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Giustizia: emergenza-carceri, sempre più stracolme e violente di Maurizio Minnucci
www.rassegna.it, 22 settembre 2009
Già superata la cifra record di 64mila reclusi, e ogni mese ne entrano altri mille. "Non c’è più spazio". Se ne esce solo con misure alternative al carcere. Incensurati e delitti minori possono evitare la detenzione preventiva. Superato anche l’ultimo disgraziato traguardo, stabilito con la capienza massima tollerabile, oggi negli istituti di pena italiani è record di presenze con 64.580 detenuti. E non è ancora finita: già da qualche tempo, infatti, la quota dei nuovi carcerati viaggia al ritmo di circa mille ingressi al mese. In quale modo, ma soprattutto dove i prossimi reclusi verranno ospitati, resta un’incognita. A lanciare l’allarme è la Funzione pubblica Cgil, che ormai da oltre un anno denuncia la gravità della situazione e insieme l’inerzia manifestata sia dal governo sia dal ministero della Giustizia, che tramite il Dap gestisce le politiche penitenziarie. Anche perché ci rimettono tutti. I detenuti, che finiscono col lasciarsi morire di fame e di sete, come accaduto il 9 settembre scorso al tunisino Mbarka Sami Ben Garci nel carcere di Pavia senza che nessuno intervenisse. E gli agenti, costretti a lavorare in condizioni sempre più disagiate. Rassegna si è già occupata dell’argomento l’anno scorso dopo una serie ravvicinata di suicidi tra gli uomini della penitenziaria. Torniamo a parlarne, visto che la situazione degli istituti non è affatto migliorata. Anzi. "C’è un’inquietante assenza di reali misure contro il sovraffollamento degli istituti penitenziari - scandisce Francesco Quinti, coordinatore nazionale del comparto sicurezza per la sigla di categoria -. Servono soluzioni urgenti e ci auguriamo che venga aperto quanto prima un dibattito parlamentare sull’emergenza carcere. È ora che il governo e il ministro Alfano la smettano di tentare di scaricare il problema del sovraffollamento sull’Unione Europea. La situazione è drammatica e rischia seriamente di produrre l’ingovernabilità del sistema. Per questo va affrontata e risolta al più presto". Qualche dato aiuterà a comprendere lo stallo in cui si è finiti. Gli istituti penitenziari sparsi in tutta Italia sono 207. Allo stato attuale ospitano 64.580 detenuti contro una capienza tollerabile stabilita dal Dap in 64.111 unità e una regolare ben inferiore (42.260). Prima regione per sovraffollamento è l’Emilia Romagna, con 4.600 reclusi contro un tetto di 2.308, cioè il 198% oltre la capienza massima. Seguono la Lombardia (160%), il Veneto (166%), la Sicilia (159%), il Friuli Venezia Giulia (158%), la Calabria (152%) e il Piemonte (144%). Il piano messo a punto dal capo del Dap, Franco Ionta, prevede la realizzazione di 18 nuovi istituti, tuttavia ci vorranno anni per inaugurare i nuovi padiglioni. E intanto oggi muore un detenuto ogni due giorni e nei primi sette mesi del 2009 il numero dei suicidi (45) è raddoppiato rispetto all’anno precedente. Quanto agli agenti, un decreto ministeriale che risale al febbraio di nove anni fa prevede un totale di 42.268 persone in organico ma oggi siamo a 37.690, molti dei quali addetti solo alle traduzioni e ai piantonamenti, che quindi non lavorano "in sezione". A conti fatti, visto che il blocco del turnover impedisce di sostituire chi è andato in pensione, e considerando anche i numerosi passaggi a ruoli civili per inidoneità, a lavorare "dentro" non sono rimasti che 17-18 mila poliziotti, cioè appena un terzo rispetto alla popolazione delle patrie galere. Spazi così ridotti non possono che far schizzare lo stress dei detenuti, che poi si riverbera inevitabilmente sugli addetti. "Olio bollente gettato in faccia e braccia rotte non stupiscono più, le aggressioni al personale sono all’ordine del giorno, circa 800 solo dall’inizio anno", rivela Quinti. Poi ci sono i problemi logistici. Prendiamo ad esempio l’istituto di Cagliari: gli agenti avanzano ferie dal 2005 e spesso devono rinunciare ai riposi settimanali; i turni delle traduzioni dalla Sardegna verso la Penisola possono durare fino a 20 ore di seguito, ma di riscuotere gli straordinari neanche se ne parla perché il budget semestrale viene sempre superato; i mezzi sono obsoleti e va già di lusso quando non bisogna anticipare i soldi per la benzina. Dov’è allora, se c’è, la soluzione? "Non certo nell’edilizia penitenziaria - riprende Quinti - ma nell’applicazione e nel rafforzamento di misure alternative al carcere". L’esempio di buone pratiche arriva dall’Inghilterra, dove viene sperimentato con successo un sistema chiamato probation: quando ci sono le condizioni (incensurati, delitti minori che non creano allarme sociale) si può evitare la detenzione preventiva e alleggerire così il peso sugli istituti. E in più si evita di mettere in contatto tra loro semplici criminali con i delinquenti abituali. Su questa linea si muove la Fp Cgil. "È un errore mettere nella stessa cella un mafioso con un ragazzo al primo reato - insiste il dirigente sindacale -. Così si rischia la contaminazione. Dai dati in nostro possesso sappiamo che il 70 per cento di chi sconta misure alternative alle reclusione non è recidivo. Al contrario, solo due detenuti su dieci che passano nelle sezioni tutto il tempo della condanna non commettono più reati in seguito. Evidentemente c’è una differenza tra chi sta fermo in carcere e chi sconta fuori parte della pena". Tra le richieste del sindacato vi sono la depenalizzazione delle condotte illecite minori, la riduzione al minimo dell’uso della custodia cautelare e l’ampliamento delle sanzioni alternative immaginando pene diversificate già in sentenza. "Quasi tutti i principi cui gli Stati membri dovrebbero adeguarsi - spiega infatti Quinti - sono già previsti dall’ordinamento italiano. Basterebbe applicarli". Come noto, gli agenti della penitenziaria non possono scioperare, ma scendere in piazza sì. Nei mesi scorsi ci sono state proteste interregionali a Milano, Bologna, Bari e Napoli. "Vista la situazione - conclude Quinti - e anche considerando le difficoltà per il rinnovo del contratto, non escludiamo nuove proteste". Giustizia: celle affollate, per il primato del carcere preventivo di Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro
Liberazione, 22 settembre 2009
Anche il sovraffollamento delle galere è un problema globale. Nelle prigioni dei 47 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa ci sono 1,8 milioni di detenuti e l’emergenza sovraffollamento tormenta 27 dei 47 paesi membri, Italia in testa. Intanto nelle patrie galere aumentano vertiginosamente i suicidi. Al 31 agosto di quest’anno si sono verificati già 48 episodi, contro i 28 riscontrati nei primi otto mesi del 2007 e i 30 del 2008. E chi non si è tolto la vita resiste in condizioni disumane. Lo stato italiano è stato di recente condannato per trattamenti disumani per aver costretto un detenuto a vivere in 16 metri quadri insieme ad altre quattro persone. In carcere il tasso dei suicidi è di venti volte superiore a quello riscontrato nella società esterna (fonte: ristretti.it) e in Italia l’istigazione al suicidio è reato penale (art. 580 c.p.). La domanda (implicita) è: che condanna dovrebbe avere lo stato italiano per i detenuti che si sono tolti la vita per non morire in celle disumane? Tornando ai tristi primati del Belpaese, le patrie galere primeggiano anche per il numero di detenuti in custodia cautelare. Basti pensare che nelle carceri dei 27 paesi dell’Ue vi sono 130mila persone in attesa di giudizio, un quarto delle quali in Italia, con una crescita del 70% negli ultimi dieci anni. E mentre nell’Ue i detenuti in custodia cautelare rappresentano una media del 24%, in Italia costituiscono il 54% della popolazione carceraria. Più che "certezza" della pena in Italia bisognerebbe parlare di "certezza della anticipazione di una pena", in spregio al valore costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Eppure nel Belpaese i reati sono in diminuzione, sin dal secondo semestre del 2007. Addirittura nel 2008 gli omicidi volontari sono al minimo storico, i furti sono diminuiti del 39,72% rispetto all’anno precedente, le rapine del 28,8%, l’usura del 10,4%, la ricettazione del 31,6%, la violenza sessuale dell’8,4 e il riciclaggio del 5,8% (fonte: Unione camere penali). A dimostrazione del fatto che l’aumento delle carcerazioni è una variabile indipendente che prescinde dal reale andamento dei crimini. L’aumento delle carcerazioni, piuttosto, dipende dalla percezione di insicurezza e dall’abuso che di tale percezione fanno politici e media. Aumento di carcerazioni, inutile dirlo, che riguarda quasi esclusivamente stranieri che commettono irregolarità amministrative e consumatori di droghe. Non certo i colletti bianchi che beneficiano dell’amnistia di classe chiamata prescrizione (secondo i Radicali, negli ultimi 10 anni vi sono stati due milioni di processi estinti per tale ragione). Scrive un detenuto del carcere di Spoleto, Carmelo Musumeci, una delle voci di protesta contro la pena dell’ergastolo: "i colletti bianchi non sono solo criminali, sono molto di più, sono criminali disonesti cattivi, furbi e malvagi più di tutti gli altri criminali perché usano la legge, il potere, la cultura, l’intelligenza e il bene per fare il male. E di questi mafiosi perbene non ne ho mai trovato uno in carcere"; ed ancora "spesso i buoni fanno i criminali per nascondere di non essere buoni mentre i veri criminali fanno i forcaioli per continuare ad essere criminali". A proposito. A Carmelo Musumeci da mesi viene trattenuta la corrispondenza finanche con il suo tutore e l’associazione Antigone. La libertà di espressione, evidentemente, è un diritto costituzionale inviolabile ma non troppo. Il bavaglio al dissenso, nel nostro paese, sta diventando una pre-regola del gioco. E se lo è per le alte cariche dello Stato e per giornalisti del Vaticano, figuriamoci per un ergastolano. Chi si indignerà per lui? Giustizia: il suicidio in cella, come ultima strategia di evasione di Dina Galano
Terra, 22 settembre 2009
Il 2009 sarà un anno record. Sono già 48 i detenuti che si sono tolti la vita in questi primi otto mesi. Ma non è solo colpa del sovraffollamento. Per Francesco Morelli "il carcere non è più in grado di alimentare la speranza". All’interno degli istituti penitenziari un terzo delle morti avviene per suicidio. Chi monitora i tassi di incidenza sostiene che per il 2009 si raggiungerà il triste traguardo di circa 70 casi. Una proiezione suffragata dall’andamento dei primi otto mesi dell’anno, durante i quali 48 detenuti si sono tolti la vita (18 in più rispetto allo stesso periodo del 2008). Spiega le cause non soltanto quantitative di questo aumento Francesco Morelli, curatore del dossier "Morire di carcere" e coautore del libro In carcere: del suicidio e altre fughe (Ristretti Orizzonti, pp. 408,15 euro).
Perché la scelta del titolo "Morire di carcere"? Questa espressione significa che noi teniamo conto di tutti i detenuti che muoiono, anche se non necessariamente all’interno del muro di cinta. E su questo punto contestiamo le statistiche ministeriali. Per l’amministrazione penitenziaria, infatti, se una persona si suicida in cella ma, soccorsa in tempo, muore in ospedale o in ambulanza, il suo caso deve rientrare tra quelli di tentato suicido, nonostante il tragico epilogo. Questo è il motivo per cui i dati del nostro dossier sono sempre più numerosi rispetto a quelli ministeriali.
Dal libro risulta che gli atti di autolesionismo si concentrano nei primi mesi di detenzione. Il fattore determinante è spesso la stessa realtà del carcere. Per questo esiste dal 1987 il Servizio nuovi giunti, che serve ad attutire l’impatto iniziale. Ma questa assistenza in realtà è presente in pochissimi istituti. Costa troppo, richiede personale specializzato e psicologi. Una volta un sottufficiale penitenziario mi disse: "Servirebbe una scuola fuori per insegnare come si sta qui dentro ". Decostruire l’idea vaga che si ha prima di entrare in carcere, tradita dall’immagine data dalla cinematografia, dalla letteratura e da leggende metropolitane. Un’idea fatta di violenza e disperazioni, che non tiene conto che, invece, esiste una dimensione sociale che consente di studiare, di lavorare. Se sei una persona forte, in carcere puoi sopravvivere.
Quali i luoghi dove maggiormente si ricorre al suicidio? La maggior parte delle persone si ammazza in isolamento. E per coloro arrestati in fragranza o sottoposti a misura cautelare è un passaggio forzato, che spesso serve a ottenere una confessione e a eliminare la possibilità del contatto con altri detenuti. Un terzo dei suicidi avviene in quelle celle dove non c’è nulla a parte un materasso per terra, un gabinetto a vista e una lastra di ferro bucato per far passare l’aria.
Ma anche in regime di 41 bis… In questi casi il tasso di suicidi è ancora più alto, perché si tratta di una forma di isolamento senza limiti temporali prefissi. Viene deciso dal ministero per cui, essendo una misura amministrativa e non giudiziale, è anche più difficile fare ricorso. In generale è chiaro che più si innalza il livello di afflizione più si concretizzano gli atti estremi.
Il 2009 sarà un anno record. Cosa influisce sulla statistica? Parte della responsabilità è da attribuire all’aumento della popolazione detenuta. Ma a prescindere dai numeri assoluti, abbiamo accertato un aumento del tasso di suicidi, rapportato su un campione di 10mila ristretti. Ed erano anni che non si superava il rapporto di 10 suicidi su 10mila detenuti. La ragione principale è che si è innalzato il livello di disperazione. Sia tra gli stranieri che tra gli italiani. Il suicidio è innanzitutto una fuga dalla sofferenza e oggi il carcere non è più in grado di alimentare la speranza del reinserimento. Negare la possibilità di un futuro, di un’esistenza dignitosa all’esterno, è la prima causa della rinuncia alla vita. Giustizia: l’Alta Sicurezza per i mafiosi, non per gli spacciatori
Il Tempo, 22 settembre 2009
Il regolamento emanato lo scorso aprile dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per ridefinire il circuito carcerario dell’alta sicurezza ha dato il via a una serie di trasferimenti che però non riguarderanno i detenuti provenienti dal 41 bis (il regime di carcere duro per i mafiosi più pericolosi) per i quali restano in vigore misure più ferree rispetto alla detenzione comune. Ad assicurarlo è il Dap che smentisce quanto sostenuto dal sindacato Osapp, secondo cui, a causa del sovraffollamento anche nei reparti di alta sicurezza, sarebbe in corso il trasferimento di 1.500 detenuti ex 41 bis nelle sezioni ordinarie. A lasciare l’alta sicurezza (ora classificata di primo livello, destinata agli ex 41 bis, di secondo livello, per i terroristi anche di matrice internazionale, e di terzo per i capi e promotori di traffico di stupefacenti) saranno non i mafiosi ma - sottolinea il Dap - solo "tossicodipendenti e stranieri" che si trovano in carcere per fatti di droga ma che non hanno ruoli di vertice nelle organizzazioni criminali. Il Dap spiega infatti che l’ultima circolare sull’alta sicurezza (che ha abolito il regime di alta vigilanza) va letta congiuntamente a quella del 2007: solo così - viene fatto notare - si può comprendere l’intento di correggere un sistema in vigore dal 1998 "in base a cui nel passato un detenuto mafioso che aveva finito di scontare il 416bis (reato di associazione mafiosa, ndr), anche se ristretto per omicidio o estorsione aggravate dall’agevolazione o dal metodo mafioso, continuava a stare tra i comuni". L’effetto delle nuove misure - viene aggiunto - sarà quello di "riportare dentro il circuito dell’alta sicurezza tutti i mafiosi, molti dei quali in passato venivano inseriti nel circuito ordinario se stavano scontando pene, o porzioni di pena, per fatti diversi dal 416 bis. Parallelamente sono stati ricondotti nel circuito ordinario i soggetti non mafiosi". Nessuna iniziativa è stata presa per i detenuti in 41bis (il regime carcerario più duro, dove attualmente si trovano circa 630 detenuti). Giustizia: Uil in piazza, protesta per l’ingestibilità delle carceri
Agi, 22 settembre 2009
"Essere in piazza con persone che si sono accollate otto ore di pullman per essere e qui e altrettante dovranno farsene per rientrare, ci riempie di orgoglio e ci responsabilizza ancor più. Quattrocento poliziotti penitenziari in piazza che rispondono alla chiamata di una sola O.S. è un elemento che deve far riflettere chi detiene responsabilità amministrative e politiche. Senza dimenticare che abbiamo dovuto chiedere a molti di non venire per rispettare i limiti di presenze che ci ha imposto la Questura di Roma". È il commento del segretario nazionale della Uil penitenziari Eugenio Sarno che tiene a sottolineare: "Più che riuscita la manifestazione indetta dalla Uil Pa Penitenziari per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sul ‘dramma penitenziario. "Con questa grande manifestazione - afferma ancora Sarno - abbiamo voluto lacerare il velo di silenzio sul dramma che si consuma ogni giorno nelle nostre carceri. I detenuti patiscono la fatiscenza, l’incuria, l’inadeguatezza delle strutture. Ammassati e senza spazi sufficienti. Il personale paga direttamente questa incredibile e incivile situazione. Ogni giorno deve subire le angherie di un’Amministrazione che rischia di fare della contrizione del diritto soggettivo il proprio metodo di gestione. Si lavora in ambienti sporchi, puzzolenti, insalubri ed insicuri. Per questo il Ministro Alfano e il Capo del Dap hanno il dovere morale e l’obbligo istituzionale di intervenire per ripristinare legalità e sicurezza". Sarno ha inoltre sottolineato "La presenza oggi al nostro fianco di Rita Bernardini, Emma Bonino, Marco Pannella, Lanfranco Tenaglia, Maria Garavaglia, Antonio Di Pietro, Federico Palomba", che ha dimostrato "certamente un segnale di attenzione, disponibilità, interesse. Però è ora che alle parole seguano i fatti, altrimenti il rischio di ingestibilità complessiva diventa sempre più concreto. Noi abbiamo chiesto nuovamente che si apra un dibattito in Parlamento sullo stato del sistema penitenziario. Ma chi detiene responsabilità politiche come il Ministro Alfano e i Presidenti delle Commissioni Giustizia - ha quindi proseguito Sarno - possono, debbono, marcare in maniera più concreta il loro impegno e la loro attenzione. Al Ministro chiediamo di convocarci per assumere quelle iniziative urgenti, che saranno pure poche ma che ci sono, per mettere freno alla caduta libera. Soprattutto ad Alfano chiediamo che faccia seguire agli innumerevoli annunci azioni concrete sulla prospettiva di assunzioni straordinarie per la polizia penitenziaria". "Al Parlamento - chiude Eugenio Sarno - chiediamo di intervenire a modifica del sistema sanzionatorio nell’ambito della più ampia riforma della giustizia. Oggi in carcere il 48% dei detenuti non ha ancora una sentenza definitiva e il 23% dell’intera popolazione detenuta è in custodia cautelare". Liguria: il Sappe; carceri sovraffollate, intervenga il Governo
Ansa, 22 settembre 2009
Nuovo appello del sindacato di polizia penitenziaria per il problema delle carceri sovraffollate. Il Sappe spiega che c’è un tasso di crescita costante della popolazione detenuta a fronte di un organico di polizia penitenziaria in calo e per questo si appella al Guardasigilli e chiede l’intervento di tutti i parlamentari eletti in Liguria. "Chiediamo l’aiuto dei parlamentari, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, perché quella della carenza di personale di poliziotti in Liguria e delle criticità penitenziarie regionali deve essere una preoccupazione di tutti" spiega Roberto Martinelli il segretario generale aggiunto del Sappe. La critica situazione penitenziaria ligure emerge da una prima analisi dei dati elaborati dall’Associazione Pianeta Carcere in collaborazione con il Sappe. "La Liguria è la Regione con la percentuale minore di poliziotti penitenziari in servizio rispetto a quelli previsti. Al 31 agosto 2009 nelle carceri liguri sono impiegati 858 poliziotti, pari al 67% dei 1.264 previsti. Questi devono fronteggiare un’emergenza sovraffollamento che ha raggiunto il 142% della capienza regolamentare ed ha superato anche quella che al Dipartimento definiscono tollerabile per un totale ad oggi di 1.623 persone detenute sulle 1.140 previste" ha aggiunto Martinelli. "Auspico una svolta bipartisan di Governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto" ha concluso il segretario del Sappe. Umbria: Sdi; favorire l’intervento degli psicologi nelle carceri
Asca, 22 settembre 2009
La capogruppo dello Sdi-Uniti nell’Ulivo Ada Girolamini, ha riproposto la richiesta di favorire l’intervento di psicologi nelle strutture penitenziarie, considerato l’aumento del ricorso agli psicofarmaci e la domanda di lavoro per i detenuti. Lo ha fatto oggi nel corso della votazione in consiglio regionale, della mozione sulle carceri approvata all’unanimità dei membri dei gruppi. L’assessore regionale alla sanità Maurizio Rosi ha sottolineato che la popolazione penitenziaria è letteralmente "esplosa", con un "aggravio grande, rispetto a quanto stanziato inizialmente", annunciando che nella giornata di giovedì saranno note a tutti le condizioni che le Regioni chiederanno al Governo in materia di trasferimenti. L’atto approvato stamani, impegna la Giunta regionale a "costituire immediatamente un tavolo di confronto con il Provveditorato regionale per stabilire tempi e modi per la piena attuazione di quanto disposto dalla delibera di Giunta numero 682 del 10 settembre 2008"; ossia la stipula delle convenzioni necessarie a garantire la "presa in carico dell’assistenza sanitaria delle strutture sanitarie già presenti negli Istituti di pena, nonché la creazione di un apposito reparto ospedaliero all’interno del Polo Unico di Perugia e la realizzazione dei necessari ammodernamenti delle stanze di degenza già riservate all’interno dei presidi ospedalieri di Spoleto e Terni". Inoltre, la mozione chiede la "immediata attuazione degli impegni assunti con il Protocollo d’intesa sottoscritto nel 2001 dal Ministero della Giustizia e dalla Regione Umbria riguardante gli istituti penitenziari, con particolare riferimento alla formazione e tutela del personale penitenziario ed all’assistenza alle vittime del delitto". Nel documento si tiene conto che tanto a Perugia che a Terni "occorre affrontare i disagi legati agli spazi destinati, nelle strutture ospedaliere, al ricovero e alla cura dei detenuti". Lecce: Cgil; gravi carenze nell’assistenza sanitaria ai detenuti di Antonio Della Rocca
Corriere della Sera, 22 settembre 2009
Pazienti di serie B. I detenuti del carcere leccese di Borgo San Nicola, non avrebbero gli stessi diritti all’assistenza sanitaria di tutti gli altri cittadini. Diritti che sono loro garantiti dalle norme. Lo denuncia i segretario generale Funzione pubblica della Cgil di Lecce, Salvatore Caricato, che punta il dito verso la Regione che tarda, a suo dire, a emanare gli atti per l’organizzazione e la gestione sanitaria "con enormi ripercussioni sulle garanzie e sull’assistenza" dei carcerati. "La messa a norma dei locali adibiti ad attività ambulatoriale - afferma Caricato - e l’incremento delle ore dedicate all’attività specialistica, in particolare di Cardiologia, Dermatologia e Radiologia, sarebbero necessari e indispensabili per evitare le continue traduzioni di reclusi verso ospedali esterni, contribuendo anche ad alleviare i carichi di lavoro degli agenti utilizzati in questi trasferimenti ". Sarebbero tanti i detenuti che vengono curati negli ospedali data l’inadeguatezza delle strutture carcerarie dedicate all’assistenza e alla carenza di personale. In particolare, secondo la Cgil il personale di supporto e di ausiliariato non esisterebbe affatto "con enormi disagi per quei pochi infermieri e medici assunti a tempo indeterminato che sono costretti a svolgere il loro lavoro in condizioni precarie, avvalendosi sempre e comunque di personale cosiddetto parcellista che viene chiamato e remunerato a ore di lavoro". Per questo il sindacato chiede un netto cambio di rotta con l’istituzione all’interno dei penitenziari pugliesi le unità operative interdipartimentali per garantire e coordinare l’assistenza tra i dipartimenti di Salute mentale, delle Dipendenze patologiche, della Prevenzione e della Medicina di base. "Non è sufficiente emanare una circolare regionale per garantire l’assistenza sanitaria nelle carceri. Se veramente lo si vuole fare - rimarca Salvatore Caricato - è necessario intervenire subito e risolvere i problemi chiamando a raccolta anche chi ha responsabilità istituzionali nei diversi territori della regione". Nel carcere di Lecce attualmente sono reclusi 1.380 detenuti, tra cui 300 immigrati e 100 donne, malgrado la capienza massima sia di 650 persone, cioè una media di tre persone per ogni cella ampia circa 7 metri quadrati. Gli agenti penitenziari sono 560. Ma secondo la Cgil, in alcune sezioni con 60-70 detenuti verrebbe utilizzata una sola guardia. Ma i tagli alle risorse economiche non consentirebbero agli agenti penitenziari di percepire gli straordinari e avrebbe bloccato la manutenzione dei mezzi. Il direttore sanitario dell’Asl di Lecce, Franco Sanapo, ammette le lacune sui livelli assistenziali. E commenta: "Come sempre le leggi sono scritte bene: si è stabilito che i carcerati hanno gli stessi diritti alle cure di chi è libero, ma poi poco si fa per garantire tutto questo. È stato detto che le Asl dovranno prendere in carico questi pazienti attingendo risorse umane e strutture dal Dipartimento di giustizia. Inoltre i contratti all’epoca sottoscritti con l’amministrazione carceraria la Asl li deve rispettare fino a nuove disposizioni. Inoltre si prevede una migliore assistenza sanitaria ai carcerati, ma con le stesse identiche risorse di prima". Vicenza: un progetto per dimostrare che "la legalità conviene"
Ansa, 22 settembre 2009
I 50 detenuti della sezione di Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Vicenza; 4 aziende promotrici; 3 testimonianze forti; 2 esperti formatori; 1 commissione di valutazione; zero costi per le istituzioni pubbliche. Questi i principali numeri del progetto "Carceri Creative - Liberi di Progettare", nato da un’iniziativa di responsabilità sociale di Fabiano Palamara (Develpack Srl), azienda innovativa di Reggio Calabria. "L’obiettivo è dimostrare che la legalità conviene, attraverso un approccio utilitaristico e non, come spesso viene affrontata la tematica della legalità, solo di tipo moralistico". La missione sarà quella di trasmettere ai detenuti, attraverso opportune giornate di testimonianza, formazione ed affiancamento, un forte stimolo ed una "metodologia" per liberare la loro creatività, al fine di generare idee creative per nuovi prodotti e servizi. Una commissione di esperti, entro la fine dell’anno, selezionerà la migliore idea, che verrà supportata dai promotori del progetto, con l’intento di tradurla in una promettente iniziativa imprenditoriale (possibilmente gestita dall’ideatore o dai suoi familiari), capace di apportare benefici reali e non apparenti, come quelli frutto di attività illegali. La ricaduta per gli altri destinatari del progetto, pur essendo prettamente intangibile, sarà potenzialmente in grado di incidere sui modelli, sui comportamenti, sulle convinzioni dei partecipanti. Assieme a Develpack, altre aziende private, Campus di Udine, Internova Pack e Work Up di Vicenza, mettono a disposizione le proprie competenze e le proprie risorse per sostenere l’iniziativa, che è inserita tra gli eventi del "2009 - Anno della Creatività e dell’Innovazione" della Commissione Europea. Maggiori informazioni sono reperibili sul sito www.carcericreative.it. Napoli: Diocesi; per i detenuti momenti d’intimità con le mogli
Il Mattino, 22 settembre 2009
Misure alternative obbligatorie fino a quattro anni di reclusione; "adozione" dei detenuti da parte delle parrocchie; una nuova "disciplina dei rapporti" affettivi tra detenuti e coniugi, che tradotto significa la possibilità, per i reclusi, di avere momenti di intimità con la propria moglie o il proprio marito. Sono le proposte di legge del Movimento "Uomo Nuovo", promosso da don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale di Napoli e direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Carceraria, che saranno presentate il prossimo 26 settembre alla presenza del cardinale Crescenzio Sepe. "Non si tratta di mitigare le pene o addolcire il carcere - precisa subito il sacerdote - soprattutto in un periodo come questo, in cui è molto forte la domanda di sicurezza dei cittadini". Ma di ridare all’esperienza detentiva il suo significato originario: "rieducare il detenuto e reinserirlo nella società". Durante i cinque anni trascorsi come cappellano a Poggioreale, don Franco matura la convinzione che "la detenzione non sia la risposta giusta alla voglia di sicurezza, se attuata in queste forme, poiché isola le persone dalla famiglia e dalla società". In particolare pensa ai detenuti "a lunga scadenza, come gli ergastolani che avrebbero diritto ad un momento di intimità con la propria moglie". "Ha mai visto la sala degli incontri di Poggioreale? - conclude don Franco - in uno stanzone di 200 metri quadrati ci sono centinaia di persone che parlano, urlano; ci sono bambini piccoli, parenti, amici. Stare un po’ di tempo, in tranquillità, con il coniuge è un diritto. È un modo per non abbrutirsi". Napoli: detenuto rifiuta cibo da 18 mesi, è in terapia intensiva di Adriana Pollice
Il Manifesto, 22 settembre 2009
La storia di Carmine Izzo, carcerato a Secondigliano, che rifiuta il cibo da un anno e mezzo. "È una violenza di Stato". Carmine Izzo ha 36 anni, una moglie e due figli. Un ragazzo ancora giovane di quasi un metro e ottanta e pesa 28 chili. Da un anno rifiuta acqua e cibo, ma per il carcere napoletano di Secondigliano simula, lo fa perché vuole evadere, dicono. Ora è ricoverato in terapia intensiva al Policlinico, nel tentativo di infilare l’ennesima sonda per alimentarlo, questa volta attraverso la giugulare, gli hanno perforato un polmone. "Non è stato possibile andare di persona a controllare il suo stato - racconta il consigliere di Rifondazione, Alessandro Fucito che, con il Prc, ha sollevato il caso - perché le sue condizioni sono così critiche che non si può avvicinarlo. Il primario, però, ha confermato che la situazione è gravissima". Lunedì il tribunale del riesame di Salerno dovrebbe pronunciarsi sul suo trasferimento in una struttura in grado di curarlo: "Una decisione, temo, che arriverebbe giusto in tempo per affidarlo alla famiglia nei suoi ultimi momenti" commenta il difensore Vittorio Trupiano. Carmine Izzo ha una condanna a trent’anni per omicidio, condanna non ancora definitiva, all’ultimo appello del sette maggio scorso è stato portato in aula in coma, secondo l’accusa la perizia di un mese prima lo dichiarava in grado di rispondere alle accuse. Chi lo ha visto da vicino, però, racconta che ha l’aspetto di un sopravvissuto ai lager nazisti. Se la sua pena fosse definitiva, paradossalmente, lo avrebbero già dichiarato incompatibile con il carcere. È già stato ricoverato per otto mesi in una struttura privata, Villa Quiete, senza tentare di darsi alla macchia, lì gli è stata notificata la detenzione in carcere e rimesso in galera. Lì vorrebbe riportarlo la moglie. Un ragazzo dalla vita difficile fin da subito, a tre anni un incidente d’auto gli provocò lo sfondamento del cranio, con conseguenti crisi epilettiche, e poi la strada, il salto nella criminalità fino all’omicidio, ai sensi di colpa e all’impossibilità di accettarne le conseguenze: "Alla prima notifica della pena si cosparse di benzina per darsi fuoco - racconta l’avvocato - fin da allora è apparso chiaro che ha una personalità autodistruttiva, non mangia perché vuole lasciarsi morire. Ha bisogno di sostegno psicologico e invece lo prendono in giro, lo chiamano il conte di Montecristo". Il consulente del Tribunale del riesame di Salerno, il dottor Ruggiero Falivene, già il sedici giugno scorso attestava la necessità "di trasferimento per un periodo medio-lungo presso struttura assistenziale extracarceraria ove sia possibile vuoi assistenza specialistica psichiatrica continuativa vuoi intervento continuativo di un servizio nutrizionale specializzato" fino a ipotizzare che una nuova detenzione possa portare a "un ulteriore graduale peggioramento". Ma il detenuto può fuggire, dicono, e così a ogni ricovero in rianimazione segue una nuova incarcerazione: "Da un anno lo alimentano con i sondini, ma la sua disidratazione diventa sempre più acuta - continua l’avvocato - così scompaiono le stesse vene e l’ago schizza via dalla pelle, sempre più trasparente. L’undici settembre ho ridiscusso il caso in aula e nessuno aveva avvisato né me né il tribunale che il nove era andato in arresto cardiaco". La moglie, avvisata dalle forze dell’ordine, era corsa di notte al pronto soccorso del Policlinico, serviva la sua firma per le procedure d’urgenza in pericolo di vita. "La vicenda Izzo è una violenza di stato - conclude Fucito - i giornali sembrano non interessarsene perché si tratta di un uomo accusato di omicidio ma il diritto alla cura e alla salute prescinde, nell’ordinamento italiano, da colpe o sentenze". Pescara: evade detenuto art. 21, rischio restrizioni a permessi
Il Centro, 22 settembre 2009
È difficile che si sia nascosto a Pescara, ma potrebbe anche non essere così lontano. La polizia sta provando a stringere il cerchio sul marocchino evaso due mattine fa dal San Donato con un colpo a sorpresa, approfittando dell’assenza di una sorveglianza e soprattutto dell’incondizionata fiducia guadagnata con lunghi mesi di buona condotta. Proprio facendo leva sul provvedimento che gli consentiva di uscire dal carcere alle 8 del mattino e di rientrare alle 20, Charif Azidin ha dato vita a una fuga premeditata da chissà quanto tempo. Non è un caso che appena un’ora e mezza prima il 29enne extracomunitario - che stava scontando una condanna per detenzione di droga - abbia ricevuto la visita di due persone, che si sono intrattenute a parlare con lui nella sala colloqui per un quarto d’ora senza neppure sfruttare appieno l’ora consentita dal regolamento penitenziario. Probabilmente, è l’ipotesi degli investigatori, un faccia a faccia per pianificare gli ultimi dettagli di una fuga già preparata. Sabato mattina, Azidin era stato incaricato di pulire l’area tra la cinta muraria del San Donato e un’altra recinzione esterna, la cosiddetta intercinta. Il salto verso la libertà non superava il metro e mezzo di altezza. Un gioco da ragazzi per il giovane marocchino scavalcare il muretto e allontanarsi senza dare nell’occhio, quasi certamente a bordo di una macchina che lo stava attendendo all’esterno. Erano le 10,30. Ad agevolare la fuga, anche il fatto che l’allarme sia scattato dopo diverse ore. Solo alle 13, infatti, il personale in servizio si è reso conto che il marocchino non stava più lavorando nei pressi del carcere. Lo stavano aspettando per portare dei pacchi, ma l’extracomunitario aveva già fatto perdere le proprie tracce. È stata avvertita la squadra mobile, diretta da Nicola Zupo, che si è messa subito a caccia dell’evaso, allargando l’area di ricerca al di fuori di Pescara. La polizia ha battuto alcuni luoghi dell’Abruzzo dove Azidin poteva essersi rifugiato. Le prime ricerche non hanno avuto esito, ma gli investigatori sono certi di riuscire a rintracciare il 29enne. Azidin stava scontando una pena che gli era stata comminata dai giudici di Milano per detenzione a fine di spaccio di sostanze stupefacenti, dopo essere stato sorpreso dalla Finanza nel dicembre 2006 con mezzo chilo di cocaina. Arrestato, condannato e rinchiuso nel carcere milanese, era stato poi trasferito per sfollamento a Pescara, dove doveva rimanere fino a fine pena, nel marzo del 2011. Al San Donato, si era fatto notare per il suo comportamento impeccabile. Un detenuto modello, al punto che lo staff composto da un educatore, una psicologa e un criminologo, dopo sei mesi di incontri, aveva dato parere favorevole a un allentamento della sorveglianza. Così, grazie alla sua buona condotta, il detenuto marocchino aveva ottenuto il permesso di uscire dall’area blindata del carcere, autorizzato al lavoro esterno senza scorta dal direttore della casa circondariale Franco Pettinelli dopo il via libera del magistrato di sorveglianza. Nessuno nutriva dubbi su Azidin. Invece l’altra mattina, la fuga, improvvisa, spiegabile secondo gli investigatori con il timore del marocchino di venire espulso dal territorio italiano una volta in libertà o che qualche procedimento pendente potesse giungere a sentenza, allungando il periodo di detenzione. Oppure, più semplicemente, Azidin ha voluto cogliere l’occasione propizia. Ma molto è legato all’esito del colloquio di sabato e di quelli che il giovane potrebbe avere avuto nelle scorse settimane. - Gian Paolo Coppola
Rischio restrizioni sui permessi
Non è la prima volta che il carcere di Pescara sale alla ribalta per evasioni. La più famosa è quella del 29 gennaio 1985, quando sei componenti della banda Battestini uscirono dal San Donato lasciando dietro di sé sette agenti di polizia penitenziaria feriti. I fuggitivi vennero acciuffati 15 giorni dopo a Roma, al termine di un sanguinoso conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Appena quattro anni fa, due albanesi e un romeno riuscirono ad allontanarsi, dopo avere annodato un lenzuolo, scivolando da un buco all’esterno del muro di cinta. Furono presi poco dopo. Ma l’evasione che più richiama quella di Charif Azidin, nel senso di una fiducia accordata a un detenuto e poi tradita da quest’ultimo, è stata messa a segno un paio d’anni fa. Era il caso di un romeno, che aveva usufruito di un permesso premio accordato anche in quel caso dal magistrato di sorveglianza grazie alla sua buona condotta e che non era più rientrato in carcere. Lo hanno arrestato a Roma. Quanto ad Azidin, aveva usufruito del permesso di lavorare all’esterno del san Donato. In base alle norme dell’ordinamento penitenziario, i detenuti a cui è concessa questa pena alternativa lavorano senza scorta, a meno che quest’ultima non venga ritenuta necessaria per motivi di sicurezza. Ma la sua fuga, a prescindere dal fatto se andrà a segno, potrebbe provocare delle ripercussioni e portare a una restrizione nella concessione dei benefici e della semilibertà ai detenuti da parte del magistrato di sorveglianza. Con Azidin, stanno usufruendo della stessa pena alternativa di lavorare senza sorveglianza anche altri due detenuti, un pescarese e un napoletano. Il gesto improvviso del 29enne potrebbe finire per danneggiare quanti, tra i detenuti del San Donato, avevano ormai maturato il diritto di riassaporare un pezzetto di libertà. Immigrazione: il grido dal Cie Roma "voglio andare via da qui" di Andrea Onori
Periodico Italiano, 22 settembre 2009
"Voglio andare via, voglio tornare a casa. Qui è cento volte peggio della galera". È il grido d’allarme di Jonny. Un ragazzo albanese di 32 anni rinchiuso nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma). Giunto in Italia nel 2002 con un visto regolare, ha iniziato a lavorare come pittore e arrangiandosi con altri lavori precari senza nessun diritto, "tanto anche voi italiani lavorate in nero" mi racconta nella lunga telefonata. Jonny ha scontato 2 anni e mezzo di carcere a Rebibbia per un furto in appartamento "ma non c’entravo nulla con il furto io". All’interno del carcere Jonny ha lavorato "svolgevo lavori con il computer". Uscito dal carcere è stato portato direttamente nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria dove è detenuto da 2 mesi. Il suo visto è scaduto proprio mentre si trovava prigioniero a Rebibbia. "Qui è peggio di Rebibbia, qui ci trattano come se stessimo in un ospedale psichiatrico" continua a ripetermi Jonny durante la conversazione a telefono. Parla come un fiume in piena, senza fermarsi mai. Non faccio domande, non posso. Parla solo lui e sembra rispondere proprio alle domande che vorrei fare, come se mi leggesse nel pensiero. Io sto zitto ed ascolto la sua storia. "I governi rubano e non capisco come mai io devo pagare per i loro sbagli. C’è gente in Italia che crede ancora ai politici, ma come si fa?". Con una voce quasi rassegnata Jonny chiede aiuto, ma non vuol far sapere la sua storia in Albania, ai suoi cari: "mi vergogno, sono stato in galera. Nel mio paese è vergogna se fai la galera." Parliamo del suo passato a Rebibbia. "Lì ci sono solo morti di fame e persone che non hanno fatto nulla. C’è gente che ha rubato per mangiare. Quando lo stomaco brontola la testa ti va in tilt e fai di tutto per mangiare. Ecco in galera ci sono queste persone. Invece, chi ha i soldi e può permettersi un avvocato buono esce facilmente dalle sbarre. Chi è povero non può farlo." Jonny sperava di uscire al più presto dal carcere per tornare a casa. Aspettava fiduciosamente di tornare a vivere, invece c’è stata la beffa. Per lui si sono aperte le porte del Cie. "Qui sto peggio, molto peggio. Voglio uscire" racconta Jonny. "Sono dimagrito 7 kg. Qui non si vive, fa tutto schifo. Si mangia male e poco. Sempre riso e pasta. I pomodori puzzano, gli Hamburger anche. Tutto il cibo puzza, chissà cosa ci fanno mangiare." Qualche tempo fa, all’interno del Cie è comparso, per un ispezione, un funzionario dello stato:"è venuto a vedere le nostre condizioni" dice Jonny. "L’ho implorato dicendogli che qui si sta male, non si vive. Almeno fateci mangiare bene". Il funzionario mentre andava via rassicurava i migranti e gli prometteva di esaudire subito le loro richieste: "mi ha detto che avrebbe parlato con il sindaco Alemanno ma nulla, non è successo nulla." Mi ha raccontato di un suo amico che tornò dall’ospedale con un giornale. All’interno c’era un articolo che parlava proprio di loro: "diceva delle nostre condizioni. Come scriveva la giornalista sembrava che qui era tutto ok. Appariva come una vacanza. Sono tutte bugie quelle che dicono, noi stiamo male. Troppo male. Vorrei proprio vedere se quella giornalista riuscirebbe a vivere qui. Ho visto molta gente suicidarsi perché qui fa schifo. Questa è vita?". Mentre Jonny mi racconta della sua vita. Si ferma un attimo e mi dice: " sai che qui c’è una minorenne, Cristina?". Questa ragazzina croata ha compiuto sedici anni qualche giorno fa e per l’occasione ha fatto una piccola festa insieme alle sue compagne circondata dalle sbarre di Ponte Galeria. È nel centro che aspetta un passaporto per farsi riconoscere, un medico che la visiti per la sua malattia alle ovaie, qualcuno che ascolti la sua storia e la aiuti a tornarsene a casa. Libia: stupri e corruzione... l’orrore nelle carceri di Gheddafi di Marco Mongiello
L’Unità, 22 settembre 2009
Le autorità italiane rispediscono brutalmente i rifugiati nelle mani dei loro torturatori, le autorità libiche commettono abusi e l’Unione europea non fa rispettare le leggi. È questo il quadro che emerge dal rapporto presentato ieri dall’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), intitolato "Scacciati e schiacciati" e dedicato ai respingimenti italiani in Libia. "L’Italia - si legge nel rapporto - intercetta migranti e richiedenti asilo africani sui barconi e, senza valutare se possano considerarsi rifugiati o siano bisognosi di protezione, li respinge con la forza in Libia, dove in molti sono detenuti in condizioni inumane e degradanti e vengono sottoposti ad abusi". Il documento è stato diffuso in coincidenza con la riunione dei ministri degli Interni europei a Bruxelles, dove l’Italia ha ribadito di essere in linea con le normative internazionali. "La realtà è che l’Italia sta rimandando questi individui incontro ad abusi", ha detto Bill Frelick, direttore delle politiche per rifugiati di Hrw e autore del rapporto, "i migranti che sono stati detenuti in Libia riferiscono categoricamente di trattamenti brutali, condizioni di sovraffollamento ed igiene precaria". Secondo Frelick Roma "viola i propri doveri legali" e Bruxelles "dovrebbe esigere che l’Italia rispetti i propri doveri ponendo termine a tali rinvii verso la Libia. Altri Stati membri dell’Ue dovrebbero rifiutare di prendere parte ad operazioni di Frontex (l’Agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne, ndr) che sfociano in rinvii di migranti ed abusi". La denuncia dell’Ong, che conferma quanto documentato dalle inchieste de l’Unità, si basa su delle interviste condotte a maggio 2009 con 91 immigrati e rifugiati in Italia e Malta e su un’intervista telefonica con un immigrato detenuto in Libia. Le autorità di Tripoli hanno rifiutato l’accesso ai loro centri di detenzione, denunciano gli autori, e le autorità italiane hanno concesso solo interviste molto brevi con gli immigrati presenti nei centri di Caltanissetta, Trapani e Lampedusa e hanno rifiutato ogni incontro con rappresentanti del Governo. Gli italiani, si spiega nel testo, "usano la forza nel trasferire i migranti dai barconi su imbarcazioni libiche o li riportano direttamente in Libia, dove le autorità li imprigionano immediatamente" e alcune di queste operazioni sono coordinate da Frontex. Si tratta di "un’aperta violazione dell’obbligo di non commettere refoulement", il respingimento indiscriminato. Le testimonianze raccolte sono agghiaccianti. Si parla di percosse, di abusi, di violenze sessuali. Al campo di deportazione libico di Bin Gashir, ha raccontato Paul Pastor (i nomi sono modificati) le autorità "iniziarono subito a picchiare sia me che gli altri. Alcuni dei ragazzi furono picchiati al punto da non poter più camminare". Madihah, una ragazza eritrea di 24 anni, ha raccontato che "tutte le donne hanno avuto problemi con la polizia" libica, che "arrivava di notte e sceglieva le donne da violentare". Non va meglio per i minori. "Le autorità libiche - si legge - non sembrano fare nessuna distinzione tra adulti e bambini non accompagnati" e questi sono di solito messi nelle stesse celle con il "rischio di abusi e violenze ". Tutti inoltre hanno riferito che la differenza tra i trafficanti di esseri umani e la polizia libica è molto sfumata. Spesso gli immigrati sono detenuti fino a quando qualcuno non paga dei soldi, che non si capisce se a titolo di cauzione o riscatto. L’Italia, conclude il rapporto, "dovrebbe smettere immediatamente di violare i suoi obblighi sul non respingimento " e dovrebbe anche smettere di cooperare con la Libia. In base al Trattato firmato da Berlusconi il 30 agosto 2008, Roma si è impegnata a finanziare il 50% delle spese per i controlli effettuati da quelle stesse autorità libiche che maltrattano i migranti. Piuttosto bisognerebbe aumentare la cooperazione con l’Agenzia Onu per i rifugiati, suggeriscono gli attivisti di Human Rights Watch. Da parte sua l’Unione europea dovrebbe esigere dall’Italia il rispetto delle norme Ue e internazionali, incoraggiare la Libia a ratificare la Convenzione di Ginevra ed inserire esplicitamente la questione dei diritti umani nel prossimo accordo quadro con Tripoli.
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