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Giustizia: aveva 19 anni, s’è ucciso in carcere... e nessuno lo sa di Rita Bernardini (Deputato Radicali - Pd)
L’Altro, 1 ottobre 2009
Un cileno e un calabrese, negli ultimi venti giorni, si sono impiccati nello stesso carcere, quello di Castrovillari in provincia di Cosenza. Il primo aveva 19 anni, il secondo 39. I giornali non ne hanno parlato, nonostante che la notizia sia passata ieri sulle agenzie di stampa attraverso un mio comunicalo in cui chiedevo al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di intervenire urgentemente per arginare l’emorragia di vite umane che si manifesta, con l’incredibile numero di suicidi o con la morte civile e senza speranza di chi è costretto a vivere in modo indegno di un paese civile. Il fatto che il primo suicidio non sia trapelato per ben tre settimane la dice lunga sull’omertà del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) rispetto alle tragedie che si consumano dietro le sbarre. Le loro statistiche sono sempre al ribasso, risparmiano sulla conoscenza e sulla verità dei fatti e, se possono barare, barano. Come quando escludono dal novero dei suicidi in carcere coloro che, con il cappio al collo, hanno l’avvedutezza di morire nel tragitto tra il carcere e l’ospedale. Il fatto che il secondo suicidio sia emerso solo quando ieri ho posto la domanda esplicita al direttore, non là che confermare la reticenza del Dipartimento a far conoscere gli effetti della sua "amministrazione" dei penitenziari. C’è da dire che il Dap, amministrato dal dottor Franco Ionta, gode anche della complicità di quasi tutti mezzi di informazione che considerano l’impiccagione di due carcerati, una non notizia. Chissà se il Presidente del Consiglio sia venuto a saperlo in qualche modo, magari prima delle dichiarazioni di ieri quando ha rilanciato il "suo" piano carceri che prevede la costruzione di nuove strutture penitenziarie per 20.000 nuovi posti? In questo momento non voglio entrare nel merito di come Silvio Berlusconi intenda perseguire questa politica, cioè di come reperirà le risorse: se attraverso i modernissimi supermarket "Poggioreale" e "Sollicciano" oppure gli esclusivi Grand Hotel Regina Coeli e San Vittore. In questo momento non mi interessa sapere se la costruzione dei nuovi istituti sarà appaltata o meno a quelle mammolette che faranno rientrare a prezzo di una piccola indulgenza capitali immacolati precedentemente esportati in Svizzera o in altri paradisi fiscali. Ora mi interesserebbe sapere dal Presidente del Consiglio in quanto tempo pensa di compiere questa impresa: uno, due, tre, dieci anni? In secondo luogo vorrei sapere con quale personale - agenti, educatori, psicologi, direttori, assistenti sociali, medici ed infermieri - pensa di amministrare queste nuove strutture e, infine, se abbia intenzione di riformare l’articolo 27 della Costituzione che impone allo Stato di non infliggere pene contrarie al senso di umanità, pene che devono tendere alla rieducazione del condannato. Se Berlusconi mi consente, vorrei fare anche due conti facili facili. In questo momento nelle carceri italiane ci sono 65.000 detenuti, cioè 22.000 in più della capienza regolamentare. Il ritmo di crescita della popolazione detenuta è di mille unità al mese. Prevedibilmente, dunque, entro la fine dell’anno saremo a 68.000, cioè a 25.000 detenuti in più. Convertendo a supermarket o hotel le vecchie carceri - considerando solo le più grandi e storiche - si verrebbero a perdere circa 5.000 posti, per cui diverrebbero 30.000 i posti mancanti. Perciò, anche se Berlusconi facesse "o miracolo" di costruire i ventimila nuovi posti entro il 2010, non avrebbe, comunque, minimamente scalfito l’illegale sovraffollamento. I conti sono presto fatti: 68.000 più 12.000 (l’incremento del prossimo anno) = 80.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 58.000 (43.000 - 5.000 più 20.000). Cioè nelle patrie galere mancherebbero sempre 22.000 posti. Non proseguo con i conti che verrebbero fuori se, come prevedibile, la costruzione di nuovi istituti richiedesse più di un anno e se considerassimo il ritmo di crescita della popolazione penitenziaria sopra ricordato, dovuto anche all’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Sul personale necessario in termini di sicurezza e di rieducazione ad un popolo di reclusi che viaggia verso le centomila unità nei prossimi tre anni, c’è poco da dire se nella situazione attuale - e solo per quel che riguarda gli agenti di polizia penitenziaria - già mancano all’appello più di 5.000 unità. Concludendo - consapevole di aver trascurato le assennate misure che, da subito, potrebbero ridimensionare il grave sovraffollamento delle patrie galere e che come Radicali, insieme ad altre associazioni che si occupano di carcere, abbiamo proposto sotto forma di disegni di legge - penso che il Presidente del Consiglio sia in buona fede quando afferma che "l’obiettivo fondamentale resta quello di ridare dignità a chi viene condannato dalla giustizia"; il problema è che nella situazione attuale la "giustizia" italiana (quella che lui non vuole riformare) produce gironi infernali di sofferenza e umiliazione e l’ultimo girone è proprio quello del carcere, dove l’anestetico per sopportarne le forme di tortura che alimenta, è, ogni giorno di più, un cappio al collo che si stringe sempre. Giustizia: il malessere nelle carceri aumenta ma i media tacciono
www.inviatospeciale.com, 1 ottobre 2009
Nel carcere di via Carmelo Magli, a Taranto, ci sono troppi detenuti e pochi agenti. A denunciarlo è Vito Ferrara, segretario provinciale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), secondo il quale il numero dei carcerati ha già superato quota 500 a fronte di una capienza massima di 200 unità. "Un solo agente - sottolinea Ferrara in una nota - oltre a dover espletare turni massacranti è comandato a vigilare su oltre 80 detenuti". "Come se non bastasse, l’Amministrazione centrale, al fine di reperire un centinaio di nuovi posti letto, - continua Ferrara - sembra che abbia dato disposizione alla Direzione del carcere jonico di riaprire 1-2 reparti che sino ad oggi erano chiusi sia per carenza di personale che per ristrutturazione, poiché creavano problemi all’incolumità dei detenuti e dei poliziotti penitenziari". Altri detenuti sarebbero, dunque, in arrivo. "Ma il Sappe - prosegue Ferrara - non starà a guardare che la Polizia penitenziaria faccia da parafulmine del problema carceri, per cui adotterà ogni mezzo legale per far valere i propri diritti, non escludendo eclatanti manifestazioni di protesta sotto i palazzi istituzionali, compreso un sit in sul ponte girevole di Taranto". Intanto sul sito www.radiocarcere.it si legge: "In Italia non c’è la pena di morte. Ma per una pena si può morire. Grazie al lavoro degli amici di Ristretti Orizzonti, possiamo pubblicare i nomi, l’età e il luogo di detenzione di chi è morto in carcere nel 2009. Colpisce il numero dei suicidi. Un dato che non può essere generalizzato. Occorre distinguere caso per caso. Ogni decesso, come ogni persona detenuta, va infatti valutato singolarmente. Una distinzione che però il carcere di oggi non è in grado di operare". L’articolo continua: "È il caso di Luca, 28 anni, che si è impiccato a San Vittore. Luca era affetto da una grave malattia psichiatrica. È stato ignorato. Si è ucciso. È il caso di Sami Mbarka Ben Gargi. Detenuto nel carcere di Pavia, che il 5 settembre è morto a seguito di uno sciopero della fame. Proclamava la sua innocenza". Dal sito di Ristretti Orizzonti i nomi, l’età e il luogo di detenzione di chi è morto in carcere. I suicidi: Aziz, marocchino, 34 anni, Spoleto. Edward, 35 anni, Alessandria. Detenuto croato, 37 anni, Poggioreale. M.B., 60 anni, Sollicciano. Vincenzo, 54 anni, Avellino. Mohamed, 26 anni, Venezia. Detenuto, di 25 anni, Foggia. Giuliano, 24 anni, Velletri. Detenuto italiano, 37 anni, Poggioreale. Jed, 30 anni, Padova. Marcello, 38 anni, Voghera. Francesco, 27 anni, Poggioreale. Carmelo, 20 anni, Catania. Gianclaudio, 43 anni, Marsala. Detenuto tunisino di 28 anni, Pisa. Andrei, 47 anni, Salerno. Antonino, 57 anni, Viterbo. Daniele, 37 anni, Rimini. Franco, 63 anni, Alessandria. Ion, 21 anni, Pisa. Detenuto marocchino, 25 anni, Bergamo. Samir, 36 anni, Firenza. Vincenzo, 43 anni, Opg di Aversa. Antonio, 32 anni, Crotone. Detenuto marocchino, 30 anni, Brindisi. Detenuta italiana di 35 anni, Civitavecchia. Detenuto indiano, 30 anni, Vercelli. Dibe, 35 anni, Imperia. Eugenio, 34 anni, Alghero. Stefano, 50 anni, Rovereto. Emilio, 45 anni, Livorno. Antonio, 24 anni, Reggio Calabria. Giacomo, 40 anni, Padova. Luca Campanale, di 28 anni, San Vittore. Fabio, 46 anni, Frosinone. I morti: Rocco, 72 anni, Torino. Francesco, 28 anni, l’Ucciardone. Ihssane, 30 anni, Firenze. L.P., 27 anni, Campobasso. Detenuto marocchino, 30 anni, Padova. Detenuto 40enne Terni. Detenuto, 79 anni, Secondigliano. Anna, 40 anni, Firenze. Charles, 32 anni, Lanciano. Rino, 38 anni, Venezia. Khalid, 73 anni, Benevento. Donna di 28 anni, Sollicciano. Gerardo, 42 anni, Lecce. Marino, 44 anni, Rebibbia. Vincenzo, 45 anni, Rebibbia. Stefano, 51 anni, Rebibbia. Salah, 28 anni, Ascoli. Adriano, 55 anni, Treviso. Gancarlo, 35 anni, Cagliari. Sami, 42 anni, muore il 5 settembre dopo un mese di sciopero della fame nel penitenziario di Pavia. Protestava pacificamente per proclamare la sua innocenza. Giustizia: nel 2008 entrati in carcere 30 mila tossicodipendenti di Maurizio Regosa
Vita, 1 ottobre 2009
Un dentro e fuori impressionante. Nel solo 2008 vi sono stati 92.800 ingressi in carcere. Di questi 30.528 hanno riguardato tossicodipendenti e 26.931 persone che, pur non essendo tali, sono finite in galera per aver violato la legge sull’uso delle droghe. Da sola, la 40/2006 (la Fini-Giovanardi riempie per metà le carceri italiane. Parte da questi dati sul sovraffollamento carcerario (ufficiali peraltro: sono contenuti nella Relazione che il sottosegretario Carlo Giovanardi ha presentato qualche mese fa), l’appello-proposta "Le carceri scoppiano: potenziamo le misure alternative, liberiamo i tossicodipendenti!", sottoscritto da molte organizzazioni e presentato oggi.
Una situazione inaccettabile
Un appello che arriva in un momento in cui la (simbolica e realissima) quota 60mila è stata abbondantemente superata. Ricorderete: nel 2006 spinse il Parlamento a varare l’indulto. Tre anni e due governi dopo, le carceri italiani sono tornate a riempirsi in maniera inverosimile (e, temono gli addetti ai lavori, continueranno a riempirsi). "Dentro" quasi 65mila uomini e donne. Da qui la proposta promossa da Forum Droghe, Antigone, Gruppo Abele, Arci, Cgil, La Società della Ragione, Ristretti Orizzonti, Comunità San Benedetto al Porto, Coordinamento nazionale dei Garanti territoriali dei diritti delle persone private della libertà personale, Conferenza nazionale volontariato giustizia. "Il primo anello di una catena di iniziative". Così Franco Corleone del Forum Droghe ha definito l’appello. " Oltre 57mila individui sono transitati in carcere per questioni legate alla droga. A questo punto", ha sottolineato Corleone, "al sottosegretario non resta che applicare la legge che porta il suo nome e che reso accessibile l’affidamento in prova sin da sei anni dal fine pena". L’affidamento però in questi anni non ha funzionato. Si tratta ora di far sì che sia sperimentato e applicato. "Sono circa 10mila i detenuti che potrebbero accedervi. Non c’è bisogno di costruire nuove carceri. La priorità è svuotarle per poi ragionare sulla vivibilità".
Alternative possibili
"Chiediamo ai responsabili del Governo e delle Regioni", si legge nell’appello, "di predisporre un piano immediato di risorse per garantire l’applicazione delle norme previste per l’affidamento speciale dei detenuti tossicodipendenti e ogni altra misura idonea a potenziare il circuito delle misure alternative alla detenzione". Si tratta però di costruire una volontà politica che fino a oggi ha di fatto latitato. Nonostante le proteste di questa estate (lo ricorderete: numerose carceri attraversate da più o meno silenziosi scioperi, alcuni anche della fame), non sono state ancora prese iniziative concrete (l’unica novità è l’insediamento, in Commissione Giustizia, del Comitato Carceri: dovrebbe avvenire la settimana prossima). Dunque il comitato che promuove l’appello chiederà un incontro al senatore Giovanardi, al presidente Vasco Errani (che coordina la Conferenza delle Regioni), al Coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Obiettivo naturalmente è anzitutto creare convergenze sull’incremento delle alternative al carcere e in particolare degli affidamenti (un meccanismo che incontra ostacoli di diversa natura, come ha ricordato Sandro Margara, presidente della fondazione Michelucci, già capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) ma anche creare le condizioni perché i tossicodipendenti una volta usciti di cella possano essere sottoposti a efficaci trattamenti terapeutici. E si capisce come questo secondo passo coinvolga, oltre che il personale penitenziario e i magistrati di sorveglianza, i Sert, le comunità.
Il nodo risorse
Un’opzione, quella delle misure alternative, che in tempi di crisi potrebbe sembrare costosa. E che invece potrebbe consentire, come ha sottolineato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, un significativo contenimento dei costi. "Diecimila detenuti in carcere costano alla collettività circa 475milioni di euro, compresi i costi fissi. Nelle comunità terapeutiche ne costerebbero circa 185. Non è solo una questione di politica criminale, ma anche di politica economica". Tutto sta a farlo sapere a Tremonti. Giustizia: ripensare le pene, comunità di recupero obbligatorie di Giulio Starnini*
Il Sole 24 Ore - Salute, 1 ottobre 2009
Il passaggio delle competenze in materia di assistenza sanitaria dal ministero alle Regioni non ha ancora prodotto i frutti sperati, ma non per mancanza di fondi. E non corrisponde a realtà che la Sanità penitenziaria è finita con il passaggio alle Asl. Continuiamo a fare il nostro lavoro, cercando di farlo bene. Non neghiamo la malasanità denunciata in carcere da decine di casi. Diciamo che l’assistenza decente fornita a decina di migliaia di pazienti detenuti ogni giorno deve essere la norma e non può per questo meritare l’attenzione dei media. Ci vorranno tempo, pazienza, comprensione e umiltà da parte dei responsabili regionali e delle Asl. Certamente approcci minimalisti o generalisti al problema che vengono da alcuni politici e Soloni del tipo "i detenuti sono 60mila rispetto ai milioni di assistiti in Italia, le Asl non avranno problemi! La malattia è uguale dentro e fuori dal carcere! Ovviamente i posti di responsabilità nelle carceri spettano ai dirigenti di ruolo degli ospedali (non importa se non hanno mai messo piede in carcere). I medici penitenziari possono essere al massimo dei consiglieri", non aiutano e fanno riflettere sugli errori commessi da chi non ha saputo trasmettere ai politici il reale significato di Sanità penitenziaria. In questo senso bene fanno associazioni come Antigone a vigilare ma sbagliano quando affermano che con la Giustizia i medici anteponevano gli interessi della Giustizia (leggi: delle Direzioni) a quelli del paziente detenuto. Sbagliano e offendono quando dichiarano che "Ippocrate è spergiuro quando il paziente è un detenuto". I cretini e i somari esistono tra i medici penitenziari come in tutte le categorie, ma la maggior parte di loro continua a lavorare per i propri assistiti in condizioni spesso assurde oggi come ieri. Fastidio suscitano ancora affermazioni di tipo manicheo sulla stampa, del tipo: "La Sanità penitenziaria con il ministero della Giustizia era un fallimento, con il Ssn sarà radiosa". Oppure: "La prevenzione in carcere non si è mai fatta, ora ci penseranno le Asl". Non è vero. A voler essere benevoli si tratta di persone male informate e documentate; a pensar male, della solita polemica strumentale della sinistra contro il Governo di destra o della destra contro il Governo di sinistra. È sgradevole; specie se si strumentalizzano situazioni drammatiche come quelle delle carceri. Per un misto tra rassegnazione nei confronti di istituzioni lontane, scetticismo disincantato e isolazionismo nella propria torretta culturale scientifica, evitiamo di parlare di problemi come giustizia, sicurezza, sovraffollamento; tematiche che invece sottendono all’affannarsi di noi tutti negli ambulatori delle carceri o nelle corsie degli ospedali. Tanti altri, dai radicali all’associazionismo cattolico ad alcuni partiti, in questi giorni si stanno invece battendo per diminuire il numero di detenuti. Molti politici, su invito di Rita Bernardini, si sono recati nei giorni intorno a Ferragosto negli Istituti per fotografare una realtà che conosciamo molto bene. Non mi è però chiaro l’obiettivo concreto, o forse sì: un nuovo indulto o l’amnistia. Nel Paese dei condoni fiscali ed edilizi è la strada più comoda e meno costosa. Ma Pdl e Pd parlano entrambi di più sicurezza per i cittadini e di pene certe e quindi, seppur tentati, non osano pronunciarsi sull’argomento. Ora, più di tre anni fa le carceri scoppiano. Le rivolte non avvengono grazie a un uomo che inventò una legge a cui ha dato il proprio nome - "Gozzini" - che per molti in carcere è una luce in fondo al tunnel. Per il resto è desolazione. Il "piano carcere" non risolve e non risolverà per motivi che conosciamo bene. Carcere chiama carcere in una spirale perversa che potrebbe risucchiare non solo i fondi per la Cassa ammende, ma magari anche i finanziamenti pubblici per scuole o asili nido. Non ci sono finanziamenti sufficienti per bandire concorsi per polizia penitenziaria (non scrivo per pudore di educatori, assistenti sociali e psicologi) e questo lo sanno bene anche i sindacati di categoria. Vero è che il rapporto agente / detenuto in Italia è nettamente superiore a quello di altri Paesi; vero è che bisogna uscire dall’illegalità e che dei 42.000 agenti ne sono presenti in carcere 36.000. Ma bisogna ricordare che da noi la pena costituzionalmente ha un fine rieducativo, negli Usa, in Inghilterra, Francia, Germania no: è risarcitoria e basta. Il nodo più rilevante è questo. Il dibattito su amnistia o indulto deve questa volta essere preceduto da una rivoluzione copernicana del sistema delle pene. Se vogliamo continuare ad affermare la supremazia del diritto dobbiamo uscire dalle situazioni di illegalità costituzionale di molte carceri italiane e aprire subito un dibattito (si spera non infinito) sulle misure alternative, sulla messa alla prova, su istituzioni pubbliche (ma anche private accreditate) che garantiscano da una parte la sicurezza sociale e dall’altra il tentativo di recupero, come potrebbero essere le comunità terapeutiche. Ripensare ai modelli custodialistici riservando la "galera" ai mafiosi e ai camorristi e indirizzare tossicodipendenti, affetti da doppia diagnosi, emarginati obbligatoriamente a comunità di recupero, dove affidare a personale socio-sanitario formato anche la vigilanza di queste persone, magari con una "stazione interna" formata da un numero limitatissimo di agenti di polizia penitenziaria con funzioni di polizia giudiziaria. Una soluzione, tra l’altro, che avrebbe il vantaggio di costare un quarto rispetto alla detenzione in carcere. Molti si stracceranno le vesti di fronte a questa "bestemmia" che stravolge il principio di base che l’ingresso in comunità debba avvenire su base volontaria, a scapito del "progetto di recupero". Ma è proprio questo che non funziona. Molti detenuti, di fronte all’impegno che una comunità richiede, si tirano indietro e preferiscono il carcere. Ma la loro è una scelta consapevole? I benpensanti sciacquano la loro coscienza di fronte a suicidi in cella o per overdose in mezzo a una strada, nel principio inviolabile della libertà individuale. La società civile invoca la forca quando a reiterare un reato è un detenuto in misure alternative. Ma è vera libertà quella di un malato di Aids con un’encefalopatia e con una carriera decennale di tossicodipendenza e alcolismo, che rifiuta il ricovero e la comunità? È vera giustizia la disposizione di incompatibilità con il regime penitenziario che getta sulla strada un uomo in queste condizioni? Siamo soddisfatti quando un extracomunitario, una volta sospesa la pena, invece di curarsi un linfoma maligno sceglie di tornare nella clandestinità per non essere espulso? Questi sono i nostri pazienti. Queste sono le persone che cerchiamo di curare e aiutare, queste sono le storie vere che danno il coraggio di rischiare accuse di autoritarismo e illiberalità. Vanno bene anche queste, se servono a curare una persona e a restituirgli quella dignità di uomo che tanti garantisti gli negano in nome di un’astratta quanto glaciale libertà di scelta individuale. Che libertà non è.
*Direttore Uo Medicina protetta Malattie infettive Presidio ospedaliero Belcolle Asl Viterbo Coordinatore staff sanitario Ufficio III Servizi sanitari Dipartimento amministrazione penitenziaria Giustizia: Berlusconi; vendere vecchie carceri, per farne nuove
Agi, 1 ottobre 2009
Il governo sta lavorando a un piano carceri che verrà presentato presto in Consiglio dei ministri. Nel pranzo tenutosi nella caserma della Guardia di finanza di Coppito, Silvio Berlusconi, ha esposto l’intenzione del governo di costruire 20mila nuovi posti per i reclusi. L’ipotesi ventilata dal premier, secondo quanto viene riferito da chi era presente al pranzo, sarebbe quella di costruire nuove carceri, mentre le vecchie verrebbero date in permuta ai privati per fini commerciali. In sostanza si tratta un po’ del piano già studiato tempo fa per le vecchie caserme. Secondo questo progetto, dunque, le vecchie carceri potrebbero diventare centri commerciali o alberghi da affidare a imprenditori. Allo stesso tempo verrebbero costruite nuove carceri con capitale privato, istituti che consentirebbero una divisione tra chi è in attesa di giudizio e chi, invece, è stato già condannato. L’obiettivo fondamentale resta quello di ridare dignità a chi viene condannato dalla giustizia, avrebbe spiegato il premier. Giustizia: Uil; dalle parole di Berlusconi… al il silenzio di Alfano
Comunicato Stampa, 1 ottobre 2009
"Le parole del Presidente Berlusconi rispetto all’intento de Governo ad accelerare sul piano carceri prevedendo la costruzione di nuovi edifici penitenziari sulla scorta dell’esperienza aquilana non possono non stimolare la nostra attenzione ed un prudente interesse". Così Eugenio Sarno, Segretario generale della Uil Pa Penitenziari, commenta le recenti dichiarazioni de premier sulla possibilità di edificare in due anni nuovi penitenziari "Rilevo però - continua Sarno - nell’azione, meglio nei pronunciamenti di vari membri del Governo, delle sfasature per non dire vere e proprie contraddizioni. È il caso di sottolineare che alla loquacità del Presidente Berlusconi si contrappone un preoccupante, enigmatico silenzio del Ministro Alfano. Il refrain del piano carceri è utile solo all’immaginario popolare ma nulla risolve, nell’immediato, rispetto al dramma che si consuma ogni giorno nei penitenziari italiani. Vale la pena di ricordare che le prigioni sono intasate per la presenza di 22mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Se dovessimo aspettare solo il piano carceri vorrebbe significare trovarci con non meno di 90mila detenuti ammassati come bestie negli istituti penitenziari. A ciò - prosegue il segretario della Uil Pa Penitenziari - si aggiunga il clamoroso dato che ben 15mila persone sono attualmente in custodia cautelare e circa 8° bambini di età inferiore ai tre anni scontano una infamante detenzione coatta insieme alle madri detenute". La Uil Pa Penitenziari il 22 settembre scorso aveva manifestato davanti a Montecitorio per protestare e sensibilizzare sulle condizioni del sistema penitenziario. "Un sistema alle deriva - sentenzia Sarno - che trasforma la pena in supplizio e il lavoro in tortura. Mi chiedo se il Presidente Berlusconi abbia veramente cognizione di cosa accade al di la delle mura. Gli agenti, che sono 5mila in meno, lavorano in condizioni di insicurezza e subendo ogni sorta di angheria e sopruso. La contrizione dei diritti soggettivi è sistematica e quotidiana. Il Ministero dell’Economia nega i fondi per le missioni e gli straordinari, pertanto oltre a lavorare di più tale personale non viene nemmeno gratificato di percepire il dovuto. La polizia penitenziaria registra circa 800 feriti negli ultimi 18 mesi e 13 suicidi negli ultimi due anni. Numeri da brividi che testimoniano inequivocabilmente una oggettiva difficoltà. Questa è la realtà, dura e cruda. Purtroppo la storica disattenzione della politica verso il sistema penitenziario continua. Tantomeno le estemporanee dichiarazioni del Presidente Berlusconi contribuiscono a risolvere i problemi. Qualcuno ci dica con quale personale si intendono aprire i nuovi istituti. Il Ministro Alfano renda noto se ai pronunciamenti e agli annunci abbia fatto seguire fatti concreti per le assunzioni straordinarie di poliziotti penitenziari. Sulle nuove carceri, infine, suggerirei ai tecnici del Dap, al Ministro Alfano e al presidente Berlusconi di valutare , anche in chiavo di risparmio, se non sia il caso di trasformare in ambienti detentivi i tanti, troppi alloggi di servizio presso le carceri abbandonati al degrado e non utilizzati sull’intero territorio nazionale. Riteniamo - conclude il leader della Uil Pa Penitenziari - che recuperare e utilizzare questo patrimonio immobiliare avrebbe un senso, determinerebbe un risparmio e renderebbe disponibili in tempi molto brevi quei posti necessari ad alleviare l’insopportabile sovrappopolamento. Parimenti l’utilizzo di militari in compiti di sorveglianza alle strutture garantirebbe un recupero di unità di polizia penitenziaria quanto mai necessario Ovviamente insieme all’abbattimento del numero di "imboscati" nei vari palazzi del potere. Queste sono proposte di cui avremmo voluto parlare al Ministra Alfano che, però, continua incomprensibilmente a negarsi. Chissà se di queste cose non dovremmo parlarne con La Russa, Tremonti, Brunetta e, perché no, anche con il Presidente Berlusconi". Giustizia: sono nati prima i processi, o le leggi "ad personam"? di Emile
www.radiocarcere.com, 1 ottobre 2009
Il dubbio è se siano nati prima i processi o le leggi ad personam. Montedison-Cusani potrebbe essere considerato il primogenito della progenie. Un processo diverso, che si è concluso in tempi notevolmente più brevi di quelli che occorrono per concludere un normale procedimento penale. Previti, Coppola e Moggi sembrano essere esemplari che si sono manifestati più di recente. L’ultimo nato è il procedimento Cirio. Il Presidente del Tribunale di Roma ha disposto un’accelerazione del dibattimento prevedendo cinque udienze a settimana e la conclusione per il giugno 2010. Il lasso di tempo che intercorre tra il sorgere di un procedimento e la sua conclusione si misura solitamente in una decina di anni. Tempistica che annienta la giustizia penale, consegnando ai consociati incertezza e una sensazione d’impunità, dovuta alla mancata risposta tempestiva dello Stato al fatto delittuoso. Gli addetti ai lavori non sono però attratti da questa tematica, preferendo dibattere su questioni quali lo scudo fiscale e la separazione della carriere. Importante sembra essere non lasciare impunite alcune fondamentali condotte, dimenticando che simili scelte spettano al legislatore e soprattutto non considerando che la lentezza del processo penale genera un’impunità generalizzata. I politici fuggono dall’affrontare un problema che appare irrisolvibile. L’unico rimedio trovato sembra essere quello di velocizzare alcuni procedimenti a scapito di altri. Il risultato: la legge non è uguale per tutti ed il processo neanche. Giustizia: Anci; su sicurezza urbana 788 Ordinanze dei Sindaci
Asca, 1 ottobre 2009
Sono state in tutto 788 le ordinanze emanate dai sindaci italiani sulla sicurezza urbana ed hanno riguardato soprattutto infrazioni al decoro cittadino come bivacchi, interventi su insediamenti abusivi, vendita di alcolici. Le ordinanze, che concedono ai sindaci anche potere per quanto riguarda l’ordine pubblico e previste dal cosiddetto "Pacchetto sicurezza", sono state emesse dai sindaci in 445 Comuni (pari al 5,5% dei Comuni italiani), e di queste 220 sono state emesse dai sindaci di 152 comuni nel corso di quest’anno. La fotografia è stata scattata dall’Anci che ha reso noto uno studio ad un anno dall’emanazione della legge 125 che ha dato ai sindaci la possibilità di emettere ordinanze sul tema della sicurezza urbana. Da allora, Anci e Fondazione Cittalia-Anci ricerche le hanno raccolte in una banca dati nazionale presentato stamane a Roma dal sindaco di Padova e responsabile sicurezza urbana dell’Anci, Flavio Zanonato il quale ha sintetizzato i dati raccolti sottolineando che "la domanda di sicurezza nelle nostre città resta ancora alta ed è, se possibile, in crescita quella indirizzata direttamente ai sindaci e alle autorità locali". I dati raccolti dall’Anci ci raccontano che il vero e proprio boom di ordinanze si è avuto tra luglio e settembre del 2008, cioè subito dopo il varo del Pacchetto sicurezza con il 43% del totale dei provvedimenti. Ad emanare i provvedimenti sono stati i sindaci di quasi tutte le città più grandi (il 92% di queste). Ben l’84% dei sindaci delle città tra i 100 mila e i 250 mila abitanti hanno adottato un provvedimento in questo senso mentre solo nell’1,4% dei piccoli Comuni si è ricorso a questa strada. La maggior parte delle ordinanze è stata emessa dai Comuni del Nord Ovest e del Nord Est (rispettivamente il 44% e il 25%) mentre solo il 12% in quelli del Sud. Percentuali ancora più basse sono state, invece, registrate tra i Comuni del Centro (11%) e delle Isole (8%). Lettere: la voglia di riscatto dei detenuti non conta per i forcaioli
Ristretti Orizzonti, 1 ottobre 2009
Nel corso di uno dei tanti colloqui, un detenuto, di nazionalità straniera "alloggiato" in una delle super affollate prigioni della Sicilia, ha chiesto, al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, di sollecitare il suo trasferimento in un carcere di una città del nord. Non un carcere qualsiasi, ma uno dove è possibile poter frequentare (internamente) una facoltà giuridica universitaria. La sua condizione di "ristretto" senza permesso di soggiorno non gli consente l’iscrizione in una pubblica università dell’Isola. Ostacolo, invece, del tutto superabile, nel penitenziario individuato dove non è richiesta alcuna formalità se non quella di essere semplicemente "detenuto". Si poteva non esaudire una così legittima richiesta, peraltro conforme all’articolo 27 della Costituzione secondo cui "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato"? Il giovane recluso è stato iscritto all’università desiderata ed ora si è in attesa del tanto desiderato trasloco. Quello che, però, colpisce, in questa vicenda, è la personalità del giovane che, consapevole di dover pagare il suo debito con la giustizia, mostra con i fatti una volontà di ferro nel pensare al suo futuro ed a costruire un percorso di legalità. Il suo vivo interesse per gli studi lo spinge ad impegnarsi fin d’ora, curioso com’è della importanza di una delle prime materie di studio e cioè il diritto pubblico. C’è in lui una urgenza mista a consapevolezza di capire in profondità il sistema costituzionale ed amministrativo del Paese Italia dove egli si trova detenuto. Dopo qualche telefonata con gli educatori del carcere settentrionale, è stato fatto dono, da parte dello stesso Garante, del libro di diritto adottato sia per incoraggiarlo, sia per sottolineare che il reinserimento sociale è un obiettivo prioritario (così dovrebbe essere, ma nei fatti non lo è) nell’azione di quanti sono chiamati a tutelare i diritti e la dignità delle persone che hanno sbagliato ma che non meritano, tuttavia, di essere trattati in maniera sbagliata attraverso gratuite torture ed afflizioni di ogni tipo. Non si può descrivere come questo piccolo gesto sia stato recepito da quel giovane, proveniente da una lontana nazione della ex Jugoslavia. Ha sorriso un po’, ma erano i suoi occhi che esprimevano gratitudine e felicità. Sono sicuro che queste "attenzioni" produrranno effetti positivi. Purtroppo si è in presenza di casi singoli che anziché costituire la regola sono l’eccezione. "I forcaioli", che troviamo dentro e fuori il Parlamento, vogliono, invece, un carcere inumano ed afflittivo. Come quello attuale che, per dirla con il Ministro della Giustizia, "è fuori dalla Costituzione". Se lo dice lui c’è da credergli sulla parola. Oggi si preferisce carcerare più gente possibile (nell’ultimo anno sono stati "inventati" reati ridicoli che prevedono pene detentive), perpetuare il sovraffollamento (dodici persone in una cella dove al massimo potrebbero starcene quattro: perdono la dignità di esseri umani) e non destinare che pochissime risorse alle attività di recupero e di reinserimento sociale. Le pene alternative (arresti domiciliari ecc.) sembrano retaggio esclusivo dei "non poveracci". Prevale lo spirito di vendetta e l’atteggiamento repressivamente feroce. Sovente si "butta la chiave" delle celle e si trasformano le carceri in discariche umane. Poco o quasi nulla si fa per applicare la Costituzione e lo stesso Ordinamento penitenziario per evitare "trattamenti contrari al senso di umanità" e comportamenti non conformi ad uno Stato democratico e civile. Nelle carceri, a parte le proverbiali carenze degli organici amministrativi e di polizia penitenziaria, sono insufficienti gli educatori, i psicologi, i sanitari ed altre figure professionali chiamate a svolgere un ruolo importantissimo per garantire trattamenti umanitari e conformi ai programmi (assai scarsi) di recupero sociale. Si perpetua, dunque, una metodologia ultrasecolare che intende assegnare al carcere una funzione punitiva, che sfocia spesso nella violenza e nella tortura anche fisica, ostacolando qualsiasi processo di modernizzazione e di rieducazione che potrebbe infliggere davvero alla criminalità organizzata un duro colpo (a proposito si è mai fatta una severa analisi sociologica dei soggetti reclusi nelle patrie galere?). Più le prigioni sono affollate di persone cui si nega anche la dignità di esseri umani, più diventa difficile avviare una azione di bonifica sociale e qualsiasi proposito di ristabilimento della legalità e del rispetto delle regole. Il giovane detenuto della ex Jugoslavia ha capito, forse, più degli altri che investire nella "cultura", impegnandosi in uno studio serio e severo, può aprire varchi di speranza per un vero ed effettivo futuro reinserimento sociale per "non sbagliare più" e "vivere una vera vita normale e non lasciarsi fagocitare dagli inferni metropolitani in cui si è costretti a crescere". È angosciante pensare che rispetto a tanta genuina lucidità di un detenuto, di converso possa ancora prevalere l’oscurantismo dei forcaioli di turno. Questi continuano scioccamente a pensare che con la "mano pesante" si può risolvere tutto e rendere felici le nostre turbate città. È arrivato il momento di far capir loro il valore della cultura, dell’eticità del comportamento e la conoscenza profonda del nostro ordinamento che sembra tanto interessare non loro ma lo straniero recluso (che fa li mandiamo a seguire, magari, qualche corso serale di studi superiori?). Probabilmente si accorgerebbero che non ci potrebbe essere spazio per intolleranza e gratuite severità, se prevalessero la piena occupazione, politiche sociali e familiari d’avanguardia ed una scuola degna di questo nome. Questi, però, allo stato attuale, sembrano argomenti non all’ordine del giorno.
Avv. Lino Buscemi Dirigente Ufficio Garante diritti detenuti Sicilia e Presidente Nazionale Comitato Scientifico A.N.D.C.I. (Associazione Nazionale Difensori Civici Italiani) Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 1 ottobre 2009
Io punito per un reclamo. Caro Arena, prima ero nel carcere di Oristano ma ora sto qui in quello di Sassari. Il motivo del mio trasferimento? È semplice. Ad agosto infatti con altri detenuti abbiamo presentato alla direzione del carcere un reclamo in cui abbiamo evidenziato le condizioni di vita disumane e degradanti a cui eravamo costretti nel carcere di Oristano. Insomma un semplice documento, firmato da tutti i detenuti e di cui io mi sono fatto promotore. Una modalità pacifica e civile per ottenere una vita carceraria più dignitosa. La direzione del carcere di Oristano, invece di prendere atto delle nostre condizioni di vita, mi ha trasferito in un carcere che è anche peggiore di quello di Oristano. Nel giro di poche ore, mi hanno sbattuto dentro un furgone, senza neanche darmi la possibilità di prendere le mie cose dentro la cella. Ti rendi conto? Mi sono solo fatto promotore di un semplice reclamo e guarda come mi trattano, guarda come calpestano i mie diritti ed anche quelli dei mie compagni che ho lasciato lì! Per quanto riguarda il carcere di Sassari devi sapere che siamo in 6 dentro una cella. Una cella piccola, vecchia e sporca. Non è un posto per far stare delle persone. L’atmosfera qui è pesantissima e ti assicuro che qui la solitudine ti ammazza! Con me vi salutano: Franco, Sebastiano, Massimo, Andrea e Salvatore.
Maurizio, dal carcere di Sassari
La nostra detenzione a Lanciano. Carissimo Riccardo, ti scriviamo dalla sezione terza A del carcere di Lanciano, dove la situazione è disumana. Infatti viviamo in tre detenuti dentro cubicoli, ovvero celle piccolissime fatte per ospitare una sola persona. In poche parole lo spazio che abbiamo a disposizione è talmente poco che dobbiamo fare i turni per tutto. Per scrivere, per mangiare o semplicemente per lavarci. Inoltre, manca l’acqua in cella per molte ore al giorno e così le nostre sofferenze aumentano oltre l’immaginario. È ovvio che chi tra di noi è più debole soffre di più. Come i malati, e non sono pochi, che sono costretti a vivere in spazi angusti come i nostri e senza poter neanche ricevere le adeguate cure mediche. Dov’è lo Stato di diritto? Qui a Lanciano non lo vediamo proprio. Sappiamo che viviamo problemi comuni a tante carceri italiane, e ci preoccupa molto il modo in cui il governo affronta la questione. Per quanto riguarda la magistratura di sorveglianza, ti facciamo presente che qui nel carcere di Lanciano anche chi ha commesso reati comuni, come il furto, e ha quasi finito di scontare la pena non riesce ad ottenere misure alternative e resta in carcere fino al fine pena. Ringraziamo te e il Riformista che ci consente di far sentire la nostra voce.
Nino e Ciro, dal carcere di Lanciano
I tossicodipendenti di Rebibbia. Caro Arena, la Terza casa di Rebibbia è una sezione di cui tutti parlano bene, ma dove in non tutto va per il verso giusto. Deve sapere che, essendo noi tutti tossicodipendenti, la direttrice ci fa fare gli esami delle urine, e se per caso qualcuno di noi risulta positivo, viene trasferito in un altro carcere senza nemmeno avere il tempo di avvisare il Sert. Ma noi ci domandiamo: perché queste analisi non le fanno fare al Sert che ci segue? Inoltre per parlare con un operatore del Sert, dobbiamo fare un’apposita richiesta, la così detta domandina, ma se invece ci chiama il medico del Sert e noi non abbiamo fatto la domandina non lo possiamo vedere. Così vuole la direttrice. Vi sembra giusto? Ma non solo. Pare che ultimamente la direzione della Terza casa di Rebibbia abbia buttato fuori gli operatori del Sert, ma mi domando io: come è possibile che un carcere fatto apposta per i tossici rimanga senza Sert? Dicono che di noi detenuti si devono occupare le Asl. Ma qui dentro l’Asl è totalmente assente. Inoltre consideri che qui ci sono dei capannoni vuoti e mai utilizzati. Capannoni per fare attività lavorativa. Come mai in altre carceri ci sono officine e qui no?
Alessandro, dal carcere Rebibbia di Roma
Noi detenuti a Busto Arsizio. Caro Riccardo, ti scrivo anche a nome di altri cinquanta miei compagni per farti conoscere le nostre condizioni di vita e anche le nostre iniziative di protesta non violenta. Qui, nel carcere di Busto Arsizio, viviamo infatti in celle rovinate e sovraffollate. Siamo costretti a vivere il 8 detenuti dentro celle grandi appena 12 mq. Gli ambienti dove stiamo rinchiusi sono fatiscenti e siamo costretti a dormire su materassi ridotti a vecchie spugne. Il vitto che ci danno è cattivo e non abbiamo nessuna possibilità di lavorare. Anche la magistratura di sorveglianza non ci considera, tanto che non ci concede mai misure alternative. Considera che la nostra è una sezione attenuta. Il che significa che dovrebbe avere più medici e, soprattutto, più assistenti sociali. Ed invece, per essere visitati dobbiamo rinunciare all’ora d’aria e incontrare un educatore è una vera rarità. Abbiamo scritto tutto questo al nostro direttore e ora attendiamo una risposta. Ti informiamo anche che dal 16 settembre inizieremo una protesta pacifica, fino a che non avremo ricevuto risposte. Non chiediamo la luna, ma solo il rispetto della legge! Vi salutiamo tutti!
Oscar e 50 persone dal carcere di Busto Arsizio Lazio: anche i detenuti possono votare per il bilancio regionale di Patrizio Gonnella
Italia Oggi, 1 ottobre 2009
Nel Lazio i detenuti possono partecipare alla consultazione regionale sul bilancio della Regione. Da alcuni anni nel Lazio viene infatti sperimentato un modello di partecipazione delle cittadine e dei cittadini alle scelte economiche e finanziarie dell’ente regionale. Il percorso di partecipazione al bilancio negli scorsi anni ha adeguatamente miscelato forme di partecipazione volontaria con una selezione ragionata di campioni rappresentativi. Nel 2008 fu adottato il sistema del sondaggio deliberativo. Quest’anno il modello prescelto è il seguente. Si comincia con una semplice domanda rivolta a tutti gli interessati. "A quale ambito di bilancio regionale dovrebbero andare risorse aggiuntive per l’anno 2010?". Ogni cittadino può rispondere a questa domanda selezionando al massimo cinque voci, tra un elenco di ambiti di bilancio proposti dalla Regione Lazio. Tra i più significativi vi sono: trasposto pubblico locale, sicurezza delle strade, contrasto all’usura, reddito minimo garantito, politiche sociali per le persone e per le famiglie, sicurezza dei prodotti agroalimentari, sostegno alle piccole e medie imprese, messa in sicurezza degli edifici scolastici, inclusione degli immigrati, energie alternative, trasparenza della pubblica amministrazione. È possibile votare in quattro modi: con l’e-poll, ossia con un sistema di voto elettronico; attraverso il sito www.economiapartecipata.it; con un sms; con la scheda cartacea. La vera novità è costituita dall’e-poll ed in particolare dal fatto che sono stati invitati a votare i detenuti ristretti nelle carceri laziali proprio con il sistema di voto elettronico. La consolle e-poll è un apparecchio touch screen che ha la forma di un semplice monitor 17 pollici, e ha bisogno semplicemente di essere, connesso alla rete elettrica. Nasce da un progetto di ricerca presentato alla Commissione europea - Direzione generale società dell’informazione e media sul finire del 1999. Tutt’oggi la medesima direzione della Commissione lo co-finanzia per realizzare l’Initial Deployment (Divulgazione Iniziale), ovvero per introdurre gradualmente il sistema nell’Unione europea a partire da tre Paesi: Italia, Francia e Regno Unito. Trattasi di una vera e propria sperimentazione. Si vota usando il codice fiscale o la tessera sanitaria e ciò mette indiscutibilmente al riparo dal doppio voto. Le postazioni mobili di e-poll sono distribuite in vari luoghi pubblici della Regione Lazio (in particolari comuni e municipi romani). Attraverso la mediazione di alcune associazioni nonché l’interessamento del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria è stata concessa anche ai detenuti la possibilità di partecipare alla consultazione. Sono infatti legittimate a partecipare tutte le persone che, di età superiore a 16 anni, risiedono nella Regione Lazio o vi sono domiciliate per lunghi periodi di studio o di lavoro. I voti confluiscono in un’urna virtuale depositata presso il ministero degli interni. Sarà aperta solo il 1° novembre. Oggi nel Lazio la partecipazione è prevista per legge, attraversò una norma della finanziaria regionale del 2006 (art. 44 - lr n. 4 del 28/4/06). E stata poi disciplinata da un regolamento attuativo (Regolamento n. 4 del 30/4/06). Nel Lazio oggi i detenuti sono complessivamente 5.644 di cui 2.852 in attesa di giudizio. La percentuale di imputati risulta pertanto addirittura superiore a quella dei condannati in via definitiva. Al voto possono anche partecipare i detenuti ai quali sono negati i diritti civili e politici a seguito di interdizione legale in quanto si tratta di una consultazione generale che non rientra tra quelle elettorali classiche. Ad alcuni detenuti verrà data l’opportunità di partecipare alla giornata del 14 novembre usufruendo di eventuali permessi premio ad hoc concessi dalla magistratura di sorveglianza. Toscana: dal Governo, niente soldi per la Sanità Penitenziaria
Redattore Sociale - Dire, 1 ottobre 2009
Il referente del Direttivo regionale della Toscana salute in carcere sostiene che "le regioni stanno anticipando le risorse di tasca propria per consentire alle Asl territoriali di gestire la sanità negli istituti penitenziari". "Le regioni non hanno ancora avuto un solo euro dal governo per farsi carico del passaggio dalla sanità penitenziaria al servizio regionale gestito dalle Asl all’interno delle carceri". A sostenerlo è Roberto Bocchieri, (Direttivo regionale toscano salute in carcere), intervenuto a margine del seminario "Tra cura e normativa: la sicurezza nelle comunità terapeutiche" in corso a Marina di Pietrasanta (Lucca). "Le regioni - afferma Bocchieri - trovandosi senza le risorse governative, stanno anticipando di tasca propria i fondi per effettuare questo delicato ed oneroso passaggio di competenze". Molto problematico, secondo Bocchieri, è anche l’integrazione e la sinergia tra amministrazione penitenziaria, governo centrale e istituzioni locali. Ecco perché, dice, "la regione toscana ha istituito un’apposita Cabina per tutte le politiche e le tecniche regionali in ambito carcerario: dalla salute al lavoro, dalla cultura alla formazione, dall’informazione all’università". Venezia: inchiesta sul suicidio in carcere, ascoltati tre detenuti
La Nuova di Venezia, 1 ottobre 2009
Incidente probatorio oggi per tre detenuti marocchini davanti al giudice veneziano Giuliana Galasso. A chiederlo è stato il pubblico ministero Massimo Michelozzi, che indaga sul suicidio di un detenuto della stessa nazionalità avvenuto in carcere e sull’esistenza di una "cella di punizione" a Santa Maria Maggiore. Erano sette gli indagati, tre per concorso in omicidio colposo e altri quattro per maltrattamenti ai reclusi, ma uno di loro, Domenico Digiglio, si è tolto la vita dopo aver sparato alla moglie sabato notte. I tre dovranno testimoniare sull’esistenza di quella cella, buia, sporca e priva di strutture, dove sarebbero stati rinchiusi a causa del loro comportamento. Queste le accuse da cui devono difendersi tre dei sei indagati, mentre gli altri devono rispondere di aver rinchiuso nella stessa cella un detenuto che poi si è impiccato riducendo in strisce la coperta che gli era stata assegnata. A fare le domande saranno il pm, i difensori e l’avvocato di parte civile Marco Zanchi. Sassari: dopo 9 anni di processo, prescritto il pestaggio in cella di Daniela Scano
La Nuova Sardegna, 1 ottobre 2009
Sette prescrizioni e due assoluzioni. Si è chiuso così, ieri pomeriggio, il lunghissimo processo a nove poliziotti penitenziari accusati di avere partecipato al pestaggio di decine di detenuti nella casa circondariale di San Sebastiano. La sentenza è stata emessa alle 16,45 dopo un’ora e mezza di camera di consiglio. A nove anni e cinque mesi dalla spedizione punitiva fatta il 3 aprile 2000 da un plotone di poliziotti penitenziari, come "certifica" una sentenza definitiva di condanna dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, i giudici del collegio hanno chiuso il processo-bis agli agenti penitenziari che avevano affrontato il rito ordinario. Dibattimento infinito e segnato dalle drammatiche testimonianze di chi quel pestaggio lo subì. Una sentenza annunciata, quella emessa dal collegio presieduto dal giudice Massimo Zaniboni (a latere Antonello Spanu e Maria Teresa Lupinu), che a maggio era stata sollecitata anche dal pubblico ministero Gianni Caria. Il pm si era detto convinto della colpevolezza degli imputati, ma aveva anche sostenuto che tutti avessero diritto alle attenuanti generiche. Una tesi parzialmente condivisa dai giudici del tribunale che, entrando nel merito delle accuse, hanno deciso di scagionare due agenti. La prescrizione è quindi scattata solo per sette dei nove poliziotti. Mario Casu, Pietro Casu, Mario Loriga, Alessio Lupinu, Pietro Mura, Antonio Muzzolu e Giuseppe Renda hanno tratto beneficio dal lungo tempo trascorso dall’episodio. I sette agenti non erano presenti in aula alla lettura del dispositivo e sono stati informati della decisione del tribunale dagli avvocati difensori Antonella Cuccureddu, Antonello Cosseddu e Mario Perticarà. Assoluzione "per non avere commesso i fatti", invece, per Paolo Lai e Renato Sardu. I due - difesi dagli avvocati Antonio Meloni e Pietro Diaz - quel giorno prestavano servizio sul muro di cinta della casa circondariale sassarese e quindi non presero parte alle operazioni di "sfollamento" di una sezione. La situazione degenerò in atti di violenza che il pm aveva definito con una serie di reati ma che - come aveva fatto in precedenza la Cassazione - i giudici ieri hanno derubricato in "abuso di autorità su detenuti". Anche se annunciata, la prescrizione per i fatti di San Sebastiano ha lasciato l’amaro in bocca agli avvocati di parte civile Letizia Doppiu Anfossi, Claudio Mastandrea, Antonio Secci, Maurizio Serra, Giuseppe Conti, Gabriela Pinna Nossai, Paolo Spano, Lorenzo Galisai e Giuseppe Masala. "Dopo nove anni e quattro processi per un episodio gravissimo e "conclamato", come afferma una sentenza ormai definitiva - è stato il commento - nessuno dei detenuti che quel giorno vennero picchiati a sangue ha avuto un euro di risarcimento". "Proprio così - conferma Letizia Doppiu Anfossi -. C’è stata una trattativa con l’Avvocatura dello Stato, ma il ministero non ha mai dato una risposta". Le parti civili adesso si attiveranno per incassare i risarcimenti concessi, nel 2007, con la sentenza d’appello che condannò i vertici sardi e sassaresi dell’amministrazione penitenziaria: l’ex provveditore regionale Giuseppe Della Vecchia; la direttrice Maria Cristina Di Marzio ed Ettore Tomassi, comandante della casa circondariale sassarese. Sarebbero stati loro e otto ispettori - nell’ordine - a preordinare, fingere di non vedere e attuare la sanguinosa spedizione punitiva. Un mese dopo, in tutta la Sardegna, scattarono novanta arresti. Pavia: Fabio Savi non si nutre da 32 giorni adesso rischia la vita
La Provincia Pavese, 1 ottobre 2009
32 giorni senza mangiare nulla, rifiutando le flebo e la soluzione glucosata, bevendo solo un litro di liquido al giorno: Fabio Savi, uno dei killer della Uno bianca che stava scontando la pena nel carcere di via Prati nuovi, continua lo sciopero della fame che lo ha portato al ricovero all’ospedale di Voghera. A farsi portavoce delle preoccupazioni per la sua sorte è l’avvocato che lo assiste, Fortunata Copelli del foro di Reggio Calabria: "Il mio cliente è allo stremo - racconta - per questo ci auguriamo che ci sia una risposta in tempi rapidi alla sua richiesta di essere avvicinato alla famiglia. È a rischio la sua stessa vita". Preoccupazione cui fa eco il responsabile della sanità penitenziaria della Cgil, Oreste Negrini, che scrive una sorta di lettera aperta alla politica. "Facciamo appello ai consiglieri regionali, agli assessori, ai parlamentari pavesi, al sindaco di Voghera, affinché si facciano carico di verificare le condizioni di salute e di vita del detenuto Fabio Savi - scrive Negrini -. L’azione che ha intrapreso è molto rischiosa per la sua integrità fisica e parrebbe determinato a condurla alle estreme conseguenze. È di queste ore la notizia, non confermata, che sarebbe ricoverato presso il reparto di rianimazione dell’ospedale civile di Voghera. Le ragioni della richiesta del trasferimento sono validissime e legittime: la distanza geografica non riesce a garantirgli la relazione e l’affettività familiare di cui ha estremo bisogno, ciò gli provoca ansia e fragilità psicologica L’istanza di trasferimento è di competenza del Tribunale di sorveglianza di Milano e non si conoscono le ragioni del diniego. Auspichiamo che le ragioni umane possano prevalere su aspetti più generali connessi all’espiazione della pena. Per scongiurare che l’ennesimo caso di una persona in custodia sfoci nella morte di un detenuto, chiediamo che le Istituzionali preposte alla verifica delle condizioni generali di detenzione assumano le decisioni conseguenti La questione è complessa, la cautela è d’obbligo, in quanto il rischio di emulazioni è elevato. Non possiamo pero accettare che un detenuto scelga di morire di fame per non morire di solitudine: se continua a rifiutare il cibo, le autorità competenti (direttore del carcere, direttore sanitario, magistratura), per salvargli la vita dovranno ricorrere al trattamento sanitario obbligatorio". Lodi: progetto "Lavoro Debole" alla terza fase di realizzazione di Daniele Bellocchio
Il Giorno, 1 ottobre 2009
Il lavoro come forma di riscatto sociale per detenuti ed ex detenuti. Nel 2006 è partita l’iniziativa "Lavoro Debole", e oggi, a distanza di tre anni, il progetto passa alla terza fase di realizzazione. L’idea, portata avanti dalla Provincia di Lodi e dalle associazioni interessate al mondo-carcere (Agente di Rete e il personale della Casa Circondariale, Caritas Lodigiana, associazione Bambini senza sbarre, associazione Loscarcere Onlus, Acli e associazione lodigiana Volontariato carceri), è nata fin da subito con obiettivi proiettati verso il futuro. Inizialmente si è trattato di aprire uno sportello all’interno del carcere dove i detenuti potessero parlare con operatori specializzati, preparando le basi per una vita fuori dalla Casa Circondariale. Poi, l’impegno a favorire il loro ingresso nel mondo del lavoro, offrendo una possibilità di reinserimento. "Oggi, con l’avvio della terza fase - spiega Mara Zaffignani, dirigente dei servizi alla persona - si cerca, attraverso un’ampia rete di servizi, di portare avanti il percorso iniziato. Sia dentro al carcere, con un progetto di miglioramento del rapporto detenuto-famiglia, sia con un lavoro esterno incentrato sul reinserimento nel mondo del lavoro". Elga Zuccotti, responsabile delle politiche del lavoro e Grazia Grena coordinatrice del progetto, spiegano: "L’ingresso di un ex detenuto nel mondo lavorativo è la vera occasione di reinserimento. Basti pensare che la recidività del soggetto a delinquere, nel caso abbia un lavoro, è del 20-30% . Al contrario è dimostrato che, una volta fuori dal carcere, chi è senza lavoro, è recidivo nel 70% dei casi. Inoltre, è importante fornire un servizio di supporto alla "genitorialità". Stiamo cercando uno spazio dedicato all’incontro tra padri e figli. La tutela del rapporto tra il detenuto e la famiglia è un tema estremamente delicato, ma che va affrontato per non peggiorare situazioni già disagiate e per responsabilizzare i padri". Ad oggi, gli ex detenuti che sono entrati nel mondo del lavoro sono 37. Inizialmente erano le cooperative sociali che s’assumevano l’onere di integrarli, ma ora anche il mondo del commercio inizia a sensibilizzarsi. L’Unione Artigiani ha organizzato incontri per far conoscere agli imprenditori della provincia questa realtà. "La speranza - ha spiegato Elga Zuccotti -, è che dal 2011 il progetto diventi una procedura formalizzata". L’assessore provinciale alla Cultura, Mariano Peviani ha così commentato l’iniziativa: ""Lavoro debole" è una bella novità. Spesso il reinserimento sociale dei detenuti non viene considerato, ma non servono solo le condanne. È necessario offrire loro anche una possibilità di riscatto". Perugia: un sit-in della Polizia penitenziaria, solidarietà dal Pdl
Comunicato stampa, 1 ottobre 2009
Questo sit-in è stato costituito per rappresentare all’opinione pubblica la drammatica situazione in cui versa l’istituto di Capanne Perugia. Siamo certi che anche i non addetti ai lavori possano giudicare la situazione dai numeri che dicono tutta la verità sulla struttura Perugina. Capienza regolamentare 352 detenuti Presenti attualmente 500 Personale Polizia Penitenziaria presente attualmente 215 +37 in missione, le missioni termineranno il 15 ottobre dove a Capanne nella migliore delle ipotesi arriveranno 44 unità. Personale previsto 462 unità. Siamo scesi oggi in piazza per rappresentare con dignità e con molta civiltà che il sistema penitenziario è al default. Ormai è dall’inizio dell’anno, che il personale di Polizia Penitenziaria dell’istituto di Perugia sta lanciando il proprio grido di allarme attraverso la denuncia della criticità, in questo periodo sono state percorse tutte le strade istituzionali amministrative e politiche, sia locali, che nazionali per chiedere un confronto, per chiedere soltanto di essere ascoltati attenendoci scrupolosamente al sistema che regolamenta le relazioni sindacali. Abbiamo ricevuto solidarietà ed impegno a livello locale e regionale dalle varie realtà politiche e istituzionali, siamo stati convocati dal prefetto Laudanna mentre dal dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria tutto tace. Negli ultimi venti giorni il personale di Polizia Penitenziaria di Perugia si è astenuto dalla mensa, protesta sospesa ieri per dare inizio a forme diverse come quella di oggi. La cosa peggiore di questa situazione è che in fin dei conti noi stiamo chiedendo all’amministrazione centrale soltanto di essere ascoltati, che venga istituito un tavolo di confronto locale con il capo del dipartimento per poter definire insieme un programma di azioni che portino nel tempo alla risoluzione delle problematiche che non sono ordinarie, ma straordinarie risposte alle quali gli organi periferici dell’amministrazione non possono dare soddisfacimento. Oggi chiediamo oltre che di essere convocati dal Capo del dipartimento Ionta, anche che il DAP riveda l’attuale piano di assegnazione del personale di Polizia Penitenziaria di Perugia perché allo stato attuale è una delle realtà peggiori d’Italia con una Carenza di Organico superiore al 30%. Vorremmo ricordare in ultimo che il dialogo oltre che uno strumento democratico è un dovere civico.
La Segreteria Regionale Sinappe
La solidarietà di Zaffini alle guardie carcerarie
"Solidarietà agli agenti che sono impegnati con un sit-in davanti al carcere di Capanne per manifestare il proprio disagio rispetto alle attuali condizioni del sistema penitenziario umbro". Questa la posizione del capogruppo An-Pdl, Franco Zaffini che si dichiara vicino agli operatori di polizia penitenziaria. "È un momento delicato in cui le forze sindacali dovrebbero essere compatte di fronte alle istituzioni sia locali che nazionali, anziché rifugiarsi nei diktat di qualche sigla". Dice l’esponente del Pdl che prosegue: "Il sovraffollamento carcerario ed il correlato problema di sottorganico sta creando situazioni difficili su tutto il territorio nazionale, e Capanne è una di quelle realtà in cui questo squilibro è presente in maniera più evidente". Zaffini ricorda che già prima dell’estate si è attivato, interessando il Ministro Alfano, insieme ai parlamentari Pdl dell’Umbria, riguardo l’emergenza che si prospettava per i penitenziari della regione e chiedendo all’esecutivo di palazzo Donini che si procedesse sia con un tavolo di confronto nazionale, sia con tutte quelle misure, di competenza regionale, che potessero allentare la tensione nelle strutture detentive, come ad esempio, la presa incarico della gestione sanitaria. "L’impressione che ho avuto parlando con gli agenti - conclude Zaffini - è quella di trovarmi di fronte a persone che si sentono trascurate dalle istituzioni alle quali chiedono di essere ascoltati. Peraltro, alla luce dell’ordine del giorno con cui l’esecutivo è stato impegnato, all’unanimità dal consiglio regionale, ad adottare misure di tutela nei confronti del personale penitenziario, è doveroso che i rappresentanti istituzionali definiscano con gli operatori un programma di azioni condivise che portino, nel tempo, alla soluzione di problematiche di carattere emergenziale e straordinario". Immigrazione: cronaca delle persecuzioni, nei Cie e nelle città
www.articolo21.info, 1 ottobre 2009
La rete di organizzazioni per i Diritti Umani, di fronte alla prosecuzione di respingimenti di profughi, operazioni di purga etnica, attuazione di procedure persecutorie nei confronti dei migranti detenuti nei Cie, negazione dello status di rifugiato a migliaia di esseri umani che ne avrebbero diritto, prosegue nel suo dialogo con le Istituzioni internazionali che rappresentano i valori fondanti della civiltà dei Diritti Umani: l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, il Consiglio d’Europa, la Commissione europea. I rappresentanti di tali organismi hanno più volte riconosciuto di non essere dotati di strumenti giuridici efficaci per opporsi alle derive nazionali che annientano il patto fra nazioni il cui vincolo basilare non sono gli accordi sottoscritti, ma il grado di civiltà degli Stati e dei loro governanti. "Non possiamo fare nulla nei confronti di un governo che non rispetti la Convenzione di Ginevra o gli altri accordi firmati," ci ha detto recentemente il rappresentante di un’Istituzione per la salvaguardia dei rifugiati. È un’ammissione pericolosa, che spalanca le porte a qualsiasi forma di prevaricazione dei Diritti Umani e di fatto pone l’Unione europea nelle stesse condizioni che favorirono l’affermarsi del nazifascismo. Ecco perché stiamo sollecitando le Istituzioni sovrannazionali a fare un uso più efficace dei loro organismi giuridici ovvero delle corti internazionali. Intanto, le segnalazioni di abusi su immigrati e degli effetti nefasti della legge razziale 94/2009 proseguono senza sosta. Mentre negli Stati Uniti e in tutti i Paesi democratici (ma non solo in quelli) i governi approntano misure per vaccinare contro l’influenza A i migranti "irregolari", l’Italia prosegue senza tregua l’iniqua caccia all’uomo nei loro confronti, per applicare gli articoli xenofobi della legge. Per evitare di cadere nelle maglie della persecuzione, i "clandestini" vivono nascosti, in luoghi difficilmente accessibili e condizioni sanitarie tragiche, senza acqua, se non la poca che riescono a prelevare dalle fontane pubbliche grazie a taniche e secchi. Nessun provvedimento è stato messo in atto per garantire loro il vaccino o le cure mediche adeguate. La rete antirazzista segnala gravi tensioni nel Cie di Crotone, dove le condizioni di detenzione sono inumane, le violazioni della dignità dei detenuti quotidiane, gli effetti della legge razziale devastanti. Martedì scorso, secondo la testimonianza di alcuni attivisti, "due reclusi sono saliti sul tetto minacciando di buttarsi, altri due sulle recinzioni metalliche che circondano la struttura. Un altro si è tagliato le mani e la pancia con una lametta". Dopo la denuncia dei gravi abusi sui migranti nel Cie di Gradisca, documentati da video e foto, finalmente i rappresentanti delle Istituzioni internazionali hanno stretto la vigilanza sull’operato delle autorità che si occupano della custodia dei reclusi. "Lunedì scorso," comunica la rete antirazzista, "due deputati e tre senatori del Partito Democratico hanno visitato il Cie di Gradisca d’Isonzo. Alle dieci del mattino, senza fotografi né giornalisti, sono entrati nella struttura accompagnati dal direttore. La visita è durata un paio d’ore e molti reclusi sono riusciti a parlare direttamente con i cinque, raccontando loro della durezza delle condizioni di detenzione e delle botte volate durante le proteste del lunedì precedente. Qualcuno tra i reclusi, poi, ha accusato i parlamentari in visita di essere corresponsabili delle leggi contro i senza-documenti, e soprattutto dell’esistenza stessa dei Centri. I detenuti si sono sentiti traditi quando, nel Telegiornale regionale è stata trasmessa l’intervista ad uno dei cinque parlamentari, che ha elogiato la professionalità del personale del Centro ed invocato lo sveltimento delle procedure di espulsione deprecando l’eccessiva permanenza all’interno dei Cie, senza soffermarsi molto sui pestaggi del 21". Roma: atti di autolesionismo e uno sciopero della fame sono gli strumenti, disperati, che i detenuti all’interno del Cie utilizzano perché la loro condizione e le violazioni che subiscono non rimangano dietro la cortina di silenzio istituzionale. "Un detenuto ha perso i sensi," riferisce un attivista, "mentre altri si sono tagliati le carni. Un giovane si è reciso le vane ed è stato trovato in un lago di sangue. È stato medicato in infermeria e riportato nella sua cella, dove continua a perdere coscienza ed è in condizioni penose. I detenuti si chiedono come sia possibile che il mondo democratico tolleri che esseri umani siano trattati come bestie". Immigrazione: a Ponte Galeria; quarto giorno di sciopero fame
Ansa, 1 ottobre 2009
Tensione al Cie di Ponte Galeria: da quattro giorni 114 immigrati sono in sciopero della fame per protestare contro le norme anti immigrazione del governo. "Norme - spiega Angiolo Marroni, garante dei Detenuti del Lazio - che allungano da due a sei mesi la permanenza nei Centri per l’identificazione e l’espulsione (Cie) dei clandestini". Attualmente a Ponte Galeria sono ospitate 242 persone, 129 uomini e 113 donne. Tra i manifestanti non sono mancate le tensioni: "Nella serata di martedì - aggiunge Marroni - gli immigrati in sciopero della fame hanno chiuso i cancelli e lanciato oggetti contro i poveri operatori della Croce Rossa che cercano di tamponare una situazione ormai ingestibile. Un immigrato quarantenne che non voleva partecipare allo sciopero della fame è stato colpito a una spalla e costretto a ricorrere alle cure dei medici". Nei giorni precedenti, rivela ancora Marroni, numerosi immigrati hanno compiuto gesti estremi: "Due hanno ingoiato una lametta - racconta -. Qualcun altro ha mangiato pile elettriche. In tre si sono feriti al braccio, e uno, purtroppo, si è tagliato anche un’arteria". Ormai anche a Ponte Galeria è arrivata la tensione, che si respira da giorni nei Cie di tutta Italia. "È evidente che la norma che prevede, anche retroattivamente, un periodo massimo di permanenza nel Cie di 180 giorni sta trasformando questi Centri in vere e proprie carceri - spiega ancora Marroni -. Se continua così saranno i Cie e le carceri la prossima emergenza nazionale". Secondo Marroni, infatti, lo sciopero della fame e le altre forme di protesta andranno avanti e si "allargheranno anche alle carceri sovraffollate e in piena emergenza. Non bisogna dimenticare che stiamo parlando di uomini disperati, che scappano da un incubo e si ritrovano a viverne un’altro. Li stiamo trattando come bestie, chiusi in una gabbia dove manca tutto e dove la dignità è quotidianamente calpestata". Immigrazione: reportage in Cie di Crotone, analisi d'un fallimento
Redattore Sociale - Dire, 1 ottobre 2009
Reportage dal centro, riaperto a febbraio per l’emergenza Lampedusa. Oggi è una struttura permanente. Cento i posti disponibili nelle due vecchie palazzine dell’ex base aeronautica. Condizioni fatiscenti dell’immobile. L’hanno riaperto il 28 febbraio 2009 per l’emergenza Lampedusa. Ma il centro di identificazione e espulsione (Cie) di Crotone - situato all’interno dell’area del centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), presso l’ex base aeronautica di Sant’Anna, di fronte all’aeroporto - era già stato in funzione dall’agosto del 2003 all’aprile del 2007. Così quando il 18 febbraio 2009 il Cie di Lampedusa andò a fuoco in seguito alla rivolta degli 800 immigrati che vi erano detenuti da oltre due mesi, Crotone fu una delle prime località dove furono smistati i tunisini detenuti sull’isola per diminuire le tensioni. Ne arrivarono 98, un marocchino e 97 tunisini. L’emergenza Lampedusa è finita, il centro di Crotone però è ancora aperto. Non solo. La Misericordia - che già gestisce il Cara di Crotone - ha vinto la gara d’appalto per la gestione del Cie, con un contratto valido fino al 2012. Il che fa del Cie di Crotone una struttura stabile, e il secondo Cie in Calabria, dopo quello di Lamezia Terme. Ma il Centro presenta notevoli problemi: solo il 10% dei reclusi è stato rimpatriato. E la sua posizione richiede, per i semplici trasferimenti, costi non sostenibili. Insomma, un mezzo fallimento. Il Centro. La struttura consiste in due vecchie palazzine verdi, dove alloggiavano in passato i militari della base dell’aeronautica. Tutto intorno si trova una doppia recinzione. La prima è una grata di metallo alta quattro metri. La seconda è un muro di cinta di quattro metri sormontato da una rete metallica piegata verso l’interno per evitare le fughe. La capienza è di 100 posti, ricavati al primo e secondo piano delle due palazzine. 25 persone per piano. C’è anche una mensa, in un terzo edificio. Che però non viene più utilizzata per motivi di sicurezza. Il dirigente dell’ufficio immigrazione, ispettore Maria Antonia Spartà, cita episodi di evasioni avvenute proprio durante i trasferimenti dalle camerate alla mensa. "Succedeva che un gruppo creava disordine impegnando le forze dell’ordine in un punto, mentre un altro gruppetto saliva sul tetto della mensa e scavalcava il muro di cinta per poi scappare attraverso i campi". Più tardi assisto personalmente alla distribuzione dei piatti al cancello della prima palazzina. All’interno della palazzina si sale attraverso una scala buia. La lampada al neon non funziona. Al primo piano sulla porta verde di una stanza c’è scritto "Chambre al-maut". Un misto di francese e arabo che significa "camera della morte". I muri sono schizzati di sangue. Tracce della quotidiana guerra con le zanzare. Questa è una zona molto umida, nelle vicinanze c’è un lago. E anche a mezzogiorno il soffitto delle camerate è ricoperto di decine e decine di insetti. In una stanza gli intonaci si staccano dal muro e cadono a pezzi sul letto dove un ragazzo dorme ancora, probabilmente sotto gli effetti degli psicofarmaci, che qui come in altri Cie sono spesso richiesti dai detenuti e altrettanto spesso somministrati con leggerezza (e senza nessuna visita specialistica) da parte degli enti gestori. Quella che era la sala comune è diventata una moschea. Nella parete c’è un buco dove era incastonata la televisione prima che qualcuno lo rompesse durante una recente rivolta. Al posto dei tavoli, per terra ci sono le coperte stese a mo’ di tappeto per la preghiera. E un corano verde appoggiato nella direzione di Mecca. Nella stanza a fianco c’è un buco nel muro di un metro per due. L’hanno sfondato durante una rivolta subito dopo la riapertura a fine febbraio. L’ispettore Spartà nega che ci siano state rivolte quest’anno. Ma non ha difficoltà a parlare del passato. "Prima del 2007 - dice - abbiamo avuto fughe, rivolte, gente che saliva sui tetti. Prima era più difficile perché avevamo gruppi omogenei. Quando per esempio organizzavamo con l’Egitto dei voli charter da Crotone o da Lamezia, tenevamo dentro gruppi di 50 o 60 egiziani, che si davano manforte. Hanno sradicato termosifoni dai muri, tavoli, panchine, televisori, tutto quello che si poteva tirare addosso alla polizia, hanno distrutto le pareti e ci hanno lanciato mattoni e calcinacci".
500 mila euro per 32 espulsioni
C’è chi dice che i rimpatri siano necessari e chi dice che siano ingiusti. Di certo sono costosi. Soprattutto in alcune questure d’Italia. Prendete Crotone. In base ai dati forniti a Redattore Sociale dall’Ufficio immigrazione della Questura, per rimpatriare 32 persone sono stati spesi 500.000 euro, che significa più di 15.000 euro per ogni espulsione. Tanto spreco nasce fondamentalmente da motivi logistici. Crotone si trova fuori dalle rotte internazionali. Fino al 2007 era diverso perché allora si organizzavano voli charter, soprattutto verso l’Egitto, dagli aeroporti di Crotone e di Lamezia Terme. Ma da quando il centro ha riaperto, nel 2009, i rimpatri si fanno sui voli di linea in partenza da Roma. E a causa dei tagli al bilancio dei corpi di polizia, la Questura si trova in difficoltà a impegnare nelle scorte degli immigrati da Crotone a Roma i pochi uomini delle forze dell’ordine a disposizione per il presidio del territorio. Ce lo rivela una fonte interna alla Questura. E ce lo confermano i dati dei primi sei mesi di attività del centro di identificazione e espulsione (Cie) crotonese. Da febbraio a luglio 2009, sono uscite dal Cie 320 persone. Di queste però sono stati effettivamente rimpatriati soltanto in 32, appena il 10%, rimpatriati verso Egitto (10), Romania (9), Ucraina (7), Marocco (2), Tunisia (2), Seichelle (1) e Ghana (1). Gli altri 288 sono stati dimessi per scadenza termini. Adesso veniamo ai costi. La Prefettura di Crotone versa all’ente gestore (Misericordia) circa 26 euro al giorno per ogni ospite trattenuto presso il Cie. Pertanto la detenzione di 320 persone per 60 giorni è costata 499.200 euro. Ed è una cifra approssimata per difetto. Perché non tiene conto né delle spese processuali delle 320 udienze di convalida del trattenimento (avvocati d’ufficio compresi), né delle spese del personale di polizia impiegato nei controlli dei documenti sul territorio, né delle missioni delle scorte di polizia per i 32 rimpatriati. Quel che è certo è che per il 90% degli immigrati detenuti nel centro di identificazione e espulsione di Crotone la prospettiva non è il rimpatrio. Immigrazione: la sanatoria di badanti e colf si ferma a 300 mila di Vladimiro Polchi
La Repubblica, 1 ottobre 2009
Doveva essere un maxicondono, è stata una minisanatoria. "La montagna ha partorito un topolino", è il coro di associazioni, sindacati e opposizione. Sul tavolo degli imputati, la regolarizzazione di colf e badanti straniere. I numeri parlano chiaro: meno di 300mila domande, la metà di quanto previsto dal Viminale. Critica Famiglia Cristiana: "Un’altra occasione sprecata, che lascerà una vasta area di sommerso". Irina è una moldava di trent’anni: "L’abbiamo spedita a metà mese. Ora non ci resta che aspettare e pregare". Irina fa la colf per una famiglia di professionisti romani. Oggi è un’invisibile, un’immigrata irregolare. Ma è stata fortunata: "I miei datori di lavoro hanno presentato domanda di sanatoria". Solo così Irina potrà salvarsi dai rigori del nuovo reato di clandestinità. Come lei, tante sono le immigrate che sperano di emergere. Dall’1 al 30 settembre alle ore 18 (la procedura on-line si è chiusa ieri a mezzanotte) sono state 286.148 le domande di regolarizzazione trasmesse on-line. I moduli richiesti riguardano soprattutto lavoratori ucraini (44mila), marocchini (41mila), moldavi (30mila) e cinesi (24mila). Nonostante la notevole accelerazione degli ultimi giorni, non sono state però rispettate le stime originarie del ministero dell’Interno. Il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in un’intervista al Giornale del 27 agosto scorso aveva infatti previsto che "arriveranno almeno 500mila domande che potrebbero lievitare a 750mila". Così non è stato. Perché? Innanzitutto molti datori di lavoro hanno preferito rimanere nel sommerso, per convenienza (non dover presentare il 740, né pagare contributi) o paura. "Tante famiglie hanno temuto di autodenunciarsi - sostiene l’avvocato Marco Paggi dell’Associazione di studi giuridici sull’immigrazione - presentando domanda e vedendosela poi rifiutare". Non solo. Secondo molte associazioni a frenare la regolarizzazione sarebbero stati anche i requisiti imposti: l’idoneità dell’alloggio del lavoratore, il limite di reddito (20mila euro) richiesto al datore di lavoro per le colf, il minimo di 20 ore settimanali dovute da contratto. Secondo le Acli, si aggirerebbe tra il 30 e il 40% il numero delle famiglie che, pur interessate, ha rinunciato alla regolarizzazione. Anche per questo Asgi, Arci, Cgil, Cisl, Uil, Adoc e Associazione nazionale datori di lavoro hanno chiesto al governo di prorogare il termine per accedere alla regolarizzazione. Ma il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, replica che non ci sarà alcuna proroga: "Chi non ha usufruito della norma per la regolarizzazione sarà soggetto a sanzioni previste dalla legge". Il ministro contesta chi parla di flop: "La valutazione ufficiale nella relazione tecnica che accompagnava il provvedimento parlava di 300mila lavoratori e tutto lascia ritenere che, entro la mezzanotte di oggi (ieri, ndr) quel numero sarà centrato". Intanto, l’associazione Dhuumcatu ha presentato al Tar di Roma la richiesta di annullamento del provvedimento che stabiliva la procedura telematica come modalità esclusiva per la sanatoria. Francia: 1.200 detenuti, che si costruiscono le serrature da soli di Roberto Scarcella
Secolo XIX, 1 ottobre 2009
Progettano nel miglior modo possibile le fughe dagli edifici in fiamme o pericolanti. E lo fanno pure bene, a quanto pare, proprio come qualcuno che dedica spesso i propri pensieri alla fuga. Difficile biasimarli, sono i detenuti di alcuni penitenziari francesi, che in nome del diritto al lavoro dei carcerati si ritrovano spesso a costruire progetti e oggetti che di fatto sono i loro avversari quotidiani, come filo spinato, sbarre, serrature iper-resistenti. Il progetto di legge sul lavoro nei penitenziari, partito il 22 settembre scorso ha riposizionato i riflettori sull’oscuro lavoro di chi sconta la propria pena, passando alcune ore a lavorare per aziende private. L’attenzione di molti, in Francia, si è spostata sulla "Service de l’Empoli Penitentiaire", che impiega 1.200 detenuti: è qui che costruiscono molti degli oggetti di uso comune, come i letti delle loro celle, ma anche mobili e soprammobili per ufficio ed esterni. Un catalogo decisamente variegato, in cui si può davvero trovare di tutto, per alcuni perfino troppo, perché a più d’uno sembra una inutile crudeltà far produrre ai carcerati le stesse sbarre che li tengono separati dal mondo. Non è solo questo: una volta si producevano le divise d’ordinanza dei secondini, che venivano vestiti da capo a piedi proprio da chi condivide con loro la vita in prigione, ma non per far rispettare la legge, piuttosto per averla violata: scarpe, calze, pantaloni, polo, guanti e perfino caschi. E visto che i carcerati erano così bravi, si è andati un passo oltre. Oggi, i detenuti-lavoratori preparano con cura l’equipaggiamento antisommossa che vengono usati dai guardiani in caso di rivolte carcerarie. E c’è di tutto, dal giubbotto antiproiettile alla cintura in cui vengono custodite le armi. Sembrava proprio che ai poveri detenuti fosse già chiesto abbastanza. E invece no: l’ultima idea riguarda proprio i piani di evacuazione, preparati in modo scrupoloso al computer: vie di fuga e scorciatoie per trovare la libertà, fuori da quattro mura, da un potenziale pericolo. Progettano la libertà altrui, ma non la propria. In tutti i sensi, perché gli è proibito disegnare i piani di evacuazione per il carcere in cui sono reclusi.
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