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Giustizia: processo Fininvest e lodo Alfano fermano la politica di Stefano Folli
Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2009
Davvero qualcuno sta tramando per rovesciare il responso delle urne, che nel 2008 diede una larga maggioranza al centrodestra e a Silvio Berlusconi? L’accusa, tanto generica quanto drammatica, tiene banco nelle cronache politiche delle ultime ore e va presa molto sul serio. Se fosse vera, saremmo in presenza di un fatto eversivo e sarebbe dovere di tutti, a cominciare dal presidente della Repubblica, mobilitarsi in difesa della democrazia. Ma un’accusa di questo genere va dimostrata con argomenti convincenti. Viceversa, fin qui siamo nel regno delle nevrosi. E le nevrosi, quando si protraggono nel tempo, sono dannose per le istituzioni non meno che per gli esseri umani. In realtà i due capigruppo del partito di maggioranza che hanno alluso all’eversione hanno citato, in concreto, la sentenza sul lodo Mondadori che obbliga la Fininvest a versare 750 milioni di euro alla Cir di De Benedetti. Si afferma che la tempistica del provvedimento è sospetta, a dir poco, in quanto s’intreccia con l’imminente pronuncia della Consulta sul lodo Alfano (quello che garantisce l’immunità alle quattro alte cariche dello Stato).Tutti capiscono che si tratta di questioni diverse e di differente impatto sulle istituzioni. La prima, cioè il caso Fininvest-Cir, riguarda un’impresa privata, sia pure di proprietà del presidente del Consiglio. Affermare che la sentenza mina la stabilità uscita dalle urne significa riportare sul proscenio, in modo certo involontario ma clamoroso, il tema antico del conflitto d’interessi. Del resto, non esiste una tempistica adatta a un personaggio pubblico come Berlusconi, che da quindici anni è protagonista assoluto della vita del paese: spesso, come ora, alla guida di governi. La seconda questione - l’incombente giudizio della Corte sul lodo Alfano - è invece suscettibile di innescare conseguenze politiche incontrollabili. Le indiscrezioni parlano di una perdurante incertezza tra i giudici costituzionali. Ed è chiaro che una Sentenza avversa alla tesi del governo, tale da stabilire l’incostituzionalità del lodo, porrebbe il presidente del Consiglio in una posizione di enorme, forse irreparabile difficoltà. Le nevrosi delle ultime ore sono figlie di questo timore. Ma sono solo un modo di accrescere il danno. Mescolando in modo incongruo i due lodi, Mondadori e Alfano, certi esponenti del Pdl non aiutano il premier, ma ne rivelano la debolezza. Lasciando trapelare la propensione a ricorrere alle urne contro gli eversori (la Corte Costituzionale? la magistratura?), aggiungono confusione a confusione e disorientano l’opinione pubblica in un momento in cui gli italiani pensano alla crisi economica pi che alla guerra dei lodi. Bene allora ha fatto Berlusconi, in un momento per lui carico di angoscia, a mostrarsi determinato: per quanto "allibito", sono sue parole, intende "andare avanti e governare fino al 2013", cioè alla scadenza naturale della legislatura. Un premier ha il dovere di mostrarsi fiducioso e di infondere sicurezza nei cittadini. Alimentare le ansie collettive significa invece venir meno alla responsabilità istituzionale di chi ha ottenuto, poco più di un anno fa, un’investitura popolare senza precedenti. La questione Fininvest-Cir è opportuno che resti del tutto fuori dalla stanza della politica. E la pronuncia della Corte sarà valutata nel momento in cui diverrà di pubblico dominio. Fino ad allora Berlusconi non può far altro che adempiere con convinzione e serenità ai suoi doveri, se possibile spiegando ai suoi collaboratori che una maggioranza di governo sa tenere i nervi saldi. E che una pressione così esplicita sugli organi costituzionali può essere persino controproducente. Del resto su un punto il Pdl e la Lega hanno ragione. La composizione del Parlamento è stata decisa dagli elettori e non sono possibili operazioni avventurose per cambiare questo dato di fondo. Il presidente della Camera si è affrettato a ricordare questo punto e così ha sgombrato il campo da tante ipotesi poco credibili. Anche perché i cosiddetti "governi istituzionali" o "del presidente" nascono solo in certi momenti d’emergenza e mai come frutto di un calcolo di bassa cucina politica. Quello che serve è una maggioranza che sappia lavorare con continuità a beneficio del paese e che non ceda alla tentazione un po’ paranoica del "complottismo". Non c’è mai stata nel Parlamento del dopoguerra una coalizione così forte sul piano numerico e politico. Perdere questa occasione sarebbe grave. Imperdonabile sarebbe coltivare il sogno insensato del ritorno alle urne per una sorta di resa dei conti finale, quando invece si tratta di unire il paese, non di lacerarlo. Giustizia: penalisti pronti alla piazza, contro i limiti alla difesa di Patrizia Maciocchi
Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2009
Sciopero e manifestazione pubblica contro il sovraffollamento delle carceri, ma anche remissione simbolica del mandato per la limitazione dei colloqui con il difensore imposta dal 41-bis. L’Ucpi - riunita in un congresso straordinario a Torino dal 2 al 4 ottobre - in chiusura sceglie la linea dura e vota una giornata di astensione dalle udienze, da fissare a ridosso del 28 novembre, data scelta per una manifestazione di piazza a Napoli "sulla legalità della pena". Lo scopo della mobilitazione è "attirare l’attenzione sulla drammatica situazione dei detenuti nelle carceri italiane e protestare contro la recente limitazione del numero dei colloqui (non più di 3 a settimana) che il difensore può avere con gli assistiti sottoposti al regime del 41-bis. Per quella che, dai penalisti, è considerata una violazione del diritto alla difesa e una "criminalizzazione" dei legali si è deciso di mettere in atto l’azine simbolica di rinunciare per un giorno al mandato. E ancora, nel pacchetto di iniziative, c’è la richiesta alla giunta di organizzare la conferenza nazionale della giustizia, che si terrà probabilmente a novembre. La conferenza servirà ad approfondire i temi contenuti nelle sei mozioni approvate da oltre 350 avvocati e da oltre 80 camere penali. Le priorità individuate dai penalisti riguardano: la separazione delle carriere in magistratura, l’effettiva attuazione dei principi del giusto processo, il reintegro di circa 200 magistrati fuori ruolo e, specialmente, la riforma del professione. Altro argomento sul quale l’Ucpi ha deciso - con il via libera del Cnf - di forzare la mano: ha ottenuto, infatti, il via la mozione della commissione ad hoc, presieduta dal segretario Ludovica Giorgi, che indica la scelta, in assenza di una tempestiva approvazione del nuovo statuto all’esame del Senato, di anticipare la riforma istituendo autonomamente la specializzazione. Alla conferenza sulla giustizia di novembre l’Ucpi inviterà i magistrati alla ricerca di quel dialogo sulle riforme che a Torino è apparso quanto mai difficile. Pochi i punti d’intesa con le toghe rappresentate dal segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, e dal procuratore di Torino, Giancarlo Caselli. Il presidente dell’Ucpi, Oreste Donimioni ha messo l’accento sulla necessità di procedere alla separazione delle carriere incassando il consenso del presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Conso e anche la timida apertura di Luciano Violante che invita alla riflessione anche chi, come lui, non è favorevole. Contro l’eccessivo ricorso alla carcerazione e la mancanza di misure alternative si schiera anche il segretario dell’Anm Cascini che denuncia la clamorosa ingiustizia di prevedere il carcere per fatti di minore entità, lasciando impunite altre tipologie di reato che, grazie a amnistie e indulti o processi labirinto, finiscono toppo spesso in prescrizione. E, a proposito di nuovi reati, è intenzione de penalisti sollevare dubbi di costituzionalità sulle norme sui clandestini. Un’azione che il presidente dell’Ucpi considera non solo corretta ma anche doverosa. Giustizia: contro sovraffollamento, liste d’attesa per i detenuti di Patrizio Gonnella
www.linkontro.info, 6 ottobre 2009
Il governo norvegese, oramai venticinque anni fa, così intitolò il piano di edilizia penitenziaria "ridurre le attese per scontare la pena". Era ovvio per il governo scandinavo non incarcerare persone alle quali non potesse essere assicurato un posto letto. Le liste di attesa per detenuti sono un’invenzione norvegese. Se non c’è posto in carcere si aspetta a casa che il posto si liberi. Poi sono arrivati il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e la Corte europea sui diritti umani a fissare gli standard ineludibili di vita penitenziaria, tra cui i metri quadri che ogni detenuto deve avere a disposizione affinché lo Stato non incorra in trattamenti inumani e degradanti. E se anche in Italia proponessimo le liste penitenziarie di attesa? Basterebbe una norma di questo tipo: "Nessuno può essere incarcerato se non gli sono garantiti gli spazi fisici fissati negli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Spetta al Ministero della Giustizia, alla luce dei predetti standard, indicare il numero massimo di posti letto per istituto, superato il quale l’ordine di custodia cautelare o di esecuzione della pena si tramuta in obbligo di permanenza in casa o altro luogo indicato dalla persona. Il Ministero della Giustizia costituirà due liste di attesa: una per detenuti in attesa del primo grado di giudizio; un’altra per detenuti appellanti, ricorrenti e condannati in via definitiva. La lista segue un ordine cronologico. Nel caso di reati contro la persona non verrà rispettato l’ordine cronologico e si potrà procedere direttamente all’esecuzione del provvedimento cautelativo o di condanna. Durante la sospensione del provvedimento di carcerazione la pena scorre regolarmente come se fosse espiata. Il detenuto che non rispetta le prescrizioni relative all’obbligo di domicilio vedrà invece interrompere lo scorrimento della pena." Una norma sicuramente imprecisa. Insieme a tale norma si giustificherebbe l’adozione di un piano di edilizia penitenziaria utile a ridurre le liste d’attesa. Tale piano sarebbe ancor più accettabile se le nuove carceri (vanno bene anche i prefabbricati in legno stile Onna) si ispirassero al già citato modello norvegese. Nell’isola di Bastoey, a un’ora da Oslo, circa cento detenuti vivono in ventuno casette di legno del 1900. La filosofia è quella della responsabilità. Più i detenuti sono costretti a una gestione (auto-gestione) responsabile meno personale penitenziario serve. Le carceri stile Onna dovrebbero essere amministrate con solo personale educativo messo a disposizione dalle amministrazioni locali, e dovrebbero custodire chi deve scontare pene brevi inflitte per fatti non gravi. Di questo si dovrebbe discutere in una grande conferenza sulla questione penitenziaria che veda il coinvolgimento del governo, delle categorie professionali, delle forze politiche, delle associazioni e dei detenuti. Giustizia: interrogazione sul carcere di Antonio Di Pietro (Idv)
Camera dei Deputati, 6 ottobre 2009
Per sapere - premesso che: i detenuti ospitati nelle strutture carcerarie del nostro Paese sono ormai oltre 64.000, cifra destinata ad aumentare a circa 70.000 unità entro la fine del 2009; si tratta di un record assoluto nella storia dell’Italia repubblicana; vi è di fatto un drammatico problema di sovraffollamento, potendo le carceri italiane ospitare un massimo di 43.327 detenuti sulla carta, ma di fatto 37.000; una situazione in grado di "compromettere la sicurezza del Paese" secondo il direttore del dipartimento amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che è anche commissario straordinario per l’emergenza carceri; i recenti tagli alle risorse destinate alla giustizia effettuati dal Governo stanno ingenerando esiziali difficoltà di gestione ed efficienza amministrativa negli istituti penitenziari sull’intero territorio nazionale, difficoltà che, in taluni casi, raggiungono punte di vera e propria "emergenza umanitaria"; varie associazioni hanno lanciato l’allarme sulle condizioni delle carceri: dall’Unione camere penali all’Associazione dei dirigenti dell’amministrazione carceraria, dal Sappe (sindacato della polizia penitenziaria) al Garante dei detenuti della regione Lazio, tutti concordi nell’affermare, tra l’altro, che occorrerebbe applicare adeguatamente la misura della custodia cautelare e che andrebbe riaperto il dibattito sulle pene alternative; le condizioni attuali di vita carceraria sono spesso lontane dai normali livelli di civiltà e di rispetto della dignità del detenuto, dal momento che il degrado è pesantemente connesso al sovraffollamento dei nostri istituti di pena; l’aumento della popolazione carceraria risulta essere inversamente proporzionale alla presenza del personale di polizia penitenziaria ed infatti vi sono gravi carenze di organico della polizia penitenziaria, cui mancano almeno 5.500 agenti, del personale amministrativo, degli assistenti sociali e degli educatori delle carceri; l’adeguamento della pianta organica della Polizia penitenziaria è fermo alle previsioni del 2001, quando risultavano 10.000 reclusi in meno: ma anche rispetto a quelle previsioni, l’organico è carente del 15 per cento: 35.318 agenti presenti contro i 41.268 previsti; gli istituti penitenziari nel nostro Paese sono 207 e in 12 regioni è stato sfondato il limite massimo di sovraffollamento; secondo il piano di edilizia carceraria proposto dal Ministero della giustizia, sarebbero previste costruzioni di nuovi istituti di detenzione entro il 2012, per un totale di 73.000 nuovi posti, con una spesa di un miliardo e 500 milioni di euro per 15 nuovi istituti e per l’ampliamento delle carceri esistenti; risulta che tale progetto non sia però mai stato presentato in Consiglio dei ministri e sembra che sia stato già respinto dal Governo per mancanza di fondi -: quali misure straordinarie il Ministro interrogato intenda porre in essere per fare fronte alla grave emergenza del sovraffollamento carcerario, in termini di edilizia, di personale di polizia penitenziaria, monitorando il problema anche attraverso un’urgente e approfondita indagine conoscitiva nazionale, volta a raccogliere dati e osservazioni relativi alle carceri italiane in termini di: data di costruzione delle strutture e ultime ristrutturazioni; dimensione, capienza, igiene, illuminazione, decoro e clima delle celle; presenza dei presidi sanitari (infermerie, centri clinici, numero di medici), patologie più frequenti; segnalazioni di eventuali maltrattamenti e violenze, casi di suicidio nel 2009; corretta e compiuta attuazione dei regolamenti penitenziari, della legge sulle detenute madri e della legge sull’aids in carcere; adeguatezza degli spazi, della socialità e dell’attività dei detenuti: presenza media dei detenuti e del personale penitenziario (ivi inclusi educatori, assistenti sociali e psicologi); affidamento al servizio sociale, semilibertà. Giustizia: l'Ugl aprirà centro ascolto per Polizia penitenziaria
Adnkronos, 6 ottobre 2009
"L’ennesimo suicidio di un agente di polizia penitenziaria accaduto in Campania è un altro tragico risultato di un progressivo e costante stato di abbandono del personale che opera negli istituti penitenziari senza un coordinamento efficiente". Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, evidenziando che, "è necessario l’avvio di un programma di sostegno psicologico al personale di Polizia Penitenziaria. Abbiamo visto troppi agenti morire per l’assenza di un servizio di assistenza adeguato". "Come il sindacato sostiene da tempo - continua Moretti - la condizione di sovraffollamento delle carceri italiane, che hanno una capacità ricettiva ben al di sotto delle presenze attuali, e di conseguenza il sovraccarico di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria, determinano un concreto rischio di malattie, di stress e di aggressioni tra i detenuti e contro il personale che opera nelle sezioni detentive, violando le norme sanitarie sugli istituti penitenziari e mettendo in serio pericolo l’incolumità psico-fisica degli agenti". "L’Ugl - afferma Moretti - ha già avviato le procedure per la costituzione di un proprio centro d’ascolto, costituito da un pool formato da un esperto psicologo, un avvocato e un medico legale che opereranno a beneficio di tutto il personale che vorrà avere suggerimenti e assistenza di primo livello. Un servizio dovuto che sarà avviato a breve in via sperimentale ad iniziare dal territorio romano. Siamo convinti -conclude- che un intervento serio e organico sia ormai improrogabile, per evitare di dover piangere altre morti violente e garantire i diritti non solo dei lavoratori e delle lavoratrici della Polizia Penitenziaria, ma anche la piena esecuzione dei dettati costituzionali in materia di recupero del detenuto". Toscana: 4.300 detenuti, 620 affidati ai Servizi, 100 semiliberi di Matteo Baccellini
Il Tirreno, 6 ottobre 2009
Anche in Toscana opera l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), un tempo denominato Centro di Servizio Sociale per Adulti (Cssa): si tratta di uffici periferici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che si occupano di percorsi alternativi al carcere. L’Uepe interviene solo in casi di condanne già definitive e dipende dal Tribunale di sorveglianza. Le misure alternative al carcere sono possibili quando le condanne siano inferiori ai 3 anni per chi non è affetto da dipendenze da droga o alcol, oppure sotto i 6 anni in caso di dipendenza. L’Uepe opera all’interno del carcere, attraverso gli assistenti sociali, partecipando all’attività d’osservazione scientifica della personalità dei detenuti, ma opera soprattutto all’esterno, concedendo e gestendo le misure alternative alla detenzione, come l’affidamento in prova ai servizi sociali (se si è minorenni l’istituto è quello della messa alla prova), la semilibertà per la parte conclusiva della condanna e altre misure come la detenzione domiciliare, da non confondere con gli arresti domiciliari: si attua spesso negli ultimi due anni della pena da scontare, per gli anziani o gli ammalati che in carcere rischierebbero la salute. L’utilizzo degli strumenti del colloquio all’Uepe e i colloqui in visita domiciliare consentono all’assistente sociale di effettuare delle verifiche periodiche. In questi casi le attività di osservazione e di trattamento affidate all’Uepe hanno contenuti di aiuto, assistenza e sostegno dei soggetti, allo scopo di favorire la rieducazione e il reinserimento nella società. Il servizio sociale riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto, per consentire eventuali modifiche delle prescrizioni o revoche della misura nei casi di inidoneità al trattamento o di trasgressione. Non sempre gli inserimenti, infatti vanno a buon fine. I più a rischio di recidiva sono proprio i tossicodipendenti.
La storia di Simone, semilibero
Quella di Simone (il nome è fittizio) è una storia lunga. Come un altro centinaio di detenuti toscani, usufruisce del regime di semilibertà. Dorme in carcere e lavora fuori. Si chiamano misure alternative: servono in parte a sfoltire le celle, occupate da oltre 4.300 detenuti nelle 16 strutture della Toscana (di cui un 60% extracomunitari) con l’obiettivo di un reinserimento nel mondo esterno, un passo per volta. Altri 620 circa sono affidati in prova ai servizi sociali (più di un terzo provenienti dalla libertà). Tra loro c’è chi è tossicodipendente, chi è affidato a un ente dalla detenzione, chi in carcere invece non c’è mai stato avendo subìto lievi condanne. Altri 280, infine, sono i "detenuti domiciliari" (tra loro il 60% provengono dalla libertà). Quella di Simone è stata una vita tortuosa, fatta di droga, reati, condanne, comunità di recupero e affidamento sociale. "Ho 44 anni, tantissimi errori alle spalle, un passato da eroinomane che non rinnego. Potessi tornare indietro non ci ricascherei. Ma quello che più conta è aver recuperato l’amore per quello che faccio e per la vita". È il vivaio, la cooperativa sociale di Pistoia che da due anni ha fatto ritrovare a Simone la fiducia in se stesso e negli altri, la voglia di combattere. La cura delle piante gli permette di scontare, in regime di semilibertà, la sua condanna. L’ultima sentenza del 1998 gli ha affibbiato 11 anni: 5 li ha già scontati in affidamento sociale, 3 gli sono stati condonati con l’indulto, gli ultimi 3 sono quelli che gli rimangono. "Cominciai a "farmi" di eroina alla fine degli anni 70 - racconta - quando c’era il boom di quella droga. Finii in carcere per la prima volta nel 1983, a 18 anni, ma per pochi giorni. Tornarci dopo 25 anni è stata durissima. Anche perché il carcere ti marchia dentro e ti bolla all’esterno". Nel 1993 Simone va in comunità a San Patrignano. "Un anno e otto mesi - precisa - sono uscito solo con il consenso di Vittorio Muccioli. Credevo di avercela fatta, di essere guarito dalla tossicodipendenza. Ma non sono stato abbastanza forte". Poco tempo dopo l’uscita da San Patrignano, il padre di Simone muore. "È stato il periodo più duro della mia vita. Ho iniziato a fare truffe, ricettazioni, a trafficare con gli assegni, a cercare ogni modo pur di reperire l’eroina". Ed ecco undici anni di condanna. Due anni fa l’Ufficio esecuzioni penali esterne (Uepe) lo ha messo in contatto con l’associazione Campo San Piero di Pistoia. "Lì ho trovato persone adorabili, con cui ho iniziato a lavorare al vivaio. Si chiamava il Seminatore e oggi Welfare. La mia seconda vita è iniziata così". I primi 4 mesi nelle serre sono stati decisivi. Una paga garantita dallo Stato di 675 euro per 30 ore lavorative a settimana. "Il gestore del vivaio mi ha aiutato da subito dandomi fiducia a 360 gradi. Se il vivaio non lo senti un po’ anche tuo non puoi risolvere i tuoi problemi. Il lavoro non mi pesa". Scaduti i 4 mesi, ne sono arrivati altri sei, stavolta con contratto a tempo determinato. Sempre a metà tra il carcere di Pistoia, il vivaio e il poco tempo rimanente con i familiari. "Per me il vivaio è un posto fantastico. Ci lavoriamo in tre, più alcune persone che ha mandato il Sert negli ultimi tempi. La mattina esco dal carcere alle 7,30, vado al lavoro, mangio a casa con mia madre e poi torno al lavoro. Alle 21 sono di nuovo in carcere. Il sabato rientro in carcere alle 15. Una volta al mese posso pranzare la domenica con i miei familiari, ma ho ottenuto di poter fare il volontario e restare fuori tutto il giorno fino a sera. Lo considero un grandissimo passo in avanti, soprattutto per riavere un po’ di socialità. E spero nella buona condotta". Alla base di tutto, giura, c’è il rispetto. E la voglia di cambiare. "Sono un uomo nuovo, più saggio. La droga, i reati, la ricerca dei soldi per "farmi" non mi appartengono più. Tra poco la camera di consiglio deciderà il mio futuro. Devo scontare ancora un lungo periodo in semilibertà, ma spero di ottenere le domeniche libere. Conterà la relazione del datore di lavoro, dell’Uepe, del direttore del carcere e degli assistenti sociali". In fondo a Simone basterebbe poco. "Mi piacerebbe fare il Natale a casa. L’ultimo l’ho trascorso dietro le sbarre. Quel giorno è stato tristissimo. Ma ho pensato a tutto. Quando sei fuori non ti rendi conto di quanto ti renda felice un semplice caffè al bar. Sono le piccole cose che fanno le grandi". Sardegna: le carceri regionali, superano la capienza del 90%
Redattore Sociale - Dire, 6 ottobre 2009
Nell’Isola si contano 2.399 detenuti, ma il carcere dove si rischia il collasso è quello di Buoncammino che ospita 510 persone, contro le 380 regolamentari e le 476 tollerabili. Denuncia del Sappe: il sistema carcerario sardo supera del 90% la capienza. Le carceri sarde sono al collasso, ma a soffrire maggiormente il sovraffollamento è ormai da mesi il penitenziario cagliaritano di Buoncammino: 510 detenuti, contro una capienza tollerabile tra i 380 e i 476 carcerati. Ma è in tutta la Sardegna che il sistema carcerario rischia il collasso: i 2.399 detenuti superano del 90% la capienza tollerabile e del 121% quella prevista dai regolamenti. È quanto emerge dalla fotografia scattata dal Sappe, Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, che ha tracciato la mappa dell’emergenza e del disagio nei penitenziari italiani, inserendo la Sardegna fuori dalle posizioni più estreme, fatto salvo per la casa circondariale del capoluogo isolano, tra quelle con i numeri peggiori. Gli stranieri sono oltre il 43% dei detenuti. "In collaborazione con l’Associazione pianeta carcere - spiega Donato Capece, segretario nazionale del Sappe - stiamo diffondendo questi dati per far conoscere all’opinione pubblica la reale situazione che migliaia di poliziotti penitenziari sono costretti a fronteggiare 24 ore al giorno. Solo grazie alla professionalità e al senso dello Stato che hanno le migliaia di agenti che si riescono a contenere i disagi e le proteste delle 64 mila persone detenute". I disagi sono immensi: impossibilità di prendere le ferie a cadenza regolare, superlavoro per gli agenti e un livello di tensione altissimo che poi si riflette in stress e qualità del lavoro. "La situazione oggi è tale che la polizia penitenziaria ha dato fondo a tutte le risorse e a tutti i sacrifici - prosegue il segretario, lanciando un appello al ministro della Giustizia, Angelino Alfano - "serve una soluzione al sovraffollamento entro cento giorni dalla visita di Ferragosto". Napoli: detenuto 31enne si suicida, padre e zio morti in carcere
Il Mattino, 6 ottobre 2009
Si è tolto la vita impiccandosi al soffitto con la cinta del suo pantalone nella sua cella presso il carcere di Poggioreale dove era detenuto dallo scorso agosto. Per Roberto Capri, 31 anni, non c’è stato nulla da fare sabato sera quando gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno soccorso: il ragazzo era già morto. Una sorte che lo accomuna la padre Pasquale e allo zio Pierpaolo, entrambi deceduti dietro le sbarre anche se per motivi di salute. A suo carico pensanti capi di imputazione: due distinte indagini condotte, dalla Dia e dai carabinieri, gli sono costati accuse di minaccia e tentata estorsione aggravata dal metodo camorristico. Motivi per i quali fu arrestato nell’agosto del 2009. Tornato in libertà, in attesa di giudizio, Capri fu poi arrestato dagli agenti della Squadra Mobile, invece, a novembre dello scorso anno in quanto ritenuto colpevole di aver sparato, in un centro scommesse di Largo Antica Corte, ferendo il 21enne Ciro Persico. Non si conoscono al momento ulteriori dettagli sulla vicenda. Ma resta il mistero sugli oscuri motivi alla base del gesto estremo. Intanto per questa mattina dovrebbe essere stato disposto l’esame autoptico sulla salma per capire almeno la causa del decesso. Nelle prossime ore saranno interrogati anche i suoi familiari per cercare di individuare il motivo, o l’esistenza di eventuali situazioni di depressione. Il fratello, Francesco, è invece detenuto a Spoleto. Il 10 aprile del 2006 anche lo zio Pierpaolo Capri fu trovato morto nella sua cella, era detenuto nel carcere di Bari. I medici accertarono che la causa del decesso, in quella circostanza, fu un infarto per sospetta overdose o possibile attacco di epilessia. Nell’ottobre del 2006 aggredì il nipote di Angelo Ubbidiente con il calcio di una pistola, una vendetta trasversale nei confronti del boss diventato un pentito di camorra. Un anno dopo gambizzò Persico nel centro storico per motivi d’affari. Capri, difatti, si era specializzato in estorsioni non soltanto con richiesta di pizzo ma imponendo anche i propri scagnozzi come security. Per questi motivi, prima dell’arresto, Roberto Capri era "attenzionato", come anche il suo ex socio in affari, poi diventato il suo bersaglio, Vincenzo Persico. Insieme, secondo gli inquirenti, avrebbero messo a segno diversi colpi, fino alla rottura. Alla lite in pubblico, con tanto di scambio di minacce, sulla quale gli investigatori cercano ora di far luce. Piccoli boss emergenti circondati dall’omertà dei loro fedelissimi. Roberto avrebbe dovuto gestire, in prima persona, gli affari di famiglia consapevole delle importanti amicizie che la famiglia Capri era riuscita a stringere negli anni precedenti. Il fratello Francesco, ad esempio, è ritenuto dagli inquirenti il referente del clan Iannaco-Adinolfi. Frosinone: Protocollo Intesa per recupero sociale dei detenuti
Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2009
Definire e realizzare finalizzate al recupero sociale dei detenuti e di quanti si trovano in esecuzione penale esterna. È questo lo scopo del Protocollo d’Intesa siglato oggi fra l’Uepe (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna), Distretto Sociale "B" di Frosinone e Garante dei Detenuti del Lazio. Il protocollo è stato firmato, nell’aula Consiliare del Comune di Frosinone, dal Direttore reggente dell’Uepe Paolo Guerra, dal presidente del Distretto Sociale "B" (che riunisce 23 comuni della provincia) Massimo Calicchia e dal Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’Uepe gestisce le misure alternative alla detenzione (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale) ed effettua, su richiesta dei Tribunali di Sorveglianza e degli Istituti, le inchieste sociofamiliari. L’Ufficio, in sostanza, favorisce il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti con interventi di aiuto e controllo. Per avere un’idea del lavoro dell’Uepe di Frosinone, dal 2003 ad oggi sono stati seguite in esecuzione penale esterna oltre 2000 persone ed attivati circa 40 progetti in borsa lavoro. Con il Protocollo i sottoscrittori si impegnano a collaborare alla progettazione di interventi per la popolazione detenuta o in esecuzione penale esterna, a favorire la soluzione di problemi connessi alle condizioni di vita familiare, di lavoro e di ambiente dei detenuti dimittendi, anche stranieri o senza fissa dimora, e a scambiarsi informazioni utili a favorire l’integrazione delle attività. "Il protocollo nasce - ha detto il Direttore reggente dell’Uepe Paolo Guerra - dalle necessità di creare una rete che sostenga e valorizzi le realtà già esistenti del terzo settore e del volontariato che lavorano nel settore penitenziario e che condividono le iniziative di recupero sociale delle persone in esecuzione penale. A questo scopo sarà costituito un Tavolo permanente, per ottimizzare le sinergie tra gli attori interessati all’accordo (Ufficio di Sorveglianza, Area Trattamentale degli Istituti Penitenziari, Terzo settore, Enti locali)". "In questi anni di attività nelle carceri e di collaborazione con gli Assistenti Sociali dell’Uepe di Frosinone - ha detto il Garante Angiolo Marroni - abbiamo approfondito la conoscenza delle condizioni di vita dei detenuti, e gli ambiti su cui lavorare per migliorarle. Sotto questo punto di vista è importante che il Distretto sociale B abbia riconosciuto i detenuti come categoria a rischio di esclusione sociale e, dunque, bisognosa di interventi di sostegno. I dati dimostrano che la percentuale di recidiva è molto più bassa tra chi beneficia di misure alternative che fra coloro che scontano la pena in carcere. Semilibertà, detenzione domiciliare e affidamento in prova sono misure alternative, ma anche opportunità per non perdere contatto con il mondo esterno". Bari: celle affollate, pochi agenti ed allarme igienico-sanitario di Vincenzo Damiani
Corriere del Mezzogiorno, 6 ottobre 2009
Le lenzuola verrebbero "rinnovate ogni 18 mesi", per gli stranieri - che pure sono attualmente 120 - non c’è nemmeno un mediatore linguistico. E poi ci sono quei bagni che definirli tali è un insulto: più che altro dei "buchi separati dal resto della cella da un improvvisato muretto a mezz’altezza". E che dire delle porte blindate in legno della sezione femminile? Tutto questo, in estrema sintesi, è il carcere di Bari nelle parole del capogruppo in consiglio regionale di Rifondazione comunista, Piero Manni. Ma non solo. Perché i carcerati baresi devono fare i conti con la diffusa piaga del sovraffollamento, devono adeguarsi a vivere in struttura vetusta risalente agli anni del fascismo, dove i poliziotti sono pochi e sovraccarichi di lavoro e dal punto di vista sanitario qualche pecca resta da risolvere. Il resoconto del consigliere regionale è drammatico. Il suo viaggio nell’istituto penitenziario di Bari, accompagnato dal segretario del Prc cittadino, Sabino De Razza, è "stato un pianto". Il giro comincia con il primo diniego: Manni avrebbe voluto sottoporre un questionario al direttore del carcere, Paolo Sagace, per raccogliere qualche informazione in più. Ma il direttore, ieri mattina, ha lasciato che ad accogliere il consigliere fosse la sua vice, insieme al comandante della polizia penitenziaria. In una lettera, Sagace ha spiegato che "le limitazioni previste dalla normativa interna non consentono il rilascio di notizie coperte da segreto d’ufficio né la compilazione di questionari". Regolamento a parte, la situazione è questa: l’istituto ha una capienza di 446 posti, ma ieri dietro le sbarre erano presenti 560 detenuti, dei quali 120 stranieri. "Ma nessun mediatore linguistico, strano ", commenta il politico. Il carcere è ospitato in una struttura edificata nel 1922, "rispondente - critica Manni ad una concezione della reclusione ed a criteri ottocenteschi, aggravati dall’ideologia autoritaria e repressiva del fascismo". Ma a preoccupare è "l’assenza di programmazione". Un esempio? Gli interventi di ristrutturazione a pioggia che non migliorano le condizioni abitative. L’inferno è nella seconda sezione, già oggetto di polemiche. Il dipartimento ministeriale dell’amministrazione penitenziaria aveva ordinato la sua chiusura, salvo poi ripensarci. "Probabilmente non sapevano dove sistemare i 250 detenuti ", prova a dare una lettura il consigliere regionale. È stata ristrutturata nel 1961 e rimaneggiata nel 1981, collocata su tre piani, ospita 250 detenuti dei quali 91 si trovano al primo piano in celle, a uno o due letti, "che più che celle sono dei cubicoli larghi circa due metri, con water alla turca separato dal resto della cella mediante un muretto a mezza altezza", racconta ancora il politico di Rifondazione. La IV sezione, invece, è stata ristrutturata nel 2005, ha celle con un numero variabile di letti ma tutte dotate di bagno con doccia. Esistono sei celle monoposto per i detenuti paraplegici e ogni sezione è dotata di ascensore. Entrando nell’ala femminile sembra di fare un salto nel Medioevo: "Si tratta di una vecchia struttura a ballatoio e con le porte in legno". Promossa la cucina ("pulita ed efficiente "), sono due le classi di scuola elementare, tre di scuola media, un corso di Itc; totale alunni: 46. I reclusi non hanno possibilità di essere impiegati in lavori fuori dal carcere, "ci sono 46 detenuti impegnati nel lavoro interno (pulizie, cucina) - riferisce Manni - niente lavoro per l’esterno". Per buona pace del recupero sociale dei detenuti. Forlì: primo Laboratorio Raee, per detenuti, esterno al carcere
Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2009
Inaugurato oggi il progetto "Raee in carcere" per il recupero di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche: un modello di inclusione sociale e tutela dell’ambiente. Quando si parla di inclusione sociale e tutela dell’ambiente, Forlì fa scuola con il progetto "Raee in Carcere". È stato inaugurato oggi - in via Cà Dolce 11, località Vecchiazzano, a Forlì - il laboratorio per persone detenute finalizzato al trattamento dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee). "È il primo esempio in Italia di laboratorio Raee esterno ad una Casa Circondariale", commenta Nello Cesari, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna. "Un progetto che ha una duplice valenza: il reinserimento sociale della persona detenuta attraverso il lavoro e l’azione in favore dell’ambiente. Il contesto delle carceri oggi è decisamente problematico e la necessità di riabilitazione dei condannati deve essere sempre di più, per noi come per la comunità intera, una grande responsabilità. Anche l’Istituto penitenziario di Forlì, e il suo direttore, è impegnato su questo fronte e, seppure tra molte difficoltà, sta collaborando con grande disponibilità. La collaborazione con il territorio, e con le imprese in particolare, gioca senz’altro un grande ruolo di contrasto alla recidiva dei reati e per accrescere la sicurezza della cittadinanza". L’iniziativa vede infatti la collaborazione di molti partner: oltre al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e alla direzione della Casa Circondariale di Forlì, la Provincia di Forlì-Cesena e il Comune di Forlì, la Direzione provinciale del Lavoro, la cooperativa sociale Gulliver, il Gruppo Hera, il consorzio Ecolight e il Centro Servizi Raee, l’agenzia di formazione Technè, la società Cclg, le associazioni Cna, Legacoop e Confcooperative. "Il progetto rientra in un più ampio intervento di inclusione sociale, finanziato dalla Regione Emilia Romagna, avviato con il progetto comunitario Equal "Pegaso", di cui l’Agenzia formativa Techne Forlì-Cesena è stata ente capofila, che ha visto il coinvolgimento degli Istituti penitenziari di Forlì, Bologna e Ferrara", ricorda l’assessore regionale alla Formazione, Giovanni Sedioli. "Sviluppa un tema civile dando valore alla dignità della persona. Si tratta di un progetto che la nostra Regione ha sostenuto fin dal suo inizio con ben tre assessorati coinvolti - Ambiente, Formazione Lavoro, Politiche Sociali - che hanno costituito una Cabina di regia per monitorare passo dopo passo gli sviluppi e aiutare la soluzione dei problemi. Oggi siamo in fase di sperimentazione e il nostro impegno è quello di consolidare l’esperienza, a modello anche per altre realtà e per altre carceri della regione". Strategica, per il vicepresidente e assessore alle Politiche Sociali della Provincia di Forlì-Cesena, Guglielmo Russo, la sinergia che il progetto ha creato "tra l’economia sociale e la formazione professionale, tra il mondo del no profit, che è particolarmente diffuso nel nostro territorio, e quello del profit, anche grazie alla presenza delle associazioni Cna, Confcooperative e Legacoop che potranno aiutarci nel reperire nuove imprese disponibili ad inserire questi lavoratori nel proprio organico. La nostra Provincia finanzia tirocini formativi, gestiti con impegno e professionalità dagli operatori dell’agenzia Techne, che rappresentano un importante strumento finalizzato ad accompagnare la prima fase di inserimento lavorativo dei detenuti: una risorsa essenziale per poter sperimentare una vera "buona pratica" minimizzando i rischi di "caduta". Prosegue Russo: "Un rapporto che vede anche le istituzioni in prima fila: con noi interviene anche il prezioso contributo del Comune di Forlì, insieme al quale abbiamo formato una rete tra ben cinque assessorati, per seguire da tutti i punti di vista gli sviluppi del progetto. Di fronte alla grave crisi economica in atto, gli enti locali di questo territorio non si sottraggono all’impegno di favorire tutte le nuove occasioni nell’ambito dell’inclusione sociale di soggetti svantaggiati e della sostenibilità ambientale. La capacità di fare rete di un territorio si dimostra ancora una volta la vera carta vincente". Il progetto si è concretizzato nel laboratorio di via Cà Dolce: qui attualmente vi lavorano tre detenuti, ognuno per 25 ore alla settimana, con la previsione di un’adeguata retribuzione e il concorso della contrattazione sindacale. "In spazi opportunamente allestiti e attrezzati, i Raee sono raccolti e smontati; le diverse componenti dei rifiuti vengono inviate agli impianti di trattamento finale per essere recuperati", spiega Manuela Raganini, presidente della cooperativa sociale Gulliver che gestisce il laboratorio. "Le prime settimane di avvio hanno dato risultati positivi: i lavoratori detenuti coinvolti si sono dimostrati motivati e stanno dimostrando ottime capacità produttive, anche perché questa attività permette loro di avere un sostegno economico per sé e per i propri familiari. Se le cose proseguono a questi ritmi, contiamo di arrivare a regime nel giro di pochi mesi e speriamo in futuro di poter allargare l’inserimento anche ad altre persone". Sotto il profilo sociale, il progetto apre una porta sul mondo del lavoro. "L’intento finale è infatti quello di trovare una collocazione occupazionale ai detenuti, una volta scontata la pena", premette Domenico Settanni della Direzione provinciale del Lavoro di Forlì-Cesena. "Questo intervento spicca sugli altri tipi di intervento per il reinserimento di soggetti svantaggiati e risponde ad una reale esigenza sociale. Nel Comitato paritetico che dirigo, insieme ai sindacati ed alle associazioni della cooperazione sociale abbiamo da tempo sperimentato forme di contrattazione che tutelano i lavoratori e supportano le cooperative nella gestione di attività produttive, che per loro natura richiedono una non semplice organizzazione del lavoro". Il Gruppo Hera, importante multiutility regionale, fornisce i Raee dai propri centri di raccolta; il Consorzio Ecolight - che associa alcune delle più importanti imprese nazionali e multinazionali del settore elettrico/elettronico - organizza l’intero processo di trattamento dei Raee e si occupa della remunerazione della cooperativa; la parte di logistica è affidata al Centro Servizi Raee. "I servizi ambientali hanno così una ricaduta sociale", osserva il direttore generale Operations del Gruppo Hera, Roberto Barilli. "Attraverso il trattamento dei rifiuti si recuperano risorse da investire in ambito sociale in linea con le politiche di responsabilità sociale attuate dal Gruppo che ha promosso, sostenuto e co-finanziato fin dalle origini il progetto, già dall’anno 2004". Il primo a trarne beneficio è l’ambiente: "Il laboratorio a pieno regime potrà arrivare a stoccare e smaltire fino a 400 tonnellate di Raee - continua Andrea Ratti, amministratore del Centro Servizi Raee - permettendo di recuperare oltre 185mila kg di ferro, 100mila kg di plastica e più di 6mila kg di alluminio, e contribuendo al risparmio di quasi 800mila Kwh di energia elettrica". Conclude Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecolight: "Se riusciremo a dimostrare nei fatti la sostenibilità economica di questo laboratorio, inteso come vera e propria unità produttiva, potremo fare nuovi passi avanti e avremo raggiunto il nostro scopo: valorizzare l’impegno sociale delle nostre imprese e sostenere un sistema sociale solidale e sostenibile". Pistoia: carcere cittadino nel Piano generale di riqualificazione
Il Tirreno, 6 ottobre 2009
"Il governo sta predisponendo un piano generale di riqualificazione delle carceri italiane nel quale già a luglio scorso io e la collega Annamaria Celesti abbiamo chiesto sia compreso anche il carcere pistoiese di Santa Caterina. Certo è che sarà difficile per i ministeri interessati procedere nella stesura del piano se da ogni provincia italiana qualcuno si appende loro alla giacchetta per tirarli in qua e in là". Così il presidente di Alleanza Nazionale nel Pdl in Regione Toscana Roberto Benedetti e la consigliera regionale di Fi-Pdl Annamaria Celesti replicano oggi alle accuse mosse dalla sinistra pistoiese al governo in merito alla situazione del carcere di Pistoia. Benedetti e Celesti, del resto, quella situazione la conoscono bene: "Ci siamo recati al Santa Caterina il 1 agosto scorso - ricordano i due esponenti del Pdl - ed abbiamo potuto verificare la situazione di grave sovraffollamento. Per questo, subito dopo, ci siamo attivati per chiedere attraverso ai ministeri competenti, ovvero Infrastrutture e Giustizia, di inserire Pistoia tra le città i cui penitenziari vanno assolutamente riqualificati. Anzi, per la verità abbiamo segnalato la necessità, a Pistoia, di una nuova struttura". La situazione insomma è critica. Purtroppo però, come dimostra l’ennesimo suicidio avvenuto al carcere di Sollicciano a Firenze, Pistoia non rappresenta un caso isolato in Toscana. In questo senso, l’attenzione dei consiglieri regionali si punta soprattutto sulla medicina penitenziaria: "Servono da parte della Regione - affermano - misure appropriate da individuare con il pieno coinvolgimento degli operatori, perché la salute in carcere è una priorità assoluta, un diritto e non una concessione eventuale. Solo che in simili condizioni è veramente difficile da garantire". Da tempo, anche attraverso un’interrogazione all’assessore al diritto alla salute Enrico Rossi, il Pdl ha chiesto alla Regione "iniziative urgenti per fronteggiare le criticità del sistema penitenziario toscano e per dare piena applicazione al principio costituzionale che riconosce alle persone detenute o internate, alla pari dei cittadini liberi, il diritto alle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali ed uniformi di assistenza". "Siamo però convinti - concludono Benedetti e Celesti - che un buon piano nazionale, per essere tale, debba per forza tener conto delle esigenze di tutti i penitenziari in modo omogeneo, senza escludere né privilegiare nessuno. Purtroppo, la situazione nelle carceri italiane e toscane oggi è diffusamente esplosiva, e con i governi di centrosinistra i piani di edilizia carceraria sono rimasti per troppo tempo nei cassetti. E di certo a poco sono serviti, per allentare la pressione antropica, indulti e indultini con cui la sinistra altro non ha fatto che rimettere a piede libero dei criminali, troppo spesso tornati a delinquere". Monza: con Progetto Diana corso per detenute "sex offender" di Marco Mologni
www.mbnews.it, 6 ottobre 2009
Il primo passo per ritrovare una vita normale, dopo il carcere? Ricostruire il futuro. A partire dalla propria autostima. Un percorso delicato che deve iniziare già nel periodo della detenzione. È quello che si propone di fare il Progetto Diana, il valore della vita. Pensato e realizzato dalla Provincia Mb - Servizio Spazio Donna, prevede un percorso sperimentale di sostegno alle donne detenute, attraverso sette incontri dal 15 ottobre all’11 novembre. L’iniziativa sarà presentata oggi alle detenute del settore femminile - sezioni protette della casa Circondariale di Monza, alla presenza dell’Assessore Provinciale Giuliana Colombo e del Direttore del Carcere Massimo Parisi. Le prime dieci detenute che parteciperanno al progetto sono ospitate nella sezione protetta (sex offender): per loro sono stati organizzati corsi di autostima e assertività con l’obiettivo di promuovere un percorso di crescita all’interno del carcere, anche in prospettiva di un futuro re-inserimento nel contesto sociale, ancora influenzato da stereotipi e pregiudizi. Questi i binari di intervento scelti: accompagnamento e ascolto dei bisogni; esercizi di role-playing per lo sviluppo di abilità sociali; acquisizione delle capacità di gestione autonoma delle attività relative all’area familiare e alla cura di sé. "Partiamo da questo progetto pilota per offrire un sostegno concreto alle donne che vivono l’esperienza difficile del carcere" - spiega Giuliana Colombo, Assessore alle Pari opportunità della Provincia MB - "In vista di una nuova vita da riorganizzare al di fuori del carcere, partendo dalle esigenze e timori, l’obiettivo è far emergere nelle donne una migliore percezione di sé e possano così uscire dal percorso psicologicamente rafforzate e consapevoli di essere pienamente in grado di reinserirsi nella società". Il percorso formativo del progetto Diana è articolato su sette incontri in aula con docenti e psicologi, per un totale di 21 ore; previsti anche colloqui individuali di autovalutazione dell’apprendimento e momenti di incontro con lo staff educativo, oltre ad azioni di accompagnamento per facilitare lo sviluppo dell’autostima attraverso esercizi concreti riferiti alla vita quotidiana, in cui saranno coinvolti anche gli educatori che seguono le detenute.
Il direttore del carcere: "Aiutiamole a rifarsi una nuova vita"
"Il Progetto Diana muove da un’esigenza primaria che abbiamo riscontrato in modo specifico per le detenute protette e cioè l’assenza di capacità di costruire progetti di vita futura - spiega Massimo Parisi, direttore del carcere di Monza - Fornire strumenti che migliorino la conoscenza di se stessi e l’autostima può costituire una base importante per la costruzione di percorsi di reinserimento sociale. Per chi come me ritiene che il rapporto tra Carcere e Territorio sia cruciale nelle politiche di inclusione sociale dei detenuti, credo che si tratti di un’iniziativa che dimostra concretamente la vicinanza del nuovo Ente al pianeta carcere e segno pertanto di un rapporto interistituzionale già produttivo". Rimini: 21 detenuti alloggiati nella "saletta" e scoppia una rissa
Comunicato Osapp, 6 ottobre 2009
Alle ore 4.00 di questa mattina, 21 detenuti di diverse etnie, stipati in una cella ricavata da una saletta ricreativa, si sono affrontati percuotendosi con sgabelli, tavoli e tutto quanto poteva essere reperito in cella. Già nella serata di ieri i medesimi avevano avuto un primo contatto, per fortuna risoltosi tempestivamente grazie all’intervento del Personale della Polizia Penitenziaria che ha subito sedato l’inizio di rissa. Questa mattina, però, si sono affrontate di nuovo le due fazioni, italiani-magrebini, e due di questi ultimi sono finiti in ospedale con prognosi riservata. A parte i soliti problemi di carenza di personale e la ristrutturazione in corso del carcere, che ne diminuisce la capienza, sarebbe opportuno uno sfollamento per ridurre il numero dei detenuti al fine di garantire quel minimo di sicurezza per l’incolumità stessa dei ristretti e del Personale di Polizia Penitenziaria. Quanto accaduto era prevedibile. Ci si aspettava che la Direzione del carcere riminese chiedesse uno sfollamento dei detenuti. Modena: 30 nuovi agenti penitenziari, operativi entro un mese
Adnkronos, 6 ottobre 2009
"Esprimo un sincero ringraziamento al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per la grande sensibilità dimostrata. Il Pdl è l’unica forza politica modenese che ha risposto, con i fatti, all’appello lanciato dal direttore del carcere e dagli operatori della Polizia penitenziaria, per risolvere la situazione di emergenza in cui versa da anni la casa circondariale di Modena". Così l’esponente della direzione nazionale del Pdl, Isabella Bertolini, commenta l’arrivo a Modena di 30 nuovi agenti che entro la fine del mese prenderanno servizio nel carcere dalla città. I nuovi poliziotti che "il Governo Berlusconi si era impegnato a garantire su mia richiesta, - prosegue Bertolini - conferma la coerenza e la serietà dell’esecutivo di centrodestra, che ha messo al primo posto dell’agenda politica la sicurezza dei cittadini e l’attenzione nei confronti del lavoro di tutte le forze dell’ordine". Ricordando che altri 11 agenti arriveranno il prossimo anno, Bertolini parla di "promesse mantenute" e specifica che "entro gennaio il carcere potrà contare su 41 agenti in più". "Nulla di simile era successo prima" conclude osservando che "il comportamento dei parlamentari locali del Pd, che ironizzavano sugli impegni presi dal Governo Berlusconi, è solo un brutto ricordo". L’Aquila: Fp-Cgil; lo "sgombero" dell’Ipm, non è stato positivo
www.inabruzzo.com, 6 ottobre 2009
Il Coordinatore nazionale Fp Cgil Giustizia Minorile scrive: "Desta sconcerto quanto affermato dal dirigente del Centro per la Giustizia Minorile dell’Aquila in un comunicato stampa del 3 ottobre dettato, sembrerebbe, in risposta all’appello al Ministro della giustizia del Presidente della Provincia, inteso a tutelare l’integrità dei servizi della giustizia minorile della città e dei connessi posti di lavoro. Dalla lettura dello stesso apprendiamo che già parte delle strutture dell’Ipm erano state offerte al Comune dell’Aquila, ma soprattutto apprendiamo che la chiusura dell’istituto a seguito del terremoto è stata un bene per i minorenni ristretti "che passavano il loro tempo per la maggior parte nelle loro piccole celle senza spazi per le attività ricreative e figuriamoci per corsi formativi". Nello specifico, se tutto ciò fosse vero, ci chiediamo se il dirigente del Centro non sia venuto meno al suo dovere di controllo dell’Ipm e, soprattutto, al compito istituzionale di attivare tutte le risorse utili per il buon funzionamento della struttura e per la messa in opera dei progetti indispensabili per il recupero dei giovani detenuti. In merito a ciò, peraltro, ci risulta che la Provincia dell’Aquila si sia sempre impegnata per garantire corsi di formazione calibrati sulle esigenze dei minori presenti nell’Istituto. Stupisce il comportamento di un dirigente che invece di difendere i propri servizi ed il lavoro degli operatori sembra aver avuto come scopo principale, nel dopo terremoto, quello di cedere ad altri le strutture della giustizia minorile. Tutto ciò, peraltro, non considerando l’importanza di garantire la persistenza dei 35 posti di lavoro della giustizia minorile nella città e degli altri generati dall’indotto, sicuramente piccoli numeri ma importanti per un territorio messo a dura prova dal terremoto. Non solo, le dichiarazioni del dirigente appaiono superficiali, anche perché non tengono conto delle difficoltà in cui versano tutti gli altri Ipm nel territorio nazionale, per la generalizzata condizione di sovraffollamento, che sicuramente non ha tratto giovamento dalla chiusura dell’Ipm dell’Aquila. I 13 minori detenuti in quella struttura sono stati trasferiti in altre sedi già sovraffollate. Il risultato è che questa estate un detenuto minorenne si è suicidato, cosa che non accadeva da anni, ed un altro avendo tentato il suicidio è stato in coma per diversi giorni. Senza considerare gli episodi di fuga o le risse. Sarebbe opportuno, a nostro avviso, richiamare il dirigente del Centro ad una migliore osservanza dei suoi compiti a partire dalla tutela delle attività dei servizi della giustizia minorile e degli operatori che vi lavorano. Se il dirigente non vuole più stare a L’Aquila, che venga destinato ad altro incarico e, soprattutto, riteniamo che sia ormai diventato indispensabile chiarire cosa voglia fare il Dipartimento dei servizi e dei lavoratori della Giustizia minorile della città". Immigrazione: realizzata indagine su criminalità tra gli stranieri
Redattore Sociale - Dire, 6 ottobre 2009
Presentata l’indagine di Redattore Sociale e Caritas Migrantes. Il "tasso di criminalità" dei regolari in Italia leggermente più alto di quello degli italiani (tra l’1,23% e l’1,40%, contro lo 0,75%) e addirittura inferiore tra le persone oltre i 40 anni. Il "tasso di criminalità" degli immigrati regolari in Italia è leggermente più alto di quello degli italiani (tra l’1,23% e l’1,40%, contro lo 0,75%) ma, se si tiene conto della differenza di età, risulta uguale a quello degli italiani e addirittura inferiore tra le persone oltre i 40 anni. È questo uno degli elementi di analisi più significativi della ricerca "La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi", promossa dall’Agenzia Redattore Sociale e realizzata dall’équipe del Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes, presentata oggi a Roma presso la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi). Una ricerca che "rema contro corrente", voluta per affrontare "con maggiore serenità" un fenomeno che appare invece come un’emergenza crescente ai cittadini italiani. L’indagine, spiegano gli stessi osservatori, "ridimensiona in modo netto la portata di alcuni studi e di numerose affermazioni che in questi anni hanno contribuito ad alimentare l’allarme per l’emergenza criminalità degli stranieri". Non esiste infatti alcuna corrispondenza tra l’aumento degli immigrati regolari e l’aumento dei reati in Italia: tra il 2001 e il 2005 - ultimo anno in cui sono disponibili le statistiche giudiziarie dell’Istat, per gli anni successivi esistono solo gli aggiornamenti del ministero dell’Interno sul numero totale -, le denunce nei loro confronti sono aumentate quasi del 46%, mentre gli stranieri sono cresciuti di più del 100%. Le denunce. Nel 2001 quelle contro autori noti (circa un quinto sul totale) erano complessivamente 513.112, (il 17,4% riguardavano immigrati) e sono diventate 550.590 nel 2005 (23,8% relative a immigrati); 423.722 quelle a carico di italiani nel 2001, un dato sostanzialmente stabile nel 2005 (420.130) come stabile è rimasta la situazione demografica. Le denunce riguardanti gli stranieri sono invece aumentate del 45,9%, a fronte di un aumento del 100% della popolazione regolarmente residente (da 1.334.889 a 2.670.514 persone). Si riferiscono, inoltre, anche agli stranieri presenti regolarmente e non ancora registrati in anagrafe (diverse centinaia di migliaia) e a quelli presenti in maniera irregolare (si stima circa 1 milione di persone): "Ciò consente di affermare - spiegano gli osservatori - che non sussiste un collegamento diretto e automatico tra aumento della popolazione e aumento della criminalità". In Emilia-Romagna e Umbria le denunce raddoppiano. Nei 5 anni presi a riferimento le denunce aumentano oltre la media in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Trentino Alto Adige (relativamente alla provincia autonoma di Trento), Friuli Venezia Giulia, Marche e Abruzzo; in Emilia-Romagna e Umbria raddoppiano. La regione più virtuosa è il Molise, dove la crescita è di appena il 5,7%. Le denunce penali diminuiscono. L’incidenza degli stranieri sulle denunce penali nel 2005 mostra valori a decrescere: più alti nel Nord Est (36,8%), un po’ di meno nel Nord Ovest (31,8%) e nel Centro (31,2%), e notevolmente più contenuti nel Sud (10,0%) e nelle Isole (8,3%). A livello regionale l’incidenza più elevata si registra nel Veneto (38%) e nell’Emilia-Romagna (37%). I reati. La maggior parte delle denunce riguardanti gli stranieri rientrano dei cosiddetti soft crimes, reati comuni o della microcriminalità, in cui è il singolo immigrato a essere coinvolto, comunque "preoccupanti e non sottovalutabili". Spaccio di droga, prostituzione, strozzinaggio, atti molesti, furti, scippi, aggressioni, ma non mancano reati più gravi quali lesioni volontarie, violenze carnali ed omicidi, che sono il frutto di azioni impulsive nel contesto di rapporti sociali difficili. Resta molto bassa l’incidenza degli stranieri sul totale delle denunce per alcuni tipi di reati come rapine in banca (3%) o negli uffici postali (6%), evasione fiscale e contributiva (5,8%), omissione dei contributi previdenziali (8,0%), associazione per delinquere (10,6%). Le donne. Pur rappresentando la metà della popolazione immigrata, le donne sono implicate solo in un caso ogni sette (incidenza del 13,4%, più bassa rispetto al 15,2% delle donne italiane). Il loro coinvolgimento è più elevato nei furti (18,9%), nelle ingiurie/diffamazioni (29,4%), nell’istigazione favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (32,6%) e negli spettacoli osceni (60,0%). Immigrati vittime di immigrati. L’incidenza è molto alta: in particolare, per i reati violenti oscilla a seconda delle fattispecie tra un quarto e un sesto del totale.
Gli stranieri in carcere sono sovra-rappresentati
Il "tasso di incarcerazione" è molto più alto per gli immigrati irregolari che possono fruire meno degli arresti domiciliari e delle altre misure alternative alla detenzione. E resta più alta anche la probabilità di essere fermati rispetto agli italiani: 1,4% contro il 14% (Dario Melossi, "Il giurista, il sociologo e la criminalizzazione dei migranti: cosa significa etichetta mento"). Lo rivela lo studio "La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi", promosso dall’Agenzia Redattore Sociale e realizzata dall’équipe del Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes, presentato oggi a Roma presso la Federazione nazionale della stampa italiana. Sono 58.127 (31 dicembre 2008) di cui 21.562 stranieri, provenienti da America 5,9%, Asia 5,1%, Africa 51,7% e Europa 37,2 (dei quali il 17,2% comunitari). In testa per numero di detenuti Marocco (4.714), Romania (2.670), Albania (2.610), Tunisia (2.499), Algeria (1.109) e Nigeria (976). I paesi con almeno 200 detenuti sono: Jugoslavia, Senegal, Egitto, Cina, Polonia e Moldavia. Le Filippine si distinguono per l’esiguo numero di detenuti: appena 52. Mentre circa le metà degli italiani si trova in carcere per scontare una sentenza definitiva (45,4%), tra gli stranieri la quota è di circa 10 punti più bassa (37,7%), il che evidenzia "la funzione maggiormente custodialistica del carcere nei loro confronti". Gli immigrati in attesa di giudizio sono quasi i due terzi del totale (62,3%) e su 92.800 ingressi in carcere dalla libertà registrati nel 2008, il 46,4% riguarda stranieri. A livello europeo Italia, Grecia e nei Paesi Bassi nel 2006 mostravano il più alto "tasso di sovra-rappresentazione degli stranieri in carcere (loro incidenza sul totale dei detenuti) rispetto alla loro incidenza sulla popolazione".
Un quarto dei reati riguarda la condizione stessa dell’immigrato
Restano vittime della criminalità organizzata, vittime di sfruttamento sessuale e sul lavoro, o commettono reato per riuscire a sopravvivere: la condizione di irregolari espone gli immigrati a rischio di delinquere maggiormente, senza considerare che la rigida normativa sul soggiorno già "assegna loro una rilevanza penale" (almeno un quarto di reati commessi da stranieri riguarda la condizione stessa dell’immigrato). Fattori essenziali questi che spiegano perché tra il 70 e 80% delle persone denunciate in Italia è irregolare o di passaggio. Lo sottolineano gli osservatori che hanno curato l’indagine "La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi", promossa dall’Agenzia Redattore Sociale e realizzata dall’equipe del Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes, nell’intenzione di allontanare ogni tentazione di criminalizzazione, pur non sottovalutando la gravità del fenomeno. "Il coinvolgimento degli immigrati in attività criminose è fortemente legato alla condizione di irregolarità", sottolinea il rapporto, ma la loro criminalizzazione "è infondata per ragioni storiche, tenuto conto che metà degli attuali residenti stranieri una volta erano irregolari e poi regolarizzata (come nel caso ultimo delle 300 mila collaboratrici familiari), per ragioni giuridiche, tenuto conto che più della metà degli irregolari che sbarcano sulle coste italiane, hanno diritto allo status di rifugiati o alla protezione umanitaria e per ragioni antropologiche, poiché la stragrande maggioranza vorrebbe essere in regola con la legge". "Considerare anche gli stranieri in transito". Il nocciolo del dibattito sulla criminalità degli stranieri riguarda in prevalenza gli immigrati irregolari o senza documenti, che sono costituiti per lo più (64% dei casi) da persone venute con un visto o un permesso poi scaduto (i cosiddetti overstayers) rispetto al 23% di coloro che hanno attraversato le frontiere senza autorizzazione e al 13% dei clandestini sbarcati sulle coste, tra i quali più della metà richiedenti asilo o meritevoli di protezione umanitaria (ministero dell’Interno, 2006). Ma, secondo lo studio, rapprenda un limite, non considerare nel calcolo del "tasso di criminalità" degli stranieri, le persone di passaggio. "Si può venire in Italia per periodi brevi in esenzione del visto, e di fatto i visti concessi per motivi di turismo sono di gran lunga inferiori ai 20 milioni di cittadini stranieri che ogni anno visitano l’Italia. - spiegano - Non è detto che chi viene per affari o per turismo commetta degli atti criminali, ma anche questo può capitare, come attesta il polo turistico di Rimini che conta il più alto tasso di denunce proprio per questi consistenti flussi di non residenti". Pesa il tempo di ottenimento della cittadinanza. In altri paesi molti reati commessi da "immigrati" finiscono nelle statistiche della criminalità locale, perché i tempi di ottenimento della cittadinanza sono più brevi, ma in Italia "la stragrande maggioranza dei reati ascritti agli immigrati sono classificati come reati di stranieri, in quanto sono pochissimi gli immigrati che hanno ottenuto la cittadinanza italiana".
Per gli immigrati regolari più reati tra i giovani
La ricerca "La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi", promossa dall’Agenzia Redattore Sociale e realizzata dall’équipe del Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes, presentata oggi a Roma presso la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) calcola per la prima volta l’effettiva incidenza degli immigrati sulla criminalità anche in base alle singole fasce di età. In mancanza di cifre specifiche, il dato si basa sulle condanne penali comminate nel 2004 (239.391, delle quali 62.236 a carico di immigrati) e presume che sia equiparabile a quello delle denunce del 2005. Ne emerge che l’incidenza degli immigrati regolari si concentra nella fascia di età più giovane in modo molto più rilevante che per gli italiani (95,5% rispetto a 73,7%). La differenza tra italiani e stranieri si concentra tra i 20 e 30, "una fascia di età in cui è più frequente che gli immigrati inizino la loro vicenda migratoria". Dai 40 anni in poi, quando l’inserimento si è consolidato, il tasso di delinquenza è minore degli italiani. "Se anche tra gli italiani i giovani di 18-44 anni fossero il 92,5% del totale, - commentano gli osservatori - le denunce per questa fascia di età aumenterebbero di più di 200 mila unità e, nel complesso, la popolazione italiana avrebbe un tasso di criminalità dell’1,02%, molto vicino all’1,24% registrato per la popolazione immigrata regolare".
Ribaltati i luoghi comuni in cui è caduta l’informazione
"La Federazione nazionale della stampa è contenta di accogliere chi propone progetti e confronti in favore della convivenza civile. Viviamo invece una stagione difficile in cui si pensa che la libertà di informazione sia uguale al numero dei fogli che vengono stampati. L’informazione oggi sta subendo attacchi fortissimi da parte del potere". Lo ha detto questa mattina a Roma Franco Siddi, segretario nazionale della Fnsi aprendo il convegno di presentazione della ricerca "La criminalità degli immigrati. Dati, interpretazioni e pregiudizi", curata da Caritas Migrantes in collaborazione con Redattore Sociale. "Siamo stati accusati di essere intolleranti e di non accogliere le opinioni di chi dissente da noi - ha continuato Siddi in riferimento alla manifestazione per la libertà di stampa di sabato scorso a Roma - ma a queste persone diciamo che sono loro a essere sleali". Siddi ha sottolineato che la Fnsi non ha mai messo in discussione chi ha opinioni diverse e citando il direttore del Tg1 Augusto Minzolini ha sottolineato come lo spirito della manifestazione di sabato sia stato distorto. "Molti contenuti della manifestazione non sono emersi. Si è parlato di immigrazione e della legge sui respingimenti ma tutto questo è stato cancellato da alcuni, come sono state cancellate le proposte e la richiesta di ritirare le querele milionarie contro i giornali che presentano critiche". Tornando alla ricerca Siddi ha aggiunto che "l’indagine ribalta i luoghi comuni in cui gran parte dell’informazione è caduta in questi anni. Vengono messi in luce fatti diversi che meritano di essere raccontati e noi come categoria dobbiamo sforzarci di andare oltre". Immigrazione: Cisl; il 10 in piazza per sicurezza e l’integrazione
Asca, 6 ottobre 2009
"Insieme per la sicurezza, l’accoglienza, l’integrazione" con questo slogan la Cisl, il Siulp (il sindacato più rappresentativo delle forze di polizia) e l’Anolf (l’Associazione nazionale lavoratori oltre le frontiere) saranno a Roma in piazza Navona il prossimo sabato, 10 ottobre, in occasione della manifestazione nazionale. A partire dalle ore 10.00, per la prima volta nella storia, immigrati e poliziotti scenderanno in piazza insieme, e a loro si uniranno i vigili del fuoco, la polizia penitenziaria e il corpo forestale aderenti alla Fns Cisl (Federazione Nazionale Sicurezza). La manifestazione sarà accompagnata dalle musiche del complesso multietnico di Arezzo diretto da Enrico Fink. Sul palco le testimonianze di due immigrati di seconda generazione, una ragazza italo-capoverdianana ed un ragazzo italo-tunisino. Proprio il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia sarà uno degli impegni che Cisl, Anolf e Siulp intendono portare avanti. "Si tratta di un dovere morale a cui siamo chiamati tutti e soprattutto noi della Cisl - dice Liliana Ocmin, Segretario Confederale, responsabile delle politiche per l’immigrazione - dobbiamo far sì che le cosiddette seconde generazioni si vedano riconosciuto il diritto alla cittadinanza. Questi giovani racchiudono in loro il valore delle identità e della multicultura per eccellenza. Per scelta o per destino - sottolinea Ocmin - sono nati e cresciuti oltre che con i valori dei Paesi di provenienza dei loro genitori, anche con quelli di un Paese che deve garantire uguali diritti e pretendere uguali doveri nel rispetto della legalità e delle leggi dello Stato". Nella tarda mattinata concluderà la manifestazione il Segretario Generale della Cisl Raffaele Bonanni. Immigrazione: Consiglieri regionali, visitano Cie Ponte Galeria
Adnkronos, 6 ottobre 2009
Una delegazione di consiglieri della Regione Lazio ha visitato questa mattina il Cie, centro di identificazione ed espulsione, di Ponte Galeria a seguito della notizia di uno sciopero della fame avviato da tutti gli uomini la scorsa settimana. La delegazione era composta da Luisa Laurelli, del Pd, Enrico Fontana e Anna Pizzo, di Sl, e Ivano Peduzzi, del Prc. I consiglieri avevano notizia che alcuni ospiti erano stati malmenati e che erano stati disposti alcuni trasferimenti presso altre strutture a seguito della protesta. Alcuni ospiti - fanno sapere i consiglieri - hanno detto di essere stati malmenati nel corso della protesta, ma il personale ha smentito categoricamente. Il clima all’interno del centro - spiegano - comunque ci è apparso tranquillo sebbene fosse, come spesso accade, al massimo della capienza. Nella struttura sono presenti 125 uomini e 105 donne. In ogni caso, ancora una volta, ci siamo resi conto che il prolungarsi dei tempi di permanenza all’interno del Cie accresce l’incertezza del futuro di queste persone, aumentando i casi di disagio psichico e il rischio di malattie. I tempi lunghi di permanenza previsti dalle nuove norme del pacchetto sicurezza entrato in vigore l’8 agosto scorso, sono causati anche dalla mancata collaborazione delle ambasciate e dei consolati nell’identificazione dei migranti. Per questo come Regione intendiamo sollecitare ambasciate e consolati a collaborare. Meno collaborazione c’è e più pagano gli immigrati colpiti dal reato di clandestinità, con il rischio di vedere sempre più ridotto il riconoscimento dei diritti umani. C’è bisogno poi di rinnovare la convenzione con la Asl Rmd per garantire un più stretto rapporto con le strutture sanitarie territoriali sia per la prevenzione sia per la cura. I medici della Cri presenti all’interno del centro, mancano del ricettario e quindi non possono prescrivere i farmaci necessari mentre anche per interventi d’urgenza gli immigrati devono aspettare i tempi normali degli ospedali che mal si conciliano con i tempi ristretti di permanenza nel Cie. Per non parlare della necessità di provvedere alle vaccinazioni per l’influenza A. Infine la Regione - concludono - insieme al Garante dei detenuti, deve al più presto avviare delle attività di socializzazione all’interno del centro, a oggi del tutto inesistenti. Germania: i detenuti raccontano, in Rete, la loro quotidianità
Ansa, 6 ottobre 2009
Nel Nordrhein-Westfalen alcuni giovani detenuti raccontano in Rete la loro quotidianità, e le autorità giudiziarie sperano che la comunicazione diretta abbia un effetto deterrente. Le prigioni sono luoghi che non consentono reportage giornalistici. Ma dall’aprile del 2008 notizie di quel mondo chiuso filtrano attraverso www.podknast.de. I detenuti ristretti in quattro strutture penitenziarie del Land parlano per cinque minuti, sotto pseudonimo, e spiegano i motivi per cui sono stati arrestati e processati, raccontano della loro vita da persone libere, cosa gli manca in prigione e anche i lati positivi, le speranze una volta usciti di lì. Spesso sono storie deprimenti che mostrano la banalità del male e le conseguenze di una biografia distrutta. La funzione preventivo-pedagogica dei pezzi audio è palese: devono illustrare nel modo più vero possibile le grosse limitazioni di una vita dietro alla sbarre. Dopo un primo esperimento in audio, da settembre il programma è stato esteso al video. Non è chiaro perché gli ideatori, prima contrari ai filmati per il possibile futuro "marchio indelebile", abbiano poi cambiato idea e oggi parlino di un mezzo più aderente alla comunicazione giovanile, capace di far toccare con mano la tristezza di un interno carcerario.
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