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Giustizia: carceri invivibili, la "punizione" diventa un inferno di Adriano Sofri
La Repubblica, 5 novembre 2009
Le due morti recenti fra le mura delle prigioni italiane riaprono la discussione sulle condizioni di vita nei luoghi che dovrebbero rieducare chi ha sbagliato. Ipocrisia e demagogia hanno fatto sì che l’indulto sia passato come una vergogna. Basta esaminare i dati reali per vedere quante falsità sono state diffuse. Tutti coloro che frequentano le galere, agenti, educatrici medici e infermieri, suore, direttori, hanno lo stesso pensiero: come mai sono così pochi a suicidarsi? Per conoscere un paese, vai a guardare le sue galere. Bella frase, eh? Lo ripetono in tanti, non ci crede quasi nessuno. Le galere sono inguardabili, per definizione. Vi si compiono pratiche di cui non vogliamo sapere niente, nella realtà: nei film invece ci piace moltissimo. I film sono fatti apposta per accontentare la nostra voglia di guardare cose inguardabili: tanto è un film, non ci impegna, finisce e andiamo a dormire contenti. Ora si è capito che la politica è questione di corpi. Aggiustiamo la frase: se volete conoscere la politica dei corpi, andate a guardare le galere. Prima ancora che gli ospedali, perché le galere sono anche i peggiori degli ospedali. La giustizia - non dico la bella aspirazione a qualcosa che non esiste, ma la sua professione: tribunali, giudici, processi - si ferma alle soglie del carcere, quando gli accusati o i condannati vengono passati ai birri. Là cessano di essere persone, e perfino di essere diversi fra loro. Non importa che siano innocenti incarcerati in attesa di un giudizio che li scagionerà, assassini di donne, o stranieri non in regola e basta. Sono corpi consegnati come si consegna un umiliato animale alle gabbie di uno zoo. Così si entra, e si lasciano alla matricola i propri effetti personali, un anello, la cintura e i lacci, la fotografia di fronte e di profilo, le impronte dei polpastrelli, e l’anima. I corpi devono essere denudati, perché sia piena la loro spoliazione. Nudi, una flessione, o più, una perquisizione anale, la consegna dei lenzuoli, se non sono finiti, e l’inoltro alla gabbia. L’ho pensato tante volte, e lo pensano tutti gli avventori di quel pozzo, agenti penitenziari ed educatrici, medici e suore, direttori e infermieri: come mai sono così pochi a suicidarsi in galera? Solo 61 in dieci mesi, per esempio, quest’anno. Come mai così pochi si feriscono, si tagliano, si mutilano? Solo alcune migliaia all’anno. Si prova una gran pena per i suicidati e gli ammazzati. Ma un vero sgomento per gli altri. Come hanno fatto a passare l’estate? Ve li ricordate, i giorni torridi dell’estate appena trascorsa? Era dura restare in spiaggia nelle ore meridiane, eh? In una qualunque delle galere si stava chiusi 20 o 22 ore al giorno dentro celle dalle sbarre arroventate e porte blindate in uno spazio inferiore a quello che le leggi assicurano ai pollai. Quasi 30 mila persone all’anno entrano in galera per uscirne nel giro di tre giorni. Sensazionale, no? E per ognuno tutta la liturgia: lasciare l’anello e la cintura e l’anima, e le flessioni... Pazzia, naturalmente. Ma le pazzie sono difficili da affrontare, quando sono abituali, e basta voltare la testa dall’altra parte. In questi giorni una catena di episodi normalmente infami, ma imprevedibilmente documentati, inducono a non voltare la testa. Passerà presto. Si dimenticheranno le frasi meravigliose: Cucchi caduto dalle scale, il colonnello che avverte che una camera di sicurezza non è un albergo a cinque stelle, l’ufficiale che spiega che il massacro va eseguito al piano di sotto se no il negro lo vede, il sindacalista che spiega che tecnicamente massacro vuol dire richiamo verbale. Ci sono quasi 66 mila detenuti per una capienza di 41 mila. Se non ci fosse stato l’indulto, sarebbero più o meno 90 mila per una capienza di 41 mila. Un esperimento di fisica solida memorabile. E dell’indulto, avete ancora così orrore? Tanto allarme sul favore scandaloso fatto a Previti: avete più sentito nominare Previti? Però vi siete sentiti dire che l’indulto - votato a grandissima maggioranza dai due schieramenti, e ripudiato un minuto dopo da ambedue, per viltà - ha fatto impennare la criminalità e la recidiva. Non era vero. Vi hanno detto che non era vero? Macché: vi hanno detto che le carceri si erano riempite di nuovo, che i disgraziati usciti si erano sbrigati a rientrarci. Ci hanno anche scherzato su, come si scherza sulle scenette ridicole. Alla sufficiente distanza di tre anni le cose stanno così: che fra chi sconti l’intera pena in carcere il tasso ordinario di recidiva supera il 68 per cento, e invece fra chi ha beneficiato dell’indulto la recidiva è stata del 27 per cento. Dunque ben più che dimezzata. Col dettaglio quasi comico, rispetto agli anatemi che corrono, che fra gli stranieri la recidiva è ancora più bassa. E vi hanno detto che, con l’eccezione del Napoletano, le cifre complessive sulla criminalità sono in forte diminuzione nel periodo 1992-2009, a cominciare dagli omicidi volontari, ridotti a un terzo? Si è tanto gridato contro la vergogna dell’indulto (povero Papa!) da impedire che fosse seguito dal suo complemento indispensabile, e riconosciuto indispensabile da tutti gli addetti, a cominciare dai magistrati: l’amnistia, che non avrebbe messo fuori nessun altro, ma avrebbe estinto una mole ormai superflua, dunque disastrosa, di procedimenti. E si è sabotato il lungo lavoro di un’ennesima commissione incaricata di riformare il codice penale. Ipocrisia di centrodestra e demagogia di giustizieri hanno fatto sì che l’indulto sia apparso come opera esclusiva del governo Prodi, e ne abbia segnato il discredito: un caso di omicidio-suicidio politico. E un esempio del modo in cui il pregiudizio innamorato della galera (altrui) massacri i malcapitati che ci finiscono dentro, ma giochi anche l’intera partita del governo di un paese. E non è singolare che un capo di governo di centrodestra insidiato per anni dall’ombra della galera la sventi di volta in volta con le leggi e gli espedienti per sé, e non sia tentato per un momento di dare un’occhiata a come ci stanno, in galera, quegli altri 65 mila? Ci stanno bene, l’estate è passata. Fra poco farà un freddo meraviglioso. Giustizia: ridare senso alla pena col reinserimento dei detenuti di Ornella Favero
La Repubblica, 5 novembre 2009
Quando si parla di costruzione di nuove carceri per dare una soluzione al problema del sovraffollamento, bisognerebbe chiedersi quanto costerà la gestione di queste carceri e poi pensare all’efficacia di questa spesa. Ci sono tanti modi di scontare una pena. Stare chiusi in carcere a fare nulla perché non ci sono le risorse per le attività, e neppure per educatori, psicologi e agenti, e nessuna possibilità di uscire con una misura alternativa in un percorso graduale di reinserimento, è sicuramente il peggiore. Il peggiore per i detenuti che non riescono a dare un senso alla loro pena, e il peggiore per la società che si vedrà restituire persone che in carcere si sono solo incattivite. Questo è il sovraffollamento raccontato dai detenuti, galere piene di corpi e vuote di senso. Andrea: "In carcere ultimamente vedo arrivare ragazzi sempre più giovani, consumati dalla droga, che passano le giornate stesi in branda, da dove si alzano solo per prendere quella che in galera si chiama la "Terapia", quegli psicofarmaci che ti permettono di anestetizzare la sofferenza e l’assenza di speranza dormendo. Tutte le volte che incontro facce giovani, io che in carcere ci sono finito quando avevo poco più di vent’anni per reati legati alla tossicodipendenza, e ora di anni ne ho trentacinque, mi si stringe il cuore a pensare al destino che li aspetta: mentre io, per lo meno, la detenzione l’ho vissuta non buttando il tempo, ma impegnandomi in attività che mi hanno aiutato a crescere, penso che per loro il carcere sovraffollato di oggi sarà solo tempo inutile". Gentian: "Le giornate nelle galere sovraffollate passano tra lunghe attese per andare in doccia e turni imbarazzanti per usare il bagno. In quel viavai di gente, in mezzo a quel fiume di angoscia, non puoi permetterti debolezze e distrazioni, devi sopravvivere. In quelle condizioni è difficile che una persona prenda coscienza dei propri errori ed accetti le proprie responsabilità per il reato commesso, e un possibile reinserimento nella società diventa quasi un miraggio". Vanni: "Un frustrante senso di impotenza ti attanaglia quando varchi la soglia del carcere, dove tutto sfugge al tuo controllo. Progressivamente si dilata anche la percezione del tempo: la giornata del detenuto è fatta con lo stampino, una clonazione continua degli stessi identici movimenti. Ma oggi, nelle galere sovraffollate, si logorano sempre più anche i progetti di vita. E non vedo come i cinque educatori del carcere in cui sono recluso possano lavorare seriamente al reinserimento di ottocento persone, quando tutto si riduce a un unico colloquio annuo (se va bene) di dieci minuti. Il fatto che un’alta percentuale dei detenuti, che scontano la pena in carcere fino all’ultimo giorno, torni poi a delinquere, dimostra, ma nessuno sembra accorgersene, che i penitenziari non sono luoghi ove si impara a compiere scelte più rispettose della legge di quelle compiute in passato". Sergej: "Quando sei costretto a lottare per la sopravvivenza, le difficoltà quotidiane assorbono tutte le tue energie e non ti permettono di pensare ad altro. Né al tuo passato, su cui invece avresti bisogno di riflettere per non ritrovarti, all’uscita dalla galera, gli stessi problemi che avevi quando ci sei finito dentro, né al tuo futuro, perché sei interamente preso da un presente che non ti dà tregua". In galera di questi tempi si vive da cani, si sta stretti, capita anche di dormire per terra, eppure farne prevalentemente una questione di spazi, e proporre un piano carceri che preveda solo nuove celle, ha poco senso: oggi questo carcere distrugge nelle persone ogni progetto, ogni speranza, e un metro in più cambierebbe poco. Giustizia: un'istituzione che non funziona più, regna l'illegalità di Tullio Padovani
La Repubblica, 5 novembre 2009
La pena detentiva nasce, nel pensiero dei riformatori settecenteschi, come la pena "perfetta": uguale, perché colpisce un bene comune; giusta, perché proporzionabile all’infinito; utile, perché in grado di impedire la recidiva mediante il trattamento rieducativo. Ma le istituzioni penitenziarie già sorte all’inizio dell’età moderna versavano in condizioni spaventose: la denuncia del loro degrado e della loro indegnità è immediata e vigorosa. Occorreva trasformarle radicalmente. Si sviluppa così il tema della riforma carceraria, che attraversa il XX e il XXI secolo, con un impegno plurisecolare i cui esiti pratici somigliano però alla carota appesa davanti al muso dell’asino. Alla fine dell’Ottocento matura il frutto della delusione e la consapevolezza dell’inanità: le nuove parole d’ordine saranno la minimizzazione del ricorso al carcere attraverso una miriade di alternative e la fuga dalla pena detentiva mediante congegni deflattivi. La finalità rieducativa, asse ideologico portante della pena "utile", si riduce ad una formula retorica, che oscilla tra l’autoritarismo disciplinare, il collante istituzionale sezionato da Foucault, e l’aspirazione indefessa ad un ruolo vicario della detenzione: agendo contro il delinquente, fare quello che la politica sociale ha omesso di fare per lui. Il primo è la negazione stessa della rieducazione, perché la disciplina in un’istituzione totale non può mai essere funzionale alle esigenze dell’internato, ma al contrario rende questo funzionale alle sue. La seconda si basa sull’inganno che sia possibile educare all’uso della libertà sopprimendola: insegnare a correre legando le gambe. Da sempre il carcere è inidoneo a svolgere la funzione su cui sono state erette le sue fortune normative. Sopravvive per ragioni che non hanno molto a che vedere con la rieducazione, e che in Italia non la riguardano affatto. Da noi, il degrado e la perversione riescono persino a squarciare la cortina di invisibilità che normalmente rende cieca la società civile e la "protegge" dallo spettacolo della sua vergogna. Il nostro capolavoro è di essere riusciti a rendere l’esecuzione penitenziaria un fenomeno di illegalità, in contrasto manifesto con le regole che pur ci siamo dati; anzi: un fenomeno criminoso, perché il "trattamento rieducativo" si converte in maltrattamenti. Il recupero della legalità ha un percorso obbligato: la garanzia dei diritti della persona detenuta. Un programma serio e severo che Arturo Rocco (il fratello di Alfredo) aveva già tracciato nel 1910, opponendolo ai rieducatori d’antan. Se si parla di garanzie, si parla di un giudice. Certo non dell’attuale magistrato di sorveglianza, ridotto a inerme spettatore dello sconcio e del degrado, ma un giudice posto in grado di vincolare coercitivamente l’amministrazione penitenziaria al rispetto dei diritti inviolabili della persona detenuta, oppure - sia chiaro - di liberarla da una condizione antigiuridica. È un programma minimo ma essenziale perché il carcere non assuma una funzione diseducativa e criminogenetica. Non dimentichiamoci che l’art. 27 della Costituzione, stabilendo che "le pene" "devono tendere alla rieducazione del condannato", non stende un pannicello sulla piaga, ma confeziona un bisturi. Che ne facciamo di una pena, quella carceraria, nel momento in cui finalmente riconosciamo che svolge la funzione contraria? Giustizia: Bernardini; dentro il carcere fuori dalla Costituzione di Andrea Bassi
www.viaemilianet.it, 5 novembre 2009
Sempre più affollate, incapaci di rieducare, ma soprattutto luogo in cui si muore. Per suicidio o per cause da accertare. "Centocinquanta decessi in meno di un anno sono la prova che la pena di morte non è stata abolita" ci spiega la parlamentare Rita Bernardini. Il carcere in Italia è fuori dalla Costituzione. Lo ha affermato anche il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Lui probabilmente si riferiva a quella parte dell’articolo 27 in cui si dice che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Ma il carcere a volte diventa incostituzionale anche perché viola l’ultimo comma dell’articolo: "non è ammessa la pena di morte". Stefano Cucchi e Diana Blefari Melazzi sono soltanto gli ultimi due episodi di morti avvenute all’interno di un istituto penitenziario. "Dall’inizio del 2009 sono 62 i detenuti che si sono tolti la vita. A questi dobbiamo aggiungere numerose altre morti avvenute in circostanze da accertare. 150 morti in meno di un anno sono la prova che in Italia la pena di morte non è stata abolita". A stilare il triste bilancio della situazione delle carceri italiane è l’onorevole Rita Bernardini, una radicale eletta nelle file del Partito democratico. Una vita, la sua, spesa sempre a favore dei più deboli, da quando nel ‘76, a soli 24 anni si dedica ai diritti delle persone portatrici di handicap. Secondo Rita Bernardini l’attuale situazione di collasso dei penitenziari italiani è solo uno dei tristi capitoli di un problema più generale: una macchina della giustizia da troppi anni in panne. "Nel campo penale ci sono quattro milioni e mezzo di processi arretrati e ogni anno cadono in prescrizione circa 200 mila procedimenti, a causa della loro eccessiva lunghezza. E’ una giustizia malata, ridotta a livelli insostenibili per una società civile. I criminali che possono permettersi gli avvocati migliori possono farla franca, mentre tante persone oneste si vedono costrette a mettere una croce sopra alle loro denunce". Un sistema ingiusto, dove si finisce in carcere più facilmente per reati minori, come il possesso di sostanze stupefacenti, piuttosto che per illeciti più impattanti sulla società e sul mercato come lo sfruttamento di manodopera clandestina, l’abusivismo edilizio e il falso in bilancio. "Stefano Cucchi non era un pericoloso delinquente. Era un ragazzo che era stato trovato con pochi grammi di sostanza stupefacente. Casi come questi dovrebbero prevedere gli arresti domiciliari." Cambiare la legge sulle droghe sarebbe un modo per mettere un freno al problema del sovraffollamento delle carceri. Ma in Italia un moralismo eccessivo unito a un’ignoranza diffusa sulla materia, e a una buona dose di interessi a mantenere l’attuale status quo, non permettono di affrontare seriamente il problema. "Come radicali da tempo proponiamo la legalizzazione delle sostanze stupefacenti - ci spiega la parlamentare -, una decisione che dovrebbe essere presa anche in merito al loro potere fortissimo di corruzione, reso evidente dal caso Marrazzo." A restare in vigore è invece una normativa, la Bossi-Fini del 2006, che non distingue nemmeno tra droghe pesanti e droghe più leggere. "Marijuana, eroina e cocaina sono messe tutte sullo stesso piano - continua Rita Bernardini - mentre si tratta di sostanze dagli effetti ben diversi. Molti studi ci dicono che la cannabis e la marijuana sono meno dannose dell’alcol o del tabacco, eppure i problemi sociali che creano sono sicuramente maggiori: sono tante le storie di vite devastate, ragazzi che, semplicemente per il fatto di essere stati denunciati o sbattuti in galera, si sono suicidati per la vergogna. Eppure non avevano fatto nulla di più pericoloso e dannoso di chi si ubriaca. Ciononostante sono stati additati alla stregua dei peggiori criminali". Come membro della Commissione giustizia, Rita Bernardini ha proposto, oltre alle misure alternative al carcere per i detenuti non pericolosi, l’istituzione di un Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. "Oggi il carcere è un’istituzione opaca. Serve una figura per renderlo più trasparente". Un’altra proposta ferma in Parlamento è l’anagrafe pubblica e digitale delle carceri, utile a monitorare giorno per giorno tutti i 206 istituti. Chiusa in un cassetto c’è anche la proposta di legge per l’istituzione del reato di tortura. "Consentirebbe all’Italia di adeguarsi finalmente alle normative europee e dell’Onu. Mi piacerebbe sapere con che nome chiama il ministro Alfano quanto capitato a Stefano Cucchi". Dal ministro della giustizia Rita Bernardini vorrebbe sapere anche altre cose. In due interrogazioni diverse ha chiesto un’indagine conoscitiva sulle morti nelle carceri e di chiarire se il maltrattamento dei detenuti in carcere sia una prassi oppure no. "Le risposte fornite dal ministro Alfano sono assolutamente inadeguate, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato. Il carcere italiano è il contrario di tutto questo, è ogni giorno di più una scuola di delinquenza. Non si può certo ritenere rieducativo tenere per 20 ore al giorno dei detenuti in cella senza coinvolgerli in nessuna attività". Giustizia: carcere sovraffollato, costringe le persone a suicidio di Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 5 novembre 2009
Domenico Improta aveva 29 anni ed era detenuto nel carcere di Verona dal marzo del 2007, per scontare una pena di 5 anni. Da qualche giorno Domenico si trovava ricoverato nell’infermeria del carcere perché doveva essere sorvegliato con attenzione. Una più attenta sorveglianza resa necessaria dal fatto che Domenico aveva già tentato il suicidio in passato. Addirittura, per evitare che Domenico si ammazzasse, nella sua cella dell’infermeria gli erano state tolte anche le lenzuola. Precauzione insufficiente. Domenico, venerdì 30 ottobre, si è impiccato usando la maglietta a mo di corda. Domenico è una delle 61 persone detenute che si sono suicidate da gennaio ad ottobre del 2009. 61 suicidi. 61 detenuti che hanno rinunciato alla vita in carcere. Un dato che colpisce. Un dato che non può essere generalizzato. Occorre distinguere caso per caso. Ogni suicidio va infatti valutato singolarmente, perché può dipendere da cause diverse. Come ogni persona detenuta va trattata distintamente. Il fatto è che oggi il carcere non è in grado di operare questa distinzione. Al contrario accade che, se c’è il rischio di suicidio, il carcere ignora e quindi amplifica tale rischio. È il caso di Luca Campanale, 28 anni, che la notte del 12 agosto si è impiccato alla finestra del bagno della sua cella del carcere San Vittore di Milano. Un suicidio annunciato. Luca era affetto da una grave malattia psichiatrica, tanto che in passato aveva già tentato il suicidio. Dopo l’arresto e la condanna per scippo, il padre di Luca chiede più volte il trasferimento del figlio in un ospedale psichiatrico. Richiesta che viene rigettata. Luca viene lasciato in una cella sovraffollata e senza cure mediche adeguate. Passano i mesi e le condizioni psichiatriche di Luca peggiorano. Ma Luca, invece di essere trasferito in un ospedale psichiatrico, viene portato dal carcere San Vittore a quello di Pavia, per essere riportato ancora a San Vittore. Carcere dove, come era facile prevedere, Luca si toglie la vita. Ma c’è altro. E questo altro si chiama sovraffollamento. Un sovraffollamento che, insieme al degrado delle strutture e alla mancanza di igiene, tramuta la pena in un trattamento disumano e degradante. Un sovraffollamento che impedisce di poter vivere la propria vita, anche se si è detenuti. Un sovraffollamento destinato ad aumentare e che determinerà, come è facile prevedere, ancora più suicidi. Basta pensare a come si vive in tante carceri italiane. 10, 12, ed anche 14 persone detenute ammassate in una cella di appena 20 mq. Chiusi lì dentro per 22 ore al giorno. Tra sporcizia e disperazione. Persone condannate al degrado. Ed anche a dormire per terra, tra topi e scarafaggi. Tutto questo è tortura. Una tortura che rende la vita in cella invivibile. Un’invivibilità che, col passare del tempo, sempre meno detenuti riusciranno a sopportare. Con la conseguenza che il suicidio, non riguarderà solo i detenuti mentalmente deboli, ma anche quelli sani. Il carcere amplifica il disagio psicologico di chi è detenuto. Ma non solo. La verità è che il carcere di oggi, così sovraffollato e degradato, induce al suicidio. Consente, contribuisce a che una persona detenuta decida di non continuare a vivere. La questione suicidi, appare allora ribaltata. Giusto interrogarsi sui 61 detenuti suicidati. Ma, viste le condizioni di vita nelle carceri, ci dovremo anche chiedere come facciano gli altri detenuti a resistere per non farla finita. Ci dovremo interrogare su quanti altri detenuti si ammazzeranno a causa dell’aumento del sovraffollamento e, quindi, per l’abbassamento del livello di vivibilità all’interno di una cella. In Italia non c’è la pena di morte. Eppure per una detenzione si può morire. Una detenzione, disumana e degradante, che costringe al suicidio. Giustizia: quando la pena peggiore è quella "fuori dalle mura"
L’Opinione, 5 novembre 2009
La morte di Stefano Cucchi in circostanze "sospette", poi il suicidio di Diana Blefari in cella per l’omicidio di Marco Biagi e i pestaggi al carcere di Teramo (ieri il Guardasigilli Alfano ha riferito al Senato in merito), riaccendono i riflettori sulla vita di chi, privato della libertà per un reato commesso, è condannato a scontare la "pena" in carcere per mesi, anni o per tutta l’esistenza. Troppo facile animare il dibattito politico (o lo scontro?) su un tema così delicato come quello sulla funzione rieducativa dei nostri istituti di pena. "L’emergenza" non la si può ricavare solo nella freddezza dei numeri sul sovraffollamento: i detenuti sono 65.225 contro un limite di tollerabilità"di 63.568 posti e di questi 24.085 (circa il 37%) sono stranieri, mentre 31.346 (il 50% del totale) in attesa di giudizio. I numeri, ripetuti e aggiornati a iosa a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario, si conoscono già. Non c’è alcun "carcere leggero" di nuova costruzione che tenga, nessun indulto o amnistia che possa venire in aiuto al principio della certezza della pena. Questo fin quando non si capisce che la vita in galera è fatta di tanti piccoli momenti, di tanti problemi minuscoli, tante frustrazioni che scavano e consumano chi sta dentro. È lo stress e la fatica di sopportare continue ed estenuanti proibizioni quello che rende le giornate pesanti e logoranti. In carcere, in barba ai principi che stabiliscono che la responsabilità è individuale, che vige la presunzione di innocenza, quando uno sbaglia, a pagare sono in realtà molti, dai compagni di cella, all’intera sezione, a tutta la popolazione dell’istituto. Colpiscine cento per non rieducarne nemmeno uno insomma: un imbecille "sniffa" in gas delle bombolette? In tutto il carcere vengono sequestrate quelle di scorta e ci si ritrova senza fuoco a metà cottura della pasta. Qualcuno cerca di introdurre uno spinello? Le ore di visita dei parenti diminuiscono e tutti i reclusi si vedono restringere in modo drastico i già scarsi generi che si possono ricevere con i pacchi. Contrariamente a quello che si pensa, quando ci si sofferma ai soli numeri del carnaio, il carcere è in sé una struttura rieducativa e per fortuna sono varie le attività di "recupero" che i detenuti possono seguire: studio, laboratorio di ceramica, palestra, cucina, falegnameria, giornalismo ecc.. Il difficile è semmai impostare un "programma" di studio o di attività culturale con i detenuti, ossia con persone perlopiù disinteressate alla scuola negli anni della gioventù, che poi hanno continuato a rifiutare la disciplina e l’ordine civile, al punto di finire in carcere. Ci sono diversi fattori che entrano in gioco alcuni dei quali superabili con un po’ di forza di volontà, altri di forza maggiore, in quanto dipendenti dalle stesse norme che regolano la vita carceraria. Molto spesso partecipare le attività di reinserimento significa rinunciare ad una partita a carte o di ping pong, lavare la biancheria o leggere la corrispondenza, cucinare qualche piatto di proprio gradimento, o guardare in Tv il programma preferito. Rinunciare a quell’ora d’aria "mentale" e fisica (visto che stiamo parlando consiste di una passeggiata in una cella un pò più grande ma senza soffitto. Un "prezzo" un po’ troppo salato da chiedere a un detenuto in nome della "rieducazione". Decidere se intagliare un souvenir e partecipare a una lezione di scuola o guardare il cielo, seppur ristretto da pareti, non è proprio una scelta facile per chi sta dentro. Senza contare che scontata "la pena" nella pena (quella del giudizio), una volta fuori avere la fedina sporca di certo non aiuta: non c’è colloquio di lavoro, non c"è concorso pubblico, non c’è fama da Grande Fratello che tenga. C’è da diventare matti perché è allora che il vero "isolamento" inizia. Se le autolesioni e i suicidi in carcere sono aumentati di molto, è perché il vero shock non si ha nell’ingresso in carcere, quanto nella quotidianità che si scopre una volta messe alle spalle quelle mura che prima soffocavano. Giustizia: ora si è superato ogni limite, l’articolo 27 ai cespugli di Gianluca Perricone
L’Opinione, 5 novembre 2009
Me lo sono riletto quel comma dell’articolo 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Poi però, nello stesso giorno e sul medesimo quotidiano, si leggono tre titoli. Il Primo: "Caso Cucchi: "Stefano non è stato nutrito né idratato". Il secondo: "Blefari, niente prevenzione: solo punizione". Il terzo: "Quelle due guardie in carcere: "Non picchiare qui il detenuto". Solo per i più distratti, ricordiamo che stiamo parlando delle vicende di Stefano Cucchi (morto nel reparto detenuti dell’ospedale romano Sandro Pertini), di Diana Blefari Melazzi (la brigatista rossa impiccatasi nella propria cella del carcere di Rebibbia) e delle guardie carcerarie del penitenziario di Castrogno-Teramo che in un audio si sentono discutere sull’opportunità di massacrare un detenuto "di sotto" e non "in sezione". E l’articolo 27? Ai cespugli. Almeno finché non si stabilisce se Stefano Cucchi sia stato nutrito e idratato o meno durante la sua permanenza al Pertini; e finché non si individuano le responsabilità di chi ha ridotto il corpo del giovane in un ammasso di lividi (come dimostrato dalle foto diffuse dalla famiglia). E l’articolo 27? Ai cespugli. Chi scrive è tra quelli per i quali anche una brigatista come la Blefari aveva il diritto ad una detenzione quanto meno dignitosa. E se i legali della donna ora sostengono che le valutazioni fatte sulle condizioni di salute della loro cliente "sono state inquinate più dal tipo di reati per cui era in carcere che non dal suo reale stato" (per la donna le consulenze degli psichiatri del carcere parlavano di grave disturbo psicotico, compreso il rischio di suicidio), qualcosa nel regime carcerario italiano non funziona e del resto, da queste colonne, ne abbiamo spesso messo in evidenza alcune carenze. E l’articolo 27? Ai cespugli. Altrimenti ci si deve convincere che nel carcere teramano mettano in atto atteggiamenti non contrari al senso di umanità e finalizzati alla rieducazione del condannato. Stavolta si è davvero passato il segno: le carceri servono, è vero, a far scontare le pene, ma anche a rieducare l’individuo e, se va bene, a coadiuvarlo a rientrare in società. Un individuo, d’altronde, che è già lì per pagare un prezzo ed ogni "sovrapprezzo" diventa inammissibile. Giustizia: storie dalle carceri che è meglio chiamare "leggende" di Roberto Puglisi
www.livesicilia.it, 5 novembre 2009
Storie? Forse dovremmo chiamarle leggende e dire che sono frutto della fantasia malata dei prigionieri. È un escamotage per evitare eventuali querele. Leggende. E se voi le considererete storie, sarà solo colpa vostra. Ecco le leggende dietro le sbarre. Si narra di un luogo spaventoso all’Ucciardone, chiamato "canile". La cosa è nel nome, il nome descrive la cosa. Dovrebbe essere - stando al "si narra" - il posto d’ingresso prima di arrivare in sezione. Canile, la dogana, il transito in cui si perde il titolo di essere umano per soffrire la retrocessione al rango di bestia. Altre leggende. Diceva un detenuto: "Appena entri, come benvenuto, le guardie ti inchiummano. Guardi, ho ancora il labbro spaccato". Inchiummare, cioè picchiare, come si picchiano i cani, tanto per far capire subito chi sono i padroni. Altra leggenda. Le violenze sessuali nel carcere di piazza Lanza a Catania. Altra leggenda. I detenuti che impazziscono a Favignana, sotto il livello del mare, con una luce cieca come unica compagna nel buio. Altra leggenda. Il sovraffollamento. No, quella è una storia vera. Certificata. Livesicilia ha già scritto di carcere in giorni lontani. Acqua sulle pietre come è normale. Notiamo che l’argomento è tornato alla ribalta sulla scorta di qualche suicidio che non poteva passare sotto silenzio. Un granello di sabbia, rispetto al deserto di dolore e atrocità. I nostri concetti sono chiari e sono quelli di sempre. Uno Stato democratico, con le sue leggi, non può fare confusione tra espiazione di una giusta pena e somministrazione della tortura. Non può farlo, anche se l’insicurezza diffusa genera nel popolo un’attitudine forcaiola. Uno Stato democratico dovrebbe preoccuparsi delle storie che arrivano da dietro le sbarre. Sempre. Pure quando sono leggende. Giustizia: Casellati; il piano carceri, andrà in Cdm entro il mese
Apcom, 5 novembre 2009
"Il piano carceri, che prevede nel 2012 la creazione di 20 mila posti nuovi, verrà portato al Consiglio dei Ministri nel giro di un mese". Lo ha detto il Sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati a "Otto e mezzo" su LA7. "Lo dico prudentemente" - ha aggiunto, in riferimento alle dichiarazioni del ministro Alfano che ha parlato di 15 giorni. Quanto poi alle parole di Eugenio Sarno, segretario generale Uil che ha parlato di un sovraffollamento carcerario disperato, Casellati ha replicato: "Mi sembra una dichiarazione sconcertante parlare così di persone all’ammasso". E ha concluso: "In Italia, la media dei suicidi in carcere è inferiore a quella in Europa". Giustizia: Marroni; dedicare seduta parlamentare alle carceri
Apcom, 5 novembre 2009
"La situazione all’interno delle carceri italiane è arrivata ad un punto di gravità tale che sarebbe auspicabile dedicare una seduta parlamentare a discutere del tema". È, questo, il passo più importante della lettera inviata dal Garante dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni - vice presidente della Conferenza Nazionale dei Garanti - al presidente della Camera Gianfranco Fini. La lettera - spedita dal Garante il 14 ottobre scorso, ben prima che deflagrassero i casi di Stefano Cucchi e Diana Blefari Melazzi e dell’audio registrato nel carcere di Teramo - è stata inviata anche a tutti i capigruppo della Camera: Massimo Donati (Idv), Roberto Cota (Lega Nord), Antonello Soro (PD), Fabrizio Cicchetto (Pdl), Pierferdinando Casini (Udc) e Siegfried Brugger (Gruppo "Misto"). "Sia i detenuti che gli operatori vivono quotidianamente le criticità dovute a diversi fattori - scrive Marroni nella sua lettera - Carenze di personale, situazioni igienico-strutturali che rendono le condizioni di vita e di lavoro in alcuni casi perfino indegne di un Paese civile, la stessa riforma del sistema sanitario penitenziario che stenta a decollare nelle regioni a Statuto Ordinario e che addirittura in quelle a Statuto Speciale non è stata nemmeno avviata. Ed, ancora, la straordinaria crescita del numero dei detenuti che sta provocando condizioni di sovraffollamento nel circuito penitenziario, mai registrate dal dopoguerra ad oggi". "Io credo che il Parlamento, in tutte le sue componenti, debba dare risposte tempestive per individuare un percorso concreto e condiviso che porti alla soluzione di questo pesante problema - ha detto Marroni commentando la sua iniziativa - L’approssimarsi della discussione sulla Finanziaria può essere, ad esempio, un’occasione per individuare risorse economiche da destinare agli operatori del settore ed ai capitoli di spesa destinati alla salute in carcere". Giustizia: il suicidio Blefari; una via di fuga un messaggio a tutti di Sandro Padula
Gli Altri, 5 novembre 2009
Di carcere si muore. Il suicidio tra i detenuti, ad esempio, ha oggi una frequenza 20 volte maggiore rispetto a quella nella cittadinanza italiana. In un comunicato stampa del Centro Studi di "Ristretti Orizzonti" si precisa che "in alcuni paesi che riteniamo meno "democratici" e "civili" rispetto all’Italia i suicidi tra i detenuti sono meno frequenti: in Romania, ad esempio, ci sono 40.000 detenuti circa e avvengono di media 5 suicidi l’anno. In Polonia ci sono oltre 80.000 detenuti e si registra un numero di suicidi che è la metà rispetto a quello dell’Italia (dati del Consiglio d’Europa)." Dall’inizio del 2009 sono già 61 i suicidi tra i detenuti nel nostro paese. Il penultimo, verificatosi venerdì 30 ottobre, è quello del ventinovenne Domenico Improta, detenuto nel carcere di Verona. L’ultimo in ordine di tempo è invece quello di Diana Blefari Melazzi, avvenuto nel carcere romano di Rebibbia femminile verso le ore 22 e 30 di sabato 31 ottobre. Lo stesso giorno in cui le è stata notificata la condanna definitiva all’ergastolo per l’omicidio Biagi. Già dal 2006 era chiaro a tutte le persone che conoscono la vita carceraria quanto Diana stesse male. Articoli, appelli, raccolte di firme e interrogazioni parlamentari hanno più volte denunciato l’incompatibilità del carcere, specie del regime dell’isolamento chiamato 41 bis a cui è stata sottoposta per diversi anni, rispetto alle sue precarie condizioni psico-fisiche. Dal finire della primavera del 2008 si trovava in carcere a Sollicciano insieme alle detenute comuni. Dal 21 ottobre di quest’anno stava invece nel carcere romano di Rebibbia femminile per avere dei colloqui con gli inquirenti. Dopo la sua morte diverse agenzie di stampa e svariati siti Internet hanno allora cominciato a diffondere in modo del tutto strumentale la notizia secondo cui la Blefari avrebbe avuto intenzione di "collaborare con la giustizia", formula questa non specificata per far credere che lei stesse per diventare una "pentita" ma che comunque può significare cose molto diverse. A settembre aveva scritto una lettera all’amico Massimo Papini, mai ricevuta da quest’ultimo ma conosciuta dall’antiterrorismo, nella quale esprimeva tale intendimento. La supposizione più attendibile è che lei considerasse sproporzionata la condanna all’ergastolo e insopportabile il carcere. Nella storia dei processi a Br vecchie e nuove, Diana Blefari è una delle rare persone che, pur svolgendo il ruolo di "prestanome" per prendere in affitto case o autovetture, è stata condannata al "fine pena mai". Lei non fu neppure vista nel luogo e nel giorno dell’omicidio di Marco Biagi dalla "pentita" rea confessa Cinzia Banelli. Tutto ciò significa che la Procura di Bologna e i giudici che l’hanno condannata all’ergastolo non presero in considerazione le sue limitate responsabilità e, senza recepire il grido d’allarme lanciato degli avvocati e suffragato da numerose perizie psichiatriche, ritennero normali le sue già precarie condizioni psico-fisiche. Ad aggravare la situazione c’è poi un altro fatto traumatico. Il primo ottobre, dopo anni di pedinamenti e di controlli a distanza da parte delle forze di polizia, Massimo Papini viene arrestato come se fosse un brigatista e per Diana è di certo un grande dolore. Cambia perciò la situazione e anche ciò che lei vorrebbe dire agli inquirenti. Dato che la Blefari già nel 1993, a Roma, fece una testimonianza spontanea per scagionare un dirigente del movimento studentesco accusato di una rissa alla quale non aveva partecipato, è molto probabile che lei volesse fare qualcosa di analogo per dimostrare l’estraneità di Massimo Papini rispetto alle nuove e già morte Br, l’organizzazione che fu responsabile degli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona (20 maggio 1999) e Marco Biagi (18 marzo 2002). Senza dubbio lei era fragile di fronte alla disumanità del carcere ma non risulta che sia diventata una "pentita". I fatti parlano più e infinite volte meglio delle parole scritte o pronunciate: Diana ha scelto di suicidarsi poco dopo aver ricevuto la comunicazione della condanna definitiva all’ergastolo; ha dato, in questo modo drammatico, il suo giudizio finale sul "fine pena mai". Meglio morire che vivere sepolti vivi per 30 e più anni, cioè fino alla morte fisica. Questo è ciò che di sicuro e fra l’altro, in una sorta di lucida follia, ha pensato pochi attimi prima di impiccarsi con strisce di lenzuola annodate. Nel suicidio da lei compiuto esiste, più complessivamente, la comunicazione di messaggi multi direzionali: una contestazione radicale al carcere e all’ergastolo; la consapevolezza dei propri errori politici e della rapida e tragica esperienza delle nuove Br; un’implicita critica all’ingiusto arresto di Massimo Papini; uno schiaffo morale a chi non ha capito il suo malessere e soprattutto a chi ha finto di non comprenderlo al solo e vano scopo di trasformarla in una "pentita". In ultimo ma non per importanza, una richiesta di pietà e perdono a tutti. Giustizia: lei stava male, i magistrati puntavano al pentimento di Paolo Persichetti
Liberazione, 5 novembre 2009
Un gruppo di detenute si offrì per assistere la Blefari: ignorate. Inutile disponibilità delle "vecchie brigatiste". In alcune redazioni non esitarono a definirla la "belva", e tutto a causa di una minuta sequestrata nella sua cella. Un abbozzo di lettera mai conclusa a un suo coimputato, soprattutto mai spedita. In realtà si trattava della messa per iscritto di un delirio scatenatosi in uno dei momenti più acuti della sua malattia psichiatrica. Era l’estate del 2005, e Diana Blefari Melazzi si trovava in regime di 41 bis aggravato, nella cosiddetta "area riservata" del carcere di Benevento. Nel pozzo più profondo che l’ingegneria sadica della punizione è riuscita a concepire. Ma la "belva" doveva essere lei. Faceva comodo quell’immagine bestiale da sovrapporre alla sparuta pattuglia di aspiranti nuovi brigatisti che, con i loro spari improvvisi, senza radici e senza futuro, avevano bruscamente risvegliato un paese distratto e annoiato. Alcune frasi di odio verso Marco Biagi, estrapolate dal testo, finirono in un rapporto della Digos e poi sui giornali. Lo squilibrio mentale venne presentato come un proclama politico. La "pazzia" per la Blefari ha sempre funzionato come un elemento a carico, un’aggravante utile solo per condannarla all’ergastolo. Non è vero che poteva stare nel processo, come i giudici hanno sentenziato con ostinazione. "Doveva" stare nel processo, non aveva scampo. I suoi legali fecero ricorso contro il sequestro di quei fogli privati. Che rilevanza processuale poteva mai avere la parola di una persona ridotta in quello stato? Il tribunale del riesame di Bologna accolse il reclamo e ne dispose la cancellazione dal fascicolo processuale. Un riconoscimento che non ebbe seguito. Per anni la Blefari ha rifiutato le ore di socialità concesse. Non è mai uscita per l’ora d’aria, non ha mai acceso la luce della cella, è stata quasi sempre rintanata sotto le coperte e per lunghi periodi non ha effettuato i colloqui con i familiari e i suoi avvocati. Sospettava che il cibo dell’amministrazione fosse avvelenato e per lunghi periodi non mangiava. Aveva crisi d’identità e disturbi percettivi fino ad arrivare ad allucinazioni visive, particolarmente legate alla televisione nella quale vedeva dei "mostri", motivo per cui aveva smesso di utilizzarla. Nel 41 bis di L’Aquila rifiutava di avere contatti con le sue coimputate, scambiandone una per Provenzano e l’altra per sua sorella. Rivedeva sua madre, morta suicida dopo una lunga depressione, sul muro di fronte alla sua cella. Nella sua ultima lettera annotava, "continuano le vibrazioni, le sensazioni negative, i sapori di merda in ogni cosa che mangio, le intrusioni nella mia testa sia quando sono sveglia che quando dormo". Ma per i periti nominati dai giudici il suo atteggiamento rientrava nella tipica condotta oppositiva di chi vive un rapporto di inimicizia politica verso le istituzioni. Singolare capovolgimento di fronte. Ogni volta che un detenuto politico è sottoposto a "osservazione scientifica della personalità", per fruire dei cosiddetti benefici penitenziari deve lottare con chi pensa di poter leggere il suo vissuto politico come una devianza che rinvia a disturbi della personalità. Quando questi ci sono realmente, vengono interpretati in modo politico. L’avvocato Caterina Calia ha ricordato la disponibilità venuta da molte detenute politiche storiche ad assistere la Blefari. Nelle carceri esiste la figura del "piantone", ovvero di un detenuto che assume l’incarico di assistere un suo compagno impossibilitato a occuparsi di se stesso. La Blefari poteva essere aiutata, ma venne sempre tenuta isolata dalle altre politiche. C’era chi sperava di strumentalizzarne la sofferenza per farne una collaboratrice di giustizia. All’inizio dell’anno, la Procura bolognese approfittò "dei segni di insofferenza per la detenzione già mostrati dalla brigatista" per sentire Diana Blefari Melazzi nel tentativo di sondare una sua eventuale disponibilità a collaborare con le forze dell’ordine e la magistratura. Procura Bologna: mesi fa rifiutò di collaborare. All’inizio dell’anno, la Procura bolognese sentì Diana Blefari Melazzi nel tentativo di sondare una sua eventuale disponibilità a collaborare con le forze dell’ordine e la magistratura, tenendo conto anche dei segni di insofferenza per la detenzione già mostrati dalla brigatista. Ma lei - ha riferito la Procura - disse che non voleva collaborare in alcun modo. Gli inquirenti emiliani hanno confermato di essere al corrente dei problemi psichici della donna, fatto emerso anche durante l’interrogatorio a Massimo Papini, arrestato il primo ottobre su iniziativa delle Procure di Bologna e Roma con l’accusa di essere un militante delle nuove Br, ed ex compagno della Blefari. In quell’occasione l’uomo aveva ribadito al pm Enrico Cieri, titolare dell’inchiesta, il disagio psicologico in cui si trovava la brigatista esprimendo preoccupazione per questo. Inoltre, ha ricordato la Procura, durante il processo davanti alla Corte d’Assise di Bologna per l’omicidio Biagi, una perizia psichiatrica sulla donna stabilì che era capace di essere presente al processo. Giustizia: caso Cucchi; Fini riceve i familiari... "fare piena luce"
Dire, 5 novembre 2009
Il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha ricevuto, questa mattina a Montecitorio, i familiari di Stefano Cucchi, il ragazzo deceduto presso il reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il presidente, si legge in una nota, "nell’esprimere solidarietà e vicinanza ai familiari, ha auspicato che sulla vicenda, sulla quale non può cadere il silenzio, possa essere fatta al più presto piena luce, con l’accertamento di eventuali responsabilità". Lettere: carcere di Venezia; il ministro Alfano non dà risposte
Lettera alla Redazione, 5 novembre 2009
Ancora morti in carcere, ancora storie di pestaggi, ancora cronaca di un’emergenza da cui sembra impossibile uscire, torna in modo dirompente al centro dell’attenzione la situazione al limite del collasso, ma forse ormai oltre, del sistema carcerario: insostenibile sovraffollamento, costante carenza di personale e mezzi. Ed ecco puntuale che tornano alla ribalta gli annunci di costruzione di nuove carceri quale soluzione, l’unica che pare esistere, ai problemi del pianeta carcere. Peccato che a questi annunci non segua mai una dettagliata documentazione sui reali stanziamenti di fondi per costruire le carceri e per assumere agenti di custodia con i quali ripristinare gli organici negli attuali istituti e aprire i nuovi. Nulla poi si dice su cosa fare, in attesa del completamento dei lavori, per i detenuti che senza una modifica del sistema continueranno inevitabilmente ad aumentare. Al fianco dei programmi di nuova edilizia carceraria mai che si affianchi una seria analisi su strumenti deflattivi assai meno onerosi come la depenalizzazione dei reati minori o il ricorso alle pene alternative, cioè quella serie di attività che oltre a ridurre il sovraffollamento consentono quell’opera, costituzionalmente prevista, di recupero e reinserimento e che, come i dati dimostrano, garantiscono la drastica riduzione della recidività. Non sorprende quindi, se pur amareggia, che il Ministro Alfano non perda occasione per ribadire l’impegno per l’apertura di nuovi istituti di pena ma non trovi il tempo per dare risposta in merito alla riapertura del’istituto a custodia attenuata di Venezia che si trova nell’isola della Giudecca. L’ Istituto chiuso nel 2008, temporaneamente si disse, causa il non rispetto delle norme dei locali cucina, disponeva di una cinquantina di posti e prevedeva al suo interno un percorso di recupero individualizzato, per detenuti semiliberi e soggetti con consumo problematico di alcol e narcotici, finalizzato alla costruzione di un progetto di inclusione sociale. Per la riapertura di questo istituto, che consentirebbe anche di alleggerire l’esplosiva situazione del carcere di Santa Maria Maggiore, sono state presentate al Ministro interrogazioni dai Senatori Radicali Marco Perduca e Donatella Poretti, dal Senatore del Partito Democratico Felice Casson, si sono espressi con atti ufficiali il Comune e la Provincia Venezia, hanno rilasciato dichiarazioni Consiglieri Regionali, ma nonostante ciò non si riesce a sapere se, e in che tempi, il ministero di giustizia intende attivarsi per lo stanziamento dei fondi necessari. Di fronte ad un silenzio che si protrae nonostante le sollecitazioni, è di pochi giorni fa un’ulteriore richiesta del Senatore Marco Perduca, appare di tutta evidenza che chi non è in grado di dare risposte sulla realizzazione di un intervento per il quale non si richiedono capitali astronomici, sia ben poco credibile quando annuncia progetti onerosi e complessi per i quali, oltretutto, la finanziaria non prevede un euro. Ancora una volta c’è da temere che passato il clamore il pianeta carcere, con i suoi abitanti, sarà abbandonato alla sua desolazione. Fino alla notizia del prossimo suicido o pestaggio.
Franco Fois, Associazione Veneto Radicale Sicilia: Buscemi (Ufficio di Garante); le carceri come discarica di Valeria Lo Iacono
www.livesicilia.it, 5 novembre 2009
"Oggi il carcere è una discarica umana, dove avviene di tutto. Un paese civile non può tollerare tutto questo". Sono queste le dure parole pronunciate da Lino Buscemi, dirigente dell’ufficio del garante regionale per la Sicilia dei diritti fondamentali dei detenuti e presidente dell’Andci. Dalle sue parole, pronunciate con amarezza, emerge un quadro tragico delle condizioni in cui versano le carceri italiane e siciliane: il sovraffollamento costringe un gran numero di persone in spazi angusti e fatiscenti. I numeri sono preoccupanti: di fronte ad una capienza massima di 5.550 detenuti, oggi in Sicilia ci sono 7.800 detenuti; questa situazione si riscontra anche sul piano nazionale dove a fronte di una capienza massima di 45mila detenuti, si hanno invece 78mila detenuti ristretti. "C’è una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - afferma Buscemi - che ha condannato l’Italia a risarcire mille euro a un cittadino extracomunitario che era stato costretto a vivere in una cella sovraffollata e quindi in violazione dei parametri europei; un detenuto dovrebbe avere non meno di 7mq di cella. Questa condanna non fa onore ad un paese che si crede la patria del diritto". Secondo il dirigente, questa situazione è determinata dal fatto che oggi si pensa al carcere come la panacea di tutti i mali, senza rivolgere la dovuta attenzione a misure alternative che, nel caso di reati minori, sarebbero più utili al recupero della persona. Le condizioni scandalose in cui sono costretti a vivere i detenuti non sono, purtroppo, l’unica tortura a cui sono sottoposti. Le violenze fisiche e psichiche che vengono loro inflitte sono una triste realtà, come dimostra il recente caso di Stefano Cucchi, il detenuto morto nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Lo conferma anche Buscemi: "Conosco la realtà delle carceri e la maggior parte dei direttori fanno enormi sacrifici per garantire turni massacranti; così come l’Arma dei Carabinieri e la Polizia di Stato hanno elementi eccellenti. Purtroppo però bisogna prendere atto del fatto che ci sono sparute minoranze, teste calde, che usano la violenza. Lo Stato non può scendere allo stesso livello dei delinquenti. Lo Stato non può essere violento, deve essere severo e chi ha sbagliato deve pagare, però nel rispetto dei diritti e della Costituzione. Se qualcuno esagera nell’esercitare il proprio potere, anche se sottolineo sono sparute minoranze, è perché sa di poterla fare franca." È facile capire come in tale situazione di degrado si giunga a gesti estremi come quelli del suicidio. Anche qui i dati sono raccapriccianti: quest’anno i suicidi in carcere hanno superato la soglia dei 60 e negli ultimi dieci anni sono stati quasi mille. Fra questi Buscemi ricorda la storia di un giovane catanese tossicodipendente arrestato a Palermo e portato al carcere Pagliarelli. In cella il giovane era stato sorpreso assieme ad altri detenuti con un cellulare e successivamente trasferito a Catania. Qualche giorno prima di andare a testimoniare il ragazzo viene trovato suicida in cella. Di questa storia restano solo una madre straziata dal dolore e il mistero che ha portato il giovane a questo gesto estremo. "È chiaro che in una realtà come questa il suicidio è in agguato. Si lamenta da anni l’assenza di figure professionali quali psicologi ed educatori che possano aiutare i detenuti. Figure professionali che dovrebbero essere i fautori dell’umanizzazione della pena, ma soprattutto del recupero di chi ha sbagliato. Questo la dice lunga sulla capacità dello Stato di investire in direzione di un carcere più umano. Quando una persona che in attesa di giudizio si trova di fronte alla cruda realtà di un carcere afflittivo, fatiscente, violento, se non c’è la necessaria assistenza psicologica viene meno la capacità di resistenza di una persona", afferma Buscemi. Lazio: Fp-Cgil; nelle carceri, siamo oltre limite dell’accettabile
Adnkronos, 5 novembre 2009
"La Funzione Pubblica Cgil di Roma e del Lazio, a seguito dei tragici fatti accaduti negli ultimi giorni denuncia ancora una volta la gravità della situazione carceraria e l’esigenza di urgenti e concrete iniziative nelle politiche penitenziarie del paese. Il sistema penitenziario regionale e nazionale ha infatti ormai travalicato il limite dell’allarme". Lo dichiara in una nota Lorenzo Mazzoli, segretario generale Fp Cgil di Roma e Lazio. "Rischia, nel silenzio generale del Governo nazionale, di esplodere in una vera e propria crisi concreta - prosegue Mazzoli - Nel Lazio i detenuti reclusi sono 5.681 a fronte di una capienza regolamentare di 4.449 posti". "Vi sono percentuali di sovraffollamento che si registrano in alcuni dei quattordici istituti di pena della Regione - prosegue il sindacalista - dal 150% al 200%, rispetto alla capienza regolamentare. Questo rende estremamente difficile la funzione di controllo di 3.100 poliziotti penitenziari, che garantiscono la sorveglianza con un carico di turni inaccettabile vista la carenza di 781 unità. La situazione più drammatica riguarda però l’assistenza sanitaria che dal 2008 è passata per legge dal Ministero alle competenze del Servizio Sanitario Nazionale e Regionale". "Le resistenze del Ministero della Giustizia e la non volontà di collaborazione tra le istituzioni statali e sanitarie sono evidenti - prosegue Mazzoli - Basti pensare che il Governo, non ha ancora trasferito, quanto previsto dalla legge, per la gestione dell’assistenza sanitaria in carcere, 157 milioni di euro per il 2008 e 163 milioni per l’anno 2009. Situazione particolarmente tragica riguarda proprio il delicato settore dell’assistenza psicologica, dell’osservazione e valutazione comportamentale del detenuto". "Il Ministero su questo settore mantiene la responsabilità - prosegue il segretario generale Fp Cgil di Roma e Lazio - dato che non ha voluto trasferire questa competenza al Servizio Sanitario anche se il Dpr 230/99 sottolinea l’obbligatorietà di garantire pari opportunità di cura ai soggetti reclusi e liberi, citando anche il benessere psicologico come parte integrante del concetto di salute e benessere". "Queste funzioni il Ministero le esercita avvalendosi soprattutto degli esperti psicologi ex art. 80 (Legge 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario), consulenti pagati a parcella dal Ministero di Giustizia - continua Mazzoli - Tali esperti, sono sul territorio nazionale solo 384 di cui circa 340 psicologi, appena trenta negli istituti penitenziari romani. Il Ministero ha ridotto pesantemente le ore di servizio degli psicologi, del 57% nel 2008 e un ulteriore 30% nel 2009". "La loro esclusione dalla riorganizzazione della sanità penitenziaria - conclude Mazzoli - rende ancora più problematica non solo la valutazione psicologica dei detenuti ma rende di fatto impossibile prevenire e gestire le condotte autolesionistiche e suicidarie, potendo dedicare ad ogni detenuto in media solo da 0,8 minuti a 2,2 ore l’anno. Anche qui sono le ragioni dei 61 morti suicidi nelle carceri italiane". Toscana: approvata la legge regionale sul Garante dei detenuti
Agi, 5 novembre 2009
Ieri, mercoledì 4 novembre, durante la seduta congiunta delle Commissioni Sanità e Affari Istituzionali del Consiglio Regionale della Toscana, è stata approvata la Proposta di legge n. 246 "Norme per l’istituzione dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Il Garante sarà un organo autonomo, esterno e indipendente con il compito di garantire l’effettivo godimento dei diritti sociali e civili alle persone detenute nelle carceri, trattenute nei centri d’identificazione ed espulsione, sottoposte al trattamento sanitario obbligatorio. "Finalmente - ha detto il Consigliere Regionale Fabio Roggiolani, Presidente della Commissione Sanità - è approvata una norma da me proposta nella passata legislatura, recepita allora nella Legge sulla Sanità carceraria, ma mai regolamentata. La firma congiunta tra consiglieri di Rifondazione Comunista, Sinistra Ecologia Libertà e PD indica che l’alleanza che governa la Toscana è un’alleanza fondata su di valori importanti e condivisi. Mai come in questo momento è evidente il bisogno di questa figura e della sua rapida entrata in funzione: con il sovraffollamento delle carceri stanno saltando le minime regole di convivenza possibile dentro gli istituti carcerari. Questa legge la vorrei dedicare alla memoria di Stefano Cucchi, morto di carcere proprio in questi giorni. Dalla Toscana, dove gli operatori stanno facendo in generale l’impossibile per evitare situazioni estreme, arriva quindi un segnale di civiltà giuridica, che spero sia raccolto in tutta Italia".
Consigliere regionali: passo importante garante dei detenuti
"Siamo di fronte ad un passo importante, che - una volta avvenuta, in tempi brevi, l’approvazione da parte dell’aula del Consiglio Regionale - permetterà di dotare la Toscana di una figura di tutela fondamentale, sempre più necessaria in un momento come questo che vede la questione trasformarsi in vera e propria emergenza sociale". Così commentano l’approvazione - da parte delle commissioni Prima e Quarta del Consiglio Regionale della Toscana - questa mattina della proposta di legge regionale per costituire l’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Monica Sgherri, Alessia Petraglia - rispettivamente capogruppo di Rifondazione Comunista e Sinistra Democratica -, fra le firmatarie - (prima firma Sgherri) della proposta stessa, e Daniela Belliti, consigliera regionale del Partito Democratico e componente del gruppo di lavoro delle commissioni sulla proposta medesima. "Si tratta - proseguono le consigliere regionali - di colmare una lacuna nella legislazione toscana e, nel merito, di un istituto di grande importanza civile perché ha lo specifico compito di contribuire a assicurare la finalità rieducativa della pena e il reinserimento sociale dei condannati così come, più in generale, l’effettivo godimento dei diritti fondamentali della persona all’interno delle strutture restrittive della libertà personale". "L’Ufficio del Garante - spiegano - previsto nella proposta di legge andrà ad occuparsi non solo delle problematiche dei detenuti ma anche di quelle di coloro che si trovano in altre strutture che prevedono comunque forme di restrizione della libertà personale. Una figura, quella del Garante, necessaria a prescindere dai fatti contingenti, ma certamente la situazione di invivibilità, sovraffollamento e i gravi accadimenti nelle carceri avvenuti nelle ultime settimane rafforzano l’urgenza della sua presenza e della sua operatività". "Siamo infatti - concludono le consigliere - di fronte ad una situazione, anche nella nostra Regione, intollerabile e che sta assumendo i contorni di un vero e proprio allarme sociale", concludono le promotrici della legge regionale. Cagliari: 7 detenuti con meningite e mancano vaccini influenza
Ansa, 5 novembre 2009
Sette detenuti nel carcere di Cagliari sono risultati positivi alla meningite batterica. L’amministrazione penitenziaria - secondo quanto si è appreso - ha per loro disposto l’isolamento sanitario. Cinque degli ammalati sono detenuti comuni, mentre gli altri due, di cui uno di nazionalità nigeriana, sono in regime di alta sicurezza. "Le condizioni di sovraffollamento del carcere di Buoncammino con diversi detenuti in condizioni precarie di salute e con deficit immunitario rendono urgente la somministrazione del vaccino AH1N1. Indispensabile inoltre se si vuole garantire l’incolumità e l’efficienza di Agenti di Polizia Penitenziaria, medici, infermieri e operatori". Lo afferma l’ex consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" sottolineando che "è stato completato da diversi giorni il monitoraggio sulle necessità chiesto dall’assessorato regionale della Sanità ma ancora non sono arrivati i vaccini". "A Buoncammino, secondo una stima realistica sono indispensabili - afferma Caligaris - almeno 1.000 dosi di vaccino. La distribuzione del farmaco, anche in relazione all’andamento epidemiologico dell’influenza AH1N1, permetterebbe se effettuata in tempi brevi di creare una barriera sanitaria precauzionale utilissima. Nell’istituto cagliaritano infatti soggiornano oltre ai 500 detenuti altrettante persone con ruoli diversi". "Senza un’azione immediata di profilassi, la nuova sindrome influenzale - fa osservare l’esponente socialista - rischia di mandare in tilt l’intero sistema. Non si può infatti ignorare che la diffusione è molto più facile tra soggetti immunodepressi. Del resto non si possono creare aree di isolamento in un ambiente sovraffollato". "La mancata disponibilità del reparto ospedaliero protetto per detenuti nel nosocomio di Is Mirrionis - ha concluso Caligaris - rappresenta in questa circostanza una grave carenza sanitaria. La sua apertura, peraltro procrastinata senza una apparente ragione, avrebbe offerto maggiori opportunità evitando di utilizzare le scorte per i piantonamenti quando si registra carenza di agenti di polizia penitenziaria". Teramo: l’agente del "massacro" non si dimette, ma va a riposo di Barbara Gambacorta
Liberazione, 5 novembre 2009
Ha ammesso di essere la voce del nastro sotto inchiesta, quello che contiene l'agghiacciante conversazione tra guardie carcerarie dopo un presunto pestaggio ad un detenuto nel carcere di Teramo. Ma il commissario Giuseppe Luzi ha deciso di non dimettersi e di rimanere al suo posto, o quasi. Da ieri Luzi - che andrà in pensione tra pochi mesi - non è infatti più al comando degli agenti della casa circondariale, ha deciso di congedarsi dopo aver presentato un certificato medico che sancisce i suoi problemi di salute. E la notizia ha voluto darla lui stesso ai colleghi, durante un incontro convocato con tutto il personale della polizia penitenziaria, durante il quale avrebbe confermato anche la sua intenzione di voler comunque restare in carica fino al pensionamento. Ma prima di andare ha ammesso ancora una volta di aver pronunciato le frasi-choc incise su un cd e arrivate ai giornali locali ("Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra di sotto"). L'ha fatto, oltre che davanti alla parlamentare radicale Rita Bernardini in visita lunedì nel carcere teramano, anche di fronte agli ispettori inviati dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. Anche a loro avrebbe confermato di aver pronunciato quelle parole ma di non essersi riferito a nessun atto di violenza, semplicemente di aver rimproverato un agente per il rimbrotto fatto ad un recluso dopo che questo l'aveva aggredito. Ma nel frattempo del presunto pestaggio sarebbe spuntata fuori anche la data: tutto sarebbe successo lo scorso 22 settembre. La circostanza è emersa durante l'ispezione degli uomini di Alfano, che hanno sentito il detenuto al centro della vicenda - un italiano - e visionato la sua cartella medica. Dopo la presunta violenza è stato infatti visitato nell'infermeria della struttura e dimesso senza nessuna prognosi. Per quell'aggressione invece l'agente coinvolto e aggredito è ancora in malattia. Continuano nel frattempo le inchieste aperte sul caso. Da una parte c'è quella aperta dal ministro Alfano: sul tavolo del Guardasigilli è già arrivata la relazione dei due ispettori che per tutta la giornata di lunedì a Teramo hanno raccolto nella casa circondariale testimonianze e documenti utili a chiarire il quadro della vicenda. Non è escluso che nei prossimi giorni dall'analisi di queste carte potrebbero essere decisi trasferimenti o rimozioni del personale carcerario. Continua anche l'inchiesta aperta dalla Procura di Teramo e disposta dal pm Gabriele Ferretti e dal sostituto David Mancini, ma per il momento non ci sono indagati e tantomeno ipotesi di reato. Sdegno e preoccupazione per la vicenda è stato espresso ieri dagli esponenti di Rifondazione di Teramo, Sandro Santacroce e Filippo Torretta: "La decisione di Luzi di non dimettersi - hanno spiegato - è sintomo dell'incapacità di comprendere la gravità di quanto accaduto. Si tratta di violentismo statale". Immigrazione: Manganelli; i clandestini problema di criminalità
Agi, 5 novembre 2009
"L’immigrazione clandestina, dal punto di vista del capo della polizia, è un problema di criminalità". Lo ha detto il capo della polizia di stato, Antonio Manganelli, parlando nella sala conferenze Montecitorio durante la presentazione del nuovo sindacato unitario della polizia. "In alcune aree del Paese", ha continuato Manganelli, "il 60-70% degli autori di reati sono clandestini. Inoltre, il 35% della popolazione carceraria è costituito da immigrati clandestini. Questo significa che senza di loro ci sarebbe il 35% di spazio in più nelle carceri e che i detenuti avrebbero più aria a disposizione di quanto non ne abbiano oggi".
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