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Giustizia: se il popolo chiede ingiustizia… la politica gliela dà di Enrico Gagliardi
www.libertiamo.it, 15 settembre 2009
La situazione disperata delle carceri italiane è ormai nota a tutti, così come è ormai acclarato il fallimento del processo penale. Quotidianamente assistiamo a dibattiti nei quali è messo in luce il dramma degli istituti di pena affollati, dove la capienza reale (non quella "tollerabile", concetto privo di senso, inventato da burocrati privi di un principio di realtà) è ampiamente superata e in parecchie celle ci sono i letti a castello a "quattro piani". In molti, tra esperti del settore e parlamentari (peraltro supportati da precise dichiarazioni della magistratura organizzata), avevano previsto l’inutilità dell’indulto, quando non fosse stato accompagnato da una più ampia amnistia che, interessando il reato e non la pena, avrebbe veramente liberato le scrivanie dei giudici da centinaia di pratiche. Appelli inascoltati, ovviamente: la politica non ha avuto il coraggio di approvare entrambi i provvedimenti, visto che già l’indulto aveva scatenato, sull’onda di prese di posizioni populistiche, fortissime polemiche. La classe dirigente invece ha preferito, ed ancora preferisce, salvare le apparenze scegliendo ipocritamente un’amnistia strisciante e "di classe", dimostrata da circa centomila prescrizioni annue, di cui possono giovarsi coloro i quali hanno la possibilità di difendersi "dal processo". Tutte queste posizioni però sarebbero insostenibili se il degrado della giustizia non fosse culturalmente e politicamente legittimato da parte di ampi settori dell’opinione pubblica. È probabilmente proprio questa la ragione che, in qualche modo giustifica e spiega, "l’accartocciamento" della nostra società su concezioni punitive in palese contrasto con i più elementari principi garantisti della nostra Costituzione. Escludendo una percentuale ridotta di persone che per interesse professionale e sensibilità politica continua a coltivare (in una situazione di totale isolamento culturale) l’illusione di una effettiva centralità politica delle questioni della giustizia penale, l’opinione pubblica non risulta toccata dal problema di un processo penale che ha fallito, dal sovraffollamento delle carceri e da una situazione ormai insostenibile di disuguaglianza di fronte alla legge e, ancora di più, di fronte alla pena. Dopo un lungo periodo in cui, da sinistra, si teorizzava la funzione sociale di una giustizia militante e "combattente", oggi si assiste da destra alla celebrazione di un "cattivismo" giudiziario e normativo di segno culturalmente analogo, con il totale asservimento delle regole della giustizia penale alle esigenze della sicurezza. È perfino irrilevante che, come accade nell’universo carcerario, questa regola di giustizia operi in una situazione di sostanziale illegalità. E finisce per apparire rituale e stucchevole anche il richiamo ai principi sanciti nella nostra Carta Fondamentale. Le terribili condizioni carcerarie per lo più non destano allarme o riprovazione, come se il degrado, la violenza, le umiliazioni che tanti detenuti ogni giorno subiscono, fossero una sorta di meritata "pena accessoria". Per non parlare della sostanziale "impronunciabilità" del principio di non colpevolezza, se non a beneficio di alcuni imputati eccellenti (e non detenuti). Se tale è il pensiero del "paese profondo" non si vede perché mai i politici dovrebbero assumere posizioni contrarie, infruttuose sotto il profilo dei voti e del consenso. Il rapporto tra la cultura sociale della giustizia e le proposte politiche in tema di giustizia non riguarda solo la nostra società: su questo temi infatti già da tempo si interroga, su tutte, la dottrina americana. Uno dei più famosi studiosi statunitensi di diritto penale e sociologia, David Garland, professore alla New York University, nel suo più importante saggio (The Culture of Control: Crime and Social Order in Contemporary Society) ha posto in evidenza come il "collasso" ideologico delle elite liberali, unite all’avanzare di una politica sempre più demagogica nel corso degli anni abbia comportato il prepotente ritorno di una visione punitiva e repressiva dell’ordine e del diritto penale; proprio quello che ormai da tempo sta avvenendo in Italia, dove le poche voci garantiste rappresentano posizioni isolate e minoritarie, spesso criticate quando non addirittura attaccate come complici, inconsapevoli o interessati, dei presunti criminali. Si comprende allora come il vero disastro non sia (solo) quello di una politica sorda a certi problemi ma anche quello di un elettorato insensibile, in gran parte incapace di pungolare la classe dirigente, pretendendo il rispetto, per tutti, di quegli standard minimi di garanzie che, autentici pilastri democratici, dovrebbero connotare qualsiasi governo liberale degno di questo nome. Bisognerebbe comprendere quanto poi, questo elettorato e la sua cultura della giustizia (per effetto di un inevitabile circolo vizioso), sia a sua volta il prodotto di una politica interessata a cavalcarlo e a consolidarlo e di una informazione allarmistica e scandalistica, interessata a vendere le profittevoli notizie di sempre nuovi "mostri" giudiziari. Ma questo discorso ci porterebbe lontano e a considerazioni ancora più pessimistiche sui destini della giustizia nel nostro paese. Giustizia: nel delirio leghista comunità poliziesche e etnocrazia di Giuseppe Foglio
L’Altro, 15 settembre 2009
La "sicurezza partecipata" sta soppiantando le forze dell’ordine. La crisi del welfare ha consegnato le città ad una nuova forma di controllo: l’etnocrazia. Le ronde, dopo tanto clamore, sembrano scomparse dalla propaganda del governo. Perché? Per le questioni che sono su tutti i giornali? Perché l’iter parlamentare di conversione dell’ultima legge sulla sicurezza le ha sostanzialmente svuotate degli aspetti più eversivi dello Stato di diritto? Forse per tutte queste ragioni, ma non per questo non è più il caso di parlarne. Insieme al federalismo fiscale, a quello scolastico-dialettale e, soprattutto, agli accordi con la Libia riguardo a respingimenti ed espulsioni, la proposta leghista di costituire "polizie locali volontarie" per servizi ausiliari di sicurezza del territorio ha destato inquietudine e reazioni proprio per la profondità dei mutamenti che implica nella struttura e nel mandato della polizia, intesa come organizzazione deputata alla pubblica sicurezza. Innanzitutto, va notato che oggi le politiche di sicurezza vedono il sostegno aperto a mercenari e ronde da parte di governi di destra, che invece dovrebbero essere eredi della tradizione più autoritaria e statalista in tali materie. È facile fare una lettura economicistica di questo fenomeno: la destra taglia-spese riduce anche sui servizi di polizia e, non potendo tagliare ai livelli medio-alti della gerarchia, lo fa alla base, sui servizi territoriali. Sicuramente questa componente è presente, se, come lamentano da anni i sindacati di polizia, non c’è benzina per le volanti. Ma sarebbe meglio guardare il fenomeno ronde da un altro punto di vista. Siamo sicuri che oggi non siamo di fronte a rapporti tra stato e società in tema di sicurezza del tutto mutati? Se consideriamo il problema con uno sguardo allargato, notiamo che nelle ronde non c’è solo la privatizzazione dell’esercito e della polizia, ma anche la "cooperazione volontaria alla sicurezza", ossia il coinvolgimento della comunità degli etno-cittadini nei servizi di polizia. Se dieci o quindici anni fa si parlava di "polizia di prossimità", di una polizia cioè in grado di prevenire i reati attraverso la vicinanza alle situazioni di rischio sociale, oggi il problema delle ronde riguarda, asseritamente, la sicurezza partecipata. Ora, la partecipazione volontaria dei cittadini alla sicurezza del territorio, al di là della specificazione dei compiti, delle limitazioni all’uso di mezzi di coercizione, o dei controlli statali, costituisce non solo una crisi del carattere procedurale e terzo del diritto e dell’uso della forza pubblica, ma anche la rivisitazione di un tema classico di storia della polizia. Come ricordano le ricerche classiche di Foucault o di Stolleis, nel Polizeistaat tardo barocco, diversamente dallo stato pacificatore machiavellico o schmittiano, si verifica una presa in carico della società e dei suoi bisogni da parte dell’amministrazione pubblica, perché la nascente società moderna mostrava immediatamente le conseguenze dell’individualismo capitalistico sulle strutture della società feudale: distruzione delle comunità di villaggio, migrazione verso le metropoli di masse di diseredati, crescita della povertà, ecc. Anche Hegel, nei Lineamenti di filosofia del diritto (§230), individua per la polizia un ruolo corporativo, di connettivo tra stato e società: "il diritto implica sia l’attuazione della sicurezza indisturbata della persona e della proprietà, sia la realizzazione dell’assicurazione della sussistenza e del benessere dei singoli - implica, cioè, che il benessere particolare sia trattato e realizzato come diritto". Certo, nobilitare le ronde con Hegel può apparire eccessivo, ma il problema esiste: da almeno venticinque anni, in Italia, non esistono più politiche in grado di connettere i problemi del territorio, delle grandi aree urbane o dei grandi snodi logistici nazionali con i problemi riguardanti il sistema-paese nella sua globalità. Oggi, i territori con sistemi urbanistici complessi e aree industriali sviluppate, sono semi abbandonati allo sviluppo selvaggio; i ritardi nella consegna di grandi opere lasciano che cantieri decennali portino al degrado di vaste aree; lo sviluppo delle periferie urbane in spregio ad ogni concezione dei requisiti ambientali e sociali minimi della convivenza civile; l’abbandono degli impianti industriali dismessi e, infine, la mancanza quasi totale di azione pubblica efficace nel meridione, dove le organizzazioni criminali vecchie e nuove hanno raggiunto forme di controllo del territorio più profonde che negli anni 80; o, infine, l’assenza di ogni progetto moderno di inclusione degli immigrati, abbandonati allo sfruttamento nel lavoro nero o criminale a vantaggio di un’accumulazione primitiva di capitali che seguono cicli di valorizzazione nient’affatto trasparenti. Tutto questo pone il problema della sicurezza urbana e del territorio in termini a dir poco drammatici. È del tutto evidente che il delirio leghista sulla sicurezza fai da te nei comuni del Nord abbia mire politiche recondite: ripulire le periferie e le aree abbandonate da immigrati, marginali, o punk; controllare il territorio attraverso "polizie volontarie locali", se non di partito, con chiarissimi rischi per la democrazia e per la sicurezza pubblica stessa (si pensi al fenomeno delle contro ronde di sinistra). Ma è in questione solo questo? Si tratta solo di una perversione identitaria della tradizione di democrazia partigiana del Nord? Secondo la paradossale etno-crazia leghista, nel campo della sicurezza, come in ogni campo, la statalizzazione e la burocratizzazione centralistica riducono gli spazi di controllo e partecipazione popolare diretti. Tuttavia è improrogabile una proposta democratica, non etno-cratica o corporativa che riporti il tema della sicurezza entro l’ambito della progettazione di nuove forme di sviluppo sociale e politico, basate sul riconoscimento e l’inclusione dell’altro, sull’integrazione dei territori locali e delle macroregioni del Nord, del Centro e del Sud, sulla riapertura del processo democratico negli enti locali e nelle istituzioni politiche nazionali, nonché nei partiti. Se, invece, si pensa di ridurre il doppio mandato assegnato da Hegel alla polizia ad uno soltanto, ossia alla difesa diretta del capitale produttivo e sociale, o del patrimonio, allora si produrranno solo "comunità poliziesche" separate dal resto della società, come accade in quei quartieri chiusi, senza cittadinanza, che proliferano nelle città brasiliane o statunitensi ossessionate dalla microcriminalità. Giustizia: Fincantieri; in 2 anni possiamo costruire navi-prigione di Francesco Dal Mas
Avvenire, 15 settembre 2009
Mancano carceri? A Monfalcone la Fincantieri ha allo studio dei penitenziari galleggianti. Non risolvono tutti i problemi, ma una parte sì. Gli ingegneri che ci stanno lavorando hanno spiegato ai direttori e dirigenti penitenziari del sindacato Sidipe che a Trieste hanno sottoscritto l’affiliazione con la Federazione nazionale della Sicurezza (Cisl) che una volta ricevuta la commessa sarebbero in grado di fornire le navi in due anni, quindi - fa notare Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste - "in tempi assolutamente più brevi dei 5-10 anni previsti dal piano governativo". I detenuti oggi in Italia, secondo gli ultimi dati forniti ieri a Trieste, sono 64.052. Contro una capienza regolamentare delle carceri di 43.262 posti, e una tollerabilità di 63.568 posti. I numeri, aggiornati al 4 settembre, del Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria (Dap) al 4 settembre segnalano la situazione più grave dal 1946 ad oggi, con quasi la metà dei detenuti (30.491) ancora in attesa di giudizio, cioè presunti innocenti. Gli italiani sono 40.322, ben 23.730 invece sono stranieri. "Questi numeri si riferiscono a persone che hanno conti aperti con la giustizia o che scontano pene per sentenze già passate in giudicato", precisa Sbriglia. "Soltanto in Sicilia abbiamo 7.700 detenuti a fronte di 5 mila posti - fa sapere Orazio Faramo, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria siciliana -. È evidente che occorrono carceri nuove, anche perché quelle esistenti sono vecchie, obsolete, ma soprattutto sono necessarie le misure alternative. Anche perché la situazione sta esplodendo già oggi e non possiamo attendere chissà quanti anni". Tutti d’accordo, i numerosi direttori che provengono da ogni parte d’Italia, sul fatto che ampliare le carceri o farne di nuove non basta. Anche perché - fa notare ancora Sbriglia - se andassero a sentenza solo il 10% dei procedimenti penali ancora aperti ci troveremmo con 500 mila detenuti da sistemare; ma dove? "Non basta aggiungere loculo (cimiteriale) a loculo" protesta dal carcere di massima sicurezza di Tolmezzo Silvia Della Branca. Gli esperti, infatti, sono saliti fino sulle montagne della Carnia per verificare se quell’istituto poteva essere sovradimensionato. "Noi direttori e dirigenti crediamo, come tanti altri - insiste Sbriglia - in una giustizia certa, ma non vendicativa, in una giustizia puntuale e che pretende il pagamento dei debiti, ma che è pure "compassionevole". Esigiamo, come tanti altri, che le persone costrette alla pena utilizzino il tempo della stessa per non specializzarsi ulteriormente nella ideazione e commissione dei crimini, ma che imparino a lavorare con il sudore della fronte, che si riapproprino pure dei diritti di cittadinanza che hanno barattato al fine di essere criminali: le carceri, insomma, devono diventare fornace di legalità e non fusione di criminalità". Ma proprio per questo il sovraffollamento non può continuare. Non fosse altro perché - sottolinea Pompeo Mannone, segretario generale della Fns Cisl - "non si stanno suicidando solo detenuti, ma anche agenti di sicurezza, per i turni troppo massacranti che sopportano". Ma nuove carceri o misure alternative? "Non siamo pregiudizialmente contrari al Piano carceri, ma constatiamo - replica Mannone - che è troppo indeterminato, soprattutto per quanto riguarda le risorse finanziarie e quelle di organico". Mancano, ad esempio, 5 mila agenti. Ma questo, denuncia il sindacalista, è un dato del 2001, oggi la carenza è molto, molto più grave. Giustizia: carceri da ammodernare, pene scontabili all’esterno
Avvenire, 15 settembre 2009
"È la stessa condizione della esecuzione penale fuori dal carcere a porre "di per sé" le basi per un recupero sociale molto più efficace per questa tipologia di condannati". A sostenerlo sono Antonietta Pedrinazzi, direttore dell’ufficio dell’Esecuzione penale esterna di Milano-Lodi e Mariantonietta Cerbo, direttore dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna presso il Provveditorato regionale Marche dell’amministrazione penitenziaria di Ancona.
Quali dati avete per suffragare questa posizione? La recidiva della nostra popolazione carceraria è stimata essere intorno al 70% mentre quella della popolazione in misura alternativa è circa la metà, e in alcune aree particolari, è al di sotto del 20%.
Quindi le misure alternative sono più sicure del carcere stesso? Lasciamo parlare i numeri. Se prendiamo a riferimento il decennio pre-indulto dell’agosto 2006, vediamo che dal 1997 la popolazione detenuta in carcere è passata da circa 50 mila persone fino ai 63mila detenuti al momento dell’indulto. Nello stesso periodo la popolazione dei condannati in misura alternativa è cresciuta da 35 mila fino a 50 mila persone, quindi una realtà assolutamente non trascurabile per un periodo di oltre dieci anni. Dopo l’indulto questo valore è sceso a circa 11 mila unità, ed è tuttora mantenuto, a seguito delle scelte politiche fatte in questi anni, intorno a tale valore mentre la popolazione carceraria, negli ultimi tre anni, è andata progressivamente aumentando e ora ha raggiunto numeri di nuovo decisamente alti, tali da destare seria preoccupazione.
Meglio, dunque, non investire in nuove carceri? Le carceri vanno ovviamente ammodernate. Ma è più utile investire sul sistema dell’Esecuzione penale esterna. Giustizia: "sto morendo"... l'ultima lettera di Sami Ben Garci di Davide Carlucci
La Repubblica, 15 settembre 2009
"Sto morendo". Non è un grido d’aiuto, né un’invocazione di pietà. È l’ultimo saluto di un uomo che sta deliberatamente lasciando il mondo dei vivi, senza che nessuno riesca a impedirlo. È il messaggio che Mbarka Sami Ben Garci, il detenuto tunisino morto per uno sciopero della fame e della sete al carcere di Pavia, manda alla donna che avrebbe dovuto sposare se fosse uscito dal carcere. È il 27 agosto, Sami, che ha cominciato a rifiutare cibo e acqua dal 16 luglio, è ormai un cencio. Non riesce nemmeno a impugnare la penna, lo fanno per lui i compagni di cella. "Ciao amore, speriamo che tu stai bene, tanti auguri per il Ramadan", esordisce. E poi, dopo averle chiesto di inoltrare i suoi auguri "a tutto il mondo musulmano", la informa: "Io sto morendo. Sono dimagrito troppo, credimi, non riesco neanche ad alzarmi dal letto". Infine: "bisogna accettare il destino, mi dispiace, io lo sciopero non lo tolgo, di questa vita non me ne frega niente, sto morendo". La lettera di Sami sarà presto agli atti della procura di Pavia, che indaga per omicidio colposo. I pm hanno acquisito le cartelle cliniche sulla degenza in carcere dell’immigrato che, dopo aver subito una condanna per droga, stava per scontarne un’altra per una violenza sessuale nei confronti di una sua ex amante marocchina, reato per il quale si dichiarava del tutto innocente. I compagni di cella di Sami hanno scritto al suo avvocato, Aldo Egidi, dicendo di aver "assistito alla lunga agonia del suo povero cliente, una morte lenta e umiliante". Sami, dicono, "era diventato come un prigioniero in un campo di concentramento, vomitava acidi e sveniva davanti agli occhi di tutti. Veniva aiutato da noi detenuti per fare la doccia... Non è stato fatto assolutamente niente, tranne che lasciarlo morire nella sua cella". Di qui l’invito: "Sarebbe una bella e giusta cosa se l’indagine che verrà fatta si arricchisse anche delle testimonianze dei detenuti della prima sezione". Sulla vicenda è stata aperta anche un’indagine amministrativa interna, disposta dal provveditore regionale alle carceri lombarde, Luigi Pagano. L’inchiesta penale approfondirà il comportamento dei dirigenti del carcere. Egidi li aveva messi al corrente della volontà suicida del suo assistito. Ma la risposta che arriva l’8 agosto dalla direttrice del carcere, Iolanda Vitale, sembra rassicurante: "Le condizioni di salute del suo assistito sono costantemente monitorate dal personale medico qui in servizio". Tre giorni dopo l’avvocato insiste: "La avverto che è viva intenzione del mio assistito porre fine alla sua esistenza. La prego di voler predisporre quanto in suo potere...". Ma il ricovero all’ospedale - dopo la decisione di magistrato di sorveglianza di negare la libertà al detenuto, respingendo un’istanza del legale - arriverà soltanto il 2 settembre. E il 5, alle quattro di mattino, Sami morirà. "Non si poteva costringere quest’uomo della libertà di scelta", dirà poi il medico del carcere, Pasquale Alecci. Che ora corregge il tiro: "La frase è stata estrapolata dal suo contesto". Parma: Soliani (Pd); carenze e disfunzioni... anche un suicidio di Marco Severo
La Repubblica, 15 settembre 2009
Le parlamentari del Pd Albertina Soliani e Carmen Motta presentano un’interrogazione sulle condizioni del carcere di Parma, chiedendo al governo più fondi e un incremento del personale. Poi la rivelazione: "Alcune settimane fa un detenuto si è tolto la vita". Un detenuto si sarebbe suicidato in via Burla. Lo rivela la senatrice Albertina Soliani, che insieme all’onorevole Carmen Motta ha presentato un’interrogazione parlamentare sulle condizioni del carcere di Parma. "Il fatto - fa sapere l’esponente del Pd - risale a pochi mesi fa, ma non si capisce perché non sia stato reso noto". Dall’istituto penitenziario non smentiscono, limitandosi a dire che "il direttore Silvio Di Gregorio non è in città e al momento è irraggiungibile". Nel resto d’Italia, secondo i dati forniti dalla senatrice, sarebbero già una trentina i casi registrati dall’inizio del 2009. Diverse, nelle ultime settimane, anche le aggressioni subite a Parma dagli agenti penitenziari. Le più recenti, come denunciato dai sindacati, risalgono all’inizio di settembre. Lo scorso giugno persino il giornalino dei detenuti, "Punto e a cap", ne dava notizia deplorando certi comportamenti. Segno che le cose non vanno benissimo dentro le mura di via Burla. "Per questo - affermano Motta e Soliani - abbiamo ritenuto di presentare un’interrogazione congiunta a Camera e Senato per chiedere al governo quali siano le sue intenzioni riguardo all’e mergenza carceraria in Italia e a Parma, dove attualmente sono rinchiuse circa 100 persone in più a fronte di un deficit di agenti pari a 176 unità". Tre i punti posti all’attenzione dell’esecutivo: la carenza di personale in via Burla, la mancanza di educatori, la penuria di fondi stanziati da Berlusconi per la rete penitenziaria italiana. L’interrogazione verrà calendarizzata nei prossimi giorni, con la riapertura dei lavori in parlamento. È così che la Soliani ribatte alle lamentele del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Con una lettera, dopo la visita della Soliani in via Burla lo scorso ferragosto, la sigla di rappresentanza aveva infatti lamentato il silenzio sulle dure condizioni di lavoro degli agenti. "Nulla è stato detto - si leggeva nel comunicato del 9 settembre - sui sacrifici del poliziotto penitenziario". Tempo cinque giorni e la senatrice, insieme alla Motta, risponde "presente": "Sono anni - tengono però a precisare le parlamentari - che ci occupiamo del penitenziario di Parma". Già nel 2003, esempio, "chiedemmo al governo Berlusconi - dice la Motta - di inviare in via Burla il Gom, il reparto per la gestione dei detenuti in regime di 41bis. Ma l’allora sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Valentino, rispose che non se ne sentiva il bisogno". I dati attuali relativi al micromondo di via Burla, però, secondo le esponenti del Pd parlano di grave emergenza strutturale: 472 detenuti per una capienza massima di 460 (considerando però che da circa un anno ben cinque reparti sono in ristrutturazione, la capienza reale è attualmente di 370 posti), 303 agenti anziché 479 come prevedrebbe la dimensione dell’istituto parmigiano, soli tre educatori in servizio dei nove previsti, sette detenuti su 472 in semilibertà e avviati ai lavori per la riabilitazione. "La difficoltà di gestione per i poliziotti di via Burla - ribadisce Carmen Motta - è enorme e comporta turni di lavoro pesantissimi uniti a mancate liquidazioni e alla negazione dei riposi settimanali". Quanto ai fondi, Motta e Soliani chiedono di "destinare più risorse e rispondere così alle carenze. Là dove il governo Prodi aveva stanziato 70 milioni di euro per il biennio 2008-10 - proseguono le parlamentari - Berlusconi ne ha previsti appena 10. I tagli sono stati ingenti: 59 milioni sono stati attinti per sopperire alle mancate entrate dell’Ici". La questione educatori, infine. " Riteniamo - è la valutazione politica della Soliani - che un sistema carcerario più efficiente serva a rendere sicura la società di domani". L’importanza del reinserimento, in questo senso, è fondamentale dicono le parlamentari: "Quest’anno, purtroppo, all’istituto tecnico Bodoni è stata negata la possibilità di aggiungere due classi alla sua sezione carceraria. Segno della scarsa attenzione verso la funzione riabilitativa dei penitenziari". Ecco quindi la proposta della Motta: "Avviamo a pene alternative, fuori dal carcere, molti dei 150 stranieri detenuti a Parma che non hanno commesso reati gravi. A patto ovviamente che costoro non siano recidivi". Infine l’ammissione della Soliani: "La visita compiuta a ferragosto in via Burla, nell’ambito di un’iniziativa nazionale voluta dai Radicali e dalla commissione giustizia della Camera, ha avuto un carattere piuttosto asettico. A Piacenza, dove sono stata sempre in quella occasione - spiega la senatrice - ai parlamentari è stata concessa una maggiore libertà, tanto che sono riuscita a incontrare per circa un’ora una delegazione di agenti penitenziari. Tutto questo, a Parma, non è stato possibile". Trani: Osapp; ripresa la protesta dei detenuti, rifiutano il vitto
Ansa, 15 settembre 2009
È ripresa oggi la protesta dei detenuti nelle carceri pugliesi per il sovraffollamento delle strutture, con il rifiuto del vitto a partire dal carcere di Trani. Lo riferisce in una nota il vicesegretario generale nazionale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Domenico Mastrulli. In serata, dice Mastrulli, la protesta nelle carceri pugliesi dovrebbe manifestarsi con rumori di disturbo, ragion per cui l’Osapp esprime forte preoccupazione per le condizioni della polizia penitenziaria. Secondo i dati forniti dall’Osapp, le carceri pugliesi potrebbero ospitare al massimo 2.500 detenuti, ma attualmente i reclusi sono 4.300 circa. Il problema del sovraffollamento delle carceri, conclude la nota, sarà affrontata dall’Osapp il 16 settembre nella riunione per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro di Forze armate e forze di polizia, convocata dal governo. Il 22 settembre l’Osapp terrà un convegno alla Camera dei deputati. Cagliari: Caligaris (Ps); nuovo carcere sarà pronto solo nel 2013
Ansa, 15 settembre 2009
"Sono saltati tutti i tempi previsti per il nuovo carcere di Cagliari che difficilmente potrà essere funzionante prima del 2013. I ritardi sono evidenti e l’area dove sta sorgendo l’istituto di pena si presenta come una landa desolata e maleodorante per miasmi provenienti dallo stabilimento di macellazione dell’ex Valriso e con due estese e profonde vasche della discarica che dovrebbe raccogliere le ceneri dell’impianto del Tecnocasic di Macchiareddu". Lo ha detto l’ex consigliere regionale della Sardegna Maria Grazia Caligaris (Ps), presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme, al termine di un sopralluogo al cantiere di Camp’e Luas nel territorio di Uta. "I lavori di costruzione avrebbero dovuto concludersi, come indica il cartello del Ministero delle Infrastrutture all’esterno del cantiere, entro il 13 novembre di quest’anno ma la fine dell’opera è stata posticipata al 2011. Ciò significa - ha sottolineato Caligaris - che l’istituto di pena potrà essere funzionante solo nel 2012 o 2013. In questi anni, oltre a reperire i fondi per gli arredi, sarà necessario infatti bonificare l’intera area prevedendo una diversa dislocazione della discarica quasi a ridosso del muro di cinta. Indispensabili inoltre servizi di collegamento stradale con la città adeguati alle esigenze degli agenti della polizia penitenziaria, degli operatori carcerari, degli avvocati, dei magistrati e dei familiari che si recano a visitare i congiunti. Quotidianamente infatti raggiungeranno Camp’e Luas diverse centinaia di persone. è quindi necessaria un’immediata conferenza di servizi tra le istituzioni interessate per mettere in campo i progetti di bonifica e dotare l’area di servizi pubblici efficienti. Altrimenti c’è il pericolo che il nuovo carcere diventi solo un ghetto". Massa: Provveditorato ci ripensa, sì a scuola media nel carcere
La Nazione, 15 settembre 2009
La media del carcere rischiava la chiusura a causa dei tagli al personale operati dal Decreto Gelmini eppure, per portare a termine le lezioni, servivano solo due docenti, troppi, si vede, nell’insieme delle difficoltà occupazionali che il mondo della scuola in provincia sta affrontando. La scuola media in carcere si farà anche quest’anno: lo ha assicurato ieri mattina il Provveditorato agli Studi. E così è saltata la manifestazione di protesta organizzata dall’Associazione Alternativa Radicale davanti al carcere, con megafono e lavagna luminosa. La media del carcere rischiava la chiusura a causa dei tagli al personale operati dal Decreto Gelmini eppure, per portare a termine le lezioni, servivano solo due docenti, troppi, si vede, nell’insieme delle difficoltà occupazionali che il mondo della scuola in provincia sta affrontando. Contro il provvedimento, che ormai sembrava fatto, i detenuti avevano scritto una lunga lettera al Ministero della Pubblica Istruzione, in cui invocavano il loro diritto allo studio e manifestavano la voglia di uscire dal "buio della carcerazione" attraverso l’apprendimento, visto anche come possibile strumento di reinserimento sociale: "Con il diploma della media - scrivevano - abbiamo più opportunità di trovare un lavoro una volta scontata la pena; non toglieteci anche questa occasione". Al loro appello si era unito anche il direttore del carcere Salvatore Iodice, sottolineando che "la cultura è uno dei primi strumenti di prevenzione del crimine, una volta che i detenuti escono dal carcere". E dopo appelli e manifestazioni dall’Ufficio scolastico arriva la notizia del ripristino del corso, che quest’anno vede iscritti 52 detenuti su 260, di cui molti extracomunitari, che utilizzano le lezioni per imparare l’italiano: "Nonostante i tagli e le difficoltà in cui ci siamo trovati - ha chiarito il dirigente scolastico provinciale Maria Alfano - siamo riusciti a riorganizzare l’assetto dei posti assegnati, recuperando i due posti necessari per poter assicurare la prosecuzione del corso di scuola media nel Carcere di Massa". Il provvedimento è stato reso possibile grazie ad una sopravvenuta diminuzione di alunni, che ha comportato la soppressione di una classe in provincia e lo spostamento dei docenti sul corso del carcere. Sul corpo docenti "sono state dette e scritte molte cose ed è giusto dare delle spiegazioni: intanto non c’era nessuna prestazione a titolo volontario dei docenti del carcere - dice la dottoressa Alfano - perché sarebbe stato impensabile e perché se i docenti avessero fatto lezione gratuitamente non sarebbero stati soggetti ai tagli; infatti, per il funzionamento del corso in questione, occorrono due posti che ovviamente hanno un costo e che perciò devono essere autorizzati; posti che erano stati richiesti alla Direzione Generale Regionale ma non concessi, per mancanza di risorse". Libro: "Mia è la vendetta", opera postuma di Edward Bunker
www.wuz.it, 15 settembre 2009
Che si tratti della storia del diciannovenne nero Booker Johnson, che nella L. A. non ancora razzista del 1927 esce di casa e non riuscirà mai più ad "avvertire la madre", o di Goerge Jackson che in carcere decide di vendicarsi, dando origine a un celeberrimo episodio di rivolta nera e al mito dei "fratelli di Soledad", i personaggi di Bunker sono colti qui non tanto nel momento in cui il loro destino si compie, ma in quello in cui la trama, inesorabilmente, si compone. Il bravo meccanico Booker non resiste all’attrazione del motore della Packard che sta riparando, e pensa di farla sua per una sola notte, per uscire con una ragazza, e non sa che non uscirà mai più di prigione; George legge un libro di Regis Debray nella sua cella e non ha ancora deciso di uccidere. Eppure la trappola, o la storia, è già pronta, davanti ai nostri occhi che possono solo partecipare. Questo libro è l’addio di Bunker ai suoi lettori e viene pubblicato in anteprima mondiale nel Paese che l’ha forse amato di più. San Quentin, penitenziario di Stato della California, Casa di Dracula. Vari decenni del Novecento. Che carcere! Diverso da Folsom il Pozzo o da Soledad Scuola del Gladiatore. Un complesso irregolare di cemento e acciaio costruito su una penisola nella contea di Marin, che domina una propaggine della baia di San Francisco. Quattro enormi blocchi di celle con mura tipo fortezza. Quello sud ne contiene mille per duemila internati, comprende anche Buco e Siberia, a nord il braccio separato (3,50 per 1,20) dei condannati a morte. Maschile. Ce lo racconta ancora una volta Edward Eddie Bunker (Mia è la vendetta, Einaudi 2009, pag. 215 euro 17; titolo originale Death Row Breakout and other stories 2009, traduzione di Emanuela Turchetti), che ne fu il più giovane detenuto e vi trascorse fino al 1975 17 anni di vita prigioniera (più lì che in altri carceri) dei 42 complessivi. Cinque racconti, crudi e terribili, usciti postumi (Hollywood 31.12.933 - Los Angeles 19.7.05), prima in Italia che altrove, tre più lunghi, due brevissimi, uno in prima persona, che ruotano in vario letterario modo intorno alla vera figura del militante nero George Jackson (1942-1971), alto e di bell’aspetto, leale e vergine, ucciso durante una specie di tentativo d’evasione, emblema della guerra razziale dentro le prigioni americane. Sono vari i personaggi che ritornano, buoni e cattivi, carcerati e guardie. Comprendere tutto è perdonare tutto. Qualcuno in cella ha scritto grandi libri.
Edward Bunker (Hollywood, 1933 - Los Angeles, 2005)
Fin da ragazzino conosce il disagio e l’emarginazione sociale. Dopo il divorzio dei genitori viene affidato ai servizi sociali e verrà ben presto rinchiuso in ospedale psichiatrico e in riformatorio. A 17 sarà il più giovane recluso nel carcere di San Quentin e in carcere inizia a scrivere racconti e romanzi. Il primo romanzo verrà pubblicato nel 1973, Come una bestia feroce, da cui verrà tratto un film con Dustin Hoffman. Dal 1975 la sua vita si fa più tranquilla e ottiene anche il successo letterario. Inizia anche a lavorare per il cinema sia scrivendo sceneggiature di carattere poliziesco e noir sia recitando in importanti film. Robert De Niro ne richiede la consulenza per il film Heat-La sfida. Immigrazione: da maggio respinti 1.329 immigrati verso la Libia
Redattore Sociale - Dire, 15 settembre 2009
Centinaia i richiedenti asilo somali e eritrei respinti in Libia, senza accesso a un avvocato e ancora oggi in carcere. In 24 hanno depositato un ricorso alla Corte europea. Presentato un esposto all’Ue dall’Asgi. L’ultimo respingimento risale allo scorso 8 settembre. Dal 5 maggio all’8 settembre 2009 il numero documentato degli emigranti e dei rifugiati respinti dall’Italia verso la Libia è di 1.329 persone. Ecco la lista dei respingimenti di cui si ha notizia. 8 settembre 2009 - Localizzato a circa 40 miglia dalla Libia e soccorso da una motovedetta libica un barcone in difficoltà, da cui le autorità italiane avevano ricevuto un Sos il giorno prima. A bordo 43 eritrei, tra cui 10 donne, una delle quali incinta e un bambino 30 agosto 2009 - Un’imbarcazione con 75 somali a bordo, tra cui 15 donne e 3 bambini, viene prima intercettata 35 miglia a sud di Malta dalla marina maltese, poi scortata verso le acque italiane e infine respinta, a 25 miglia a sud di Capo Passero, verso la Libia. Quattro persone, tra cui una donna e un neonato, sono ricoverate a Malta. Un uomo invece è ricoverato a Pozzallo. 12 agosto 2009 - Un gruppo di oltre 80 persone a bordo di un gommone intercettato 90 miglia a sud di Malta dalle autorità italiane è stato respinto in Libia. Una donna con il neonato partorito durante la traversata è stata trasferita in elicottero all’ospedale Mater Dei a Malta. I passeggeri erano in gran parte somali, secondo quanto dichiarato dalla stessa donna. Altre tre persone sono state ricoverate a Malta in gravi condizioni. Sull’imbarcazione erano presenti 18 donne in tutto. 29 luglio 2009 - Respinti in Libia 14 migranti soccorsi su un gommone alla deriva nel Canale di Sicilia. L’equipaggio di un peschereccio di Mazara del Vallo li ha raggiunti per primo, 35 miglia a sud di Lampedusa. Il respingimento è stato operato dalla Guardia di Finanza. Nella stessa giornata 25 persone intercettate a due miglia da Lampedusa sono state scortate a Porto Empedocle (AG). 5 luglio 2009 - Gommone intercettato 70 miglia a sud di Lampedusa. 47 passeggeri. Respinti verso il porto di Zuwarah. Sette passeggeri (tra cui 5 donne) sono stati ricoverati con urgenza all’ospedale Garibaldi di Catania, per motivi sanitari, e poi trasferiti a Caltanissetta al centro di accoglienza per richiedenti asilo. 1 luglio 2009 - Una imbarcazione intercettata 33 miglia a sud di Lampedusa. 89 passeggeri a bordo, tra cui 75 eritrei (comprese 9 donne e tre bambini). Riportati a Zuwarah. Gli uomini sono stati detenuti a Zuwarah, le donne a Zawiyah. 18 giugno 2009 - Un aereo civile, sorvolando lo spazio aereo di Malta, segnala la presenza di un gommone in acque internazionali, a 29 miglia da Lampedusa. Viene inviato un elicottero militare tedesco, impegnato nella missione di pattugliamento congiunto di Frontex, di stanza nell’aeroporto maltese di Luqa. Una nave italiana si occupa del respingimento in Libia dei 76 passeggeri, in maggior parte nigeriani. Una nota del Ministero dell’Interno precisa che "nessuno dei clandestini ha manifestato la volontà di chiedere asilo". 23 maggio 2009 - Le autorità libiche dichiarano di aver arrestato 400 emigranti sulle coste libiche, insieme agli organizzatori libici della traversata, in una tenda dove attendevano di imbarcarsi per Lampedusa. La località dell’arresto non è stata precisata. 11 maggio 2009 - Intercettati nel Canale di Sicilia, 213 emigranti e richiedenti asilo sono respinti in Libia. Sono 163 uomini, 48 donne e due bambini. In maggior parte nigeriani. 8 maggio 2009 - Un rimorchiatore della piattaforma Eni di Bahr Es-Salam prende a bordo 77 migranti alla deriva nel Canale di Sicilia e li riporta a Zuwarah, in Libia. 6 maggio 2009 - Le autorità italiane intercettano nel Canale di Sicilia tre gommoni con 227 emigranti e rifugiati a bordo (cittadini di Nigeria, Ghana, Gambia, Costa d’Avorio, Somalia e Mali). Vengono tutti respinti in Libia. Tra loro anche 40 donne, tre delle quali incinte. Immigrazione: l’Onu boccia l’Italia; la storia dei primi "respinti"
Redattore Sociale - Dire, 15 settembre 2009
Deportati in Libia il 6 maggio 2009, 4 mesi dopo sono ancora detenuti. Tra loro 24 rifugiati eritrei e somali, che grazie a un avvocato italiano hanno denunciato il governo alla Corte europea. L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, denuncia le politiche nei confronti degli immigrati messe in campo dall’Italia. Persone, i migranti, secondo l’esponente dell’Onu, "abbandonate e respinte senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale". Tra l’altro, in un discorso i cui contenuti sono stati anticipati oggi, Pillay cita il caso del gommone di eritrei rimasto senza soccorsi tra la Libia, Malta e Italia, ad agosto. E denuncia che "in molti casi, le autorità respingono questi migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi". Farnesina: "nostro maggior numero salvataggi" - "L’Italia è il Paese che ha salvato il maggior numero di vite umane nel Mediterraneo, e per questo motivo il richiamo alle violazioni del diritto internazionale non è evidentemente rivolto all’Italia". Così il ministero degli Esteri commenta le affermazioni dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, per la quale i respingimenti in mare degli immigrati sono contrari al diritto internazionale. "Non possiamo che condividere la giusta preoccupazione che le anima, relativa al rispetto della sacralità della vita umana", prosegue la Farnesina nella sua nota. "Le regole del diritto internazionale costituiscono il caposaldo dell’azione del Governo italiano, che promuove ed auspica un impegno comune affinché vengano da tutti rispettate e tutti facciano la loro parte". L’Italia, chiude il ministero degli Esteri, "ha fatto e continuerà a fare la sua parte, e nelle prossime ore il rappresentante del Governo italiano a Ginevra illustrerà in dettaglio i termini esatti dell’impegno italiano nel rispettare le leggi ed i regolamenti internazionali nei confronti sia dei migranti che dei richiedenti asilo politico". Il destino dei primi respinti - Ma che fine hanno fatto i primi 227 africani respinti a maggio dall’Italia? L’agenzia Redattore Sociale è andata a verificare, constatando che 24 rifugiati eritrei e somali hanno denunciato il governo italiano alla Corte europea dei diritti umani. E per la prima volta emergono le loro storie. Era il sei maggio del 2009. Le autorità italiane intercettarono nel Canale di Sicilia tre gommoni con 227 emigranti e rifugiati a bordo. Per la prima volta in anni di pattugliamento, venne dato l’ordine di respingere tutti in Libia. Comprese le 40 donne. Quattro mesi dopo, siamo in grado di dare un nome e una storia a quei respinti. Alcuni di loro erano richiedenti asilo politico. E hanno nominato un avvocato italiano, Anton Giulio Lana, del foro di Roma, perché li difenda dinnanzi alla Corte europea dei diritti umani, a Strasburgo. Sono 11 cittadini eritrei e 13 somali. Quattro mesi dopo essere stati respinti, si trovano ancora detenuti nei campi libici. Nonostante siano richiedenti asilo politico, e nonostante siano difesi da un avvocato di rango internazionale. Eppure il ministro dell’Interno, Maroni, aveva dichiarato: "La Libia fa parte dell’Onu: lì c’è l’Unhcr che può fare l’accertamento delle persone che richiedono asilo". Chi sono i 24 rifugiati che hanno denunciato l’Italia alla Corte europea? Sono disertori eritrei, fuggiti dopo anni di servizio nell’esercito, in un paese dove la coscrizione militare a tempo indeterminato è diventata una delle armi del regime di Isaias Afewerki per controllare la popolazione. Sono ex combattenti della seconda guerra eritrea-etiope, che dopo aver disertato si sono consegnati alla polizia eritrea per far rilasciare i genitori arrestati al posto loro. E poi ci sono i cittadini somali sfuggiti alla violenza della guerra civile. Uomini che a Mogadiscio hanno sepolto i parenti più cari e hanno lasciato le case distrutte dai violenti scontri armati tra le forze dell’Unione delle Corti islamiche e quelle del governo transitorio federale della Somalia, spalleggiate dalle truppe etiopi. Il ricorso depositato dall’avvocato Lana fa appello all’articolo 3 della "Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali", che vieta la tortura e trattamenti inumani e degradanti, oltre che la riammissione in paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura; all’articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e all’articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione, che vieta espressamente le deportazioni collettive. Immigrazione: nel Cie di via Corelli vita peggiore che in carcere
Affari Italiani, 15 settembre 2009
"Non hanno né i diritti delle persone libere, né quelli dei detenuti". Così gli avvocati Massimiliano D’Alessio e Mauro Straini descrivono, dopo aver visitato il centro di identificazione ed espulsione di via Corelli, le condizioni degli stranieri trattenuti. I due legali coinvolti come difensori nel processo per i disordini avvenuti il 13 agosto hanno visitato il centro insieme alla praticante Margherita Pelazza, dopo aver ricevuto l’autorizzazione della prefettura a portare avanti l’indagine difensiva. Il sopralluogo, durato un’ora e mezza, è stato descritto come "un’esperienza forte, che secondo noi deve ripetersi". A colpire D’Alessio e Straini sono state da un lato alcune condizioni logistiche, dall’altro alcune regole che regolano la vita all’interno della struttura. Sul primo fronte, si sono detti scioccati dalla mancanza di privacy delle donne, che hanno gli spogliatoi delle docce adiacenti a uno dei settori maschili. A separarli, un muro con delle finestre a sbarre da cui in alcuni casi sono state strappate le grate che ostacolano la vista. Sul fronte delle regole, per i legali è "assurdo che gli ospiti, per lo più incensurati, possano parlare con chiunque con il proprio telefono cellulare, ma per incontrare i parenti devono ottenere un’autorizzazione". A loro dire, inoltre, i contatti con gli ospiti, una sessantina al momento, sono stati limitati. "Siamo stati accompagnati nei settori disabitati E e D. Poi su nostra insistenza anche negli altri, ma non ci è stato consentito il contatto con persone all’interno. Per esempio quando siamo stati portati nel cortile delle donne, queste ultime sono state accompagnate nelle camerate". D’Alessio e Straini hanno inoltre chiesto alla prefettura spiegazioni sul mancato funzionamento per due mesi delle telecamere posizionate nei cortili, ma sostengono di non avere ancora avuto risposta. Lamentano inoltre di non aver potuto visitare la sala che ospita i monitor, di non aver ricevuto spiegazioni sulla cancellazione per sovra iscrizione dei video che hanno registrato gli incidenti e che quasi tutti i testimoni, trattenuti in via Corelli al momento dei fatti contestati ai 14 imputati, sono stati trasferiti in altri centri o rimpatriati. Con l’eccezione di tre stranieri, 2 tunisini e un marocchino, che sono stati chiamati a deporre al processo che proseguirà il 21 settembre. Spagna: Amnesty; nelle carceri isolamento tra più duri d'Europa
Ansa, 15 settembre 2009
Amnesty International ha accusato oggi la Spagna di mantenere uno dei più duri regimi di isolamento carcerario d'Europa, che contravviene agli obblighi sui diritti umani firmati dal paese. Il codice spagnolo permette di privare una persona arrestata del diritto di parlare con un avvocato o di scegliere un medico per cinque giorni. Nel caso di sospetti terroristi questo periodo può essere prolungato fino a 13 giorni, durante i quali la persona non può informare del suo arresto la famiglia. Secondo Amnesty, questo tipo di detenzione viola importanti diritti della persona (come avere accesso rapido ed effettivo a un avvocato) ed è stato già criticato da organi come la commissione per i diritti umani Onu, che considera che una detenzione prolungata in isolamento [...] possa costituire di per sé un trattamento inumano e degradante". L'associazione chiede quindi al governo spagnolo di abolire questa disposizione.
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