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Giustizia: è "fisiologico" avere nelle carceri 70-80mila detenuti? di Stefano Anastasia (Associazione Antigone)
Il Manifesto, 3 ottobre 2009
Quasi 65mila detenuti: a vele spiegate verso quello che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria considera la soglia fisiologica della detenzione in Italia: 70-80mila detenuti, circa 140 ogni 100mila abitanti. Non male per un Paese che ha vissuto i suoi primi quarant’anni repubblicani con un tasso di detenzione di quasi la metà di quello attuale, un terzo di quello preconizzato dal dott. Ionta. Per carità di patria non stiamo a discutere da dove Ionta tragga queste previsioni e la loro ineluttabilità. In realtà, potremmo essere anche più foschi: e chi l’ha detto che la rincorsa all’incarcerazione debba fermarsi a 70-80 mila abitanti? Potrebbe andare ben oltre, come insegna il caso statunitense, dove un ordinario tasso di detenzione di circa 100 detenuti per 100mila abitanti - opportunamente stimolato da ogni genere di "lotta alla criminalità" - è arrivato in trent’anni di crescita a ben 760 detenuti ogni 100mila abitanti. Del resto l’on. Cota, capogruppo del partito che detiene la golden share delle politiche criminali nella maggioranza che governa l’Italia, non ha avuto esitazioni - qualche tempo fa - a paragonarci proprio agli Stati Uniti, per concludere che, per raggiungerli nel rapporto detenuti/popolazione, dovremmo incarcerarne otto volte tanti. Per non precipitare nell’incubo dei minacciosi paragoni di Cota, stiamo a Ionta e alle sue più miti previsioni:70-80mila detenuti. Intanto, però, le carceri possono ospitarne legalmente solo 43mila: che si fa? Inebriato dal successo dei prefabbricati trentini, Berlusconi nel one man show allestitogli da Vespa ha lanciato il proclama: faremo come all’Aquila! Le villette? Con le tendine? Edilizia, edilizia, edilizia: è l’unica cosa che sa dire il Governo (quando non si lancia nelle fumisterie delle prison boats, da far galleggiare di fronte alle città marinare). Lasciamo perdere. Bisognerebbe piuttosto liberarsi dalla ingenuità (o dalla malafede) di chi pensa che le incarcerazioni e il tasso di detenzione siano il frutto di congiunzioni astrali alle quali non possiamo sottrarci: e chi lo ha deciso che uno straniero per lavorare in Italia deve passare per la clandestinità, un Cie e il carcere? L’incrocio di Saturno con Venere? E chi lo ha deciso che il possesso di sostanze stupefacenti è causa di procedimento penale e incarcerazione? E chi lo ha deciso che il carcere dovesse tornare a essere l’unica forma di pena per migliaia di detenuti che - guarda un po’ - hanno precedenti condanne che impediscono loro di accedere alle alternative? In realtà, la fisiologia di cui parla Ionta nasconde scelte di valore (contro gli immigrati, contro i consumatori di droghe, contro i "recidivi") che forse lui condividerà pure, ma che non si possono attribuire al cielo stellato. Si susseguono, dunque, tra le persone di buona volontà, le ipotesi per affrontare la catastrofe umanitaria in cui sono ridotte le nostre prigioni (aumentano di centinaia alla settimana le richieste di sostegno che il Difensore civico di Antigone riceve da detenuti di tutt’Italia contro condizioni di detenzione giudicate inumane e degradanti dalla Corte europea dei diritti umani). Tra queste quella immediata e lapalissiana proposta da un ampio cartello di associazioni e personalità. La legge Fini-Giovanardi (non una legge fricchettona!) aveva previsto, insieme con il consueto bastone su tossici e piccoli spacciatori, la carota di nuovi termini per l’affidamento in prova ai tossicodipendenti: accessibile sin da sei anni dal fine pena. Fatto sta, però, che la norma, come ogni altra alternativa alla detenzione, risulta incredibilmente sottoutilizzata: prima dell’indulto, a fronte di 60mila detenuti c’erano 50mila persone in esecuzione penale esterna, oggi solo 10mila. Intanto, almeno altrettanti sono i detenuti che sono nei termini per usufruire dell’affidamento in prova per tossicodipendenti. Un giorno vedremo, forse, le nuove carceri prefabbricate di Berlusconi o, al contrario, una riforma delle leggi sulla droga, l’immigrazione, la recidiva. Intanto, perché Governo e Regioni non si siedono intorno a un tavolo e non definiscono un programma credibile, fatto di risorse, mezzi e strumenti, per la scarcerazione immediata di quei 10mila tossicodipendenti che potrebbero già oggi usufruire di misure alternative alla detenzione? Giustizia: 41-bis; le "garanzie" non devono essere mai sospese di Luigi Manconi
www.innocentievasioni.net, 3 ottobre 2009
Vogliamo andare sul difficile (e sul pericoloso). Ovvero parlare di 41 bis, alta sorveglianza, elevata vigilanza e quant’altro. Vogliamo parlare, cioè, delle forme di custodia afflittiva e particolarmente afflittiva: quelle forme che, alla privazione della libertà, sommano un sistema di controlli e di limiti, di vincoli e di interdizioni, che rendono la reclusione un sistema organico di repressione della personalità. Ciò attraverso una serie rigida di limitazioni al trattamento, alla socializzazione, alla relazione interpersonale, alla comunicazione con l’esterno. Si pensi alle limitazioni nei colloqui e nella ricezione dei pacchi, alla censura della corrispondenza, alla compressione del diritto di difesa, alla esclusione totale dai benefici penitenziari. Il 41 bis, in particolare, configura una detenzione che nelle sue manifestazioni concrete comporta trattamenti contrari a quel "senso di umanità", solennemente richiamato dall’articolo 27 della Costituzione italiana. Non solo: il "carcere duro" solleva due grandi questioni di diritto che vengono regolarmente ignorate. La prima è quella che dovrebbe escludere qualunque automatismo nell’assegnazione del detenuto al regime di elevata o elevatissima vigilanza. La seconda postula che quel regime non possa protrarsi se decadono le condizioni che hanno imposto il ricorso a esso. E invece, il "carcere duro", costituisce la sorte obbligata e ineludibile, per alcune categorie di detenuti, classificati non in base a una diagnosi sulla loro soggettiva - effettiva e attuale - pericolosità (sotto tutti i profili), bensì sulla base del titolo di reato. Non solo: una volta classificati come "altamente pericolosi" - un vero e proprio stigma: una etichetta indelebile - uscirne è un’impresa pressoché disperata. Tutto ciò è giusto? Tutto ciò è costituzionalmente ammissibile? Tutto ciò è efficace? Vogliamo discuterne, partendo da una premessa: dell’identità di quei detenuti (nella grandissima parte, probabilmente autentici criminali, giustamente condannati a pene lunghe) non interessa qui discutere. Perché questo è l’unico punto che riteniamo, incrollabilmente indiscutibile: il crimine più efferato non deve sospendere le garanzie, sacre e inviolabili, del diritto. Giustizia: 41-bis; il "segreto di Stato" sulla detenzione speciale di Sergio D’Elia (Segretario di Nessuno Tocchi Caino)
www.innocentievasioni.net, 3 ottobre 2009
L’ora d’aria si fa a gruppi di cinque in passeggi di dieci metri per venti tra muri di cemento con sopra una rete a chiudere i detenuti come in un pollaio. Alla finestra della cella gli sbarramenti possono arrivare fino a quattro: una prima fila di sbarre vere e proprie, poi una seconda fila sempre di sbarre, ancora una rete metallica a maglie molto fitte e, infine, un pannello di plastica opaca attaccato alla finestra dall’esterno. Questo pannello, che fa filtrare poca aria e poca luce, è detto "gelosia". Non so da dove derivi il nome, ma il concetto mi sembra quello di modi e tempi passati, come quando si pensava di difendere l’onore familiare con la cintura di castità o di garantire la sicurezza sociale con le finestre a "bocca di lupo". Marchingegni medioevali che sopravvivono oggi in quei "monumenti" della lotta alla mafia che sono le sezioni del 41 bis, dove di molte misure spesso sfugge il senso pratico che non sia quello di una ordinaria e continua afflizione. Avere, ad esempio, un solo colloquio al mese e due ore d’aria al giorno, al massimo due pacchi viveri e il fornellino per scaldare vivande ma non per cucinarle… che ragione ha, ai fini della sicurezza? E cosa c’entra con la lotta alla mafia il fatto che i detenuti in 41 bis non possano lavorare né frequentare corsi scolastici? Possono studiare solo da autodidatti, senza l’ausilio di insegnanti o professori. Ciò nonostante, non sono pochi quelli che, in queste condizioni, sono riusciti a diplomarsi e pure a laurearsi, anche se sulla materia non esistono o non sono pubbliche notizie e statistiche ufficiali. Una sorta di segreto di Stato continua a coprire tutto ciò che ha a che fare con il 41 bis e chi prova a conoscere e a svelare la realtà della detenzione speciale in Italia pare che metta in pericolo la sicurezza nazionale. Quella che segue, quindi, è solo una parziale e, forse, imprecisa rassegna di casi di laurea in regime di massima sicurezza. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ritenuti i potenti boss del quartiere Brancaccio di Palermo, hanno facce da bravi ragazzi e certificati penali da far paura. Sono al "carcere duro" da quindici anni e con il "fine pena: mai" per una serie di ergastoli per strage a cui sono stati condannati. Nelle more di una pena che durerà una vita, Giuseppe si è laureato in biologia molecolare e Filippo in matematica. Pietro Aglieri, soprannominato ‘U Signurinu per il vestire elegante e il diploma di liceo classico, è in 41 bis da quando è stato arrestato nel giugno del ‘97. Nel suo "covo" pare avesse allestito una cappella con tanto di altare per pregare e, in crisi di coscienza, manifestato anche l’intenzione di costituirsi… non alla polizia, ma all’arcivescovo di Palermo. L’ex capo del mandamento di Santa Maria di Gesù si è laureato in Storia della Chiesa alla facoltà di Lettere della Sapienza di Roma, con tanti trenta e lode sul libretto degli esami sostenuti in una cella di Rebibbia adibita per la circostanza ad aula universitaria, molto blindata e sorvegliata da un piccolo esercito di agenti di custodia, attirati più dall’insolita scena che dalla pericolosità del boss condannato all’ergastolo per la strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Carlo Marchese, un palermitano affiliato alla stidda nissena condannato all’ergastolo per omicidio, ha ripreso gli studi nel ‘96 dopo essere finito nel circuito speciale. Ne è uscito nel 2003 e, nel dicembre 2004, si è laureato in giurisprudenza con un brillante centodieci e lode. La discussione della tesi in filosofia del diritto si è svolta al Pagliarelli di Palermo, in una delle sale riservate per i colloqui tra detenuti e avvocati. Antonio Libri è stato condannato per associazione mafiosa e deve scontare un ergastolo per omicidio. Arrestato nel maggio del 2000 dopo sei anni di latitanza, è finito direttamente al 41 bis dove si è laureato in sociologia. Salvatore Benigno era un incensurato studente di Medicina quando fu arrestato nel luglio del 1995 e subito messo in 41 bis. Condannato in via definitiva a due ergastoli, uno dei quali per l’autobomba fatta scoppiare in Via dei Georgofili a Firenze nel ‘93, ha completato gli studi nel supercarcere dell’Aquila. La discussione della tesi di laurea in ortopedia è avvenuta in videoconferenza, nel marzo del 2005. Dal febbraio 2007 non è più in 41 bis. Ferdinando Cesarano, noto come Nanduccio è Ponte Persica, era fuggito rocambolescamente dall’aula bunker di Salerno nel giugno del ‘98. Altrettanto rocambolescamente era stato catturato due anni dopo e subito detenuto nell’Area Riservata della sezione speciale del carcere di Parma con la prospettiva di una pena fino alla morte per i tanti ergastoli da scontare. Si è iscritto a Sociologia presso l’Università degli Studi di Napoli e nel giro di tre anni ha superato gli esami previsti dal programma: i primi svolti in Facoltà, in segreto e tra mille precauzioni, gli altri in carcere, in videoconferenza. Carmelo Musumeci ha già scontato venti anni di carcere. È entrato con la licenza elementare e ha ripreso gli studi all’Asinara, in regime speciale. Da autodidatta ha terminato le scuole superiori e, nel 2005, dopo quattordici anni di carcere speciale, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Firenze con una tesi in sociologia del diritto dal titolo "Vivere l’ergastolo". Attualmente è nel carcere di Spoleto, con la condanna a vita ma senza il 41 bis. È iscritto all’Università di Perugia al corso di laurea specialistica, dove gli mancano pochi esami. Giuseppe Gullotti si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Torino nel dicembre del 2006 dopo sette anni di "carcere duro" e una condanna definitiva a 30 anni per avere ordinato l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Sottoposto al regime speciale, ha superato l’esame di laurea discutendo una tesi proprio sull’art. 41 bis della legge penitenziaria. Il fatto non ha solo un valore simbolico: chi ha letto la tesi sostiene che ha anche un notevole valore scientifico e pratico, per la nutrita serie di riferimenti giurisprudenziali relativi al regime penitenziario speciale che possono essere utili a quanti da anni tentano di uscirne. Di altri casi posso parlare per conoscenza diretta. Nell’estate del 2002, nel fare con Maurizio Turco un giro cella-a-cella in tutte le sezioni del 41 bis (da quel giro di visite ispettive è nato poi il libro-inchiesta "Tortura Democratica"), ho incontrato non pochi detenuti curvi sui libri e alle soglie della laurea che nel frattempo credo abbiano tutti conseguito. Guerino Avignone di Cittanova, condannato a 15 anni e all’ergastolo per associazione mafiosa e omicidio, ha fatto undici esami fuori nella Facoltà di Economia e Commercio presso l’Università di Messina. Gli altri li ha finiti dentro insieme alla tesi sul diritto al lavoro in carcere. Nei due anni di carcere speciale, ha fatto tutto senza computer e calcolatrice, vietati al 41 bis. Antonino Chirico, originario di Gallico, condannato in via definitiva a 25 anni, 9 mesi e 15 giorni per fatti di ‘ndrangheta, è entrato in 41 bis nel 1995 e ne è uscito nel 2005. Nel carcere di San Vittore si è diplomato in ragioneria; al 41 bis ha fatto l’Università, corso di laurea in Lettere e Filosofia. Domenico Gallico, considerato un capo della ‘ndrangheta e condannato all’ergastolo, è uscito dal 41 bis nel 2005, dopo tredici anni. Quando l’ho incontrato nel Carcere di Spoleto, stava studiando Giurisprudenza e aveva già fatto otto esami. Anche Marcello Dell’Anna, originario di Nardò, studiava Legge quando l’ho visto nel Carcere di Novara. Era dentro da dieci anni e in 41 bis da tre, condannato in via definitiva all’ergastolo per concorso in omicidio. A Novara si è diplomato in ragioneria e per "sfuggire alla morsa del 41 bis" si è iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Milano. Non so se sia lui il Marcello Dell’Anna, detenuto alle Sughere di Livorno, che nel novembre 2008 si è aggiudicato il terzo posto per la poesia nel "Premio Casalini", concorso letterario per carcerati. Antonino Pesce, originario di Rosarno, condannato all’ergastolo per omicidio, è uscito dal carcere duro alla fine del 2002 dopo sette anni di Alta Sicurezza e tre di 41 bis. Si è messo a studiare appena finito in carcere: prima ha conseguito il diploma di ragioniere, poi si è iscritto all’università, Facoltà di Economia e Commercio. Quando l’ho incontrato nel Carcere di Terni aveva già sostenuto numerosi esami. Esperti di mafia e galere sono convinti che questi detenuti non abbiano cambiato mentalità: se la materia preferita è Legge è perché "vogliono capire dov’è che hanno sbagliato" oppure perché "sperano di uscire un giorno e di evitare di finire di nuovo dentro grazie a una più accurata conoscenza dei codici"; se studiano è per "ottenere un permesso per andare a fare gli esami nella città d’origine" dove ha sede l’università a cui si sono iscritti e la cosca a cui sono affiliati, ed "è assurdo allentare in questo modo un regime di alta sicurezza fatto apposta per impedire ogni contatto con il mondo criminale esterno". In carcere non si considera mai la possibilità che un detenuto cambi registro, si sospetta sempre che pensi solo a come farla franca, e per ciò simula buona condotta. Ma i casi qui descritti sono quasi tutti di detenuti in 41 bis laureati o laureandi in facoltà vicine alle sezioni speciali, le quali sono state allestite tutte da Secondigliano in su, in base alla fine considerazione che i "mafiosi" sono quasi tutti originari di luoghi più a sud. In ogni caso, gli esami universitari dei detenuti speciali si svolgono ormai solo in videoconferenza, come i processi. Per la discussione della tesi di laurea di Salvatore Benigno, undici professori della Facoltà di Medicina si sono spostati nell’aula-bunker del tribunale di Palermo, dove il detenuto è apparso dal supercarcere dell’Aquila attraverso i monitor delle videoconferenze. Come avviene per i processi, con giudici e accusatori da una parte in un’aula di tribunale e imputati da tutta un’altra parte, in una saletta del 41 bis davanti a una telecamera: si tratta di processi virtuali, che si concludono però con pene vere e condannati in carne e ossa che hanno fatto da telespettatori. Quando le notizie dei mafiosi laureati al 41 bis sono finite sui giornali, molti hanno gridato allo scandalo: lo Stato che conferisce una laurea a chi lo Stato ha combattuto… è intollerabile. Ma le storie di questi detenuti, a ben vedere, segnano non una resa ma un primato del diritto sul delitto, e mostrano che il carcere, che per molti si rivela essere la prima università del crimine, per alcuni può essere università vera e occasione di riscatto. Ma anche se la laurea si rivelasse solo un modo di espiare la pena senza perdere il lume della ragione o un tentativo di "evadere"… una pratica che da noi si chiama "carcere duro" e che nel diritto internazionale si configura come tortura, non sarebbe fatto da disprezzare. Sarebbero innocenti evasioni. Perché l’intollerabile è che da questo regime di 41 bis si possa uscire solo tramite il "pentimento" oppure - come si dice - coi piedi davanti. Giustizia: Di Pietro firma petizione popolare per certezza pena
Agi, 3 ottobre 2009
Attraverso la petizione, inviata al Ministro della Giustizia Angelino Alfano, alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato ed a tutti i Parlamentari, Mario Congiusta ed i firmatari (ad oggi oltre 11000) chiedono la certezza dell’espiazione della pena almeno per reati legati alla criminalità organizzata ed a quelli contro la persona. Sulla questione il padre di Gianluca Congiusta, il giovane imprenditore della Locride ucciso dalla ‘ndrangheta a Siderno il 24 maggio del 2005 ha ricevuto una missiva al leader di Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. "Non posso che apprezzare la "Petizione popolare ex art. 50 della Costituzione Certezza della Pena" - ha scritto Di Pietro a Mario Congiusta - anche perché contiene molte delle proposte presentate da Italia dei Valori in materia, che si è sempre battuta in questo senso, non dimenticando mai che la pena non deve essere una vendetta dello Stato nei confronti del reo, ma la giusta punizione inflitta, con tutte le garanzie costituzionali, anche al fine di rieducare il detenuto. Veda a questo proposito la voce "giustizia" nei 10 Punti per l’alternativa di governo nel sito di Italia dei Valori. Questa proposta - continua il parlamentare - contiene evidentemente la soddisfazione anche di un altro presupposto: la creazione di case di detenzione adeguate e dotate di tutte le strutture per recuperare i detenuti, specialmente i più giovani, attraverso lo studio e l’apprendimento di un mestiere, le principali cause che portano a delinquere. Quando sono stato Ministro dei LL.PP. ho avviato la costruzione di diversi carceri, i cui lavori dovrebbero essere accelerati al massimo, data anche l’attuale situazione esplosiva, che non si risolve certamente con un altro nefasto indulto, da Idv combattuto con tutte le sue forze, anche contro la propria allora maggioranza di governo. Ho provveduto comunque a trasmettere le sue considerazioni all’On. le Federico Palomba, vice presidente della Commissione Giustizia, che è a disposizione per ogni eventuale sua esigenza di approfondimento dell’argomento". Giustizia: i giornalisti in piazza, per difendere l’informazione
La Stampa, 3 ottobre 2009
Se il rinvio dal 19 settembre al 3 ottobre della manifestazione sulla libertà di informazione era stato deciso dal sindacato dei giornalisti per rispettare il cordoglio nazionale dopo l’attentato ai soldati italiani a Kabul, oggi l’effetto apparente è tutt’altro: quello di collocare l’evento nel pieno di uno scontro senza precedenti sull’informazione, se possibile ancor più rovente di quanto non fosse qualche settimana fa. In piazza oggi scenderanno i giornalisti (molti ma non tutti, la manifestazione è segnata dal polemico giudizio del governo e del centrodestra), la Cgil, l’Arci, Libera e tante altre associazioni della società civile e del cosiddetto "popolo di sinistra", partiti ed esponenti dei partiti dell’opposizione, dal Pd all’Idv fino a Rifondazione. Anche un corteo di precari della scuola terminerà il suo percorso a piazza del Popolo. Dal palco non parleranno leader politici ma esponenti sindacali, giornalisti, artisti, con la presenza di peso di Roberto Saviano, scrittore anticamorra che dalle pagine di "Repubblica" ha già benedetto l’iniziativa. Ai due estremi della contesa si sono collocati ieri Reporters sans frontières (Rsf), organizzazione internazionale impegnata nella difesa dei giornalisti in tutto il mondo, secondo la quale "l’Italia è il paese dell’Unione europea dove la libertà di stampa è più gravemente minacciata" e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti, che liquida la questione in poche battute: "Non ho ancora sentito - afferma - un motivo reale e concreto che giustifichi l’allarme per la libertà di stampa. Quando si parla di una manifestazione a difesa della libertà di stampa, e si aggiunge come giustificazione che in Italia "tira un brutto vento", già si tolgono motivazioni all’iniziativa. Le proteste, infatti, si devono basare su motivazioni concrete". Per il ministro del Turismo Michela Brambilla è "ridicolo ma anche patetico" che "una certa sinistra" promuova una manifestazione contro "la presunta censura che sarebbe operata dal Governo". Ma Rsf ha chiesto un incontro al premier e ha preparato un appello ai senatori perché non approvino così com’è il ddl sulle intercettazioni, e con il suo segretario generale Jean-Francois Julliard annuncia: "Silvio Berlusconi, se non mette fine alla sua campagna contro i media rischia di ritrovarsi nella lista dei predatori della libertà di stampa in compagnia di personaggi come Gheddafi e Putin". Ad alimentare le polemiche, ieri, anche la presa di posizione di Carlo De Benedetti, l’editore di Repubblica ed Espresso, secondo il quale "è evidente che in Italia esiste la libertà di stampa, ma c’è un problema di limitazione della libertà di informazione e della possibilità da parte del cittadino di essere informato anche con punti di vista diversi". Insorge la maggioranza: per il portavoce del Pdl Daniele Capezzone "i fatti delle ultime ore consegnano la sinistra italiana e la sua storia a due nuovi leader, anzi a un ticket: quello formato da Carlo De Benedetti e da Patrizia D’Addario". Sceglie l’ironia anche Gaetano Quagliariello, che cita Sky e i cambi di direzione al vertice di alcuni quotidiani italiani per concludere che l’informazione in Italia è squilibrata sì, ma a sfavore del Governo: "La buona notizia è che se n’è accorto anche De Benedetti". Giustizia: Napolitano firma, "scudo fiscale" è legge per 20 voti
La Stampa, 3 ottobre 2009
Brivido nella maggioranza che incassa in via definitiva, ma per un soffio, solo 20 voti, il decreto correttivo del dl anti-crisi con le misure riguardanti lo scudo fiscale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una nota, nella quale non manca di fare alcuni rilievi, fa sapere che domani (ultimo giorno disponibile, pena la decadenza della legge) promulgherà il decreto. In ogni caso, sottolinea il Quirinale citando diverse sentenze della Corte Costituzionale, "la previsione di ipotesi di non punibilità subordinata a condotte dirette ad ottenere la sanatoria di precedenti comportamenti non è ritenuta qualificabile come amnistia". Napolitano però sottolinea che l’intera disciplina dello scudo avrebbe trovato "più corretta" collocazione nel decreto anti-crisi di quest’estate ma valuta d’altra parte positivamente i chiarimenti di governo e agenzia delle entrate sulle norme anti-riciclaggio. Il via libera al provvedimento arriva alla Camera a ora di pranzo con solo 20 voti di scarto (250 i no, 270 i sì e 2 astenuti, Paolo Guzzanti e Giorgio La Malfa). I ventinove assenti della maggioranza (22 del Pd, 6 dell’Udc e uno dell’Idv) in poche parole "graziano" il governo che ottiene il via libera al testo con soli 9 voti in più rispetti a quelli della maggioranza richiesta (261). La tensione in Aula è altissima, l’Italia dei Valori, "provoca" la maggioranza più volte fino ad arrivare alle accuse di Francesco Barbato al premier di essere "non solo escortiere ma anche mafioso" dopo questo provvedimento. Le votazioni procedono a raffica e le assenze da una parte e dall’altra si fanno sentire tanto che diversi ordini del giorno vengo bocciati per un soffio (cinque o sei voti di scarto in media) e il governo va anche sotto per un voto su un odg a prima firma Pino Pisicchio (Idv) critico sulle limitazioni imposte alle indagini della Corte dei Conti dal provvedimento. Il governo prova a serrare i ranghi e diversi ministri e sottosegretari arrivano in Aula a dare man forte alle votazioni. Le assenze, in effetti, si fanno sentire anche nella maggioranza. Nei banchi del Pdl mancano trentuno deputati, quattro gli assenti della Lega. Una situazione che il ministro della Difesa Ignazio La Russa definisce "grave". Mentre il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli invita a non ricandidare chi oggi non sedeva sul proprio scranno senza una buona giustificazione. La maggioranza in ogni caso, anche se per il rotto della cuffia, si salva e fa approvare il testo tra le proteste dell’Idv che innalza in Aula cartelli con scritte "Vergogna!" o "La mafia ringrazia!" ed è l’opposizione a "mangiarsi le mani". La presidenza del gruppo della Camera del Pd, perciò, prenderà "immediate sanzioni" contro gli assenti ingiustificati. Lo stesso farà l’Udc come spiega il capogruppo e leader Pier Ferdinando Casini. "Sottoporrò - scrive in una lettera a chi non era presente a votare - agli organi del gruppo l’eventuale applicazione di sanzioni pecuniarie per le assenze ingiustificate e ti richiamo per il futuro a un maggiore rispetto dei tuoi doveri". Il governo, in ogni caso porta a casa il provvedimento che verrà promulgato domani dal capo dello Stato al quale l’Idv aveva chiesto a più riprese di riflettere su un rinvio. "Siamo amareggiati - attacca Di Pietro - dal fatto che neanche il nostro presidente della Repubblica, massima autorità dello Stato, abbia voluto prendersi un po’ più di tempo per riflettere". Critico anche il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, che parla di una "grave offesa ai contribuenti onesti". Mentre dall’Europa arriva il via libera dell’Osce alla norma varata dal governo che, secondo il segretario generale Angel Gurria, è una "logica conseguenza" alla stretta sui paradisi fiscali intrapresa dalla sua organizzazione. Giustizia: Sappe; no a sciacallaggi su tragedie di Eboli e Mestre
Il Velino, 3 ottobre 2009
"Ancora una volta una tragedia immane ha visto purtroppo protagonista un appartenente al Corpo di Polizia penitenziaria, che ha sterminato nella provincia di Salerno la sua famiglia per ragioni a noi sconosciute e si è poi tolto la vita". È il commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi azzurri, alla notizia della tragedia avvenuta nella provincia di Salerno dove un Assistente capo della Polizia penitenziaria in servizio a Eboli si è suicidato dopo aver ammazzato i genitori e il cane. "Un pi - aggiunge Capece - come era successo qualche giorno fa a Mestre, dove un collega in pensione aveva ucciso la moglie, mentre un altro in servizio a Monza si suicidava in caserma. Non nascondiamo certo un preoccupato disagio a queste tragiche notizie, ma non vogliamo neppure che questi agghiaccianti fatti alimentino squallidi sciacallaggi di chi insinua responsabilità politiche in quelle che sono vere e proprie tragedie umane. Certo, bisogna accertare se e quanto eventualmente incide la professione svolta. Bisogna capire cosa è stato fatto per contrastare il disagio lavorativo del personale di Polizia penitenziaria e cosa per stimolarne la professionalità tramite condivisione, ascolto e solidarietà". "Bisogna dunque - sottolinea il segretario del Sappe - accertare e capire, rispettando il dolore dei familiari e degli amici delle persone coinvolte, e non polemizzare sterilmente come invece fa chi usa anche il malessere che genera queste tragedie umane per sferrare colpi di clava inutili e senza senso. Lo abbiamo detto pochi giorni fa e lo ripeto. Assume certamente aspetti estremamente preoccupanti il fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia ed a quelli della Polizia penitenziaria in particolare, come recentemente emerso in diverse corrispondenze giornalistiche. Bisogna comprendere e accertare quanto ha eventualmente inciso l"attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative dei colleghi suicidi nel tragico gesto estremo posto in essere. L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi lo scorso anno (nell’ordine dei 10 casi in pochi mesi!), accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono, in taluni casi, le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni". "Proprio per questo - ricorda Sarno - il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria assicurò i sindacati di prestare particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto. Si misero in campo una serie di proposte e di linee di interventi per contrastare il disagio lavorativo del personale di Polizia penitenziaria e stimolare la professionalità tramite condivisione, ascolto e solidarietà. E allora è urgente ed opportuno verificare e monitorare quanto è stato realmente fatto e quanto invece non è stato fatto e perché. Quando si verificano queste tragedie il Sappe ha sempre messo in evidenza l’effetto burn-out tra i poliziotti penitenziari, una forma di disagio professionale protratto nel tempo e derivato dalla discrepanza tra gli ideali del soggetto e la realtà della vita lavorativa". "Per questo riteniamo, e lo ribadiamo oggi con forza - sottolinea il segretario del Sappe -, che l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico agli operatori di polizia (garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene) possa essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria". Viterbo: Ugl; pochi agenti, sanità è carente e c'è taglio ai fondi
www.tusciaweb.it, 3 ottobre 2009
Gentile redazione, sono un agente di polizia penitenziaria che presta servizio presso la Casa Circondariale "Mammaggialla" di Viterbo, leggendo l’articolo del consigliere Pd Quintarelli, mi viene spontaneo domandarmi quale sia il vero disagio in una struttura penitenziaria come quella di Viterbo. Informo il consigliere, che nel penitenziario viterbese esiste una carenza di circa 150 unità di polizia penitenziaria, con le conseguenze che un agente deve supportare anche tre posti di servizio, o addirittura cosa ormai giornaliera, che alcuni posti di servizio rimangano scoperti per mancanza di personale. Ciò comporta un livello minimo di sicurezza mai verificatosi, sia per il personale di polizia penitenziaria, sia per il personale civile che collabora all’interno dell’istituto. Altra criticità si sta verificando nella sanità, passata di recente alla Ausl, in quanto vi è una assenza da 4 mesi circa della branca infettivologica, comportando un aumento vertiginoso di traduzioni da parte della polizia penitenziaria presso il locale ospedale per le visite specialistiche. Altra branca assente da diverso tempo è la psichiatria, fondamentale all’interno di un istituto penitenziario come Viterbo, con un’alta densità di detenuti sotto terapia psichiatrica e relativi controlli specialistici. Ulteriore disagio riguarda il taglio del 40 - 50% fatto ai fondi che riguardano il lavoro dei detenuti all’interno dell’istituto. Tutte queste criticità portano ad un clima ad alta esplosività all’interno dell’istituto, sia per il personale di polizia penitenziaria che per la popolazione detenuta, pertanto in un periodo dove vengono effettuati tagli su qualsiasi capitolo, capendo la problematica sollevata dal consigliere Pd, invito il signor Quintarelli a prendere coscienza anche delle gravi e reali problematiche all’interno dell’istituto viterbese.
Il segretario provinciale Uspp per l’Ugl, Danilo Primi Genova: Pdl; vendere Marassi, costruire unico carcere in città
Secolo XIX, 3 ottobre 2009
Il deputato Roberto Cassinelli, deputato genovese del Pdl e membro della Commissione giustizia della Camera, si schiera a favore dell’ipotesi, lanciata dal provveditore delle opere pubbliche di Liguria e Lombardia, di vendere l’immobile che oggi ospita il carcere genovese di Marassi per renderlo un centro commerciale: "se il progetto fosse realizzato con il consenso delle associazioni di categoria, sarebbe il primo passo - afferma - per una riqualificazione del quartiere. Il Comune dica se è disponibile a concedere il cambio di destinazione d’uso". Francesco Errichiello, provveditore delle opere pubbliche di Liguria e Lombardia, propone al Comune di Genova una modifica al piano regolatore della città che consenta di ospitare all’interno dell’immobile che oggi è sede del carcere di Marassi un centro commerciale, in modo da vendere lo stabile e potere così finanziare almeno in parte la costruzione di una nuova struttura. "Condivido e sostengo l’iniziativa lanciata dall’ingegner Errichiello", dichiara Roberto Cassinelli. "Le strutture carcerarie cittadine di Marassi e Pontedecimo - prosegue - sono evidentemente inadeguate a svolgere degnamente la propria funzione. Un nuovo penitenziario in sostituzione dei due esistenti consentirebbe una razionalizzazione dei costi fondamentale in un periodo di crisi che causa un sottodimensionamento degli organici di Polizia penitenziaria provocando pesanti disagi, sia agli agenti in servizio che ai detenuti, all’interno delle carceri". Secondo Cassinelli "l’idea di un nuovo centro commerciale è positiva perché, se il progetto fosse realizzato con il coinvolgimento ed il consenso delle associazioni di categoria, in maniera tale da non recare danno alle attività economiche già esistenti che sono parte integrante del tessuto sociale della zona, potrebbe rappresentare davvero il primo passo per un processo di riqualificazione dell’intero quartiere". Il deputato del Pdl chiede al Comune di "far conoscere alle altre Istituzioni e ai Cittadini la propria opinione in merito: è di fatto l’unico ente che può sbloccare la situazione". Cassinelli conclude rinnovando l’invito al "massimo coinvolgimento dei privati nella realizzazione delle nuove carceri: si tratta - dice - di un modello ormai largamente utilizzato all’estero che ha dato evidente prova di poter funzionare molto bene". Pistoia: aziende offrivano lavori fasulli, per far uscire detenuti
Il Tirreno, 3 ottobre 2009
L’ultimo caso è di pochi giorni fa: un detenuto quarratino di 49 anni denunciato dai carabinieri alla Procura e al Tribunale di sorveglianza di Firenze per aver presentato documenti falsi che gli avrebbero permesso di ottenere misure alternative alla detenzione nel periodo residuo di pena da scontare dopo i tre anni condonati grazie all’applicazione dell’indulto. Molti sono i condannati a cui restano meno di due anni di reclusione che presentano richiesta di svolgere un’attività lavorativa. Ecco, proprio su queste richieste - ancora non concretizzatesi in effettiva assunzione per i detenuti - si sono concentrati i controlli dei carabinieri. Nel caso del quarratino - come in diversi altri accertati - la ditta che l’avrebbe assunto in realtà aveva cessato l’attività da anni. Adesso l’uomo rischia un’ulteriore condanna da uno a cinque anni di reclusione. Dall’inizio dell’anno i carabinieri hanno deferito alla procura altri tre detenuti, a carico dei quali è stato ipotizzato il reato previsto dall’articolo 374 bis del Codice penale (false dichiarazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria). E quattro aziende - due vivai, una ditta di trasporti e un mobilificio - sono state segnalate alla polizia tributaria, all’Agenzia delle entrate e all’Ispettorato del lavoro perché i loro redditi non sono risultati sufficienti al pagamento di regolari retribuzioni. In sostanza, non si capisce in base al reddito dichiarato, come potessero stipendiare il dipendente che erano disposte ad assumere. Gli ulteriori accertamenti serviranno a capire se queste aziende si sono rese colpevoli di evasione fiscale. I carabinieri del Nucleo informativo hanno ricevuto quasi 200 richieste di informazioni dai tribunali e dagli uffici di sorveglianza. In oltre la metà dei casi, le richieste di lavoro presentate dai condannati non avevano i requisiti necessari. Guardia di Finanza e polizia tributaria sono state invitate a compiere accertamenti approfonditi nel caso di un’azienda di trasporti gestita da un marocchino con 12 dipendenti (11 marocchini e un argentino). Il titolare aveva dichiarato la propria disponibilità ad assumere un condannato con parte della pena da scontare. Ma il titolare non aveva neppure un conto corrente. Gorizia: Cisl si mobilita per il carcere, visita prossimo 9 ottobre
Messaggero Veneto, 3 ottobre 2009
Nuova offensiva per risolvere il problema del carcere di Gorizia, che, a causa del forte degrado dell’edificio può ospitare solo una trentina di detenuti, con il rischio sempre più concreto di una prossima chiusura definitiva. Una nuova mobilitazione parte dalla Cisl, ovvero dal segmento sindacale Federazione nazionale per la sicurezza, il cui stato maggiore visiterà la prigione di via Barzellini il prossimo nove ottobre. "Saranno presenti il segretario nazionale della Fns, Fabio Cabianca, insieme ai responsabili regionale e provinciale, oltre ad altri esponenti della Cisl - informa Massimo Bevilacqua, del settore Funzione pubblica -. Auspichiamo che, a questa visita sia presente anche il prefetto di Gorizia, cui abbiamo già chiesto un incontro, per affrontare nuovamente questo scottante tema, di cui si parla solo, periodicamente, senza mai giungere a decisioni concrete. La Cisl chiede, quindi, ad autorità e rappresentanti istituzionali vari di porre fine alle chiacchiere e passare ai fatti". Va ricordato che la funzionalità della casa circondariale di via Barzellini è stata progressivamente ridotta, passando, nell’arco di qualche anno, da oltre 100 a poco più di 30 detenuti, in quanto le condizioni della struttura non consente di ospitarne di più. Da diversi anni si parla della costruzione di un nuovo carcere ma, bocciato dal consiglio di quartiere l’unico sito ritenuto adatto, la caserma Pecorari di Lucinico, nessun’altra soluzione idonea sembra essere stata, ad oggi, trovata. Il sindaco Romoli insiste da tempo sulla ristrutturazione dell’edificio di via Barzellini, ampliando il complesso all’ex scuola Pitteri di via Cappuccini. Un’ipotesi che trova favorevole anche la Cisl. "Potrebbe andare bene anche questa soluzione- afferma Bevilacqua-, a patto, però che si vada avanti. Il nostro timore è che, di questo passo, si possa arrivare alla chiusura del carcere prima che sia pronta qualsiasi alternativa. L’iniziativa promossa dalla Cisl ha, quindi, l’obiettivo di sensibilizzare nuovamente le istituzioni sulla questione, in modo tale che si arrivi, finalmente, ad assumere un orientamento preciso sul futuro del carcere". San Gimignano (Si): gli agenti si autoconsegnano, lunedì sit-in
Ansa, 3 ottobre 2009
Continua la protesta della polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano. L’autoconsegna all’interno del penitenziario, "intesa - fanno sapere sindacati autonomi e confederali organizzatori della protesta - come permanenza nella caserma dell’istituto". Continua la protesta della polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano. Da lunedì prossimo, all’ingresso del carcere, si terrà un sit-in e altre manifestazioni, come l’astensione dalla consumazione dei pasti della mensa di servizio e, infine, l’autoconsegna all’interno del penitenziario, "intesa - fanno sapere sindacati autonomi e confederali organizzatori della protesta - come permanenza nella caserma dell’istituto, anche dopo l’espletamento del turno di servizio, senza quindi raggiungere i propri familiari". I sindacati, spiegando la loro iniziativa, "sottolineano con rammarico l’indifferenza dimostrata dall’amministrazione penitenziaria e dalla classe politica riguardo alle gravissime problematiche denunciate nella manifestazione del 26 giugno". Che riguardano "il degrado gestionale esistente nel penitenziario di San Gimignano con allarme per l’intera società e la sicurezza dei cittadini". Iglesias: due serre, per coltivare ortaggi all’interno del carcere
Ansa, 3 ottobre 2009
Nella casa circondariale alla periferia di Iglesias, lungo la strada che conduce alla Carbonia-Villamassargia, si lavora per realizzare un orto all’interno del carcere. Due piccole serre, per la coltivazione di ortaggi e la cura di un vivaio sarebbero in grado di impiegare una ventina di detenuti. "Si tratta di un piano che prevede un finanziamento di circa 50 mila euro - spiega Vincenzo Alastra, direttore della casa circondariale - abbiamo a disposizione uno spazio di circa 400 metri quadrati all’interno del perimetro della struttura carceraria, non è moltissimo, ma basta per dare il via a un’attività di coltivazione di ortaggi e piante che poi potrebbero essere venduti". I tempi per la realizzazione dell’intervento non dovrebbero essere lunghi, forse ci vorrà solo qualche mese. Porto Azzurro (Li): l’attrice Cloris Brosca, incontra i detenuti
Il Tirreno, 3 ottobre 2009
"E la zingara va in carcere" recitano i manifesti sparsi per la città. La gitana è l’attrice Cloris Brosca del programma Tv, Luna Park (2004), mentre la prigione è il penitenziario di Porto Azzurro, che ospita Cloris per il progetto Cine27, organizzato da "Samarcanda" e finanziato da Cesvot, con il patrocinio del Comune di Piombino e in cooperazione con la direzione carceraria. Domani, dopo l’incontro con i detenuti (al quale saranno presenti anche Valentina Brancaleone e Francesca Palla del Teatro dell’Aglio), Brosca si sposterà alle 18 alla libreria Coop di Piombino, per parlare dell’esperienza nel penitenziario e della propria attività lavorativa. Nonostante la fama ottenuta con il personaggio della zingara, Cloris Brosca presenta un percorso professionale di prim’ordine, che trascende il ruolo statico svolto nel programma televisivo, possedendo le capacità recitative e un bagaglio culturale tali da renderla un’attrice intensa e completa.
Ha già partecipato a situazioni simili a Cine27? Sì, a Roma in un carcere minorile (Casal del Marmo), e nel reparto femminile di Rebibbia, dove abbiamo dato vita ad una serie di appuntamenti sulla poesia, che hanno portato ad un’esibizione teatrale realizzata dalle detenute. Questa esperienza ha ispirato anche il primo spettacolo che io abbia mai scritto, "Echi diversi".
Come si svolgerà l’incontro con i detenuti? Non si farà vedere un film, né discuteremo di un’opera specifica, ma parleremo della figura dell’attore in generale, esaminandola in seguito nei particolari settori della televisione, del teatro e del cinema. A tale proposito, il suo lavoro ha toccato ciascuno dei tre ambiti.
Quale sente più vicino, maggiormente nelle sue corde? Senza dubbio il teatro, ma probabilmente solo perché conosco molto meglio il linguaggio teatrale rispetto a quello televisivo o cinematografico. Se penso ad una cosa, istintivamente sono portata a immaginarla sul palcoscenico, decisamente il mio riferimento.
Ha lavorato con talenti come Eduardo De Filippo, Giuseppe Tornatore, e Massimo Troisi. Cosa può dire a proposito? Credo che molto dipenda dalla consapevolezza con cui ci si avvicina a persone del genere. Io ero molto giovane, ricevevo la loro immensa creatività con gioia, ma anche con la baldanza e la leggerezza caratteristiche della mia età. Probabilmente oggi, attraverso una raggiunta maturità professionale, riuscirei a recepire e trattenere meglio quella loro magnifica genialità. Immigrazione: reati, un Dossier ribalta gli stereotipi dei media di Antonella Ambrosiani
Secolo d’Italia, 3 ottobre 2009
È opinione comune che la criminalità sia alimentata dall’immigrazione. Spesso le statistiche criminali, utilizzate in maniera impropria, amplificano tale convinzione e rischiano di trasformare un grande fatto sociale come i flussi migratori in un mero fenomeno delinquenziale. Le cose non stanno così, la realtà non è come la si dipinge: i "veri" numeri del rapporto tra immigrazione e criminalità li conosceremo infatti per filo e per segno il prossimo 6 ottobre a Roma, alla Sala conferenze della Finsi, dove verrà presentato il Dossier Caritas-Migrantes 2009 curato da un’equipe di studiosi coordinato da Franco Pittau. Il quale pur rimanendo abbottonato in attesa della presentazione ufficiali del rapporto, non si sottrae allo spiegarci la sostanza delle conclusioni a cui si è potuto pervenire: "Noi lavoriamo solo sui numeri e questi portano a risultati del tutto differenti da quelli che prevalgono nell’opinione diffusa: anzitutto, non esiste alcuna corrispondenza tra l’aumento degli immigrati e l’aumento dei reati in Italia". Ogni anno la Caritas-Migrantes redige rapporti sullo stato dell’immigrazione in Italia, per cui i dati che troveremo nel Dosser sono autorevoli, frutto di un’indagine che sonda in profondità i flussi migratori. Il Dossier che, dunque, sfata un luogo comune diffuso, s’intitola La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi e presenta una novità assoluta nell’approccio alla delicata questione, come ci spiega Stefano Trasatti, direttore dell’Agenzia Redattore Sociale che coordinerà l’incontro del prossimo 6 ottobre: lo studio infatti è stato per la prima volta realizzato per fase d’età. "Elemento sostanziale, poiché quando si mette a confronto il "tasso di criminalità" degli stranieri con quello degli italiani, il paragone non regge: diversissima è la composizione tra giovani e anziani nei rispettivi ambiti è dunque non è corretto appiattire le cifre su due termini di paragone non omogenei". L’approccio per età, infatti, ci conduce a scoperte interessanti. Più precisamente , non è vero che gli stranieri delinquano di più: il "tasso di criminalità" degli immigrati regolari e quello degli italiani si equivalgono. Solo in un caso gli stranieri regolari si rendono colpevoli di atti criminosi più degli italiani: nelle fasce d’età più giovani, tra i 20 e i 30 anni. Mentre se si analizza la fascia dei 40 anni, troviamo sorprendentemente che sono gli italiani a primeggiare in negativo rispetto agli stranieri. Spesso, poi, quando si sente parlare di "popolazione straniera" coinvolta nelle denunce si fa un "unico calderone": anche questo approccio fin’ora ha diffuso dati fuorvianti, spiega Trasatti. Non si tiene conto che tale definizione include invece anche gli immigrati irregolari e le persone di passaggio, dai turisti agli uomini d’affari, non quantificabili con esattezza. In realtà, il coinvolgimento degli immigrati in attività criminose è legato in maniera preponderante alla condizione di irregolarità. Si calcola che i tre quarti degli immigrati denunciati siano nella condizione di irregolarità. Per metodologia, dunque, il Dossier si presenta come la prima vera ricerca "dal di dentro" del rapporto tra criminalità e immigrazione e fornirà tutti i numeri necessari per inquadrare e corroborare tali conclusioni. Avvalendosi della "circolarità delle fonti", di inedite correlazioni, di confronti su periodi temporali omogenei e sufficientemente lunghi, la ricerca si presenta come una nuova piattaforma per la comprensione della delicata tematica. Confutare interpretazioni frutto di pregiudizi e semplicismi non è cosa di poco conto e non a caso è stata scelta la sala stampa della Finsi per illustrare il Dossier: l’informazione deve avere un ruolo cruciale nella descrizione di un quadro reale della società complessa che si va configurando, in modo tale da instaurare un circolo virtuoso per una integrazione pienamente compiuta: gli immigrati non come problema e fonte di paura ma come "risorsa" per il paese. Immigrazione: i giovani sono sempre più razzisti e disinformati di Giuseppe Caliceti
Il Manifesto, 3 ottobre 2009
I giovani italiani sono sempre più razzisti. Forse non è tutta colpa loro, ma questa è la realtà delle cose. Se non volete chiamarli razzisti, pare comunque che siamo i meno "aperti" verso l’altro - soprattutto diverso da sé - tra gli studenti dell’intera Europa. Si potrebbe anche dire: i più "provinciali" e i più "diffidenti". Questo il triste risultato di una ricerca della Fondazione Intercultura, Onlus che opera per il dialogo tra le culture e gli scambi giovanili internazionali in Italia e nell’Unione Europea con finalità di ricerca scientifica e di solidarietà. In una sua recente ricerca sono stati intervistati un campione di 1.400 studenti italiani studenti di liceo o di istituti professionali. Veneti, emiliani, toscani e pugliesi. Per sapere i "confini" che i ragazzi di oggi tracciano tra se stessi e chiunque sia "diverso". I risultati, presentati all’Università di Modena e Reggio Emilia in uno degli appuntamenti conclusivi dell’anno del dialogo interculturale promosso dal Consiglio d’Europa, hanno messo in evidenza una generazione disinformata e assai chiusa verso gli altri. Almeno rispetto ai giovani del resto d’Europa. Confrontando infatti le risposte con quelle di altri giovani studenti europei loro coetanei, gli studenti italiani appaiono i più rigidi e intolleranti. Attenzione: i più netti nel tracciare linee di demarcazione verso chi è diverso sembrano essere gli allievi dei licei e delle zone più ricche: e questo deve far pensare non poco. Ma guardiamo i dati in modo più approfondito. I giovani italiani sono preoccupati per il futuro (il 43% teme la disoccupazione, il 32% è preoccupato per il costo della vita e il 30% addirittura per la pensione), mentre l’integrazione degli stranieri è considerata come un obiettivo da raggiungere soltanto dall’11% degli intervistati; insomma, non è cosa importante. Inoltre i ragazzi ritengono che la presenza di immigrati in Italia sia molto più alta della realtà: anziché collocarla intorno all’8-10%, molti hanno indicato "il 30%" o "almeno 20 milioni di persone". Questo dovrebbe far pensare a come è rappresentato il fenomeno dai media italiani: spesso in modo scandaloso. E far riflettere sulle responsabilità non piccole che hanno alcuni movimenti e partiti politici nel fomentare una rappresentazione della realtà diversa dalla realtà, certo non in modo disinteressato e casuale. Ancora: l’87% dei giovani italiani ritiene che essere un rom sia una condizione di "svantaggio"- solo il 77% degli europei la pensa allo stesso modo. Appena inferiore la distanza, e dunque il pregiudizio - perché è di ignoranza e pregiudizi che bisogna parlare - nei confronti degli immigrati di religione musulmana. Anche dai temi realizzati a scuola prima delle interviste emerge come un’altra condizione di "diversità", quella omosessuale, si collochi subito dopo l’essere stranieri o rom nella percezione di "svantaggio": lo afferma il 63% dei giovani italiani intervistati, contro il 54% delle media europea. In Emilia Romagna addirittura il 93% dei ragazzi indica la disabilità fisica, un altro dei fattori esaminati, come un grave rischio di "esclusione sociale". E c’è anche un 32% di studenti delle scuole professionali che si dichiara "totalmente d’accordo" con misure che impediscano l’arrivo in Italia di altri stranieri. Insomma, per i giovani italiani pare che il peggio del peggio sia nascere musulmano, disabile, omosessuale. Gran Bretagna: detenuto-hacker blocca i computer del carcere
Associated Press, 3 ottobre 2009
Fornire l’accesso libero al sistema informatico ad un condannato per truffe informatiche non è propriamente una buona idea. In Italia ogni tanto ci giunge notizia che mafiosi sottoposti al regime di 41 bis dal carcere riescano a comunicare con l’esterno. All’estero sono lontani dai nostri fenomenali risultati ma comunque provano concretamente a seguirci sulla cattiva strada dando ai detenuti per reati gravi la possibilità di continuare a delinquere anche da dietro le sbarre. Riuscendoci pure. La notizia di un ultimo clamoroso episodio giunge dall’Inghilterra: l’inverosimile è successo nel carcere di Renby, vicino Retford, nel Nottinghamshire. Douglas Havard, 27enne, un detenuto che scontava una pena di sei anni per aver rubato sei milioni e mezzo di dollari attraverso frodi con carte di credito on-line, di recente è riuscito a bloccare niente di meno che i computer della prigione in cui è detenuto, paralizzando l’intero sistema informatico. Una vicenda paradossale, e senz’altro ancor più sorprendente se si considera che sono stati proprio gli agenti del carcere a consentire il libero accesso del detenuto ad un computer. Come mai tanta ingenuità? Pare che in un disperato bisogno di una stazione tv interna, gli agenti abbiano deciso di non rivolgersi ad un esperto esterno e di incaricare più semplicemente "uno di casa". E a chi, se non a Douglas, il delicato e complicato compito di programmare? Computer alla mano ha cominciato il suo lavoro. Ma, come sono soliti fare gli hacker condannati, lasciato solo, il ragazzo ha potuto fare tranquillamente il suo corso mettendo su un labirinto di password che ha intasato il sistema e lasciato fuori tutti gli altri: solo lui avrebbe potuto accedervi. Per i responsabili non ci sarebbe ora proprio nessuna attenuante, anche e soprattutto in virtù del fatto che non si tratterebbe del primo episodio di cattiva sorveglianza verificatosi tra quelle mura. Appena una settimana prima avevano già fatto pesantemente cilecca: un altro detenuto nella stessa prigione avrebbe messo le mani su una master key, sarebbe riuscito cioè ad ottenere un taglio di chiave capace di aprire tutte le porte. L’hacker si trova ora segregato in cella di isolamento, affinché rifletta su quello che ha combinato, la stessa identica cosa che fanno ora, forse ancor più di Havard, i funzionari della prigione. Increduli si chiedono "come abbia mai potuto un detenuto condannato per un reato informatico in maniera aver accesso incontrollato alla banca dati del carcere". "Ha messo in piedi un tale matrice elaborata di password che c’è stato bisogno di una ditta specializzata per far funzionare regolarmente il sistema", fanno sapere. Qualcuno, invece, prova a minimizzare guardando il bicchiere mezzo pieno e sottolinea che, per fortuna, il detenuto "non ha avuto accesso alla documentazione di tutti gli altri prigionieri". Ma da qualsiasi angolazione lo si guardi quanto accaduto lascia comunque parecchio perplessi ed ognuno che prova a giustificarsi sembra semplicemente arrampicarsi sugli specchi.
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