Rassegna stampa 10 settembre

 

Giustizia: 10 milioni di processi; debito giudiziario dello Stato

di Marco Pannella

 

L’Altro, 10 settembre 2009

 

"Quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all’attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell’arretrato o meglio ancora del debito giudiziario dello Stato nei confronti dei cittadini: 5 milioni 425mila i procedimenti civili, 3 milioni 262mila quelli penali (che arrivano a 5 milioni con i procedimenti pendenti nei confronti di ignoti, ndr).

Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure a eliminare un numero pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema". Povero, caro ministro Alfano. Lui così equilibrato, moderato e misurato, quando riferisce alla Camera sullo stato della Giustizia sembra quasi un radicale. È costretto dalla dura eloquenza delle cifre ad assumere il nostro lessico, notoriamente eccessivo: "impressionante", "vero dramma" "spaventoso arretrato" e via esagerando.

Addirittura parla di "debito giudiziario dello Stato" e dice bene. Si tratta dello stesso Stato nel quale ogni neonato che viene alla luce, ha già sulle spalle un debito di poco meno di trentamila euro. In vent’anni, ciascun italiano si trova à dover pagare 300mila euro di interessi su quello stesso debito. Resta solo il dubbio se chiamare tutto ciò "fallimento" oppure "bancarotta fraudolenta". Lo stesso vale per il debito giudiziario. Sommando civile (con tutte le nefaste conseguenze che esso provoca per l’economia, le imprese e le famiglie) e penale, l’arretrato dei processi arriverà presto alla cifra iperbolica di 11 milioni di procedimenti pendenti.

I dati ufficiali sulle prescrizioni dicono che sono almeno due milioni, nell’arco di un decennio, coloro che hanno goduto, di questa speciale "amnistia di Regime". Se poi si aggiungono quelle del ventennio precedente, si deve arrivare almeno alla cifra record, rispetto a qualsiasi amnistia, di 5 milioni di prescrizioni. Però Di Pietro dice che no, l’amnistia "non serve" perché bisogna prendere "il toro per le corna, cioè costruire più penitenziari". E aggiunge che "i detenuti devono stare dentro, per non farli tornare a delinquere". Complimenti Tonino! Intanto i ladri, gli assassini, i corrotti se ne vanno liberi e i loro reati rimasti impuniti, grazie alla prescrizione, cioè all’amnistia più sporca, vergognosa e corrotta prodotta strutturalmente e meditatamente dal Regime, abisso di infamia anche se confrontato con quello precedente, fascista.

Esistono dunque, caro Tonino, caro Alfano, due, "amnistie". La nostra proposta, fondata sul diritto e finalizzata a una grande riforma della Giustizia, mai concessa, rifiutata da eredi comunisti, dal Regime - al solito con loro; e quella imperante, imposta a un popolo martirizzato e oppresso, clandestina, strisciante, di massa e di classe prodotta dalla seconda Partitocrazia, quella che ha sostituito la fascista. Noi Radicali, vogliamo una linea chiara e ufficiale di politica giudiziaria, per stabilire i reati da amnistiare; loro optano per questa "amnistia" anonima, banale come il male totalitario, illegale, l’assassinio di Stato chiamata prescrizione, affinché faccia liberamente il suo corso, devastando la Giustizia e lo Stato di diritto, i tribunali e le carceri, le famiglie e le vite.

Del resto, di che stupirsi? Tutto questo è avvenuto, avviene ma non dovrà più avvenire, peggiorando il fascismo in tutti i settori della vita politica e civile, nel vissuto di un popolo. In particolare in campo giudiziario, con la distruzione della Giustizia, che mai in questo paese aveva raggiunto questi livelli di inciviltà e di barbarie.

Giustizia: ecco perché non possiamo fare a meno dell’amnistia

di Francesco Roma

 

L'Altro, 10 settembre 2009

 

La proposta di amnistia avanzata da Pannella e accolta favorevolmente dal nostro autorevole esponente del Pdl Gaetano Pecorella, poco risalto epoca pubblicità hanno avuto dai media, che siano quotidiani o telegiornali. Forse o perché ormai si ha sempre più paura ad essere garantisti e quindi si segue una linea di antilibertà e antidemocrazia o cosa ancor più grave, perché non la si ritiene una notizia degna di nota. Vi è un’ostilità che seppur non manifestata è nei fatti, nel non parlare, nel non dimostrare, nel non schierarsi, soprattutto quando si parla di temi scottanti come l’amnistia. E si badi bene che coloro che sostengono questa linea, non lo fanno perché sono dei buonisti, irresponsabili, senza il senso dello stato e che cedono ad istinti populistici e demagogici ma perché si fa finta di non vedere, la più vergognosa delle amnistie, quella sostenuta specialmente da Di Pietro e cioè quella che avviene ogni anno a causa delle prescrizioni, che molto spesso è di classe dato che la riescono ad ottenere solo coloro che hanno dei bravi avvocati.

In tal senso come non dare ragione a Pannella quando ci dice che ad oggi 2.000.000 di processi sono andati in prescrizione e quando ci dice che i 12.000.000 di processi pendenti, in effetti sono processi che già si sa molto probabilmente faranno la stessa fine. Come non condannare invece Tonino Di Pietro, e coloro che sostengono la sua stessa linea come ad esempio lo stesso Gasparri, che sostengono amnistie striscianti per 2.000.000 di persone, e che invece bocciano un amnistia vera che possa dare ari a ai giudici, e che possa essere da base e fondamento per una vera riforma del processo penale. Noi socialisti almeno per il nostro garantismo ci siamo sempre dissociati e distinti dagli altri, e come sempre anche ora faremo la nostra parte, ci schiereremo, dimostreremo le nostre posizioni, senza timore alcuno di essere giudicati o dover giustificare qualcosa ad alcuno, dato che il garantismo è nel nostro sangue. La Corte di Giustizia Europea ormai dal 1980 ci tiene sott’occhio, per la durata eccessiva delle procedure, per la carenza delle strutture, e la cosa grave è che dopo la Turchia, segue immediatamente l’Italia perle condanne ricevute, ma la cosa inaudita e che ad oggi lo Stato Italiano non paga nemmeno le suddette condanne. Per onestà intellettuale è quindi importante ribadire che l’Italia è lontano mille miglia da quelle che sono condizioni di legalità e vivibilità che dovrebbero esserci negli istituti di pena.

Solo per far contenti i giustizialisti, dobbiamo far finta di nulla e credere al fatto che si risolverà il problema con la costruzione di altre carceri, cosa che non avviene né in un giorno né in un anno, né con qualche spicciolo. Per questo si chiede un amnistia storica che possa almeno eliminare 8.000.000 dei 12.000.000 processi pendenti, per ricordare a tutti che la giustizia è lo "Stato", il diritto è lo "Stato", e per ricordare a tutti che non è possibile che per un processo in Italia ci vogliano di media 2400 giorni! Quindi ribadiamo con forza un no all’amnistia di classe di Di Pietro, ed un forte si ad un amnistia che coinvolga tutti e che ripristini la legalità nel nostro sistema giustizia italiano.

 

Francesco Roma

Coordinatore Provinciale Caserta

Movimento Giovani per le Riforme

Giustizia: una richiesta di clemenza che è sgradita al "regime"

di Rossella Anitori

 

Terra, 10 settembre 2009

 

Amnistia necessaria per ripristinare la legalità nelle carceri e nei tribunali secondo Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino.

Amnistia. Un termine che molti, in Italia, vorrebbero cancellare dal dizionario. Eppure, secondo Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, oggi quanto mai necessario. "L’amnistia è indispensabile per ripristinare la legalità nelle carceri e nei tribunali - sostiene D’Elia -. È un’opera di buon governo. L’unica cura per una situazione diventata ormai intollerabile". I penitenziari dello Stivale sono iper affollati, i tribunali sommersi da una mole esagerata di processi: alcuni cardini della vita democratica nel nostro Paese sono in pericolo.

"L’amnistia ridurrebbe il numero dei procedimenti penali che paralizzano la vita dei tribunali - continua d’Elia -, l’indulto riporterebbe invece la normalità e la regolarità nella vita delle carceri del Paese oggi totalmente fuorilegge". Un provvedimento del genere potrebbe costituire un passo importante. "Riformare il sistema penale è assolutamente necessario ", annuncia D’Elia.

In base al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale oggi vengono perseguiti un numero abnorme di reati che, di fatto, non costituiscono una minaccia alla convivenza né alla sicurezza sociale. "Occorrerebbe depenalizzare - dice D’Elia e decriminalizzare alcuni comportamenti, a cominciare dai reati senza vittima e quelli legati al consumo di droga", imputati a oltre il 45 per cento delle persone recluse nei penitenziari.

Secondo il segretario di Nessuno tocchi Caino però, dato il clima politico generale, non c’è da aspettarsi nulla: "Con questo "regime" - dice D’Elia - con i partiti sia di maggioranza che di opposizione non si va da nessuna parte. Nessuna riforma è possibile. L’attuale classe dirigente, figlia o artefice, genitrice o generata da questo stato di cose, non ha la credibilità oltre che la volontà di porsi come alternativa. Per uscire da quest’impasse bisogna mandarli tutti a casa".

D’altronde, conclude D’Elia, "la situazione in cui versano le carceri è lo specchio esatto del modo di amministrare l’Italia: un governo che ha distrutto i fondamenti della vita democratica. Al fascismo di allora è succeduto in questi anni un altro regime che ha distrutto lo Stato di diritto e ha smantellato la giustizia nel Paese".

Giustizia: affollamento di carceri, maglia nera a Italia e Russia

di Patrizio Gonnella

 

Italia Oggi, 10 settembre 2009

 

Italia e Russia sotto il mirino del Consiglio d’Europa. La Norvegia con le sue liste di attesa quale esempio da seguire. Da ieri il tema del sovraffollamento penitenziario è un tema di carattere europeo. Si è infatti aperta a Edimburgo la quindicesima Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie dei Paesi del Consiglio di Europa avente ad oggetto il sovraffollamento nelle carceri.

Tra le relazioni introduttive quelle di Mike Ewart, capo dell’amministrazione penitenziaria scozzese (interviene nella sua veste di padrone di casa), di Yuri Kalinin e Franco Ionta rispettivamente viceministro della giustizia russo e capo del Dipartimento penitenziario italiano. D’altronde proprio la Russia e l’Italia sono al centro del dibattito internazionale, entrambi più volte accusati di eccedere in misure repressive. Italia e Russia sono le uniche due nazioni a essere state condannate dalla Corte Europea sui diritti umani per il sovraffollamento delle sue prigioni.

La Russia ha tra i più alti tassi di detenzione nel mondo. L’Italia si sta avviando verso una situazione di oggettiva intollerabilità. L’Italia con i suoi 64 mila detenuti è tra le nazioni peggio messe dal punto di vista del rapporto tra numero di posti letto e numero di detenuti. Il nostro paese ha infatti una densità penitenziaria pari al 146%. Solo la piccola Cipro sta messa peggio. Guardando invece al rapporto tra popolazione detenuta e popolazione libera la Russia stacca nettamente tutti con i suoi 627 cittadini detenuti ogni 100 mila cittadini liberi.

A loro viene quindi pubblicamente chiesta quale sia la soluzione che intendono affrontare per evitare che il sovraffollamento penitenziario degeneri in questione di violazione dei diritti umani. Nelle loro relazioni si punta quasi tutto sulla edilizia penitenziaria, soluzione che non è tra le preferite dal Consiglio d’Europa. Il Consiglio di Europa ha da anni approvato un suo documento (la raccomandazione numero 22 del 30 settembre del 1999) che contiene le linee guida sul sovraffollamento carcerario. Obiettivo della Conferenza internazionale di questi giorni, come è stato ribadito in apertura, è quello di rilanciarne i contenuti tenendo conto delle più recenti regole penitenziarie europee del 2006.

La questione del sovraffollamento è vista dal Consiglio d’Europa sia come una questione di management penitenziario che come una questione che mette a rischio i diritti fondamentali delle persone private della libertà.

Tra i principi a cui gli Stati dovrebbero adeguarsi i più rilevanti sono i seguenti: 1) residuare la sanzione carceraria a extrema ratio del sistema delle punizioni da applicare solo quando ogni altra sanzione risulti inadeguata; 2) non puntare tutto sulla costruzione di nuove carceri in quanto questa politica alimenta una idea secondo cui tutto deve essere punito con la detenzione; 3) estendere l’area delle sanzioni alternative prevedendo pene diversificate già in sentenza; 4) decriminalizzare alcune condotte ritenute illecite; 5) perseguire il risultato di una più razionale distribuzione dei detenuti; 6) definire una capacità massima regolamentare e dirigere le politiche pubbliche in modo da non superarla; 7) assicurare il rispetto della dignità umana e in particolare lo spazio vitale a ogni detenuto; 8) favorire i contatti con i familiari per attenuare i danni psicofisici del sovraffollamento; 9) rafforzare le misure alternative alla detenzione; 10) ridurre al minimo l’uso della custodia cautelare come da sempre chiesto in Italia dalle camere penali; 11) incentivare il sistema della messa alla prova; 12) individuare forme di controllo di tipo elettronico.

La Conferenza si chiude venerdì 11. Le conclusioni sono affidate a un altro italiano, Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Proprio quel Comitato che ha definito gli spazi minimi che ogni detenuto deve avere nella propria cella: quattro metri quadri se recluso in una cella multipla, sette metri quadri se ristretto in una cella singola.

Giustizia: ingiusto è il processo, ma ingiusto è anche il carcere

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 10 settembre 2009

 

Ingiusto è il processo. Ingiusto è il carcere. Il processo penale è ingiusto perché non produce più alcuna certezza. Incerti sono i tempi di durata dell’accertamento giudiziario. 6, 7, 8 anni per arrivare, nell’ipotesi migliore, ad una sentenza definitiva.

Un’incerta ed eccessiva lunghezza del processo che contamina inevitabilmente il suo epilogo. Condanna o assoluzione. Pronunce che dopo un così lungo decorso di tempo dalla data dell’ipotetica commissione del reato, perdono la loro valenza. Non servono per punire il colpevole, non aiutano l’innocente e non danno un’adeguata risposta alla vittima del reato. Un’incertezza del processo penale, che viene compensata nei fatti con l’eccessivo ricorso alla misura cautelare in carcere. Misura cautelare trasformata in una condanna anticipata, basata su elementi sommari. Una condanna spesso, troppo spesso, errata. Ingiusto è il carcere. Luoghi dello Stato, governati dalla costante e quotidiana violazione della legge. Sovraffollamento, violenza, sporcizia, negazione del diritto alla salute. Sono solo alcuni aspetti di questa illegalità. Un assurdo. Si viene condannati per aver violato la legge e lo Stato rinchiude chi condanna in luoghi dove si viola la legge e i diritti fondamentali della persona.

Processo e carcere. Temi che la politica non affronta o affronta male, intervenendo con leggi sbagliate. Leggi che ignorano il dato reale e che mancano di sistematicità. Occorre invertire questa tendenza. Occorre riflettere per ridare certezza al processo e utilità alla pena.

Giustizia: la pena detentiva; in Italia, è vera e propria tortura

di Alfredo Sperati

 

www.radiocarcere.com, 10 settembre 2009

 

Il sistema carcerario del nostro paese ha una capienza di circa quarantatre mila persone detenute. Negli istituti di pena sono però rinchiusi circa 64.179 detenuti. Da Nord a Sud la fotografia di una cella è diventata drammaticamente simile. Buia e sporca, con i letti a castello accatastati alle pareti e dentro dieci, dodici, venti persone chiuse per ventuno ore al giorno. Un esempio. Ragusa, cella di nove metri quadri, il cubicolo, ospita nove persone stipate, su letti a castello di tre piani, la bocca di lupo copre la finestra ed impedisce all’aria di entrare oltre a non permettere la distinzione tra il giorno e la notte.

L’ingegneria penitenziaria si è superata a Termini Imerese, dove in celle di quattro per quattro vi sono dodici persone, grazie a grattacieli-brande, letti a castello di quattro piani. Strutture all’avanguardia che presentano problemi per ciò che concerne la discesa: un ragazzo è venuto giù dal quarto piano ed ha riportato un trauma cranico, il quale ha richiesto l’apposizione di punti di sutura.

Carceri italiane che hanno interessato anche Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, costretta dal signor Sulejmanovic, che dal 30 novembre 2003 era residente a Rebibbia, ha verificato le condizioni di vivibilità del noto carcere situato alle porte di Roma. Disumano e degradante. Lapidario il giudizio dei Giudici europei, al quale sono giunti dopo avere constatato che il detenuto viveva in una cella di 16,20 mq, divisa con altre 5 persone.

La Corte ha osservato che ogni detenuto non disponeva che di 2,70 mq di media e ha stimato che una situazione tale non abbia potuto che provocare dei disagi e degli inconvenienti quotidiani, obbligando a sopravvivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima stimata come auspicabile dal Comitato per la prevenzione della tortura. La conseguenza è stata la condanna a mille euro, perché è stato violato l’art. 3 della Convenzione, la quale sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche, proibendo in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti.

I media italiani hanno dato ampio risalto alla notizia, ma paradossalmente è stato messo in risalto l’aspetto economico, la condanna dello Stato italiano ad una multa di mille euro. Alcuni quotidiani si sono chiesti quale possa essere l’esborso a cui lo Stato sarebbe condannato, se i sessantamila detenuti rinchiusi oggi nelle degradate carceri avesse percorso la stessa strada del signor Sulejmanovic. Nessuno ha considerato che la condanna della Corte europea è scaturita dalla verifica del trattamento a Rebibbia, uno dei migliori istituti di pena del nostro sistema carcerario.

Nessuno ha riflettuto che la verifica attiene a fatti relativi ad una unità temporale ricompresa tra il 2002 e 2003. Periodo questo in cui il sovraffollamento era di molto inferiore a quello odierno. Nessuno sembra si sia più di tanto preoccupato che i Giudici europei abbiamo scritto che la pena nel nostro paese è di fatto una vera e propria tortura. Non si può infatti definire diversamente la condizione di sei persone rinchiuse tutto il giorno in una stanzetta e che devono fare a turno per respirare davanti alla finestra.

Nessuno ha considerato che circa la metà di quelle persone che subiscono una tortura non sono state neanche condannate: sono in stato di custodia cautelare. Nessuno proprio nessuno. Non sicuramente coloro che occupano le aule parlamentari o il palazzo del governo. Governanti e legislatori che preso atto della propria incapacità non cercano di risolvere il problema e pertanto preferiscono non commentare una decisione internazionale che bolla il nostro paese come barbaro-incivile. Nessuno proprio nessuno. Neanche coloro che questa tortura la infliggono pronunciando la sentenza di condanna.

Giustizia: 49 detenuti suicidi, una tragica discarica d’umanità

di Marina Corradi

 

Avvenire, 10 settembre 2009

 

L’ultimo è un ambulante senegalese di 32 anni, sposato e padre di un bambino. Accusato di violenza sessuale, giurava di essere innocente. Si è ammazzato nel carcere di Teramo, aspirando il gas della bomboletta dei fornelli. Il penultimo era un tunisino, morto dopo quaranta giorni di sciopero della fame e della sete, a Pavia. Un altro, uno fra i tanti, era italiano, finito dentro per droga, in attesa di trattamento psichiatrico. La notte del 12 agosto s’è impiccato nella sua cella, a San Vittore, nel cuore della Milano deserta per ferie. Si chiamava Luca, aveva 28 anni.

Le notizie dei suicidi in carcere prendono poche righe sui giornali, quasi fossero un fatto ineluttabile. Però l’ambulante africano di Teramo è il quarantanovesimo suicida, quest’anno, nelle prigioni italiane.

Il dato è del sito di informazione carceraria "www.ristretti.it", che di ognuno ricostruisce nome e storia. Che riporta le testimonianze di carcerati in vari istituti italiani. E fra queste righe la cifra di oggi, 64 mila reclusi in Italia, record dal dopoguerra, acquista uno spessore drammaticamente concreto: "Tre persone si ritrovano a dividere in undici metri quadri, nei quali sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno: ecco che lo spazio calpestabile fa incarognire tutti, riducendoli al pari di animali rinchiusi in gabbia", scrive uno. "Nel mio letto a castello a Venezia avevo imparato a isolarmi dalle altre otto, nove, dieci compagne di cella: cuffie con la musica nelle orecchie per leggere, tappi di cera e maschera sugli occhi per dormire", racconta un’altra. Cronache di una invivibilità che aumenta, di nervi sfatti, di pensieri disperati che una notte dopo l’altra acquistano consistenza, diventano progetti, e poi realtà.

E quei 49 suicidi ad oggi, con questo stesso ritmo, si potrebbero fare 70 alla fine dell’anno. Con una incidenza superiore di 21 volte a quella della popolazione italiana. Con una relazione, rintracciabile nei numeri, fra l’aumento periodico dei suicidi e quel sovraffollamento, quel ritrovarsi quasi a calpestarsi l’un l’altro, senza un minuto di silenzio e di pace. ("Stiamo ammassati come in una discarica", scrive un altro).

E allora le storie di questi quarantanove non sono più private tragedie, ma diventano come un grido che sale dalle mura alte e cieche attorno alle carceri. Come se, passata quella porta, ci fosse un altro mondo; dove formalmente si è uomini, titolari di tutti i diritti proclamati e benedetti dalle Carte della democrazia occidentale; ma, in realtà, non si è più uomini proprio come gli altri. Dove un ragazzo che ha bisogno di cure psichiatriche, lasciato solo, si impicca; dove uno straniero, per gridare la sua innocenza, si lascia morire di fame e sete.

Quale altro mondo c’è, dietro quei portoni blindati e sorvegliati? Le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione, dice la Costituzione. Ma come si rieduca, fra uomini stretti come in gabbia, avviliti da quella promiscuità in cui il senso di sé, assediato, vacilla? Come si spera, nei raggi fatiscenti e strapieni di san Vittore?

Dal Veneto un detenuto racconta on-line che la sua cella pullula di scarafaggi. Lui una notte ne mette in fuga una famiglia, e ne fa prigioniero uno. Lo chiude in un bicchiere; si fa, di quell’insetto, secondino. Ma, poi, comincia a parlargli. Il miserabile prigioniero infine gli fa pena, e lo libera. Breve storia di sapore kafkiano in un carcere italiano. Per chi la legge, un pugno nello stomaco. Uomini o no, in quelle celle? Uomini, sempre. Ma è come se tra quelle mura proprio questa certezza radicale venisse ad essere incrinata.

Giustizia: il piano carceri da un miliardo e mezzo? nel cassetto

 

Il Tempo, 10 settembre 2009

 

Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, ha consegnato al ministro Alfano un programma elaborato in ogni dettaglio con cifre, date e numeri per affrontare non solo l’emergenza di oggi, come sottolinea il capo del Dap nella sua relazione, ma per gestire il futuro "ottimizzando strutture e risorse umane". Su scala nazionale gli interventi consentiranno di avere a disposizione 17.129 nuovi posti complessivi. La spesa prevista è di un miliardo e mezzo.

Il piano studiato da Ionta con estrema meticolosità prevede sia la realizzazione di nuove strutture penitenziarie sia l’aumento della capienza di quelle esistenti. La premessa del rapporto di Ionta è quanto mai dura su quello che è stato fatto finora. Infatti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nonché commissario straordinario per l’emergenza, scrive che l’intervento "si è reso necessario data la protratta incapacità amministrativa di far fronte alla progressiva implementazione della popolazione detentiva tenuta a partire dall’epoca immediatamente successiva all’indulto".

Ovvero si sono persi due anni e si è utilizzato uno strumento, l’indulto, che non ha fatto altro che rimettere in libertà delinquenti che hanno aggravato la situazione della sicurezza e sono tornati poi in cella. Un dossier che individua strutture, quantifica costi e tempi di realizzazione. L’emergenza impone che il rapporto redatto da Dap sia preso immediatamente in considerazione e messo in pratica onde evitare alibi per nuovi atti di clemenza al solo scopo di svuotare le carceri.

O peggio continuare nel "non fare" e ogni giorno tenere la tragica contabilità di morti più o meno auto-provocate. Non è più tempo di tenere carte nel cassetto. Il piano carceri fa riferimento a un maggiore ricorso alla tecnologia così da adeguare alcune strutture alleggerendo l’impegno del personale. Questo è un vecchio cavallo di battaglia dell’ex ministro Castelli che si ispira agli istituti detentivi americani. Le linee di intervento prevedono, per accelerare i tempi, contenuti in tre anni, di realizzare padiglioni detentivi modulari all’interno delle cinte delle carceri preesistenti. Questo tipo di interventi dovrebbe essere più rapido visto che è a totale competenza del Dap, salvo trovare le risorse economiche necessarie.

Denaro che nel piano dovrebbe essere recuperato dalla Cassa delle Ammende che però risulta alquanto prosciugata; dai fondi Fas, fondo aree sottoutilizzate; dalla finanza di progetto, dalla Cassa Depositi e Prestiti. Altri soldi possono essere recuperati dalla cessione di immobili non utilizzati o non più adeguati alle esigenze attuali. Per quanto riguarda invece la realizzazione di nuovi prigioni, vengono indicate le zone dove queste dovrebbero essere edificate. Roma, Milano, Napoli e Catania sono le aree metropolitane scelte per necessità "numerica".

In questo caso però è necessario l’intervento del ministero delle infrastrutture. La sfida del piano presentato da Franco Ionta, già magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo interno e internazionale, è quella di realizzare "in tempi ragionevolmente brevi" 46 nuovi padiglioni, di ristrutturare un istituto di pena così da attivarlo e 9 nuovi istituti detentivi. Tutto questo, si sostiene, attraverso interventi già coperti da finanziamenti o con fondi già individuati.

L’ultimazione di questi primi interventi viene datata tra la fine di quest’anno e il giugno del 2010. È il caso della casa circondariale di Cuneo dove un nuovo padiglione con 200 posti sarà consegnato questo dicembre e a Trento dove un nuovo istituto già finanziato vedrà il fine lavori nell’estate dell’anno prossimo. E per esempio nel Lazio a Velletri il nuovo padiglione "modulare" con 200 posti previsti, dovrebbe entrare in funzione il primo ottobre.

A Frosinone altri 200 posti cella entro dicembre 2010. In totale nel Lazio nel 2012 è prevista un aumento della capienza pari 2.909 posti. Sempre che tutto il via al piano venga dato in tempi ragionevoli. Nel piano non si tralascia la realizzazione presso gli istituti di pena di Cagliari e Sassari di padiglioni studiati per ospitare detenuti sottoposti al regime 41 bis. Gli interventi di ampliamento saranno destinati principalmente a detenuti con sentenze passate in giudicato. Ionta non esclude, cosa che aveva scatenato polemiche e ilarità, strutture detentive galleggianti provvisorie. Ma il piano sottolinea anche la necessità di un incremento del personale della polizia penitenziaria auspicando anche un programma straordinario di assunzioni.

Giustizia: Sami Mbarka Ben Gargi... la "morte di un numero"

di Patrizio Gonnella

 

www.linkontro.info, 10 settembre 2009

 

Sami Mbarka Ben Gargi, detenuto tunisino, è morto dopo un lungo sciopero della fame durato oltre cinquanta giorni. Contestava l’accusa di violenza sessuale. In quel periodo ha perso ventuno chili. Pare che nei cinquanta giorni in cui si è astenuto dal mangiare sia stato tenuto sotto controllo medico. La Corte di Appello di Milano non lo aveva ritenuto così grave da concedergli la sospensione della pena.

Non è invece chiaro cosa sia accaduto a Sami Mbarka Ben Gargi dopo un primo rifiuto di ricovero all’esterno disposto dal magistrato di sorveglianza.

La questione dello sciopero della fame dei detenuti è una questione complessa. Pone almeno un paio di domande tra loro interrelate. Fino a che punto una persona è libera di autodeterminarsi? Fino a che punto esiste il dovere del custode di assicurare l’integrità personale dell’essere umano affidato alla sua custodia per legge?

Alla prima domanda sono legate almeno un paio di osservazioni: 1) dal versante giuridico l’articolo 32 della Costituzione protegge le scelte individuali estreme in quanto inequivocabilmente recita: "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana." La legge prevede il trattamento sanitario obbligatorio (Tso) solo nei casi in cui la persona è incapace di intendere e volere. Il Tso è disposto dal Sindaco su richiesta del medico. Le autorità penitenziarie possono al massimo sollecitarlo; ciò significa che una persona nel pieno della sua coscienza è libera di non mangiare anche se detenuto fino alle estreme conseguenze; 2) dal versante etico lo sciopero della fame, quale tecnica di tutela dei diritti umani, è accettabile solo se va a proteggere un diritto di almeno pari valore rispetto a quello messo in discussione con l’astensione prolungata dal cibo. La giustizia equa è un diritto di primo livello in base alla nostra Costituzione e alle Carte internazionali. Pertanto è eticamente accettabile lasciarsi morire per difendere la propria libertà.

Alla seconda domanda sono connesse più di una affermazione: a) il dovere di custodia non può arrivare sino all’alimentazione forzata dei custoditi altrimenti si priverebbe loro la possibilità di esercitare legittime forme di protesta. In una condizione di privazione della libertà di movimento le forme della protesta sono ovviamente limitate.

Bobby Sands morì di inedia dopo sessantasei giorni di sciopero della fame. Molti furono i detenuti turchi che protestarono fino alla morte pur di non essere trasferiti nelle carceri speciali. Lo sciopero fu definito sciopero della morte. Le organizzazioni per i diritti umani difesero la libera scelta dei detenuti che in questo modo fecero conoscere la loro storia al mondo; b) il dovere di custodia presuppone un obbligo di verifica delle condizioni di salute della persona ristretta, nonché di offerta di supporto psicologico e sanitario.

Tirando le somme, nessuno può interferire sulla libera e cosciente decisione di un detenuto di morire di inedia. È però dovere di chi ha la custodia di quel detenuto ascoltarne le ragioni e assicurargli tutto l’aiuto possibile. Il caso del detenuto tunisino più che un caso di cattiva custodia è un caso emblematico di giustizia bendata nell’era del sovraffollamento delle prigioni. Oggi più che mai i provvedimenti sono presi dalla magistratura senza avere mai visto in faccia i loro condannati. Un detenuto tunisino è di solito considerato un numero. Oggi si parla della sua morte. Se i giornali avessero parlato della sua protesta prima che morisse forse oggi non sarebbe morto.

Giustizia: Pd su caso Ben Gargi; c’è la pena di morte di fatto

 

Asca, 10 settembre 2009

 

"Abbiamo appreso con sgomento della morte del detenuto tunisino Sami Mbarka Ben Gargi che si è lasciato morire per protesta nel carcere di Pavia. Il direttore medico dell’istituto commentando questo suicidio lungamente annunciato ha parlato di "facoltà di poter decidere" e di autodeterminazione mentre era dovere dell’autorità carceraria e/o giudiziaria quello di scongiurare questa tragedia". Lo dichiarano i deputati Pd Guido Melis e Donatella Ferranti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati.

"È una vergogna - proseguono Melis e Ferranti - che nelle carceri italiane continui questo insopportabile stillicidio di suicidi più o meno tollerati dalle strutture che dovrebbero fare di tutto per impedirli. Infatti, non è la prima volta che malati in condizione terminale vengono tenuti in cella senza che sia verificato tempestivamente il loro stato di salute. Nel carcere romano di Rebibbia, che abbiamo visitato a luglio di quest’anno insieme al Presidente del Partito dei Romeni in Italia, avvocato Giancarlo Germani, un detenuto romeno in attesa di giudizio, malato terminale di cancro, aspetta ancora, mesi dopo le richieste formali, che sia riconosciuto il suo diritto alle cure. Aggiungiamo che molti detenuti in quella stessa occasione hanno lamentato la mancanza di medicinali dovuta a disguidi burocratici del recente passaggio della sanità carceraria alle ASL.

Abbiamo perciò depositato in Commissione Giustizia un’interrogazione al ministro della Giustizia per accertare le cause e le eventuali responsabilità dell’accaduto. Non si può accettare che in un sistema democratico dove a norma di Costituzione è abolita la pena di morte, le deficienze strutturali, organizzative e funzionali possano condurre di fatto alla perdita della vita in carcere. È quanto mai necessario - concludono i due deputati - che il Governo affronti in maniera razionale ed efficace, e non più soltanto demagogica, le problematiche del sovraffollamento e del personale carcerario".

Giustizia: Udc; suicidio Ben Gargi interpella tutte le coscienze

 

Adnkronos, 10 settembre 2009

 

"Il lento suicidio di protesta del detenuto Sami Mbarka Ben Gargi nel carcere di Pavia deve in queste ore interpellare profondamente la coscienza di tutti i parlamentari e del ministro". Lo dichiara, in una nota, il parlamentare dell’Udc, Roberto Rao, componente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati.

"Non è più tollerabile - continua Rao - affrontare con gli spot l’emergenza carceri. Siamo convinti che questo drammatico episodio spingerà tutti fin dalla prossima settimana a lavorare senza distinzioni di schieramento su quei provvedimenti legislativi utili per dare una soluzione al problema: revisione del sistema di custodia cautelare, revisione del processo penale, celebrazione rapida dei processi, accordi internazionali per il rimpatrio dei detenuti stranieri". "Non è il tempo delle polemiche strumentali - conclude il parlamentare dell’Udc - ma quello dell’azione operosa ed è compito del governo e del ministro facilitare una comune convergenza legislativa che favorisca la soluzione del problema".

Giustizia: interrogazione sul detenuto morto suicida a Teramo

 

Agi, 10 settembre 2009

 

"Quando, oltre alla privazione della libertà, ti viene tolta ogni dignità di essere umano, è facile cedere alla sconforto e farla finita. Non è un caso, infatti, che nelle galere italiane i suicidi siano 20 volte superiori a quelli che avvengono fuori. E se chi rappresenta le istituzioni è consapevole che le carceri nostrane sono illegali - o, addirittura, fuori dalla Costituzione - ma non muove un dito per riportarle nella legalità, rischia di far divenire lo Stato un delinquente abituale". Lo dichiara la deputata radicale Rita Bernardini, membro della Commissione Giustizia, che oggi ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia Alfano sul suicidio del detenuto senegalese 32enne Khole Abib, avvenuto ieri nel carcere "Castrogno" di Teramo.

L’uomo era stato arrestato a marzo scorso con un’accusa di violenza sessuale, era in attesa di giudizio e si proclamava innocente. La deputata radicale si è rivolta al ministro della Giustizia affinché venga fatta luce su questa nuova morte, che giunge a soli tre giorni di distanza da quella di un altro detenuto: il tunisino deceduto a Pavia in seguito a un lunghissimo sciopero della fame. Questo nuovo grave episodio non fa che sottolineare ulteriormente l’urgenza di un’indagine sui decessi che avvengono tra i detenuti delle carceri italiane, inclusi i suicidi. Quello di Khole Abib è il 34° suicidio nelle carceri italiane dall’inizio del 2009.

Giustizia: Radicali; nel carcere di Torino caso di ordinaria follia

 

Il Velino, 10 settembre 2009

 

Martedì primo settembre nell’infermeria del carcere torinese Lorusso-Cutugno delle Vallette è morto, per arresto cardiaco, Carlo Esposito. 41 anni, bidello dell’istituto professionale Castigliano di Asti, molto conosciuto in città. Esposito viene arrestato il 24 giugno scorso per non essersi fermato con l’auto di piccola cilindrata all’alt dei carabinieri, insospettiti da alcune manovre azzardate del conducente.

È quanto si legge in un comunicato dei Radicali. Carlo Esposito, incensurato, risultava affetto da una serie lunga e grave di patologie quali: schizofrenia, diabete, ipertensione ed obesità, con un passato, certificato, di ischemie e di Tso (trattamenti sanitari obbligatori). Al Tribunale di Asti, nel celebrare, il 25 giugno, il rito per direttissima che sfocia in una condanna "esemplare" a 26 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, pare considerate le patologie fisiche e mentali dell’imputato. Patologie che vengono immediatamente evidenziate al carcere Quarto d’Asti, tanto che Esposito viene spostato con urgenza alle Vallette di Torino, nel reparto psichiatrico. Le cronache giornalistiche riferiscono che il detenuto avrebbe inviato lettere dal carcere torinese, denunciando che gli sarebbero stati somministrati farmaci diversi da quelli usati normalmente, non idonei o a dosaggi sbagliati, che comunque gli avevano procurato disturbi e malesseri.

Oggi, la senatrice radicale Donatella Poretti ha depositato a Palazzo Madama un’interrogazione dettagliata sul caso. Donatella Poretti, senatrice Radicale/Pd e Bruno Mellano, presidente di Radicali Italiani hanno dichiarato: "Si tratta di un caso esemplare dell’ordinaria follia della giustizia italiana. Davvero un caso eloquente ed eclatante. Anche per questo, abbiamo chiesto con l’interrogazione, che il ministro della Giustizia invii i suoi ispettori per verificare la dinamica dei fatti: a noi, dalle convergenti ricostruzioni giornalistiche, sembra veramente intollerabile che un cittadino incensurato e affetto da gravi patologie certificate possa finire in carcere per resistenza a pubblico ufficiale e uscirne morto. Occorre fare chiarezza sull’episodio, non solo per verificare le singole responsabilità, ma per conoscere e capire i meccanismi infernali che governano la macchina giudiziaria italiana".

Giustizia: Sappe; misure alternative e meno detenuti stranieri

 

Il Velino, 10 settembre 2009

 

"Le prigioni sovraffollate sono un problema europeo, non solo italiano, come dimostra il fatto che proprio il sovraffollamento penitenziario e la ricerca di soluzioni ad esso è il tema della XV Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie del Consiglio d’Europa che si apre oggi ad Edimburgo". È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alla XV Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie del Consiglio d’Europa che si apre oggi ad Edimburgo. "Il programma prevede la discussione sulla custodia dei detenuti stranieri e sulla gestione degli istituti penitenziari in condizioni di sovraffollamento e riteniamo che la prima e più grande Organizzazione sindacale della Polizia penitenziaria italiana possa e debba suggerire elementi di discussione. Nel nostro Paese l’allarmante situazione delle carceri sta determinando in molti istituti penitenziari tensioni tra i detenuti e inevitabili problemi di sicurezza interna che ricadono sulle donne e gli uomini della Polizia penitenziaria".

"Partiamo dal dato che al 7 settembre scorso c’erano nei 206 penitenziari italiani 64.179 detenuti, dei quali 23.785 (quasi il 38 per cento) stranieri. Rendiamo allora concreta la possibilità che questi stranieri scontino la pena nelle carceri del proprio Paese d’origine. Ancora - continua Capece - : si potenzi maggiormente il ricorso alla misure alternative alla detenzione prevedendo l’impiego del personale di Polizia penitenziaria negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, con il compito prioritario rispetto alle altre forze di Polizia sulla verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Aggiungo che espellere tutti gli stranieri in carcere, mandandoli a scontare la detenzioni nei Paesi d’origine, vuole anche dire un notevole risparmio di svariati milioni di euro al giorno per le casse dello Stato, costando un detenuto in media circa 250-300 euro al giorno. Spero - conclude Capece - che queste considerazioni possano essere elemento di discussione ad Edimburgo".

Giustizia: reato clandestinità; giudici di pace a rischio collasso

di Vittorio Grevi

 

Corriere della Sera, 10 settembre 2009

 

Bisognerà attendere la ripresa della normale attività giudiziaria, dopo la pausa feriale, per valutare quali siano i concreti effetti del nuovo reato di immigrazione clandestina, e se tali effetti corrispondano alle attese del legislatore, ispirate allo slogan della "tolleranza zero". Perché, al di là delle serie riserve che la previsione di tale reato ha suscitato sul piano della opportunità politica (oltreché, prima ancora, sul piano della sua legittimità costituzionale), molte e non lievi perplessità nascono circa la capacità del sistema di "reggere" le prevedibili ondate di denuncie che gli organi inquirenti dovrebbero scaricare (secondo i pronostici politici) sul tavolo dei giudici di pace.

Proprio di qui nascono i maggiori problemi. Si può ben comprendere, infatti, che per una contravvenzione tanto modesta, punita con la sola ammenda, sia stata individuata la competenza dei giudici di pace. Ma il legislatore non ha fatto i conti con le ben note inadeguatezze strutturali degli uffici di questi giudici, che già oggi riescono con enormi difficoltà a far fronte a tutti i procedimenti loro affidati. Per conseguenza, se davvero l’introduzione

del nuovo reato dovesse dare avvio alle decine di migliaia di nuovi procedimenti che si attendono (in proporzione alla entità del fenomeno dell’immigrazione clandestina), il risultato più probabile sarebbe quello della paralisi del funzionamento degli uffici dei giudici di pace.

È questo, però, un prezzo che la nostra giustizia non sarebbe in grado di sopportare. E poi, a quale scopo? Se si considera, infatti, che un immigrato clandestino denunciato per il (solo) nuovo reato sarebbe quasi sempre processato in sua assenza (non essendo ovviamente ammesso l’arresto); e che, d’altro canto, ove fosse condannato all’ammenda, di solito si guarderebbe bene dal pagarla, l’unico effetto del processo sarebbe quello di condurre alla sanzione della espulsione di quel soggetto. Ma poiché l’espulsione, in ipotesi del genere, già potrebbe essere disposta dal Prefetto in via amministrativa, sulla sola base della denuncia, non si vede proprio quali "benefici" potrebbero giustificare i gravi "costi" così scaricati sulla funzionalità della macchina giudiziaria.

Giustizia: interpreti e traduttori giudiziari... lo Stato non paga

 

www.cronacaqui.it, 10 settembre 2009

 

Quando due anni fa ha chiesto alla fidanzata di seguirlo in Canada, Mohamed non aveva ancora compiuto trent’anni. Non ne poteva più dell’Italia, non ne poteva più di promesse non mantenute, di garanzie puntualmente disattese, di bugie e menzogne che gli venivano rifilate con una naturalezza disarmante. Faceva l’interprete, Mohamed. Lavorava nel tribunale di Torino, tutti i giorni in aula a fornire assistenza a detenuti di nazionalità straniera che non parlavano la nostra lingua. Mohamed lavorava, lavorava sodo. Ma faceva una fatica enorme a ottenere i compensi che lo Stato italiano gli doveva per quelle sue presenze quotidiane in aula. Alla fine ha detto basta e se n’è andato. Adesso fa l’interprete in Canada, guadagna 50 dollari al giorno e gli spetta pure un bonus tutte le volte che partecipa a un’udienza.

Una favola, la sua. Una favola rispetto agli incubi cui era abituato qui da noi. Incubi che continuano a rovinare le notti di chi, invece, ha scelto di restare e sfidare i complessi ingranaggi della macchina burocratica di casa nostra. Una sfida che rischia seriamente di trasformarsi in sconfitta. Interpreti e traduttori sono infatti rimasti senza soldi, non prendono lo stipendio da febbraio e ancora non sanno quando arriverà il prossimo. Si parlava di settembre, ma adesso dal ministero della Giustizia fanno sapere che i fondi non ci sono, che denaro a disposizione non ce n’è. E intanto loro fanno la fame. Non riescono più a pagare l’affitto, il mutuo, le bollette. Persino la benzina. "Non prendo più l’auto - racconta uno di loro -, ho dovuto lasciarla sotto casa. Ora mi muovo in bici". E quando farà freddo? "Si vedrà". Indipendentemente dallo stipendio, comunque, loro in tribunale continuano a esserci. Tutti i giorni, sempre presenti, sempre puntuali. Attendono un segnale dallo Stato, chiedono che qualcuno si ricordi di loro. Aspettano ormai da sette mesi e sperano che il futuro regali loro qualche sorriso in più. Anche perché, francamente, peggio di così risulta difficile.

Giustizia: mandato d’arresto europeo, anche per furti di torte

di Paolo Bozzacchi

 

Italia Oggi, 10 settembre 2009

 

Furti di torte e di maiali, rottura dell’anta dell’armadio, cannabis nell’auto. I dati sul mandato d’arresto europeo svelano un’applicazione disomogenea nell’Ue e soprattutto lasciano l’impressione che esso venga utilizzato solo per reati di scarso rilievo.

Questo, in sintesi, il giudizio degli esperti Ue in materia, che hanno reso noti i dati di utilizzo 2008 di questo strumento di cooperazione giudiziaria, che tanto ha fatto discutere prima di essere introdotto nel 2002. A guidare la speciale classifica delle richieste di mandato di arresto europeo è la Polonia (4.829 nel 2008), che supera il doppio di quelle tedesche (2.149) e il quadruplo di quelle francesi (1.184). Seguono Ungheria (975), Spagna (623), Repubblica Ceca (494), Lituania (348), Slovacchia (342) e Finlandia (107).

Tra i principali paesi dell’Unione i grandi assenti che non hanno fornito i dati relativi allo scorso anno sono state le autorità giudiziarie italiane e britanniche. A prescindere dalla posizione di Roma e Londra, la singolarità dell’esito della graduatoria delle richieste di mandati nel 2008 desta l’impressione che le persone comuni, che si macchiano di reati bagatellari, quando processate da tribunali stranieri, rischiano più di personaggi che commettono reati molto gravi ma che sanno anche come difendersi.

Sebbene il mandato di arresto sia stato inizialmente presentato come una risposta agli orrori dell’11 settembre e come un incentivo per le operazioni di polizia transnazionali e per la cooperazione giudiziaria, l’applicazione di questo sistema è diventata quanto mai disomogenea. Lo stesso Guardian ha riportato come il sistema giudiziario britannico abbia fronteggiato un forte aumento delle richieste di estradizione fatte per mezzo del mandato Ue da parte della Polonia, di cui molte riguardavano reati del tutto insignificanti, come il furto di una torta, o la rimozione da parte di un operaio di un’anta dell’armadio di un cliente che non lo aveva pagato.

Ancora più "singolare", la richiesta da parte della Lituania legata al furto di un maialino. Sta di fatto che la classifica delle richieste di mandati d’arresto lascia intendere che la Polonia potrebbe continuare a considerare anche i furti di bignè alla crema "una minaccia alla sua civiltà". E le oltre 13 richieste al giorno per 365 giorni all’anno (sabati e domeniche compresi) lo testimoniano chiaramente. Inoltre c’è da sottolineare come delle 4829 richieste polacche solo 617 siano state effettivamente accolte dai paesi destinatari (circa una ogni 8).

Fra i temi che animano il dibattito sull’utilizzo del mandato d’arresto europeo tiene ancora banco la reciprocità. L’Italia, per esempio, l’ha da tempo introdotta, e così risponde alle richieste dei paesi che già accolgono quelle del nostro paese. Ma non è così per altri paesi membri, primo fra tutti la Grecia. Gli esperti europei sono ancora divisi in materia, perché da un lato rimproverano Atene per non avere introdotto alcun meccanismo di reciprocità, mentre al tempo stesso ammoniscono Roma che "rallenta il sistema delle estradizioni per averla introdotta".

Intanto si creano dei precedenti per lo meno imbarazzanti, come quello della londinese Deborah Dark. Assolta 20 anni fa per un reato di droga commesso in Francia, le era stata trovata della cannabis nell’auto di proprietà, che poi il tribunale transalpino accertò essere di proprietà di un suo amico. Avendo trascorso in carcere gli otto mesi e mezzo precedenti il processo, la storia sarebbe dovuta finire lì. Ma dopo il ritorno della Dark in Inghilterra, il caso andò in Corte d’appello, e nel 1990 la ragazza fu condannata a sei anni di carcere, senza che nessuno la informasse della sentenza. La Dark ha scoperto che la Francia voleva la sua estradizione solo nel 2007, quando è stata arrestata all’inizio di una vacanza in Turchia. E dato che non esiste ancora una scadenza per i mandati d’arresto, il suo inferno continua. Il caso è la riprova che il sistema del mandato di arresto europeo può sì

funzionare in paesi con ordinamenti giudiziari diversi, ma a patto che un sistema unico ne garantisca delle tutele rigorose. E proprio di queste tutele si sta occupando il gruppo di esperti istituito dall’Unione europea. La presidenza di turno svedese ha perciò proposto una road map per sanare i vulnus del mandato. Ma come Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno già denunciato, l’estradizione non sembra in cima alla lista delle priorità di Stoccolma, ed è quindi difficile prevedere che si facciano rapidamente dei passi in avanti. Secondo la normativa europea vigente le autorità giudiziarie di uno stato membro dell’Ue possono emettere il mandato d’arresto europeo per una persona accusata di un reato punibile con una pena detentiva minima di un anno o già condannata a una pena detentiva non inferiore a 4 mesi.

Fra questi reati figurano, per esempio, latitanza, latitanza dopo il rilascio su cauzione nel proprio paese, evasione. Il mandato d’arresto europeo è più rapido e semplice dell’estradizione. E i governi devono consegnare i sospetti entro tre mesi (90 giorni) dall’arresto.

Il mandato d’arresto europeo ha abolito la doppia incriminazione per 32 categorie di reati gravi, fra cui terrorismo, tratta di esseri umani, pornografia infantile e sfruttamento sessuale, commercio illegale di armi, corruzione e frode, che nel paese di emissione del mandato sono puniti con una pena non inferiore a tre anni. Per gli altri tipi di reati resta ancora in vigore la norma della doppia incriminazione.

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 10 settembre 2009

 

Noi donne detenute a s.m. Capua Vetere

 

Cara Radiocarcere, siamo delle detenute ristrette nel lager di S.M. Capua Vetere. Diciamo lager a causa delle condizioni di vita a cui siamo costrette. Infatti dentro ogni cella siamo costrette a viverci in 10 donne, con un solo bagnetto. Passiamo circa 20 ore chiuse in questa cella.

Come se non bastasse il vitto che ci danno è a dir poco cattivo e i materassi dove dormiamo sono ridotti ai minimi termini. Il rispetto per la nostra salute qui non esiste. Per citare solo un esempio tre mesi fa una nostra compagna è andata dal medico perché soffriva dei fortissimi dolori ai reni. Il medico, senza neanche visitarla, le ha detto che doveva camminare al sole. Beh, dopo tre mesi di sofferenze alla fine l’hanno visitata e hanno scoperto che aveva i calcoli ai reni. E questo è solo un esempio. Inoltre gli educatori, che devono farci la relazione comportamentale, non si occupano di noi con il risultato che il Tribunale di Sorveglianza non può decidere se concederci o meno misure alternative. Vi sembra normale? Ah! Dimenticavamo La battitura delle sbarre! Tre volte al giorno alcuni agenti entrano in cella e battono contro le sbarre per vedere che siano sane, che se continuano così fa a finire che le buttano giù loro stessi le sbarre.

 

Tre notizie dal carcere di Fossombrone

 

Caro Arena le racconto tre episodi che sono accaduti qui nel carcere di Fossombrone. Il primo: un detenuto per mancanza di spazio nelle celle, è stato messo in una stanzetta senza servizi igienici. Beh deve sapere che dopo alcuni giorni quel detenuto ha cercato di uccidersi e ora non sappiamo che fine abbia fatto.

Ed ancora. L’altro giorno mentre facevamo l’ora d’aria un nostro compagno ha perso i sensi, noi abbiamo chiesto aiuto e, dopo mezz’ora, è arrivato un infermiere che ci ha detto di portare in spalla il nostro compagno perché la barella non entrava nella porta del cortile. Quel ragazzo si è ripreso, ma noi ci siamo chiesti: se era un infarto cosa poteva accadere?

Il terzo è forse il più grave episodio accaduto qui. Un detenuto tunisino è stato malmenato nella sua cella perché aveva infastidito l’agente di turno con l’insistente richiesta di poter parlare con il comandante. Le dico che dopo tre giorni gli imbianchini stanno ancora rimuovendo le tracce di sangue lasciate sulle parti. Pare che l’agente abbia colpito più volte quel detenuto con il martello usato per la battitura delle sbarre. Qui nel carcere di Fossombrone alcuni dicono che quel ragazzo è in ospedale, altri dicono che sia morto. Magari attraverso Radiocarcere potremo riuscire ad avere notizie. La saluto con grande stima.

 

Angelo dal carcere di Fossombrone

 

Ci appelliamo al Presidente Napilitano

 

Siamo un gruppo di detenuti del carcere di Frosinone e siamo costretti a vivere in 5 detenuti dentro celle piccolissime. Celle in cui rimaniamo chiusi per più di 20 ore al giorno. Il carcere ci lascia nel più completo abbandono, ci chiudono in queste celle fatiscenti e nessuno si cura nel modo in cui siamo costretti a vivere. Anche quando ci dobbiamo fare la doccia è un dramma. Infatti qui nel carcere di Frosinone ci sono solo 3 docce che devono essere utilizzate da 50 detenuti. Per il resto, viviamo nella sporcizia, siamo invasi dai topi e ogni giorno siamo anche condannati alla puzza che c’è qui.

Per i detenuti che sono malati poi è davvero un’odissea farsi curare. Infatti mancano le medicine e molti di noi soffrono e non vengono curati. Manca anche il personale, pensate che in tutto il carcere di Frosinone c’è un solo educatore. Non abbiamo possibilità di lavorare, né di imparare il lavoro. Vorremo rivolgere un appello al Presidente Napolitano, affinché solleciti questo governo ad adottare soluzioni rapide ed efficienti per risolvere la grave situazione in cui versano le carceri italiane. Aggiungiamo che noi detenuti siamo consapevoli che dobbiamo scontare la nostra pena, ma chiediamo solo di scontarla in modo umano e dignitoso così come prevede la Costituzione.

 

40 persone detenute nel carcere di Frosinone

 

L’inferno del carcere di Ragusa

 

Carissimo Arena, qui nel carcere di Ragusa si sta davvero malissimo. Siamo più di 320 detenuti quando dovremo essere solo 150. Pensa che con il caldo che fa manca addirittura l’acqua. Infatti per 2 volte al giorno e per parecchie ore l’acqua non esce dal rubinetto. Inoltre le pareti della nostra cella sono piene di umidità, le docce non funzionano da circa 4 mesi e sono ricoperte dal muschio. Viviamo in una cella tanto piccola che viene chiamata: cubicolo e dentro ci stiamo in 3. Praticamente è una celletta larga 2 metri e lunga 3.

Dormiamo su un letto a castello a 3 piani e il bagno non è separato dalla cella, tanto che noi ci abbiamo messo un lenzuolo per avere un po’ di privacy quando facciamo i bisogni.

Poi c’è una piccolissima finestra e fuori una bocca di lupo a fare da copertura. Alla finestra, oltre che alle sbarre, c’è anche una fitta rete metallica e noi non riusciamo a vedere il cielo né di giorno né di notte. Vorremo tanto che qualcuno delle personalità di alto livello che si occupano di queste cose facesse qualcosa per noi, perché non è giusto farci vivere così. Come se non bastasse noi siamo di Napoli e a causa della distanza non possiamo incontrare i nostri familiari. Ora concludiamo portandoti i saluti di tutti i detenuti del carcere di Ragusa e forza Radiocarcere!

 

Eduardo e Luigi dal carcere di Ragusa

Como: dopo protesta degli agenti trasferiti ventina di detenuti

 

Corriere di Como, 10 settembre 2009

 

La protesta degli agenti del Bassone sortisce i primi effetti: una ventina di detenuti è stata trasferiti in altre carceri. La casa circondariale ospita adesso 518 persone contro le 540 di qualche giorno fa. Ieri il Bassone è stata visitato dal parlamentare lariano Nicola Molteni (Lega Nord), che al termine del giro tra le celle ha annunciato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per chiedere più agenti e una soluzione ai problemi strutturali del carcere. Gli agenti, attorno a Ferragosto, avevano gestito una violentissima protesta dei detenuti contro il sovraffollamento: quattro giorni d’inferno, con un gruppo di carcerati andato ben oltre le forme civili di dissenso.

Una volta sedata la protesta, gli agenti - tramite le maggiori organizzazioni sindacali - avevano scritto una lunga lettera all’amministrazione penitenziaria e ai politici locali, lamentando problemi di sovraffollamento e carenza di personale e criticando anche alcune recenti concessioni ai detenuti, come l’apertura del blindato (uno dei due cancelli che chiude la cella) durante la notte. I sindacati parlavano di "condizioni al di sotto del livello di incoscienza".

Ieri, il primo risultato. "Dal dipartimento non abbiamo ottenuto grandi risposte - dice Massimo Corti, rappresentante della Cisl e sovrintendente di polizia penitenziaria al Bassone - ma venti detenuti sono stati spostati altrove. È una piccola boccata d’aria temporanea: in altre carceri i colleghi si lamenteranno, giustamente, e prima o poi i detenuti torneranno qui".

"Ho trovato conferma di tutti i problemi evidenziati dagli agenti - ha detto Nicola Molteni, al termine della visita - Innanzitutto, è strano che una struttura del 1985 sia già, in alcuni punti, degradata. Ho notato in particolare la condizione di alcune docce e le infiltrazioni d’acqua. La polizia penitenziaria di Como è poi sotto organico di 82 agenti. In alcuni casi, chi vince il concorso qui chiede subito il trasferimento al Sud, soprattutto in Campania.

E questo fenomeno andrebbe evitato. Sul Bassone - annuncia Molteni - presenterò un’interrogazione parlamentare al ministro Alfano e chiederò lumi all’amministrazione penitenziaria. Non dimentichiamo che una sezione di 25 celle è ancora chiusa per ristrutturazione, e che esiste un’aula bunker inutilizzata che potrebbe essere attrezzata per i detenuti in semilibertà". Per risolvere il sovraffollamento, Molteni rilancia una vecchia battaglia della Lega: "Al Bassone il 50-60% dei detenuti è straniero. Questi detenuti devono scontare la pena nel loro Paese".

Trani: l'Osapp; si facciano rientrare tutti gli agenti in mobilità

 

Ansa, 10 settembre 2009

 

Da tempo l’Osapp segnala, comunica, partecipa e protesta sulle condizioni del Penitenziario di Trani, così come sulla gestione organizzativa del medesimo: un solo plesso detentivo (la restante area detentiva è ancora oggetto di lavori di ristrutturazione) ospiterebbe anche 280 reclusi quando la capienza dell’intera struttura dovrebbe aggirarsi intorno alle 220/250 unità.

Ci opponiamo anche al continuo e non più giustificabile trasferimento di unità di Polizia Penitenziaria maschile e femminile in distacco a qualsiasi titolo fuori sede o addirittura, come nella recente mobilità nazionale sud/nord per le carenze degli Istituti di quelle zone.

Tale situazione nel tempo ha lasciato una profonda carenza di personale di polizia. Il personale effettua turni fino a quindici ore continuate di servizio ed in questi giorni ha interrotto i pochi giorni di ferie, richiamato dai riposi settimanali con turni stressanti e massacranti l’uno sull’altro senza alcuna pausa. In questo momento delicatissimo per la sede di Trani, bisogna intervenire con urgenza disponendo, senza ulteriore indugio, il rientro immediato a qualsiasi titolo del personale distaccato presso altre sedi.

 

Domenico Mastrulli

Vice segretario generale Osapp

Augusta (Sr): situazione è grave; in pericolo agenti e detenuti

 

La Sicilia, 10 settembre 2009

 

La questione relativa al sovraffollamento dei detenuti nonché alla carenza di organico nella casa di reclusione di Augusta, torna a galla a seguito di un grave episodio di violenza verificatosi lo scorso lunedì. "Un assistente capo in servizio presso l’ingresso di un blocco detentivo è stato aggredito da un detenuto extracomunitario che lo ha colpito con calci e pugni per futili motivi".

È quanto denuncia la Federazione sindacati autonomi - Cnpp (coordinamento nazionale di polizia penitenziaria) che, nell’esprimere solidarietà al collega aggredito evidenzia ancora una volta i problemi che penalizzano la struttura. "Il sovraffollamento attuale della popolazione detenuta, il caldo asfissiante, l’annosa questione della mancanza d’acqua e della grave carenza dell’organico della polizia penitenziaria di oltre 100 unità, sempre più rimarcata, le gravi condizioni strutturali dell’intero complesso detentivo che necessita di interventi di ristrutturazione e di adeguamento alle nuove norme dettate dall’ordinamento penitenziario-dice Massimiliano Di Carlo, segretario provinciale della Fsa-Cnpp - costituiscono un mix esplosivo che rende di certo non felici le condizioni di vivibilità del carcere di Augusta, con conseguenti tensioni e criticità che spesso sfociano in atti di violenza come quello accaduto. Il Cnpp aveva valuterà unitamente alle altre organizzazioni sindacali di categoria quali forme di protesta mettere in campo per garantire la sicurezza ed i diritti della polizia penitenziaria che si trovano ad operare in condizioni inaccettabili".

Napoli: lavori aula bunker di Poggioreale, appaltati a camorra

 

Il Mattino, 10 settembre 2009

 

Un incidente di percorso a luglio, con l’esclusione per mancanza di requisiti minimi sulla tipologia dei lavori da effettuare. Lo stop a settembre, per vizi antimafia. Tra le sedici ditte ammesse al grande appalto per la ricostruzione post-terremoto a L’Aquila, la "Fontana Costruzioni spa" non c’è più. L’impresa che si era aggiudicata un lotto della commessa da 400 milioni di euro, è stata esclusa dalla Protezione civile qualche giorno fa, quando dalla prefettura abruzzese è arrivato l’altolà. L’informativa antimafia trasmessa dall’ufficio territoriale di governo di Caserta, infatti, la inserisce nella lista nera: tra le società, cioè, che hanno rapporti opachi con ambienti della criminalità organizzata. Nello specifico, con il clan dei Casalesi. Anzi, con la famiglia di Michele e Pasquale Zagaria. Ma lo screening sulle commesse aggiudicate dall’impresa di San Cipriano d’Aversa sta riservando ben altro.

La partecipazione alla gara dell’Aquila risulta essere, infatti, solo la parte mediaticamente più visibile di un portafoglio lavori di tutto rispetto e consistenza, con la presenza massiccia anche in cantieri pubblici finanziati dal ministero della Giustizia e dell’Interno. Una beffa? La Dda di Napoli e il Gico della Guardia di Finanza ci stanno già lavorando, e i primi risultati delle indagini si stanno rivelando clamorosi.

La "Fontana Costruzioni", con sede a San Cipriano d’Aversa in via Salvatore Vitale (stessa strada in cui risulta domiciliato il capo latitante dei Casalesi), risulta aggiudicataria - in associazione temporanea con un’altra impresa - dei lavori per la ristrutturazione delle aule bunker del carcere di Poggioreale, le stesse nelle quali vengono celebrate le udienze dei processi contro i clan camorristici campani e che hanno ospitato il processo di appello Spartacus.

E non basta. La stessa ditta sta lavorando alla ristrutturazione e alla riconversione di uno dei fabbricati dell’ex parco Rea, oggi Parco Sole, a Giugliano, confiscati al camorrista e usuraio Francesco Rea. Appalto finanziato con i fondi del Pon sicurezza, dieci milioni di euro. L’immobile fa parte del blocco in cui hanno sede le nuove caserme (quella della Guardia di Finanza è stata inaugurata nel 2007) e che potrebbe essere destinato a ospitare la cittadella giudiziaria di Giugliano. Altri appalti pubblici, per opere infrastrutturali, sarebbero stati aggiudicati alla stessa "Fontana Costruzioni" anche a Ponticelli e Soccavo.

L’accertamento sulla solidità imprenditoriale e finanziaria della ditta e sul suo "certificato di origine" ha segnalato alcune anomalie ritenute di notevole interesse investigativo. Il capitale sociale non risulterebbe avere una provenienza trasparente. Sarebbe originata, secondo voci raccolte dagli stessi apparati investigativi a San Cipriano d’Aversa, da una consistente vincita al lotto. Né risulterebbe lineare la trasformazione dell’impresa da società a responsabilità limitata a Spa.

La società, indicata espressamente come "vicina al clan Zagaria" per conto del quale effettuerebbe operazioni di riciclaggio, attualmente è costituita da Luigi Fontana, di Casapesenna, e dai figli Elvira e Nicola. Il collegamento con la famiglia Zagaria sarebbe un consorzio, il Cogeimtec, del quale risulta essere socio il cognato di Michele Fontana, lo "sceriffo" cugino di Michele e Pasquale Zagaria che per loro conto, gestiva i rapporti con la Regione Campania all’epoca degli appalti per l’Alifana, e con Imma Capone, imprenditrice e camorrista, uccisa qualche anno fa in un agguato.

Se quanto emerso dalle prime indagini dovesse essere confermato, la "Fontana Costruzioni spa" avrebbe preso il posto, in buona sostanza, della costellazione di imprese casalesi che tra il 2003 e il 2006 avevano stretto rapporti con le pubbliche amministrazioni emiliane, tentato di mettere le mani sulle Grandi opere infrastrutturali e reinvestito in Lombardia. E che ora avrebbero cercato di ripartire, con nel 1984, dal cemento del dopo terremoto.

Immigrazione: la destra ha idea italianità ferma a anni trenta

di Gad Lerner

 

La Repubblica, 10 settembre 2009

 

A furia di inseguire consensi promettendo "meno stranieri" Berlusconi e Bossi rifiutano l’idea che possano esserci "più italiani" e "nuovi italiani". La loro idea di italianità è ferma agli anni Trenta.

Se un cittadino dalla pelle non perfettamente candida aspirasse a incarichi politici in Italia, sarà meglio che ci ripensi. "Non vorrei tra cinque anni e un mese trovarmi un presidente abbronzato", ha dichiarato Roberto Calderoli l’altra sera a Treviso.

Il ministro leghista si era già distinto per un’analoga sortita nei confronti della sua concittadina italiana Rula Jebreal. Imitato dal presidente del Consiglio che rivolse la stessa "carineria" a Barack Obama. Tali affermazioni desterebbero scandalo se pronunciate da uomini di governo in qualsiasi altro paese occidentale. E delineano, all’interno della maggioranza di centrodestra, una spaccatura su principi della massima rilevanza per il futuro della nostra democrazia. Chi ha diritto a essere considerato italiano, e quali devono essere le procedure di ottenimento della cittadinanza?

La proposta di legge che divide la destra è stata presentata in Commissione Affari Costituzionali da Fabio Granata (Pdl) e da Andrea Sarubbi (Pd). Le modifiche mirano ad abbreviare da dieci a cinque anni il periodo di residenza continuativa necessario per ottenere il passaporto italiano a un immigrato che dimostri inoltre stabilità di reddito e una sufficiente conoscenza della lingua. Granata e Sarubbi propongono ancora che venga naturalizzato il minore nato in Italia da stranieri, se uno dei genitori vi soggiorna da cinque anni; così come il minore che abbia completato un percorso scolastico nel nostro paese.

Quando poi il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha ribadito la sua idea di attribuire il diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti da almeno cinque anni sul territorio nazionale, Umberto Bossi ha reagito dandogli del "matto". Ma più pesante ancora giunge il no di Silvio Berlusconi a concedere la cittadinanza e il diritto di voto amministrativo agli stranieri: "Io difendo la sicurezza di tutti, evitando che la sinistra apra le frontiere, per poi concedere loro la cittadinanza e il diritto al voto, un subdolo stratagemma per garantirsi una futura preminenza elettorale".

È interessante notare che Berlusconi e Bossi non si limitano a definire prematura o frettolosa la revisione delle norme sulla cittadinanza. In più occasioni pubbliche questi leader della destra si sono dichiarati contrari all’idea stessa di una "società multietnica"; come testimonia anche la greve battuta di Calderoli sul pericolo di ritrovarci fra cinque anni e un mese con un "presidente abbronzato". Probabilmente non se ne rendono conto, ma con le loro parole stanno propugnando un ritorno all’indietro dai principi di cittadinanza così come li definì oltre due secoli fa la Rivoluzione Francese. Berlusconi e Bossi rigettano la teoria democratica secondo cui lo Stato-nazione è luogo di attuazione di diritti universali civili e politici. Da secoli a una nazione democratica non si appartiene più per mera discendenza, bensì per cittadinanza. Un passo avanti storico rispetto all’ideologia reazionaria Blut und Boden, "sangue e terra", perché la nazione non può venire ridotta al "pezzetto di terra dove si è nati e cresciuti" teorizzato da Justus Moser.

A furia di inseguire consensi promettendo "meno stranieri", Berlusconi e Bossi rifiutano l’idea che possano esserci "più italiani" e "nuovi italiani". La loro idea di italianità è ferma agli anni Trenta del secolo scorso: l’appartenenza razziale. Lungi dal farsi interpreti di un nuovo patriottismo, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dello Stato unitario, essi paventano come minacciosa l’eventualità che uno straniero possa diventare italiano se non per concessione arbitraria. La divergenza emersa all’interno della destra, quindi, non riguarda solo la volontà o meno di integrare gli stranieri residenti attraverso una politica lineare dei diritti e dei doveri. La prossima discussione parlamentare renderà manifeste due opposte nozioni di cittadinanza. Ma non facciamo finta che siano entrambe compatibili con una democrazia in cui vivono già quattro milioni di immigrati.

Immigrazione: tribunale di Pesaro; no a reato di clandestinità

di Anna Simone

 

L’Altro, 10 settembre 2009

 

Sospesa con ordinanza la carcerazione del senegalese Diouf Ibrahima. La parola ora alla Corte costituzionale.

Un fatto importante, il primo che mette in discussione il pacchetto sicurezza. fra le motivazioni riportate nella sentenza è che il reato di clandestinità collide con il principio di uguaglianza. Ora dobbiamo aspettare che la Consulta prenda posizione e sperare che blocchi il provvedimento razzista del governo.

Eppure Diouf, almeno per ora, in carcere non va perché la sua singolare esperienza migratoria in Italia ha consentito al Tribunale di Pesaro di emettere un’ordinanza attraverso cui si dichiara palesemente incostituzionale il nuovo reato a lui affibbiatogli. Adesso deve sentenziare la Corte Costituzionale. E speriamo tutti che dichiari incostituzionale al più presto la norma dello scandalo, l’abiura giuridica voluta da Maroni and company per criminalizzare ulteriormente, come se non lo fossero già abbastanza, i migranti presenti in Italia. Eppure questa straordinaria notizia non l’ha data giornale alcuno, solo noi. In fondo se neppure la morte di 73 eritrei ha scosso più di tanto i media, come avrebbe potuto scuotere un’ordinanza del Tribunale di Pesaro che potrebbe mandare felicemente a puttane

tutto lo sforzo "giuridico" fatto per confezionare il pacchetto dell’orrore? Senza mezzi termini il Tribunale in oggetto contesta, rimettendosi alla Corte Costituzionale per l’ultima sentenza, l’art. 10 del pacchetto dichiarandolo palesemente incostituzionale sui seguenti punti. Il reato di "clandestinità" notificato a Diouf collide con il "principio di ragionevolezza" che deve presiedere qualsiasi attività legislativa in materia penale, come previsto dalla Costituzione. Collide con il "principio di uguaglianza" e con il "principio di personalità della responsabilità penale" (artt. 3 e 27) poiché sanzionando penalmente tutti i migranti senza permesso di soggiorno si dà sfogo ad un’arbitrarietà enorme rispetto alla "pericolosità sociale", la quale, come è noto, deve essere accertata in concreto e con riferimento alle singole persone. In sintesi non può passare il principio secondo cui si "etnicizzano" dei reati andando a perseguire

gruppi di persone anziché singoli. Collide con il "principio della solidarietà" sempre imputabile alla nostra Costituzione, nonché con i principi affermati dal diritto internazionale (il famoso ius migrandi richiamato anche dall’UE). L’ordinanza, già trasmessa alla Corte Costituzionale, indipendentemente dall’esito che vedremo presto, sollevando d’ufficio la legittimità costituzionale del tanto vituperato reato, in realtà si muove anche su un piano che di fatto pone in contraddizione la firma al decreto di Napolitano con la stessa Costituzione di cui lui più dei legislatori dovrebbe essere garante. Inoltre si pone su un piano, quello del garantismo penale, che all’interno della selva oscura in cui siamo, ovvero la cosiddetta "crisi dello stato di diritto", se non proprio la fine, apre uno spiraglio di fiducia rispetto ad un’idea di giustizia del tutto slegata dal giustizialismo imperante, stile Di Pietro e Travaglio.

Non a caso non è stata proferita parola alcuna sull’accaduto neppure dai secondini dell’informazione e della politica che aprono bocca solo per pronunciare la parola "tribunale". Quando abbiamo commentato con sdegno e motivata rabbia l’ultimo pacchetto sicurezza, quando abbiamo titolato "Italia fai schifo" all’indomani della morte programmata dei settantatre eritrei ci sembrava financo inutile appellarci alla Corte Costituzionale, né pensavamo che un Tribunale ci sarebbe venuto prima o poi in soccorso. Certo, non possiamo non tener conto del fatto che molte sentenze della Corte Costituzionale intervengono quando già all’interno della cosiddetta opinione pubblica si è già creato un clima di paura e di indifferenza che ha nei fatti cambiato la cultura e l’antropologia del paese. Siamo

piuttosto consapevoli di quanto non siano altro che produttrici di un "simbolico" privo di presa reale sulla società - sia le sentenze della Cassazione, che quelle della Corte Costituzionale. Ma in un momento in cui financo i movimenti sembrano morire dietro forme ideologiche astratte e prive di qualsivoglia forma di principio di realtà (a che serve parlare di leggi razziali se poi non si è in grado di organizzare nemmeno la più banale tra le lotte?) il gesto del Tribunale di Pesaro non può che apparirci straordinario nonostante sia solo legato alla necessità di ripristinare un piano di civiltà della cultura giuridica. Intanto, nell’attesa che si pronunci la Corte Costituzionale registriamo un dato fondamentale: Diouf Ibrahima non va in galera per volontà di Maroni.

Immigrazione: affittare ai clandestini? fino a 3 anni di carcere

di Stefano Manzelli

 

Italia Oggi, 10 settembre 2009

 

Lo straniero espulso che si trattiene illegalmente in Italia può essere punito per il nuovo delitto di reingresso solo se destinatario anche di un ordine di allontanamento notificato dopo l’8 agosto 2009. Attenzione poi ad affittare un immobile ad un clandestino anche se successivamente regolarizzato. Se l’importo richiesto per l’alloggio supera i valori di mercato si rischia la reclusione fino a 3 anni. Lo ha chiarito la Procura di Lecco con la circolare n. 1148 del 31 agosto 2009.

Il pacchetto sicurezza, ovvero la legge n. 94/2009 entrata in vigore da circa un mese, ha modificato sostanzialmente anche la disciplina degli stranieri contenuta nel testo unico n. 286/1998. Nell’immediata vigenza della riforma anche la procura di Lecco ha diramato le prime istruzioni operative riferite però solo al nuovo reato di immigrazione clandestina. Con questa nuova circolare la procura intende invece fornire un panorama complessivo sulla novella appena entrata in vigore, dal punto di vista dell’operatore di polizia giudiziaria.

È stato innanzitutto riformulato il testo ed aggravata la pena per lo straniero che non ottempera all’ordine di esibizione di documenti attestanti la regolarità della sua presenza in Italia, specifica la nota. Inasprite le disposizioni contro l’immigrazione clandestina. La responsabilità penale prevista dall’art. 12 del dlgs 286/1998 è stata estesa anche nei confronti di chi promuove, dirige, organizza e in qualche modo sostiene il trasporto di stranieri in Italia. Le circostanze aggravanti già previste nella precedente disciplina circa le modalità di trasporto sono state trasformate dalla novella in circostanze aggravanti ad effetto speciale "comportanti cioè una pena autonoma rispetto a quella prevista per il reato non aggravato".

La pena è poi ulteriormente aumentata, prosegue la procura, se l’ingresso illegale è finalizzato a reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento lavorativo o minorile ovvero al fine di trarne profitto anche indiretto. In questi casi è sempre obbligatorio l’arresto in flagranza di reato, la confisca del mezzo di trasporto e verrà applicata anche la custodia cautelare, salvo non sussistano esigenze cautelari, mentre non è più necessario ricorrere al giudizio direttissimo. Novità anche per chi cede un alloggio ad un clandestino.

Se al momento della stipula o del rinnovo del contratto lo straniero risulta privo del titolo di soggiorno scatterà la reclusione da sei mesi a tre anni. La riforma, specifica l’istruzione, "presuppone che l’autore sia consapevole della situazione di illegalità in cui versa. lo straniero, ma circoscrive tale consapevolezza al momento della stipula del contratto ovvero a quello successivo del rinnovo a nulla rilevando le modifiche della situazione dello straniero intervenute successivamente. E richiesto, comunque, che egli abbia agito per conseguire un ingiusto profitto e cioè con dolo specifico ad es. quando abbia percepito un canone di locazione sproporzionato rispetto al suo valore locativo".

Novità anche in materia di esecuzione dell’espulsione. Oltre ad essere penalmente sanzionata la permanenza con permesso scaduto senza richiesta di rinnovo (da effettuarsi entro 60 giorni), ne risponde davanti al tribunale anche chi non ottempera all’ordine di espulsione conseguente al rifiuto del permesso di soggiorno e a quello conseguente al trattenimento nel territorio dello stato oltre a tre mesi previsti per i soggiorni di breve durata.

Lo straniero già espulso che non ottempera all’ordine di allontanamento adottato dal questore sarà destinatario di un nuovo provvedimento di espulsione. In caso di inottemperanza scatterà l’ulteriore reato di reingresso anche se materialmente il soggetto non ha mai lasciato il territorio nazionale. Ma questa severa novità richiede almeno che il questore abbia adottato il nuovo provvedimento di allontanamento dopo l’8 agosto, data di entrata ih vigore del pacchetto sicurezza.

Immigrazione: rivolta ed evasione, dal Cie di Lamezia Terme

di Giuliano Santoro

 

Carta, 10 settembre 2009

 

Cinque marocchini ed un tunisino sono riusciti a fuggire dal Centro di identificazione ed espulsione di Lamezia Terme, dove erano detenuti. Tre di loro sono stati catturati. Hanno approfittato di una protesta che avevano messo in atto ieri sera. Storia di un Cie emblematico, nelle campagne calabresi.

Ancora un’evasione da un Centro di identificazione ed espulsione italiano. Ieri sera sei reclusi sono riusciti a scappare dal Cie di Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro. Pare si tratti di cinque marocchini e un tunisino. I sei sono riusciti a scavalcare l’alta rete di recinzione esterna del Centro. Gli agenti in servizio di vigilanza, per evitare che anche altri potessero seguirli, hanno lanciato alcuni lacrimogeni. L’evasione è avvenuta nel corso di una rivolta: i sei hanno approfittato per evadere. Sul posto sono poi intervenute diverse pattuglie di polizia e carabinieri che poco dopo hanno bloccato tre dei sei fuggitivi mentre cercavano di allontanarsi nelle campagne del lametino. Degli altri tre, invece, non si hanno notizie. Uno di loro era già riuscito a fuggire dal centro in un’altra occasione.

Risulta che anche ad agosto scorso c’erano state delle rivolte al Cie di Lamezia, in contemporanea a quelle scoppiate nei centri di Milano e Torino. Il centro di detenzione per migranti di Lamezia Terme ha una storia emblematica. Per di più, quel Centro ha una storia strana, e la cooperativa sociale che lo gestisce ha un nome beffardo: "Malgrado tutto".

Nata per creare una comunità di recupero per tossicodipendenti e diventata guardiana di un centro di permanenza temporanea, la storia della cooperativa di Lamezia Terme, città in provincia di Catanzaro la cui amministrazione comunale amministrata a fatica dal sindaco Gianni Speranza [Sinistra e libertà], che è stato eletto nonostante i partiti che lo sostengono non abbiano la maggioranza in consiglio comunale, dopo che l’amministrazione precedente di centrodestra era stata mandata a casa per infiltrazioni mafiose.

La storia del Cie di Lamezia è uno spaccato della storia delle "emergenze" nel nostro paese.

Tutto inizia nel dicembre del 1997. Sulle coste ioniche calabresi sbarcano centinaia di kurdi in fuga dall’esercito turco, e la risposta della società civile e delle istituzioni locali è semplice è straordinaria. Ai kurdi vengono aperte le porte delle case lasciate vuote dagli emigranti. Il centro storico del paese di Badolato, abbandonato da decenni, si riempie di nuovo. Ma in quei giorni accade anche altro. Raffaello Conte, presidente del centro di recupero per tossicodipendenti "Malgrado tutto", intuisce le nuove

possibilità, avvia un rapporto con la Protezione civile e trasforma la "comunità di recupero" in "centro di prima accoglienza". Il passo verso il vero e proprio Centro di detenzione è breve. La convenzione arriva nel 1999. È bastato allungare le sbarre fino a sei metri di altezza e far presidiare il posto dalle forze dell’ordine ventiquattro ore su ventiquattro. Si raddoppia il giro d’affari: con un centro di accoglienza si incassavano meno di 20 euro al giorno a persona "ospitata", per la gestione del Cpt, una retta giornaliera pro capite di 46 euro.

L’importo medio annuo che lo stato versava fino a qualche anno fa nelle casse di "Malgrado tutto"è di oltre un milione e 250 mila euro. Poi, sempre nel 1999, un’altra "emergenza umanitaria", che prenderà il nome di "Missione Arcobaleno", riempie i giornali. Raffaello e i suoi si mobilitano di nuovo per organizzare l’accoglienza dei profughi kosovari nell’ex base Nato di Comiso, in Sicilia. Dopo poco più di un anno, il benefattore fu arrestato per "distrazioni di materiale di vario genere" proprio nei giorni dell’accoglimento dei profughi kosovari, insieme al responsabile dei magazzini e al titolare di una ditta di autotrasporti comisano. Fra i reati ipotizzati: falso, sottrazione di documenti, truffa e ricettazione.

Nonostante questo, il Cpt cambia nome in Cie resta aperto fino a oggi e grazie alle norme approvate dalla destra nel pacchetto sicurezza può limitare la libertà dei migranti fino a 18 mesi. La struttura si trova, isolata, su una collina, circondata dagli ulivi. Un complesso a due piani con un cortile interno per le attività ricreative. Al pianterreno si trovano i servizi, al primo piano le stanze e una piccola moschea. L’intera area è recintata, l’accesso è controllato da un passo carrabile con sbarra e un gabbiotto di controllo. Più giù, una palazzina ospita gli agenti addetti alla sorveglianza. Sei poliziotti e sei carabinieri si alternano in turni di

sei ore. La presenza media di "ospiti", migranti senza status giuridico, nemmeno quello di detenuti, è di circa 75 persone.

Formalmente, la sorveglianza è solamente esterna, ma la cosa è controversa: le forze dell’ordine non potrebbero entrare all’interno delle gabbie e dentro le stanze degli "ospiti". Tutto lascia pensare che nei momenti di particolare tensione, per altro numerosi viste le condizioni di vita, questo invece avvenga. Basti pensare che nella gran parte delle stanze la porta è sostituita da una coperta, perché le porte vengono periodicamente divelte. Tutte circostanze che erano state già denunciate anche dalla commissione ispettiva sui Cpt istituita da Giuliano Amato nel 2006 e diretta dal segretario Onu Staffen De Mistura.

Brasile: caso Battisti, giudice si astiene, per ora no estradizione

 

Ansa, 10 settembre 2009

 

Dopo undici ore di dibattimento, il Supremo tribunale federale (Stf) del Brasile non è riuscito ad adottare una decisione sull’estradizione di Cesare Battisti, come richiesto dal giudice Cezar Peluso. L’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac), condannato in Italia in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, resta in carcere. Quattro dei nove giudici della corte hanno votato a favore dell’estradizione.

Uno dei due giudici che dovevano ancora votare ha chiesto di sospendere l’esame della richiesta italiana per almeno dieci giorni per avere altro tempo di riflessione, ma ha lasciato intendere che era contrario all’estradizione. Al contrario, il presidente della Corte, Gilmar Mendes, che dispone di una voce preponderante, dovrebbe votare per l’estradizione.

L’avvocato di Battisti, Luiz Roberto Barroso, ha chiesto a Mendes di astenersi in caso di parità e che la parità conduca a un rifiuto di extradizione, facendo valere che l’ex-militante è stato condannato all’ergastolo in Italia. In gennaio, il ministro brasiliano della giustizia, Tarso Genro, ha concesso asilo politico a Battisti, 54 anni, un ex-membro del gruppuscolo dei "Proletari armati per il comunismo" (Pac) che ha sempre negato di essere l’autore degli omicidi. Questa decisione aveva causato una forte tensione diplomatica tra l’Italia e il Brasile.

Battisti si è rifugiato negli anni 1980 in Francia e nell’agosto del 2004 è fuggito in Brasile per evitare l’estradizione verso l’Italia. Nel 2007 è stato arrestato a Rio de Janeiro e incarcerato a Brasilia. La seduta della Corte suprema, che si è prolungata per dodici ore prima di essere interrotta, ha dato luogo a dichiarazioni e voti diametralmente opposti. Il relatore del caso, il giudice Cezar Peluso, ha concluso che la decisione del Brasile di dare lo status di rifugiato politico a Battisti è "illegale" e "nulla". "Non c’è nessuna connotazione politica negli assassinii (per i quali Battisti è stato condannato), essi entrano nella qualificazione dei gravi crimini comuni" ha sostenuto.

Francia: detenuto omicida evade, nascosto in scatola di cartone

 

Ansa, 10 settembre 2009

 

Jean-Pierre Treiber, unico sospetto dell’assassinio nel 2004 dell’attrice Geraldine Giraud e della sua amica Katia Lherbier, è evaso ieri mattina dal carcere di Auxerre (centro della Francia) nascosto in un cartone trasportato da un camion. L’uomo, 45 anni, che deve presentarsi in tribunale nella primavera 2010 per rispondere all’accusa di doppio assassinio e per questo era particolarmente sorvegliato, stava partecipando ieri mattina a un’attività ricreativa tra detenuti. Chiuso in un cartone, è stato caricato su un camion destinato a una cittadina non lontana ed è scappato lungo il percorso. Il camionista si è accorto dei cartoni schiacciati e bucati solo una volta arrivato a destinazione. Il detenuto starebbe ora vagando nella foresta della Yonne, in Borgogna, dove la polizia lo sta cercando. Jean-Pierre Treiber, ex guardia forestale, è rinviato a giudizio per "rapimenti, sequestri, omicidi, furti e truffe".

 

 

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