
È stato proposto anche alla Direzione del Carcere di Bollate di partecipare alla Marcia mondiale della pace e della nonviolenza. I detenuti hanno aderito con grandissimo entusiasmo all’iniziativa e marceranno all’intero del carcere il 2 ottobre alle 15.30. Insieme alle delegazioni dei detenuti dei vari reparti, ci sarà la polizia penitenziaria, educatori, i volontari e naturalmente la direzione. Il corteo sfilerà lungo i viali interni del carcere e si fermerà all’ingresso dei reparti dove raccoglierà pensieri, poesie, spunti di riflessione che i detenuti stanno preparando sul tema della Pace e della Nonviolenza. Una delegazione composta da detenuti, polizia penitenziaria, educatori e volontari raggiungerà verso le ore 18 piazza Duomo dove ci sarà il concentramento della manifestazione milanese - ed insieme alla bandiera della marcia porterà un messaggio di pace e nonviolenza. I detenuti che hanno accettato di andare in piazza Duomo sono stati scelti tra quelli che possono fruire di 30 giorni di permesso premio all’anno previsti dalla legge per coltivare rapporti familiari. Questa manifestazione entra a pieno titolo nel Progetto Bollate: il detenuto si impegna a partecipare, insieme agli operatori, all’organizzazione della vita carceraria, con un sistema di compartecipazione che lo vede protagonista delle scelte organizzative. I detenuti, riuniti in commissione, decidono autonomamente quali attività culturali sportive e quali eventi organizzare. Sostengono i loro compagni in difficoltà fornendo loro, con la supervisione e il monitoraggio di giuristi volontari, consulenza legale gratuita. I delegati dei vari reparti accolgono i compagni appena arrivati, collaborando con la direzione per proporre correttivi all’organizzazione o discutere dei problemi di convivenza che si trovano ad affrontare. Un lento percorso verso la Pace e la Nonviolenza che sperano di trovare quando usciranno.
La Direzione della Casa di Reclusione di Bollate Libro: "Lo sguardo corto", storie di vita.... nelle Case di pena di Raffaele Sardo
La Repubblica, 28 settembre 2009
"Lo sguardo corto" (Storie di vita nelle Case di pena), a cura di Leandro Limoccia e Teresa Lombardo, edito dal Formez. A dispetto del titolo, è uno sguardo lungo sulle carceri della Campania e sulle condizioni di vita dei detenuti. Il libro documenta una meticolosa inchiesta condotta dagli autori nelle carceri campane. Per concludere che gli istituti di pena sono ancora ben lontani dall’essere considerati luoghi di recupero delle persone che hanno infranto le regole della società. Il viaggio di Limoccia e Lombardo analizza le relazioni tra carcere e territorio e si sofferma sulle politiche di mediazione penale e di reinserimento nella vita sociale e lavorativa. "In Campania vi sono 17 istituti penitenziari - spiega Leandro Limoccia - in cui solo il carcere di Santa Maria Capua Vetere è nuovissimo. Per il resto parliamo quasi interamente di luoghi riadattati alla pena. Nelle carceri abbiamo trovato soprattutto i poveri, quelli che non hanno molte possibilità di riuscire nella vita. I loro sguardi sono tutti uguali. Sono asimmetrici, spezzati, corti e si infrangono contro i muri senza poter avere l’equilibrio degli orizzonti". Le pagine più intense del libro sono quelle che raccontano delle storie di tre ragazze rinchiuse nel carcere minorile di Nisida. Roberta, 17 anni, viene dalla provincia di Caserta, è di origine Rom, ma è nata in Italia. È dentro per rapina. È scappata da casa a 16 anni con uno zingaro. Francesca, 16 anni, viene da Casoria, è una slava. Si è ribellata ad un matrimonio che non voleva e la sua libertà l’ha dovuta pagare quindicimila euro. Per questo andava a rubare nelle case. E poi c’è la storia di Anna, 18 anni. È nata in Italia, di origine slava anche lei. È a Nisida per furto. Si è sposata a 14 anni e ha tre figli. Tutt’e tre non vogliono più ritornare in quei luoghi e sognano una vita normale. Immigrazione: riforma della cittadinanza, maggioranza divisa
Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2009
Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si è detto d’accordo con Gianfranco Fini sulla necessità di una riforma del percorso per ottenere la cittadinanza italiana da parte dei figli di immigrati nati in Italia e che hanno già compiuto un ciclo di studi nel nostro paese. "Condivido la necessità di discutere una riforma della cittadinanza, dobbiamo discuterne per prima cosa all’interno del partito per poi proporre qualcosa di innovativo" ha dichiarato La Russa a margine della Festa del Pdl. In particolare, secondo il ministro della Difesa, è necessario pensare a "un percorso agevolatissimo per chi è nato qui e ha già fatto un ciclo di studi nelle scuole italiane per intenderci la generazione dei Balotelli". Nessuna apertura invece sul fronte del voto agli immigrati (altro cavallo di battaglia del presidente della Camera). "Il voto - ha dichiarato - va dato a chi è cittadino italiano. Il problema è stabilire chi è cittadino italiano". Nei giorni scorsi l’esponente azzurro, Fabio Granata, aveva presentato insieme al collega del Pd, Andrea Sarubbi, una proposta per modificare la normativa sulla cittadinanza. Il disegno di legge (sottoscritto da 50 esponenti di tutti i gruppi, ad eccezione della Lega ndr.) punta a sostituire il criterio dello lo Ius sanguinis (in base al quale può ottenere la cittadinanza che è figlio di genitori italiani) con lo Ius soli (che da automaticamente la cittadinanza a chi è nato nel nostro paese, anche se da genitori stranieri). Tra gli aspetti più rilevanti della proposta c’è poi il dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza da 10 a 5 anni. Sul tema è intervenuto anche Pier Ferdinando Casini che ha invocato un’ampia convergenza sulla legge. "Una classe dirigente seria guida il paese e affronta le sfide del futuro, non instilla odio, non agita paure, non amplifica tensioni", ha dichiarato il leader dell’Udc in una nota, "una classe dirigente seria cerca un’ampia convergenza per una legge così importante che riguarda il futuro di tutti gli italiani come quella della cittadinanza. Il Pdl - prosegue Casini - è il partito di maggioranza relativa e io mi auguro che non abbia paura di affrontare le sfide, che lavori con gli altri e non si chiuda, sospinto dalla Lega nel fortilizio della maggioranza". Sul successo della riforma della cittadinanza il vero nodo è appunto costituito dalle divisioni interne alla maggioranza. Il Carroccio e parte del Pdl, tra cui i capogruppo di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, ribadiscono infatti la bocciatura di quella che Roberto Cota chiama "la cittadinanza facile". E c’è chi, come il ministro per l’Attuazione del Programma Gianfranco Rotondi sottolinei come il tema sia "estraneo al programma del nostro governo e, dunque, non può che imporsi per via parlamentare". Il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei si augura che la riforma della cittadinanza sia al centro dei lavori del Senato fin da ottobre. Mercoledì prossimo si riunirà il comitato ristretto della commissione Affari Costituzionali di Montecitorio per esaminare le dodici proposte in materia, tra cui la citata proposta bipartisan. Stati Uniti: chiusura Guantanamo, potrà slittare oltre gennaio
Adnkronos, 28 settembre 2009
Guantanamo potrà non essere chiusa a gennaio, come annunciato da Barack Obama nei primi giorni del suo mandato. È quanto riportano media americani, tra i quali la Cnn che cita due funzionari dell’amministrazione Obama che ammettono che potrebbe non essere possibile rispettare la data annunciata, considerati i problemi che rimangono non risolti, in particolare riguardo alle decisioni sul futuro degli oltre 200 prigionieri ancora detenuti nel campo istituito da George Bush nella base militare statunitense a Cuba subito dopo l’avvio della guerra al terrorismo.
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