Rassegna stampa 11 settembre

 

Giustizia: il carcere deve essere una pena severa, non infame

di Igor Man

 

La Stampa, 11 settembre 2009

 

La callaccia, un mix di scirocco e di nuvole basse, è stata sconfitta dal ponentino, un vento antico che concilia la pennichella. Ma il ponentino per i romani che gravitano nell’ampio spazio occupato dalla struttura ottocentesca del carcere di Regina Coeli, è un mezzo di comunicazione affidato, nel pomeriggio, al vento che viene di lontano, giustappunto il ponentino. Dall’alto del Gianicolo i parenti dei carcerati affidano al vento messaggi ma anche tenerezze destinati ai famigliari o agli amici in prigione. Sapendo ben raccogliere l’ala del vento, Marcello dichiara il suo amore a Patrizia che a sua volta, con vetusta tecnica eolica, dichiara amore e fedeltà "all’omo mio".

Nei vicoli stravecchi di Trastevere i bambini sfortunati (come pietosamente li chiamano) imparano presto come, in che modo, quando è possibile colloquiare coi propri cari reclusi in quel carnaio che in fatto è l’ottocentesco carcere. I detenuti di Regina Coeli, costruito nel 1891, affidano al vento notizie importanti: l’ultima è la morte terribile d’un detenuto del carcere di Pavia; sì, Pavia: il ponentino sfida per celerità ogni distanza - c’è un "comitato ad hoc" che seleziona le notizie del giorno e le diffonde, in grazia del ponentino.

Nelle carceri c’è la tv, non mancano le radio e dunque le notizie, tutte le notizie, arrivano sicché diremo tranquillamente che il ponentino è "un telefono a due sensi - andata e ritorno" per citare Giuseppe Adinolfi, medico penitenziario di Regina Coeli.

"Adinolfi coniugava la competenza dello storico e la passione per la medicina e per questo ricorda alcuni ricercatori ottocenteschi che univano il sapere scientifico e quello umanistico, sorretti da un reale interesse per l’essere umano" (cfr. A. Borzacchiello).

Al tempo di "Mani pulite" mi fu concessa una full immersion in San Vittore. Un’esperienza dura come l’ossidiana: le carceri sono un luogo di pena, questo non va dimenticato - quegli accadimenti ci dicono però che c’è una sola "medicina", la speranza. I detenuti sono uomini, anche i più trucidi, questo non va dimenticato ancorché non sia facile. Il discorso che mi fece, allora, il direttore di San Vittore Luigi Pagano, è tragicamente "attuale".

In breve: il tunisino Sami Mbarka Ben Gargi, chiuso nel carcere di Pavia, si è suicidato. Con un’arma insolita: lo sciopero della fame. Si è lasciato morire giorno dopo giorno. Sembra che tutti gli sforzi per fargli accettare il cibo siano stati vani. La mia, ha detto il tunisino, è la protesta di un innocente, di un uomo derubato nel suo unico bene: l’onore.

Appresa la notizia della morte-suicidio del tunisino Ben Gargi i carcerati hanno protestato vigorosamente ma, dicono i responsabili, una volta chiarito che quello del tunisino è un suicidio, insomma che non ha subìto violenze, l’ordine è tornato dietro le sbarre. Ora il vecchio cronista si chiede se e quando il ministro Alfano riuscirà a dare più spazio ai detenuti, se il pianeta galera conoscerà infine una pena severa ma non infame.

Oggi le carceri scoppiano: la capienza complessiva ammonta a 45 mila reclusi. Le carceri ne ospitano oltre 63 mila. 20 mila sono gli stranieri. Che fare?

Giustizia: quando la parola "reinserimento" fa l’eco nella cella

di Fiorentina Barbieri (Difensore Civico Associazione Antigone)

 

Terra, 11 settembre 2009

 

"Ho già superato i 2/3 della pena e potrei usufruire dei vari benefici, ma dopo 2 anni qui non mi è stata chiusa la sintesi (la relazione degli operatori del carcere sugli esiti del trattamento sul detenuto, da redigere, secondo l’Ordinamento Penitenziario, entro termini che vanno da uno a nove mesi, n.d.r.) mi hanno detto che non me la chiuderanno, è inutile che presenti istanze al Tribunale perché mi verrebbero automaticamente rigettate qui la parola reinserimento forma l’eco, anche se viene detta sottovoce.

Direte che siamo fortunati, qui siamo in cella da una sola persona, ma è tutto qui, perché per problemi strutturali non è possibile mettere ulteriori letti, se no lo avrebbero già fatto… ma qui non ci sono associazioni di volontariato, non vi sono corsi e lavorazioni, se non quelle standard, che dovrebbero essere a rotazione, ma che in effetti vi lavorano quasi sempre le stesse persone, qui si vegeta 22 ore su 24 chiusi in cella".

Mentre a Pavia un detenuto è stato lasciato morire dopo 45 giorni di sciopero della fame, ci arriva questa lettera da un carcere del Centro Italia: ci conferma che ci sono molti aspetti che vanno considerati, quando si esaminano le conseguenze del sovraffollamento.

Ad oggi sono 64.179 i detenuti in Italia - il numero supera anche il livello di tollerabilità - ed è ormai evidente che i provvedimenti previsti, il "piano carceri" annunciato dal ministro della Giustizia, anche per carenza di fondi non contempla vie di soluzione né a breve né a medio termine.

Il limite resta la mancanza di un approccio di sistema che proietti una persona oltre il momento della detenzione e gli offra nuove opportunità che lo inducano ad una trasformazione del suo stile di vita. È la missione affidata all’istituzione carceraria dalla Costituzione italiana, nell’interesse primario di abbassare i tassi di criminalità.

In realtà sembra che la politica si rifiuti di definire le sue leggi tenendo conto anche della previsione dei flussi di detenzione, quindi del numero dei detenuti, di dove possano essere collocati, ma anche di come in carcere possano stare, di una seria programmazione di spesa per il trattamento, di progetti mirati per il reinserimento, condizione essenziale per contenere le recidive.

Accade invece che fino ad oggi i fondi della "Cassa delle ammende", cui affluiscono le somme versate a vario titolo dai detenuti e tradizionalmente destinata a progetti per il reinserimento, siano restati per buona parte inutilizzati. Non sarà più così, ma perché una riforma del 2008 prevede che il budget possa essere impiegato per la costruzione di nuove carceri: di fatto sarà chi è detenuto a contribuire ai costi.

Giustizia: Bongiorno (Pdl); no all'amnistia meglio nuove carceri

 

Redattore Sociale - Dire, 11 settembre 2009

 

"Più che scegliere dei provvedimenti che siano una via di fuga io direi "affrontiamo il problema" e il ministro Alfano ha detto che ci sarà un piano carceri. Questa è la risposta prioritaria". Lo dice la Presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno (Pdl) ai giornalisti che a Montecitorio le chiedono della proposta di amnistia rilanciata da Marco Pannella. Accanto al piano carceri, aggiunge Bongiorno, "servono poi ovviamente dei finanziamenti perché a volte ci sono le strutture ma mancano gli uomini. Dunque - sottolinea - servono nuove carceri, finanziamenti e poi anche delle misure alternative".

La presidente della commissione Giustizia osserva che "provvedimenti di clemenza, come ad esempio l’indulto, si fanno se c’è necessità di eliminare un periodo storico in cui ci sono stati dei reati di natura politica e quindi si fanno per una pacificazione politica". Bongiorno conclude: "Io sono contraria a un indulto per sfoltimento delle carceri, non è quella la funzione. Credo che dobbiamo avere il coraggio di prendere atto del fatto che non in questa legislatura, né soltanto nella precedente, ma da sempre, il problema carceri viene rinviato, tamponato, non affrontato".

Giustizia: Casellati; piano carceri in Cdm, entro fine del mese

 

Asca, 11 settembre 2009

 

"Entro settembre il Piano carceri sarà presentato dal Guardasigilli Angelino Alfano in Consiglio dei ministri". Lo ha detto stamani il sottosegretario alla Giustizia, Elisabetta Alberti Casellati, intervenendo alla trasmissione Radio Anch’io. "Il Piano - ha spiegato Casellati - garantirà 18mila nuovi posti nelle carceri italiane, 5mila dei quali nei primi due anni". Casellati ha anche ribadito di essere favorevole a far sì che i detenuti stranieri scontino la pena nei loro Paesi d’origine e per questo il governo "sta lavorando ad accordi bilaterali con i singoli Paesi".

Giustizia: Ionta (Dap); ok al piano, ma servono pene alternative

 

Il Tempo, 11 settembre 2009

 

"La grave situazione di sovraffollamento carcerario rappresenta un elemento di rischio da tenere nella dovuta considerazione, a causa dell’oggettivo deteriorarsi della qualità della vita penitenziaria e del conseguente stato di agitazione che determina nei detenuti".

Ad affermarlo è Franco Ionta, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Secondo Ionta "c’è in Italia la possibilità di affrontare e vincere una sfida quale quella di dimensionare l’intervento carcerario per migliorare le condizioni di sicurezza e le condizioni per il trattamento di risocializzazione". Ionta fa esplicito riferimento alla costruzione di nuove carceri, ma secondo lui non possono essere l’unica risposta. "Da molti anni vado pensando che una riflessione sulle pene e sulle sanzioni connesse ai delitti dovrebbe portare il legislatore a stabilire se il carcere sia l’unica risposta possibile rispetto al crimine".

Giustizia: Osapp; il Governo inquietante, prenda una decisione

 

Il Tempo, 11 settembre 2009

 

I dati del piano carceri non gli danno pace. Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp) vuole una soluzione al problema del sovraffollamento delle prigioni italiane: sia per gli agenti che per i carcerati.

Una "soluzione politica", come la chiama lui. "È inquietante ed è grave - dice Beneduci - che il Guardasigilli non sappia prendere una posizione chiara in merito al piano carceri che il capo del Dipartimento Ionta ha presentato ad aprile e che è ancora in attesa di essere ufficializzato", afferma anche "all’indomani delle considerazioni del capo del Dipartimento rilasciate alla conferenza organizzata dal Consiglio d’Europa sul sovraffollamento delle carceri".

"È altrettanto inquietante - aggiunge il segretario - che un ministro della Giustizia si ponga davanti al problema penitenziario come chi pensa che le responsabilità siano da ritrovarsi in altri ambiti, magari nei contesti europei. Ci stupisce però, e ancor di più, che si stia formando un comune sentire tra gli operatori del settore, dai sindacati di polizia, con in testa le maggiori organizzazioni Osapp, Sappe e Cgil-Fp, alle associazioni a tutela del detenuto; un sentore che fa ritenere come per il carcere non si stia facendo proprio nulla e come la soluzione possa essere chiusa ancora nel cassetto".

Beneduci ripete un concetto che da anni è denunciato. E l’agitazione di cui parla Beneduci, è "un fermento che, amnistia a parte, suggerisce come la logica debba necessariamente riguardare la costruzione di nuove carceri ma anche l’impiego di misure alternative al carcere, che sappiano dare forza e vigore ad un trattamento che in Italia manca da quando al Dipartimento c’era una persona come Nicolò Amato. Anche Ionta, da quando ha presentato il Piano, sostiene la nostra linea, che il problema del sovraffollamento, attenuato delle giustificazioni di sorta, si possa affrontare non solo con la costruzione di nuove carceri ma anche con l’ausilio di misure alternative alla detenzione. A questo punto - conclude - ci aspettiamo delle risposte, la soluzione è solo politica".

Giustizia: Sami non solo si diceva innocente, ma era innocente

di Ruggiero Capone

 

L’Opinione, 11 settembre 2009

 

Sami Mbark Ben Gargi era un tunisino di quarantadue anni, detenuto nel carcere di Pavia e morto a causa di uno sciopero della fame e della sete. Si proclamava innocente. Era finito in tribunale per faccende di droga ed aveva subito, nei primi due gradi di giudizio, una condanna a 8 anni e 5 mesi per violenze di una donna marocchina, sua convivente. Che egli si dicesse innocente non mi pare rilevante, né m’interessa granché. Primo, perché non ho alcun elemento che aiuti a farsi un’idea. Secondo, perché le condanne si scontano.

Il fatto è che Sami non solo si diceva innocente, Sami era innocente. Per la nostra Costituzione, così come per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nessuno può essere considerato colpevole se non al termine di un regolare processo, con una sentenza non appellabile. Sami era in carcere da tre anni, ma la giustizia italiana non era riuscita a giudicarlo definitivamente colpevole. Mancava il verdetto della Cassazione, sicché il tunisino scontava la pena ed è morto non da condannato, ma da "ricorrente". E questo non è un incidente, ma una vergogna stabile della nostra incivile giustizia.

Sami è morto l’8 settembre, di fame e sete. Quel giorno i tribunali italiani erano, come ancora sono, in vacanza. Chiusi per ferie, già dalla seconda metà di luglio. I giudici della Cassazione, che sono i più pagati, come anche i parlamentari, del resto, sono ancora ai mari ed ai monti, talché vien voglia di chiedere loro: ma perché non ci restate, possibilmente non a spese della collettività? La direzione del carcere ed i medici danno la stessa versione: Sami era determinato, sapeva a cosa andava incontro, ha rifiutato ogni sostegno.

Che è come dire: si è suicidato. Ma uno sciopero della fame e della sete non è un suicidio, se non quando si ha di fronte un potere cieco e sordo. Meglio ancora se in vacanza. Era determinato, già. Noi, invece, non riusciamo ad esserlo abbastanza, nel pretendere che la giustizia italiana torni ad essere tale, e non un offesa alla nostra civiltà. Questo articolo sarà letto (se sarà letto) come una trovata eccentrica, ed alla prossima polemica giudiziaria i soliti scemi diranno che noi garantisti interveniamo solo a difesa di amici e potenti. Di Sami, in fondo, non importa niente a nessuno.

Giustizia: diritto di morire? concesso, se sei tunisino e detenuto

 

www.italiainformazioni.com, 11 settembre 2009

 

Chi vuole morire di fame ha diritto di farlo, chi è ridotto ad un vegetale ed è clinicamente morto, invece, non può morire…

Nel primo caso lo si lascia morire di fame, nel secondo si applicano tutte le terapie utili ad alimentare il suo corpo artificialmente. Il cervello non c’è più, la coscienza di sé non c’è più. Invece che riposare sotto il marmo, riposa su un lettuccio accudito da uno stuolo di medici ed infermieri, fino a che i congiunti, per diciassette anni al suo capezzale, chiedono compassione e rispetto e vogliono staccare la spina. A quel punto si solleva una protesta che parte dai sagrati delle Chiese e finisce a Palazzo Chigi e nelle Camere.

La giustizia sentenzia, il Ministro decreta, i Cardinali lanciano anatemi, associazioni di buoni cattolici s’indignano e fanno dei medici e degli infermieri, oltre che dei genitori del poveretto, presunti assassini.

La vita è sacra perché ce l’ha data Dio e solo Dio può toglierla? Giusto, ma allora non è appesa ad una spina che alimenta artificialmente l’uomo o la donna clinicamente morta?

Accontentiamoci delle domande, ognuno si dia la risposta che vuoi, maturandone il significato nella propria coscienza. Ma perché, allora, è possibile che un tunisino quarantenne ha avuto, di fatto, il lasciapassare per l’aldilà? Perché non è stato fato niente affinché non attuasse la sua inquietante protesta? Giurava e spergiurava di essere innocente, di stare in carcere per errore, e pretendeva di essere ascoltato. Non mangiava, rifiutava qualsiasi cibo per farsi sentire.

Non è intervenuto nessuno. Non ci sono state proteste indignate, non ci sono stati decreti di Ministri, nessuno ha gridato agli assassini. Non c’è stata alcuna trasmissione televisiva dedicata all’episodio, non hanno litigati ministri, scienziati, uomini politici, avvocati e magistrati. I buoni cattolici non sono scesi in piazza, i non credenti non si sono strappate le visti sull’altare della laicità di pensiero. Il tunisino quarantenne ha potuto attuare il suo proposito nel silenzio dell’opinione pubblica.

Perché? Chi giace sul lettino di un ospedale, morto o vivo che sia, se è uno dei nostri, parla la nostra lingua, vive e si comporta come noi, è trattato come persona; se è un diverso - detenuto, tunisino, per giunta condannato ad una pena detentiva - non ha più diritto di essere considerato persona.

Non è così? Lo sappiamo, le leggi sono uguali per tutti. Il tunisino aveva il diritto di morire di fame? La sua vita non valeva nulla? Siamo sicuri che sia stato il rispetto per la sua scelta o le leggi ad impedire di intervenire, o non piuttosto la nostra indifferenza, il valore che abbiamo dato alla sua vita? Un esame di coscienza dovremmo farlo tutti, stavolta. Credenti e non credenti, laici e cattolici osservanti.

Giustizia: indagine su morte di Sami, ipotesi è omicidio colposo

di Maria Fiore

 

La Provincia Pavese, 11 settembre 2009

 

Si indaga per omicidio colposo. Ed è un’accusa, per il momento, contro ignoti. L’autopsia sul corpo del detenuto tunisino Sami Mbark Ben Gargi non risolve il caso. L’esame sul corpo del 42enne apre, anzi, nuovi fronti. Secondo prime indiscrezioni (i risultati saranno resi noti al magistrato solo fra qualche settimana) il detenuto, morto per una crisi metabolica, potrebbe avere avuto altre patologie - forse problemi cardiaci - solo aggravate, ma non determinate, da un mese e mezzo di alimentazione ad acqua e zucchero. Se i risultati fossero confermati, la morte del detenuto non sarebbe quindi legata direttamente allo sciopero della fame. Ma le possibilità di una "colpa" in quel decesso restano.

Da un lato riguardano l’amministrazione penitenziaria, che potrebbe essersi attivata tardivamente, segnalando il caso al magistrato solo alla fine di agosto (la protesta del detenuto era stata avviata il 17 luglio), dall’altro il personale del San Matteo che ha avuto in cura il tunisino per tre giorni, dal 2 settembre fino alla notte del 5, quando è morto. La prima domanda è: perché il detenuto è morto proprio quando il rischio era minore, visto che si trovava sotto il monitoraggio dei medici?

Secondo interrogativo: il San Matteo era adeguatamente attrezzato ad ospitare un paziente in quelle condizioni, come lo è, ad esempio, il San Paolo di Milano? I fatti dicono che il medico di Torre del Gallo, sentita la direttrice Jolanda Vitale, segnala la gravità del caso il 31 di agosto. Il tunisino va in ospedale ma viene quasi subito dimesso. Una visita psichiatrica dice che è lucido, e non può essere sottoposto a cure contro la sua volontà.

A questo punto viene interpellato il magistrato di sorveglianza, che dispone in maniera tempestiva il ricovero d’urgenza in ospedale. Fa tutto quanto è in suo potere perché il detenuto, che ha perso 21 chili ed è in condizioni psicofisiche precarie, possa essere ricoverato in una struttura attrezzata. Il detenuto torna al San Matteo il 2 settembre. Lo scopo del ricovero non è tanto quello di sottoporlo ad alimentazione forzata (non è consentito, a quanto pare, dal nostro ordinamento giudiziario), ma solo evitare il peggio, che però non è scongiurato. L’inchiesta dovrà dire perché.

Giustizia: morto in carcere, per non essersi fermato a uno stop

 

www.cnrmedia.com, 11 settembre 2009

 

Carlo Esposito aveva 41 anni, faceva il bidello ad Asti. Tutti lo conoscevano come "Carlone". È morto in galera, condannato a due anni di carcere per non essersi fermato a un alt dei carabinieri. Era incensurato e aveva problemi psichici. Lo hanno condannato a morte.

Martedì 1° settembre nell’infermeria del carcere torinese "Lorusso-Cutugno" delle Vallette è morto, per arresto cardiaco, Carlo Esposito. 41 anni, bidello dell’Istituto Professionale "Castigliano" di Asti, molto conosciuto in città, Esposito viene arrestato il 24 giugno scorso per non essersi fermato con l’auto di piccola cilindrata all’alt dei carabinieri, insospettiti da alcune manovre azzardate del conducente.

Carlo Esposito, incensurato, risultava affetto da una serie lunga e grave di patologie quali: schizofrenia, diabete, ipertensione ed obesità, con un passato, certificato, di ischemie e di Tso (Trattamenti Sanitari Obbligatori).

Al Tribunale di Asti, nel celebrare, il 25 giugno, il rito per direttissima che sfocia in una condanna "esemplare" a 26 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, pare considerate le patologie fisiche e mentali dell’imputato. Patologie che vengono immediatamente evidenziate al carcere Quarto d’Asti, tanto che Esposito viene spostato con urgenza alle Vallette di Torino, nel reparto psichiatrico. Le cronache giornalistiche riferiscono che il detenuto avrebbe inviato lettere dal carcere torinese, denunciando che gli sarebbero stati somministrati farmaci diversi da quelli usati normalmente, non idonei o a dosaggi sbagliati, che comunque gli avevano procurato disturbi e malesseri.

Donatella Poretti (senatrice Radicale/Pd) e Bruno Mellano (presidente di Radicali Italiani) hanno dichiarato: "Si tratta di un caso esemplare dell’ordinaria follia della giustizia italiana. Davvero un caso eloquente ed eclatante.

Anche per questo, abbiamo chiesto con l’interrogazione, che il Ministro della Giustizia invii i suoi ispettori per verificare la dinamica dei fatti: a noi, dalle convergenti ricostruzioni giornalistiche, sembra veramente intollerabile che un cittadino incensurato e affetto da gravi patologie certificate possa finire in carcere per resistenza a pubblico ufficiale e uscirne morto. Occorre fare chiarezza sull’episodio, non solo per verificare le singole responsabilità, ma per conoscere e capire i meccanismi infernali che governano la macchina giudiziaria italiana."

 

Un Esposito per esempio, di Luigi Manconi Andrea Boraschi (www.innocentievasioni.net)

 

Il 24 giugno scorso, ad Asti, un uomo, viene notato dai Carabinieri per alcune manovre vietate a bordo di una Panda. Gli intimano l’alt, ma l’uomo non si ferma; ne nasce un inseguimento che i verbali riferiscono lungo e pericoloso, tra accelerazioni brucianti e incidenti evitati per puro caso. Finché la fuga non si interrompe; e pare che le prime parole dell’uomo all’indirizzo dei gendarmi siano state "Dovreste ringraziarmi. Vi ho salvato la vita perché volevano farvi un attentato".

Il buon senso dice che poteva trattarsi di un burlone; o di una persona disturbata o alterata. L’uomo al volante era Carlo Esposito, 41 anni, bidello in una scuola di Asti. È schizofrenico e in passato è stato ricoverato più volte nel reparto psichiatrico della sua città e sottoposto a un Trattamento Sanitario Obbligatorio, una misura che consente l’imposizione di terapie a soggetti affetti da disturbi mentali.

Il giorno dopo l’uomo viene condannato per direttissima a 26 mesi di galera per resistenza a pubblico ufficiale. Nessuno, al tribunale di Asti - né il pm, né il giudice, né il suo avvocato - solleva il dato clinico, la schizofrenia dell’imputato, invocando il vizio parziale di mente che gli consentirebbe di godere della sospensione condizionale. A Esposito viene comminata una pena molto dura - "esemplare", qualcuno direbbe - specie se si considera la sua condizione di incensurato.

Con l’ingresso nel carcere astigiano di Quarto emergono evidenti i problemi di incompatibilità dell’uomo col regime detentivo. Esposito, oltre che schizofrenico, è diabetico, iperteso, obeso ed ha già avuto delle ischemie. Il quadro clinico non viene però ritenuto sufficiente al suo trasferimento in una struttura diversa; sarà piuttosto tradotto nel reparto psichiatrico delle Vallette, nel luglio scorso. Nei giorni successivi scrive alla madre e a un’insegnante della scuola presso la quale lavorava, denunciando di aver rischiato la vita e di aver avuto collassi in due occasioni per dosaggi sbagliati di farmaci e per cure inadeguate.

Infine, una sera di qualche giorno fa, verso le 20.30, l’uomo si sente male. Si reca in infermeria e mentre è in corso la visita ha una crisi cardiaca. L’ambulanza arriva ma tutti si rendono conto che le sue condizioni sono troppo gravi per il trasporto in ospedale. Morirà un’ora dopo.

Ora la procura di Torino ha aperto un fascicolo sul suo caso. Difficilmente l’indagine potrà dire quella che è una elementare verità: il carcere è anche il luogo dove si occulta la malattia, specie quella mentale; e questa rimozione, assai spesso, annuncia tragedie.

Giustizia: trasferito 1.000 km da famiglia, ricorre a Strasburgo

di Giampaolo Chavan

 

L’Arena di Verona, 11 settembre 2009

 

L’hanno trasferito a mille chilometri di distanza dai suoi figli di 3 e 9 anni e dalla moglie di 29. Dalla cella del carcere "Due Palazzi" di Padova a quella di Rossano Calabro. Un viaggio lunghissimo nel buio di un furgone della polizia penitenziaria, con qualche timido raggio di sole che filtrava tra le sbarre di quel mezzo.

Un trasferimento dove ogni chilometro per l’albanese Eduart Rapo Bakiu, 33 anni, condannato definitivamente a 8 anni e 8 mesi di carcere per spaccio di 38 chili di eroina nell’aprile 2007, rappresentava un colpo durissimo per i suoi affetti con un magone sempre più difficile da sconfiggere. Quel trasferimento, dicono gli avvocati, ha provocato gravissimi danni al detenuto e alla sua famiglia. Il tutto senza una ragione plausibile da potersi aggrappare in quei momenti di grande sconforto.

Sull’atto di trasferimento dell’amministrazione penitenziaria, infatti, non c’era la motivazione. Poi si è saputa: "trasloco" in Calabria a causa del sovraffollamento a Montorio, hanno scrittoi dirigenti del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Troppo poco, per i difensori di Bakiu, gli avvocati Maurizio Milan e Mirko Zambaldo che insoddisfatti della risposta dal Dap, hanno inviato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo a Strasburgo.

E il 1° agosto scorso è arrivata la risposta: "Il ricorso sarà portato all’esame della corte quanto prima" scrive il cancelliere della Corte, Irene Gentile Brown. Due i diritti violati di Bakiu per i legali: il primo riguarda il rispetto della vita privata e famigliare. E poi non c’è la possibilità di ricorrere in Italia contro "il provvedimento d trasferimento e di permanenza nonostante la domanda documentata inviata al Dap. La decisione dell’amministrazione penitenziaria ha causato e causa a tutt’oggi un grave danno psicofisico alla famiglia con riferimento ai piccoli figli che sono rimasti sconvolti dall’improvvisa lontananza da padre", scrivono Zambaldo Milan nel ricorso, inviato a Strasburgo.

Sullo sfondo di questa storia, una tormentata storia giudiziaria. Bakiu è stato arrestato la prima volta cinque anni fa, l’11 settembre 2004 assieme a Cela Gentian in un’operazione anti droga della Finanza. In quel giorno, furono trovati 3 chili di eroina in un garage di Montorio a casa di un insospettabile, un pensionato ignaro di ciò che veniva custodito.

Bakiu fu arrestato con Cela mentre stava inserendo la chiave nella serratura di quel garage dagli uomini della Finanza. Cominciò così la sua vicenda giudiziaria con la condanna in primo grado del tribunale di Verona a nove anni e nove mesi, letta il 13 settembre 2006.

Nel frattempo, il 18 ottobre 2005, era stato rilasciato per scadenza dei termini di custodia cautelare. E rimase in libertà con il solo obbligo di firma fino al 4 dicembre 2007 quando la sentenza della corte d’appello a 8 anni e 8 mesi, decisa il 3 aprile 2007, divenne definitiva. In quei ventisei mesi, sottolineano i legali, non scappò di fronte ad una lunga pena oramai inevitabile e si fece arrestare nella sua casa di Verona. Rimase a Montorio solo pochi giorni. Poi fu trasferito a Padova dove aveva la possibilità di vedere moglie, i figli, la sorella e la nipotina almeno una volta alla settimana. Il 21 gennaio, arrivata la mazzata con il trasferimento nel carcere di Rossano Calabro. Addio alle cure mediche e al percorso di recupero, iniziate al Due Palazzi, ma, soprattutto stop agli incontri con i due figli. E ora attende la risposta della Corte europea.

Giustizia: risarcimento per l’ingiusta detenzione, non per tutti

di Debora Alberici

 

Italia Oggi, 11 settembre 2009

 

La riparazione per ingiusta detenzione non è un diritto di tutti gli imputati assolti. Infatti va negata, nonostante le accuse infondate, a chi ha imprudentemente accettato il rischio di avere contatti con un’organizzazione criminale e quindi, di conseguenza, di apparire coinvolto negli affari illeciti.

La buona notizia per le casse dello Stato, sempre più oberate dalle spese di giustizia, arriva dalla Cassazione che, con la sentenza n. 35030 del 9 settembre 2009, ha respinto il ricorso di un 36enne accusato "di partecipazione con finalità eversive" a un’organizzazione criminale.

La vicenda: L’indagato era stato assolto da tutte le accuse: "dal reato associativo perché il fatto non sussiste, dagli altri per non aver commesso il fatto". Per questo aveva chiesto di essere risarcito per il periodo che, in virtù della custodia cautelare decisa dal primo giudice, aveva trascorso in carcere, da settembre 1996 a gennaio 1998.

Ad aprile del 2008 la Corte d’Appello di Roma aveva negato la riparazione. Contro questa decisione lui ha fatto ricorso in Cassazione. La quarta sezione penale, con una sentenza ben motivata e destinata all’ufficio del massimario, lo ha integralmente respinto. Prima di tutto gli Ermellini hanno analizzato le considerazioni sulle prove fatte dai giudici di merito.

"Il provvedimento impugnato", si legge a un certo punto della sentenza, "ha evidenziato che l’uomo aveva abituali frequentazioni con il mondo della militanza gerarchica, non, evidentemente, solo quella tout court (che sarebbe circostanza del tutto neutra), ma anche quella riconducibile alla imputazione del provvedimento cautelare".

Insomma l’imprudenza di chi è stato ingiustamente messo in manette può costargli l’indennità tanto che in altri casi la Cassazione ha deciso per il mancato ristoro se l’indagato non si è difeso adeguatamente dalle accuse. Il principio: Ma qui è diverso. L’aver imprudentemente frequentato, in determinate circostanze, l’organizzazione criminale può essere un buon motivo per non accordargli i soldi.

In un passaggio chiave che chiude le sei pagine di motivazioni i giudici della quarta sezione penale hanno scritto che "alla stregua di tali evidenziate circostanze, non appare censurabile, in applicazione dei principi sopra enunciati, l’affermazione del provvedimento impugnato che, cioè, il complesso di tali elementi ancorché considerati non decisivi per una affermazione di penale responsabilità delinea, quanto meno, un comportamento altamente imprudente e superficiale, poiché l’indagato, in tal modo, ha accettato il rischio di apparire coinvolto nell’organizzazione criminale".

In altri termini, ha spiegato la Cassazione in diversi punti della decisione, i parametri di valutazione che deve usare il giudice chiamato a decidere sull’ingiusta detenzione non sono gli stessi rispetto a quelli che deve usare il giudice chiamato a decidere sulla responsabilità penale di un cittadino. "La valutazione del giudice della riparazione", ecco un altro passaggio importante, "si svolge su un piano diverso, autonomo rispetto a quello del giudice del processo penale, pur dovendo eventualmente operare sullo stesso materiale: tale ultimo giudice deve valutare la sussistenza o meno di una ipotesi di reato ed eventualmente la sua riconducibilità all’imputato; il primo invece deve valutare se le condotte si posero come fattore condizionante alla produzione dell’evento detenzione. Il rapporto fra giudizio penale e giudizio della riparazione si risolve solo nel condizionamento del primo rispetto all’altro". La decisione non ha messo tutti d’accordo. Infatti la Procura generale della Cassazione aveva sollecitato un annullamento con rinvio dell’ordinanza della Corte romana.

Giustizia: riforma legge Pinto renderà più difficili i risarcimenti

 

Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2009

 

Procedura più contorta e risarcimenti magri. Se dovesse essere approvata la riforma della legge Pinto che mercoledì e stata affrontata momentaneamente accantonata dal Consiglio dei ministri, i cambiamenti sarebbero molti. E probabilmente non tutti graditi ai cittadini.

Di sicuro la legge Pinto ha visto esplodere sia i ricorsi (in 7 anni quasi 37mila), sia i risarcimenti liquidati (81 milioni di euro). Senza contare poi dell’intasamento delle Corti d’appello che si trovano a dover smaltire centinaia di procedimenti che portano al paradosso di subire condanne dalla Corte Ue dei diritti dell’uomo non solo per i ritardi dei processi tout court, ma anche per i ritardi accumulati nelle decisioni sul risarcimento danni. Situazione critica che la riforma affronta fissando innanzitutto un limite di durata al processo che può arrivare fino a 10 anni, sia con la modifica della procedura.

Almeno 6 mesi prima dello scadere del termine fissato per ogni grado di giudizio deve infatti essere presentata una specifica domanda di accelerazione altrimenti la richiesta di risarcimento sarà considerata priva d’interesse.

Nel caso poi il processo sfondi il tetto, malgrado le nuove disposizioni invitino i capi degli uffici giudiziari a mettere questi procedimenti su una corsia preferenziale, allora il cittadino dovrà avviare una prima fase davanti alla Corte d’appello. Questa prima fase, assicurano le norme, sarà senza costi di difesa del cittadino che potrà proporre la domanda anche personalmente.

Il presidente della corte d’appello entro 4 mesi decide con decreto respingendo il ricorso oppure liquidando il danno, ma solo per la parte eccedente i termini di ragionevole durata. L’eventuale impugnazione del decreto non è però più gratuita né davanti alla Corte d’appello, né eventualmente, davanti alla Cassazione. la riforma precisa anche alcune indicazioni sul risarcito che dovrà tener conto del valore della causa in cui si è prodotto il ritardo. Inoltre scatterà una riduzione a un quarto quando il procedimento cui si riferisce la domanda di equa riparazione si è concluso con il rigetto della domanda di chi ha presentato ricorso o quando ne è evidente l’infondatezza.

La durata va oltre i limiti Ue: la proposta di modifica della legge Pinto, che fissa una durata standard di 8 anni (aumentabile fino a 10) per i processi, se approvata, rischia di aumentare i ricorsi alla Corte Ue dei diritti dell’uomo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Le indicazioni che arrivano da Strasburgo sono chiare. I processi penali che durano oltre 5 anni sono in contrasto con il diritto alla ragionevole durata del processo.

Per i processi civili, la Corte europea, in via generale, considera che se il processo, nei casi "semplici" dura più di 2 anni per ogni grado di giudizio, sussiste la violazione dell’art. 6 della Convenzione. Questo vuol dire che la proposta di fissare con una durata standard di 8 anni è in contrasto con gli orientamenti della Corte e rischia di provocare nuovi ricorsi contro l’Italia.

Dall’esame della prassi giurisprudenziale di Strasburgo risulta che se il processo penale supera 5 ani, lo Stato ha violato l’art. 6, mentre se è rimasto, per i casi normali, in 3 anni e 6 mesi o 4 anni e 3 mesi non vi è una violazione (per 3 gradi di giudizio). Solo nei procedimenti particolarmente complessi e quindi in via eccezionale, la durata può arrivare fino a 8 anni. Per i processi civili oltre i 2 anni per i casi prioritari vi è una violazione, mentre per i casi complessi la condanna scatta superati gli 8 anni. I processi amministrativi non devono andare oltre i 2 anni, e per i casi complessi, oltre i 5.

Pescara: carcere sovraffollato anche 8 detenuti nelle celle da 2

di Fabiana Calsolaro

 

Il Centro, 11 settembre 2009

 

Il sovraffollamento delle carceri è un problema di livello nazionale che non risparmia le case circondariali abruzzesi. Lo fa presente Enzo Iaciofano, segretario regionale del Sinappe, il sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria, che lancia l’allarme: anche a Pescara il numero dei detenuti è superiore ai posto disponibili.

Anzi, il carcere di San Donato, con ben 75 detenuti in più rispetto alla capienza massima (195 detenuti invece di 120), registra un sovraffollamento del +65,2%. "Ho sentito parlare di sovraffollamento dei penitenziari di Sulmona, Teramo e L’Aquila", scrive in una nota Enzo Iaciofano, segretario regionale del Sinappe, "mentre è stato detto che al San Donato il problema non sussiste. Purtroppo non è affatto così, il sovraffollamento esiste ed è riscontrabile dalla recente visita delle autorità politiche in occasione dell’iniziativa "Ferragosto in carcere 2009".

Proprio in quell’occasione il senatore Alfonso Mascitelli (Idv) aveva detto: "Effettueremo una ricognizione approfondita con l’obiettivo di conoscere direttamente la difficile realtà quotidiana delle carceri in Abruzzo e proporre soluzioni legislative e organizzative soprattutto all’annoso problema del sovraffollamento".

Nel carcere di San Donato, prosegue Iaciofano, "di celle adibite a un solo detenuto ce ne sono tre, e in quelle da quattro ne sono ospitati addirittura otto". "Il dato di 75 detenuti in più evidenzia un sovraffollamento crescente anche a causa degli arresti giornalieri che gravano comunque sulla capienza", prosegue "Ne derivano problemi di igiene e convivenza, con continue scaramucce tra i detenuti. È un problema che va affrontato e risolto a livello nazionale per evitare che si arrivi al collasso".

Rimini: il carcere scoppia; 10 o 11 detenuti nelle celle di 16 mq

 

Ansa, 11 settembre 2009

 

Attualmente la struttura ospita 205 detenuti a fronte di una capienza di 90. All’onorevole Elisa Marchioni in visita verrà illustrata la situazione di difficoltà in cui versa il penitenziario.

Sarà in visita al penitenziario di Rimini l’onorevole Elisa Marchioni (Pd), a cui verrà illustrata la situazione di difficoltà in cui versa la struttura. Scarsa ricettività e carenza di organico sono le problematiche intorno alle quali si è concentrata la denuncia della Fp Cgil in rappresentanza della Polizia Penitenziaria di Rimini.

Intanto, la stagione estiva 2009, per fortuna e soprattutto grazie alla professionalità degli agenti e di tutto il personale, si è chiusa senza incidenti malgrado il sovraffollamento delle celle che in appena 16 metri quadrati hanno contenuto anche 10/11 detenuti. Attualmente sono in stato di carcerazione 205 persone a fronte di una capienza di 90 e della presenza in servizio di soli 40 agenti effettivi.

Tra le richieste che verranno avanzate alla parlamentare locale ci sarà anche la necessità di reperire fondi per nuove ristrutturazioni dell’attuale penitenziario e in prospettiva di una nuova costruzione, insieme al potenziamento dell’organico sia degli agenti che del personale civile.

Massa: i detenuti; non chiudete la scuola, è la nostra speranza

 

Il Tirreno, 11 settembre 2009

 

Niente più docenti per la scuola del carcere e la classe "media" della Casa Circondariale è destinata a chiudere. È un effetto, un brutto effetto, dei tagli del ministro Gelmini, che cancella un’esperienza importante per i detenuti. Le tre docenti che insegnavano "tra le sbarre", tutte di ruolo e tutte impegnate a titolo volontario in questo progetto, saranno dirottate altrove. Ma i detenuti del carcere che hanno fatto domanda di iscrizione ai corsi (ben 53 erano gli iscritti lo scorso anno) non ci stanno.

E lanciano un appello a ministro e istituzioni perché la loro scuola non venga chiusa. Una lettera di civiltà e speranza, la loro, che di seguito pubblichiamo. "Noi stiamo scontando gli errori che abbiamo commesso, ma non rendeteci la pena ancor più gravosa. La scuola media è presente nel carcere di Massa da sempre e rappresenta per noi un sollievo e un impegno e ci aiuta ad affrontare quotidianamente la vita non facile tra queste mura.

Quando manca il lavoro l’unica risorsa per trovare la forza di andare avanti e non pensare a tutto quello che abbiamo lasciato, gli affetti, la famiglia, è la scuola. Frequentando la scuola c’è la speranza di ottenere il titolo minimo necessario per trovare, un volta usciti, un lavoro ed essere reinseriti in quella società dalla quale siamo stati allontanati perché abbiamo sbagliato.

La scuola ci dà la possibilità di non continuare a sbagliare e di organizzare diversamente il nostro futuro, se poi la nostra permanenza in carcere sarà lunga allora i più volenterosi potranno proseguire gli studi e arrivare al diploma. Se verrà a mancare la scuola media il nostro futuro sarà sempre più buio, ci avrete tolto anche quel poco di speranza che ci era rimasta. Il carcere non deve essere un cassetto dove si chiudono gli uomini che hanno sbagliato e se ne butta via la chiave; il carcere deve essere rieducativo, ci deve aiutare a capire i nostri errori e, dopo aver pagato per essi, darci la possibilità di tornare a vivere con gli strumenti necessari per non tornare a sbagliare di nuovo. E, senza la scuola, questo sarà molto difficile che avvenga".

Foggia: Biblioteca "La Magna Capitana" dona 85 libri a carcere

 

Ansa, 11 settembre 2009

 

Contribuire alla crescita culturale della comunità della Casa Circondariale di Foggia attraverso l’ampliamento e l’arricchimento della sua biblioteca. Con questo obiettivo l’assessorato provinciale alle Politiche Educative e la Biblioteca provinciale "La Magna Capitana" hanno donato 85 libri alla biblioteca del carcere del capoluogo dauno. Si tratta di pubblicazioni realizzate a cura della Provincia di Foggia, che la vicedirettrice del penitenziario, la dottoressa Simona Vernaglione, aveva richiesto all’Ente di Palazzo Dogana.

"È con grande piacere - commenta in vicepresidente della Provincia ed assessore alle Politiche Educative, Billa Consiglio - che abbiamo accolto la richiesta formulataci dalla dottoressa Vernaglione. La nostra donazione, infatti, rientra in una più ampia logica di integrazione tra Enti ed in percorso che vuole contribuire fattivamente alla realizzazione di un pieno reinserimento sociale dei detenuti".

L’Amministrazione provinciale, infatti, proprio nei mesi scorsi ha siglato un’importante convenzione con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Foggia (organo periferico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che si occupa delle misure alternative alla detenzione per i condannati) per il reinserimento sociale dei cittadini sottoposti a misure di sicurezza - libertà vigilata, semidetenzione e libertà controllata - in attività da espletare proprio all’interno della Biblioteca Provinciale La Magna Capitana.

"Portare la cultura all’interno delle mura del carcere - evidenzia l’assessore Consiglio - è una finalità che stiamo perseguendo anche attraverso il progetto "Libri a trazione anteriore". Non mancheranno di certo occasioni future di collaborazione con la Casa Circondariale di Foggia - conclude il vicepresidente della Provincia - con l’invio di altre pubblicazioni, a cadenza periodica grazie al coinvolgimento della biblioteca provinciale".

Giappone: Amnesty; i malati di mente nel "braccio della morte"

 

Ansa, 11 settembre 2009

 

Sono 102 i prigionieri, attualmente nei bracci della morte del paese, in attesa di sapere se e quando la loro esecuzione avrà luogo. Coloro che hanno esaurito le procedure legali sono costretti a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, poiché la notifica dell’esecuzione arriva con un preavviso di poche ore. Per alcuni di loro, la vita va avanti in questo modo anche da decenni.

"Far vivere una persona per un periodo di tempo prolungato sotto la costante minaccia di una morte imminente è un trattamento crudele, inumano e degradante che rende assai probabile l’insorgenza di gravi problemi mentali" - ha dichiarato James Welsh, esperto di Amnesty International in materia di salute e principale autore del rapporto diffuso oggi.

L’esatto numero dei condannati a morte affetti da malattia mentale non è noto. Il clima di segretezza sulla pena di morte e sulle condizioni di salute dei prigionieri, insieme all’impossibilità di una verifica indipendente da parte di esperti sanitari, costringono ad affidarsi a documentazione e testimonianze indirette. Il governo non consente contatti con i condannati alla pena capitale e ha respinto la richiesta di Amnesty International di entrare nei bracci della morte.

I condannati non possono parlare tra loro e sono detenuti in condizioni di stretto isolamento. Gli incontri con familiari, avvocati e altre persone possono durare anche solo cinque minuti. Se non per andare in bagno, i detenuti in attesa dell’esecuzione non possono muoversi all’interno della propria cella e sono costretti a rimanere seduti. Rispetto agli altri prigionieri, hanno minore accesso all’aria aperta e alla luce naturale e vanno incontro a punizioni supplementari ogni volta che il loro atteggiamento contrasta le rigide regole imposte.

"Queste condizioni aumentano l’ansia e l’angoscia dei prigionieri, li spingono verso la pazzia e la malattia mentale" - ha commentato Welsh. Gli studi condotti da Amnesty International sulla pena di morte nel mondo hanno dimostrato che coloro che hanno problemi di salute mentale rischiano in modo particolare di finire nel braccio della morte, di commettere più facilmente crimini, di non essere in grado di collaborare efficacemente alla propria difesa legale e di rinunciare a ulteriori appelli contro la condanna.

Amnesty International chiede al governo giapponese di istituire una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale, rivedere tutti i casi in cui la malattia mentale possa essere un fattore rilevante, garantire che nessun prigioniero con problemi di salute mentale sia messo a morte e migliorare le condizioni di detenzione in modo che la salute mentale dei condannati non si deteriori. Infine, l’organizzazione sollecita il Giappone a mostrare un fermo impegno in favore dei diritti umani, rispettando gli standard internazionali in materia.

Stati Uniti: le carceri di Obama... troppo simili a quelle di Bush

di Michele Paris

 

www.altrenotizie.org, 11 settembre 2009

 

Sono molte le critiche piovute in questi mesi da sinistra su Obama per non aver definitivamente abbandonato i metodi discutibili, quando non palesemente illegali, della precedente amministrazione nella lotta al terrorismo. Uno di questi rimproveri riguarda il mancato adeguamento del governo americano a numerose ordinanze di giudici federali che hanno disposto la liberazione di detenuti nel famigerato carcere di Guantanamo.

La maggior parte dei sospettati di terrorismo, ai quali è stato garantito il diritto di habeas corpus e la cui detenzione è stata riconosciuta come illegittima, risultano infatti ancora alloggiati presso la base navale americana in territorio cubano, con il sistema giudiziario tristemente privo di strumenti concreti per applicare le proprie sentenze.

Infliggendo un colpo pesantissimo alla strategia anti-terrorismo del presidente Bush, nel giugno del 2008 la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva stabilito che ai prigionieri di Guantanamo andava riconosciuto il diritto costituzionale, in precedenza sempre negato, di ricorrere in un tribunale federale in merito alla loro detenzione. Con questo verdetto veniva improvvisamente cancellata quella sezione del Military Commissions Act, approvato dal Congresso nel 2006, che autorizzava processi di fronte a tribunali militari per la violazione del diritto di guerra. L’allora inquilino della Casa Bianca, in quel momento ospite di Berlusconi a Roma, reagì con amarezza alla decisione, prevedendo una valanga di richieste da parte dei 270 detenuti che ancora soggiornavano a "Gitmo", per apparire di fronte ad una corte civile americana e per avere finalmente accesso alle prove portate contro di loro.

Dalla scorsa estate, infatti, sono state 150 le domande di habeas corpus presentate dagli ospiti di Guantanamo, delle quali 35 già esaminate. Di queste, 29 sono andate a buon fine, con un giudice federale che ha decretato l’illegalità della detenzione dei prigionieri. Nonostante l’ordine d’immediata liberazione, 20 dei 29 detenuti in questione si trovano però tuttora sull’isola caraibica. Nelle loro sentenze, i giudici hanno ripetutamente sottolineato l’incapacità del governo americano di provare la veridicità delle accuse mosse contro i sospettati oppure l’acquisizione di prove tramite tortura o inaffidabili testimonianze di seconda mano.

Uno dei casi che ha sollevato maggiore indignazione è stato quello riguardante il detenuto afgano Mohammed Jawad, arrestato nel 2002 - ad un’età tra i 12 e i 14 anni - con l’accusa di aver lanciato una granata contro un convoglio militare americano. Dopo anni trascorsi a Bagram, in Afghanistan, e successivamente a Guantanamo, a metà luglio di quest’anno la detenzione di Jawad è stata dichiarata illegale, poiché la sua confessione era stata estorta con percosse e minacce di morte da parte delle autorità afgane che lo avevano inizialmente arrestato. Dietro le pressioni delle organizzazioni per i diritti umani, il giovane prigioniero è stato liberato e rimpatriato a fine agosto.

L’ostacolo principale alle scarcerazioni, e alla chiusura del campo di detenzione, come promesso da Obama all’indomani del suo insediamento, rimane la possibile destinazione dei prigionieri. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca, gli Stati Uniti sono riusciti a convincere qualche paese ad ospitare un certo numero di detenuti sul proprio territorio, ma una soluzione definitiva appare ancora lontana. Il dilemma che riguarda i sospettati di nazionalità yemenita, un centinaio sui circa 230 ancora a Guantanamo, è un esempio significativo delle delicate decisioni che il governo americano è chiamato a prendere in questi mesi.

Molti di essi infatti potrebbero essere rilasciati immediatamente, ma i timori sono legati al fatto che nello Yemen potrebbero partecipare nuovamente alle operazioni dei gruppi legati ad Al Qaeda che operano nel paese mediorientale. A partire dallo scorso mese di aprile, sette cittadini yemeniti hanno ottenuto altrettanti ordini di scarcerazione da tribunali federali americani ma, malgrado ciò, l’amministrazione Obama non si è ancora adeguata alle sentenze, pur non essendo stata in grado di provare la pericolosità dei detenuti in questione.

Un discorso a parte meritano poi i prigionieri di etnia uigura, che rischiano di andare incontro alla repressione cinese nel caso fossero rimpatriati nel loro paese di origine. Anche in questo caso, nell’ottobre del 2008, 17 uiguri sono stati dichiarati illegittimamente detenuti a Guantánamo. Il loro trasferimento negli Usa è stato però bloccato da una corte d’appello, che ha dichiarato come l’ingresso nel paese riguardi l’immigrazione, passando perciò il caso al governo. Quest’estate infine, quattro musulmani cinesi hanno trovato rifugio alle Bermuda ma i rimanenti 13 attendono ancora una sentenza della Corte Suprema in stato di detenzione.

Ai problemi incontrati nel convincere i paesi esteri ad ospitare una parte di quel gruppo di sospettati di terrorismo, che l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld aveva definito come "il peggio del peggio", si è aggiunta poi la resistenza dei membri del Congresso americano ad accettare un possibile trasferimento sul suolo americano. La preoccupazione, peraltro quasi sempre infondata, di ospitare in un carcere del proprio distretto elettorale un detenuto per crimini di guerra, ha spinto così i parlamentari di entrambi gli schieramenti ad approvare una legge che obbliga il presidente a trasmettere al Congresso un rapporto dettagliato per ogni possibile trasferimento o scarcerazione, prima di prendere una decisione definitiva.

Al di là della sistemazione dei detenuti in vista della possibile chiusura di Gitmo, la mancata applicazione delle sentenze di scarcerazione dei tribunali federali ha aperto un grave conflitto di competenze tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Secondo alcuni, infatti, se il governo continuerà a tenere in carcere i prigionieri la cui detenzione è stata dichiarata illegale o se, peggio ancora, il Congresso dovesse approvare una norma che rinvia indefinitamente gli ordini di liberazione emanati da una Corte, non potrà che verificarsi una nuova serie di richieste di appello. In questo caso, però, a essere messa in discussione sarebbe la costituzionalità di una condotta, o di un eventuale provvedimento, che infrange la divisione stessa dei poteri giudiziario, esecutivo e legislativo.

L’inaccettabilità di una situazione che vede il governo americano continuare a tenere in carcere un detenuto senza alcun fondamento legale è in ogni caso ben più che evidente. Altrettanto chiara, e scoraggiante, è anche la continua mancata accettazione degli standard legali democratici da parte di Washington, nonostante i proclami circa la rinuncia dei metodi impiegati regolarmente durante i due mandati di Bush e Cheney.

Le incertezze sorte attorno al destino di Guantanamo e dei suoi detenuti risultano addirittura amplificate dal caso del campo di prigionia di Bagram, situato presso una base aerea a nord di Kabul, in Afghanistan. Qui sarebbero ospitati in pessime condizioni circa 600 detenuti, la maggior parte dei quali verosimilmente di nazionalità afgana, anche se il governo americano continua a rifiutarsi di rendere pubblica qualsiasi informazione sulla loro identità. L’annuncio di Obama di voler chiudere entro l’inizio del 2010 il carcere sull’isola di Cuba non è stato esteso a quello di Bagram, che appare di gran lunga meno di frequente nei media americani, per non parlare delle altre strutture segrete disseminate in altre parti del pianeta.

Anche per i fantasmi di Bagram si prospetta tuttavia una possibile evoluzione simile a quella di Guantanamo. Ad aprile infatti, un giudice federale del District of Columbia ha accolto la richiesta di tre detenuti nella prigione afgana, stabilendo che essi possiedono "virtualmente" gli stessi identici diritti garantiti ai prigionieri di Guantanamo dalla sentenza della Corte Suprema del 2008. Il diritto di habeas corpus dei detenuti a Bagram, sebbene fissato entro limiti più ristretti, è stato però ancora una volta contestato dall’amministrazione Obama che si è appellata al verdetto, tirandosi addosso inevitabilmente una nuova valanga di critiche.

Brasile: caso Battisti; incertezza sull’estradizione, le polemiche

 

A cura di Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2009

 

Il ministro contro il tribunale: "Quale estradizione. Dovevano liberarlo".

Dopo la sospensione del voto, la decisione dei giudici arriverà tra due settimane.

 

La Repubblica, 11 settembre 2009

 

"Qui nelle nostre carceri c’è un detenuto politico, Cesare Battisti, un uomo tenuto in prigione illegalmente perché otto mesi fa ha ottenuto l’asilo e dovrebbe essere da tempo libero". L’affondo del ministro della Giustizia Tarso Genro contro la Corte Suprema è arrivato ieri sera in teleconferenza dal Cile dove si trova in visita ufficiale. A suo giudizio la Corte si attribuisce poteri che non ha perché la concessione dello status di rifugiato è competenza del governo e del presidente della Repubblica, non può essere messa in discussione ed estingue in modo automatico il processo di estradizione.

Per questo Genro afferma che l’esame del caso Battisti nella Corte Suprema rappresenta un precedente grave ed apre un conflitto critico fra i poteri dello Stato: governo e presidente da una parte, Tribunale supremo dall’altra. Secondo Genro il giudice Peluso, relatore della causa, avrebbe dovuto solo prendere atto della decisione del governo di considerare Battisti un rifugiato e liberarlo immediatamente. Invece l’atteggiamento del Tribunale - ha aggiunto Genro - è gravissimo, "è una decisione che può avere grandi conseguenze perché se la Corte concede l’estradizione di Battisti in Italia, tutti gli status di asilo politico potranno essere rimessi in discussione". Il potere giuridico - ha concluso il ministro - vorrebbe per sé una prerogativa che appartiene al governo e al presidente.

Intanto Marco Aurelio Mello, il giudice del Tribunale supremo che ha congelato la sentenza chiedendo un rinvio per approfondire i dettagli della causa, ha promesso che al massimo nel volgere di due settimane esprimerà il suo voto permettendo così alla Corte di concludere il suo lavoro.

 

Alfano: non è un detenuto, politico ma un assassino.

 

Apcom, 11 settembre 2009

 

Il terrorista Cesare Battisti "non è un detenuto politico, è un assassino condannato in Italia per i suoi crimini". Lo ha affermato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, a margine della scuola di formazione politica del Pdl. "L’Italia - ha detto Alfano - è un Paese libero e democratico, che senz’altro farà sì che Battisti possa scontare la propria pena secondo i crismi di un Paese libero e democratico, in cella". Alfano ha ricordato che l’Italia "ha svolto un’importante azione diplomatica" per ottenere l’estradizione del terrorista dal Brasile, "ma anche un’importante azione di natura puramente giuridica. Ho inviato in Brasile il capo del dipartimento degli Affari di giustizia, presidente Ormanni. Ha svolto anche lì un ottimo lavoro e abbiamo ricordato che non vi è alcuna ragione perché i brasiliani considerino Battisti un detenuto politico e che considerino lo Stato italiano uno Stato che non garantisce ai carcerati i loro diritti".

 

Cesare Battisti: un capro espiatorio.

di Sandro Padula

 

L’Altro, 11 settembre 2009

 

Caso Cesare Battisti. Mai nella storia della Repubblica italiana c’è stato un così grande e prolungato impegno dei governanti per estradare una persona.

A tale scopo, negli ultimi anni, è stato ingigantito artificialmente il ruolo che Battisti avrebbe avuto nei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) e si è volutamente taciuto che nei relativi processi contro tale organizzazione fu condannato in contumacia, quindi senza alcuna possibilità di difendersi, sulla base di vaghe ipotesi accusatorie lanciate da un "pentito" (omicida reo confesso) e rese possibili dalle leggi politiche e antigiuridiche dell’Emergenza. Leggi che da una lato aumentavano di un terzo le pene rispetto a quelle previste dal codice penale per chi, fra le migliaia di inquisiti per "banda armata" e "associazione sovversiva", non scaricava le proprie responsabilità su altri e neanche accettava di pronunciare dichiarazioni di abiura; mentre dall’altro concedevano grossi sconti di pena a "pentiti" e a "dissociati".

I Pac sorsero negli ultimi mesi del 1977, dopo la repressione statuale del forte movimento autonomo di lotta che quell’anno si era sviluppato in tutta Italia, e come risposta alla nuova realtà delle carceri speciali. Nacquero perciò nel clima politico e culturale successivo alle critiche di Jean Paul Sartre e molti altri intellettuali francesi nei confronti dell’autoritarismo della democrazia italiana e alcuni anni dopo le taglienti osservazioni di Pier Paolo Pasolini che, pur avendo un sapore generico e quindi populistico, criticavano duramente il trentennale regime democristiano.

Dirigenti dei Pac, un’organizzazione composta da oltre una sessantina di persone fra operai, disoccupati, insegnanti e giovani studenti, furono Sebastiano Masala, Giuseppe Memeo e Arrigo Cavallina.

Quest’ultimo, in un articolo pubblicato nella rivista Studi Cattolici del 16 aprile 2009, così parla di Cesare Battisti: "era un delinquente di non grande calibro. Con me ha creduto di diventare anche politico".

Cavallina afferma di aver conosciuto Battisti nel carcere di Udine nel 1977 e si attribuisce il ruolo di colui che gli avrebbe trasmesso delle cognizioni teoriche e politiche. Altri dichiarano che tale ruolo fu svolto da una diversa persona. Ad ogni modo, una volta tornati in libertà, Cavallina e Battisti militarono assieme nei Pac ma con responsabilità diverse.

Se nei processi i fondatori dei Pac avessero agito come la maggior parte dei dirigenti delle Br, che riprendevano alla lettera la norma non scritta - in tutto simile a quella gandhiana - di assumersi le responsabilità politiche di fronte allo Stato, di sicuro Cesare Battisti non sarebbe stato condannato al "fine pena mai", una pena che in molti paesi, Brasile compreso, non esiste più. Avrebbe avuto una condanna molto più bassa.

Invece la storia è andata in modo diverso e quello che era un semplice rapinatore politicizzatosi in carcere è diventato prima il maggior capro espiatorio di tutta la vicenda dei Pac e poi, negli ultimi anni, il simbolo di un caso strumentalizzato dai governanti per proporre nuove politiche securitarie e, come ha motivato la richiesta italica di estradizione di Battisti dal Brasile, per non riconoscere il carattere sociale e politico anti-sistemico della lotta armata e nascondere la verità storica del periodo che va dalla seconda metà degli anni ‘70 ai primi anni ‘80: carceri speciali, torture e leggi liberticide.

Secondo lo stesso Arrigo Cavallina, che ha usufruito di sconti di pena grazie alla legge a favore dei "dissociati", cioè a vantaggio degli abiuranti e a danno di chi non abiurava, "quando la nostra rivolta violenta è sembrata diffondersi e costituire un pericolo, la difesa istituzionale non è rimasta sempre negli argini delle garanzie democratiche. Ricordo bene il regime delle carceri speciali, gli aumenti nella custodia preventiva e nelle pene, istruttorie fabbricate nel disprezzo delle procedure, singoli episodi di indubbia tortura, di "collaboratori" imboccati e di valore probatorio attribuito loro senza riscontri".

Tutto ciò significa che esistono due problemi. Il primo riguarda il fatto che in Italia non vi sia stata una soluzione politica degli anni 70. Il secondo e ben più grave è che il nostro paese, a differenza del Brasile e di tanti altri, anche in Europa, insiste a mantenere l’ergastolo.

L’Italia razzola male e predica anche male. Per anni ha preteso che una persona, condannata in contumacia all’ergastolo sulla base delle politiche leggi dell’Emergenza, fosse estradata da un paese in cui non esiste il "fine pena mai" ad uno che ancora lo contempla. La stesse leggi italiane non dicevano e non dicono forse che non si dovrebbe estradare chi, all’estero, rischia pene e sofferenze maggiori?

Mercoledì il Tribunale Federale Supremo del Brasile ha rinviato la decisione sull’estradizione di Cesare Battisti. Il Presidente Gilmar Mendes, pur essendo favorevole, si è astenuto "per il momento" in quanto il suo voto sarebbe risultato decisivo dopo che quattro giudici si erano pronunciati a favore e quattro contro tale provvedimento.

È difficile fare delle previsioni su come andranno a finire le cose. Una decisione in tempi rapidi e con la presenza di Gilma Mendes porterebbe forse all’estradizione. Una decisione che slittasse di alcuni mesi potrebbe favorire invece un risultato diverso.

In ogni caso non bisogna dimenticare che Cesar Peluzo, relatore del Tribunale Federale Supremo brasiliano, si è dichiarato favorevole all’estradizione a patto che l’ergastolo sia commutato ad una pena massima pari a 30 anni di carcere.

Chi dovrebbe operare una tale commutazione? Il Presidente della Repubblica? E tale eventuale commutazione non dovrebbe riguardare, in base ai criteri formali dell’uguaglianza di tutti di fronte alle leggi, tutti i "fine pena mai" esistenti in Italia? Non dovrebbe riaprire la questione della soluzione politica del passato fenomeno della lotta armata?

 

Ora l’Italia si inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti.

di Valentina Perniciaro

 

L’altro, 11 settembre 2009

 

Dopo otto mesi di stallo il "caso Battisti" è approdato nelle aule del Supremo tribunale federale brasiliano, equivalente alla nostre Corte Costituzionale. Su richiesta del governo italiano, nove magistrati dovranno pronunciarsi per decidere se sospendere o meno l’asilo politico concesso a gennaio a Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, dal ministro della giustizia brasiliano Tarso Gendro. Il dibattimento non ha portato alla sentenza come ci si aspettava, ma ad una richiesta di sospensione che dia il tempo di esaminare ulteriormente le carte. A data da destinarsi, quindi.

Cesare Battisti non era presente in aula, al contrario del rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia Italo Ormanni e dell’ambasciatore italiano in Brasile.

Dovessimo prender per buone le parole e l’enfasi della stampa italiana, immagineremmo già Cesare Battisti su un volo per l’Italia, con solide manette ai polsi. Urlano tutti giulivi, starnazzano ad un’estradizione praticamente ottenuta quando la realtà è chiaramente diversa e rivela una partita aperta, ancora tutta da giocare. Degli undici membri originari del Supremo tribunale federale saranno solamente nove quelli a votare: Meneses Direito è infatti scomparso da pochi giorni mentre Cesar de Melo ha deciso di astenersi su questo specifico caso. Dei nove magistrati sono stati otto ad essersi già pronunciati .Quattro a favore della richiesta italiana tra cui il giudice relatore Cezar Peluso, ed altri quattro hanno difeso la concessione dello status di rifugiato politico. Marco Aurelio de Mello, l’ultimo a dichiararsi pro-asilo politico ha fatto richiesta di sospendere il processo.

Quello che la stampa italiana tende a non sottolineare e quasi ad occultare completamente è che anche i giudici che hanno votato per l’estradizione, hanno posto delle clausole che non saranno molto facili da gestire per il governo italiano. L’Italia fino a questo momento ha recitato la parte dello spettatore rumoroso ed arrogante; senza dover muovere alcun passo è stata a guardare con polemiche dai toni medievali e dagli atteggiamenti spesso razzisti a cui ormai stanno tentando di abituarci. Ma se l’Italia dovesse vincere questa prima battaglia si troverebbe comunque non poco in difficoltà per riuscire a sottostare alle leggi internazionali.

Cezar Peluso, giudice relatore, quello che con più enfasi ha dichiarato di esser favorevole a veder tornare Battisti in Italia ha però posto come requisito minimo che l’ergastolo venga commutato ad una pena non superiore ai trent’anni, visto che in Brasile è stato abolito.

Ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini è riuscito a dichiarare: "Spero che la decisione tenga conto del fatto che l’Europa è la culla dei diritti fondamentali e che se accadesse che un cittadino europeo fosse ritenuto rifugiato fuori dall’Europa significherebbe smentire che l’Europa ha una Carta dei diritti fondamentali e che ovviamente nessuno qui può essere torturato, perseguitato, né trattato indegnamente."

Forse non è stato mai informato delle condizioni che vivono i detenuti in Italia, schiacciati da un sovraffollamento unico in Europa e dalle discriminazioni razziali ormai sancite con il nuovo pacchetto sicurezza, testo di legge che dovrebbe almeno farci stare silenziosi su come "trattiamo degnamente" le persone.

C’è una differenza di fondo tra il Brasile e questo nostro starnazzante paese: nel rovesciare la dittatura, loro, hanno rivoluzionato anche il sistema penale, abolendo la pena di morte e l’ergastolo perché non rispettosi dei diritti umani fondamentali. È incostituzionale una condanna che porti scritto sopra "Fine Pena Mai", è inconcepibile la ghigliottina legalizzata che nella nostra società appare così normale. Ma d’altronde siamo un paese che, nel rovesciare la propria dittatura, non ha sentito l’esigenza di cambiare anche il proprio codice penale: i nostri giudici sentenziano tuttora con il Codice Rocco tra le mani, non c’è altro da dire.

Commutare l’ergastolo di Battisti con una pena inferiore ai trent’anni. Come faranno? Se riuscissero ad ottenere la sua estradizione si riaprirebbero le richieste anche per tutti gli altri militanti della lotta armata italiana rifugiati per la maggior parte in Francia, di cui molti ergastolani. Tolgono l’ergastolo a tutti?

E chi, e non sono pochissimi, tra gli ex militanti delle Brigate Rosse sta ancora scontando la pena dopo 32 anni di carcerazione? Anche i loro di ergastoli cancelliamo o continueremo a non concedergli nemmeno la condizionale? Ministri e deputati, giudici e magistrati, giornalisti e parolai che già cantano vittoria in attesa di brindare attorno al nuovo corpo in catene che rientra in patria, inizino a pensare come gestire questo cavillo non da poco posto dai colleghi sudamericani.

 

Brasile, rinviata l’estradizione di Cesare Battisti.

L’Italia sempre più in un vicolo cieco.

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 11 settembre 2009

 

Il relatore del Tribunale supremo del Brasile si pronuncia per l’annullamento dell’asilo politico concesso a Battisti e ne chiede l’estradizione a patto che l’Italia commuti l’ergastolo ad una pena non superiore a 30 anni. Il Brasile infatti non riconosce la pena dell’ergastolo abolita dal proprio codice penale dopo l’uscita dalla dittatura fascista

Una richiesta che mette in seria difficoltà l’Italia. Il ministro degli esteri Frattini e quello della Difesa La Russa, che vantavano i meriti del nostro sistema giudiziario immacolato (salvo quando si occupa di Berlusconi), sono in difficoltà. L’Italia infatti non è disposta ad accogliere una richiesta del genere che inevitabilmente, in ragione del principio di eguaglianza del trattamento, aprirebbe un contenzioso sull’abolizione di questa pena, per altro già prevista nel dettato costituzionale.

Nonostante l’euforia con la quale molti quotidiani italiani, Repubblica in testa, hanno dato per certa l’imminente estradizione di Cesare Battisti, dopo l’udienza tenutasi mercoledì scorso davanti al tribunale supremo brasiliano (l’equivalente della nostra corte costituzionale), la complessa partita politico-giudiziaria che si sta giocando attorno alla vicenda è ancora tutta aperta.

Dopo 11 ore di discussione la corte si è aggiornata rinviando ogni decisione a data da destinarsi. Il presidente Gilmar Mendes ha accolto la richiesta di sospensione avanzata del giudice Marco Aurélio Mello. Oltre al merito, infatti, sono state affrontate numerose opzioni procedurali. Nel corso del primo giro di votazioni la corte si è spaccata: il relatore Cezar Peluso e altri tre giudici hanno votato per l’annullamento dell’asilo politico riconosciuto dal ministro della giustizia Tarso Gendro. A loro avviso la scelta di concederlo sarebbe stata infondata perché i reati ascritti a Battisti (condannato a due ergastoli per la sua militanza nella lotta armata nei lontani anni 70) non sarebbero politici ma di "dritto comune". Tuttavia, poiché il Brasile dopo la dittatura militar-fascista ha abolito l’ergastolo dal suo codice penale, il relatore ha legato l’eventuale via libera per l’estradizione all’accoglimento da parte italiana di una clausola che prevede la commutazione dell’ergastolo ad una pena non superiore ai 30 anni.

Joaquim Barbosa e altri due giudici hanno invece difeso la concessione dello status di rifugiato, replicando che sarebbe stato assurdo smentire la politicità dei reati attribuiti a Battisti perché riconosciuta dalla stessa giustizia italiana attraverso l’applicazione di specifiche aggravanti di pena. Ai tre, che hanno anche censurato l’arroganza del governo italiano e le dichiarazioni razziste di alcuni ministri nei confronti del Brasile, trattato alla stregua di una repubblica delle banane, si è aggiunta la posizione più sfumata di Mello.

Quattro contro quattro insomma. Mancavano due membri del collegio, il giudice Menezes Direito deceduto da pochi giorni, ferocemente convinto dell’estradizione di Battisti. In attesa che riacquistasse le forze il presidente del tribunale aveva appositamente rinviato per mesi la discussione del caso, con la segreta speranza di potersi avvalere del suo voto. L’altro magistrato, Celso de Melo, si è pilatescamente tirato fuori dalla contesa. Ago della bilancia potrebbe essere il Presidente Mendes che mercoledì ha preferito non votare, sempre che non si decida di escludere dal voto il relatore, come proposto da alcuni. Mendes, uomo della destra e gran rivale di Lula, è uno dei capofila del partito dell’estradizione, molto sensibile alle pressioni del governo italiano. Terminata la pausa di riflessione, se non ci saranno nel frattempo cambiamenti, l’aritmetica farà il suo corso sfavorevole a Battisti. Se permanesse invece una situazione di parità, dovrebbe prevalere il principio del favor rei.

Quello che stampa, mondo politico ed esponenti della vittimocrazia italiana omettono di raccontare, è che l’eventuale annullamento dell’asilo politico avrà come unico effetto immediato la riapertura della procedura d’estradizione, sospesa proprio in virtù della copertura fornita dallo status di rifugiato. Insomma non vedremo affatto Battisti manette ai polsi arrivare in Italia, per la delusione del ministro Frattini e del suo collega La Russa, che un pò di diritto penale comparato e qualche convenzione internazionale potrebbero pure studiarli. In ogni caso la decisione finale - sempre che la magistratura non dichiari irricevibile la richiesta d’estradizione (va ricordato che il mancato riconoscimento dell’asilo politico non inficia minimamente la possibilità di rifiutare una domanda d’estradizione) - spetta in ultima istanza a Lula.

Non è chiaro cosa farà il presidente brasiliano, negli ultimi tempi sembra che per ragioni di politica interna e d’opportunità internazionale abbia ammorbidito la sua posizione e si sia fatto più ricettivo rispetto alle posizioni italiane, nonostante la loro fastidiosa invasività. La stessa scrittrice Fred Vargas, nume tutelare di Battisti, si è fatta portavoce nelle ultime ore di questi timori legati al mutare degli equilibri interni al governo brasiliano, alla necessità per Lula di avvalersi del sostegno elettorale di un ministro rivale di Gendro. Certo la scrittrice poteva pensarci prima.

È lei una delle responsabili della disastrosa linea difensiva sempre portata avanti. Per l’Italia, comunque vada, la vicenda Battisti sarà una grosso problema. Con la sua ostinata insistenza si è cacciata in un vicolo cieco. Figuraccia internazionale se il Brasile dovesse alla fine negare l’estradizione, confermando il giudizio pessimo che già in sede internazionale viene espresso nei confronti del suo sistema penale e penitenziario. Sono ben sette i paesi al mondo che nel corso degli ultimi decenni hanno rifiutato l’estradizione di militanti politici degli anni 70.

Tra questi, oltre alla Francia della dottrina Mitterrand, c’è stata anche la Gran Bretagna. In caso contrario, l’Italia dovrebbe mettere mano alla pena dell’ergastolo per Battisti adeguandosi a quei parametri internazionali di civiltà giuridica che da noi fanno difetto. A quel punto si porrebbe il problema degli oltre 1.400 ergastolani d’Italia, e degli altri detenuti politici in carcere da oltre 30 anni. La disponibilità espressa a suo tempo dal ministro Mastella venne travolta dalla reazione della lobby vittimocratica. A differenza del Brasile, il nostro sistema politico non ha avuto la nitidezza di liberarsi delle eredità della dittatura fascista, di cui conserviamo ancora un codice penale addirittura irrigidito dalle leggi dell’emergenza.

 

 

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