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Giustizia: i detenuti aumentano, i fondi diminuiscono del 50%
Redattore Sociale, 4 novembre 2009
Calati i finanziamenti per tutte le voci di spesa. Di Mauro (Consulta per i problemi penitenziari del comune di Roma): "I suicidi sono il sintomo di un problema più profondo che nasce dal disinteresse delle istituzioni". "Tra il 2007 e il 2010 i trasferimenti del governo al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) hanno subito un taglio pari al 50%". A denunciare il nesso tra carenza dei fondi e stato di degrado delle carceri italiane è Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente per i problemi penitenziari del Comune di Roma. "Per le spese di acquisto di beni e servizi - fa sapere Di Mauro - il fabbisogno reale si aggira intorno ai 2.500.000 euro: ma nel 2007, durante l’ultimo governo Prodi, vennero stanziati 1.927.563 euro e 1.687.000 per il 2008, mentre nel 2009, primo anno del governo Berlusconi, sono stati stanziati 1.160.439 euro e per il 2010 saranno stanziati 1.310.859. È da evidenziare - chiarisce Di Mauro- che gli stanziamenti del governo Prodi si riferivano a una popolazione carceraria dopo indulto di circa 40 mila detenuti mentre dal 2009 i detenuti sono aumentati in maniera esponenziale fino a raggiungere quota 65 mila". "Tra le spese di acquisto di beni e servizi - prosegue il presidente della Consulta - rientrano anche i corsi per la formazione degli operatori di polizia penitenziaria e dell’area pedagogica che hanno lo scopo di adeguare le professionalità alle nuove esigenze della popolazione penitenziaria, la quale rappresenta sempre di più uno spaccato del disagio sociale estremo: basti pensare che il 30% è costituito da tossicodipendenti e un altro 30% da stranieri". Quanto alle spese per la manutenzione, la riparazione, la ristrutturazione e il completamento e ampliamento immobili, prosegue Di Mauro, "contro un fabbisogno reale di circa 25 milioni di euro, ne sono stati stanziati 14.247.203 per il 2007, 12.311.850 per il 2008 euro e 11.154.189 per il 2009, mentre per il 2010 sono previsti 12.601.041 euro". Si tratta di un capitolo di spesa "niente affatto trascurabile", precisa, "in quanto riguarda la ristrutturazione delle carceri, la messa in norma per la sicurezza degli ambienti, l’adeguamento alle normative dell’Unione Europea, che ha già ha avviato una procedura di richiamo per l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie italiane e in particolare per gli spazi minimi destinati ad ogni detenuto. Ma questo capitolo di spesa riguarda anche - precisa il presidente della Consulta - la ristrutturazione e l’adeguamento degli spazi destinati agli operatori penitenziari". Grandi tagli anche alle spese per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione e il trasporto dei detenuti che - secondo i dati diffusi da Di Mauro - esprimono un fabbisogno reale pari a 220 milioni di euro. Gli stanziamenti, infatti, sono pari a 142.509.858 euro nel 2007, 151.280.859 nel 2008, 116.424.354 nel 2009 e 129.867.754 nel 2010. "Questa carenza di fondi - spiega Di Mauro - ricade sulla qualità del vitto dei detenuti e molte società cooperative che gestiscono le mense rischiano di chiudere. Ricade inoltre - aggiunge - sull’igiene e la pulizia delle celle e dei locali destinati agli operatori penitenziari oltre che agli spazi comuni e di accoglienza dei familiari e dei cittadini liberi che si recano in carcere". Per le spese relative all’organizzazione delle attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive e per il funzionamento delle biblioteche, invece, il fabbisogno reale si attesta a 4.300.000 di euro. Nel 2007 però sono stati stanziati 3.121.228,18 euro, nel 2008 3.058.062, nel 2009 2.506.339 e nel 2010 2.811.541. "Si tratta di azioni particolarmente importanti per il recupero e il reinserimento del detenuto nello spirito della legge Gozzini e dell’ordinamento penitenziario - dice ancora Di Mauro. - Di fatto non destinando i fondi necessari si svuota il senso della legge e non la si applica di fatto. Ed è ovvio - sottolinea - che un detenuto che non viene raggiunto da tali attività trascorre il tempo della detenzione nell’abbrutimento e nell’ozio: cosa che per alcuni comporta ricadute psicologiche oltre che fisiche che possono condurre al suicidio". Su un reale fabbisogno di 85 milioni di euro per le "mercedi dei detenuti lavoranti" ne sono stati stanziati 62.424.563,58 nel 2007, 62.017.840 nel 2008, 48.198.827 nel 2009 e 54.215.128 nel 2010. "Anche questo è un capitolo molto delicato - è il commento di Di Mauro - perché è quello che sempre in ottemperanza della legge Gozzini e dell’ordinamento dà la possibilità ai detenuti di svolgere lavori interni al carcere per poter mantenere la famiglia all’esterno e per poter sostenere le spese di avvocati e di mantenimento in carcere". Per quanto riguarda le spese per il trasporto dei detenuti e del personale di scorta, infine, il presidente della Consulta penitenziaria fa sapere che, a fronte di un fabbisogno reale pari a 22 milioni di euro, ne sono stati stanziati 16.611.578,54 nel 2007, 16.275.400 nel 2008, 12.826.019 nel 2009 e 14.426.995 nel 2010. "Questo è un altro capitolo molto importante - aggiunge Di Mauro - perché con questi fondi si consentono i trasferimenti e i piantonamenti in carcere dei detenuti malati, oltre che la partecipazione degli stessi alle udienze in tribunale. È ovvio che una riduzione di questi fondi ricade sul diritto alla salute e alla difesa dei detenuti". "Questa situazione delle carceri mette non solo i detenuti, ma anche i direttori, in una condizione di forte disagio - conclude Di Mauro. - A questo, inoltre, si somma quella relativa alla medicina penitenziaria. Infatti - precisa - con il definitivo trasferimento della competenza sulla sanità penitenziaria alle regioni, il governo non trasferisce più i fondi necessari. Come se non bastasse, bisogna fare i conti con il disinteresse degli enti locali, con la conseguenza che il diritto alla salute dei detenuti non viene garantito. E chi ne fa le spese sono soprattutto le persone in condizioni di disagio psichico, che non possono usufruire di attività di cura e di recupero, e che quindi possono compiere atti autolesionisti e deleteri. I suicidi sono il sintomo di un problema più profondo che nasce dal disinteresse delle istituzioni". La carenza di finanziamenti non riguarda però solo chi sta scontando una condanna. "Gli enti locali finanziano sempre meno attività rivolte a detenuti ed ex detenuti - conclude - con un grande problema anche per le cooperative sociali, che in molti casi sono state costrette a chiudere". Giustizia: quegli orrori dimenticati, dietro le mura delle carceri di Giacomo Russo Spena
Terra, 4 novembre 2009
Solo negli ultimi anni sono decine i casi accertati di soprusi nelle nostre carceri. A Biella è stata scoperta una "cella liscia" dove i reclusi sarebbero stati colpiti con violenti getti d’acqua. Un ex medico: alle Vallette pestaggi organizzati. "Mettiti in ginocchio, prega la Madonna e bacia la bandiera italiana". Sarebbero questi gli ordini diretti a B. M., detenuto marocchino, da otto agenti di polizia penitenziaria rinviati a giudizio per violenza privata. è il marzo 2006, casa circondariale di Nuoro. Non è un episodio isolato. Anzi. Analizzando la situazione penitenziaria degli ultimi anni si ottiene un dossier infinito che evidenzia testimonianze, accertate, di "maltrattamenti" e casi di tortura. Qualche esempio. Nel carcere San Sebastiano di Sassari il 3 aprile 2000 avviene un pestaggio punitivo contro i detenuti che avevano osato protestare per la mancanza di viveri e acqua. Mentre nella struttura di Biella viene ritrovata nel 2002 una "cella liscia" dove i "rinchiusi" sarebbero stati perquisiti e poi colpiti con violenti getti d’acqua sparati da un idrante. La magistratura ha aperto un fascicolo per abusi e pestaggi, omissioni e silenzi dei medici, e intimidazioni degli agenti. A tutt’oggi sono 59 le persone indagate. E pensare che l’Italia non ha mai ratificato la Convenzione sulla tortura, assente nel Codice penale e considerata erroneamente dalla maggior parte della popolazione un affare lontano. Così i 15 agenti che hanno "agito" nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova 2001, dove i manifestanti sono stati quasi un giorno in piedi, faccia al muro con gambe divaricate e braccia alzate (la cosiddetta "posizione del cigno"), vengono condannati in primo grado solo a un totale di ventiquattro anni di carcere. Per abuso d’ufficio, lesione personale e falso. Eppure il Comitato europeo per la prevenzione della tortura parla di una sostanziale differenza tra il "maltrattamento", anche grave, e la "tortura". Tre elementi li distinguerebbero: la gravissima sofferenza inflitta, la volontà di infliggerla e la finalizzazione. Fattori presenti a Bolzaneto. Stessa musica nella caserma Raniero di Napoli dopo la manifestazione Noglobal del 17 marzo 2001: gli attivisti vengono prima "rastrellati" negli ospedali e, successivamente, puniti a dovere. Intanto l’associazione Antigone segnala decine di "storie di violenze, ma anche di soprusi su "diversi" e luogo di numerose morti misteriose". Nel 2009 sono già 146 i detenuti deceduti in carcere, 6 in più del totale dello scorso anno. Ma è il dato dei suicidi a suscitare allarme: nei primi dieci mesi del 2009 i "rinchiusi" che si sono tolti la vita sono stati 61. Altre volte solo la testardaggine dei familiari o l’inchiesta di qualche pm hanno permesso di riaprire casi che hanno portato alla condanna del personale di polizia penitenziaria. è il 2 febbraio 2009 quando un ex medico del carcere Vallette di Torino denuncia abusi e connivenze in danno ai detenuti, dichiarando come "all’interno delle strutture i pestaggi da parte degli agenti, addirittura organizzati in apposite squadrette, siano all’ordine del giorno". Si denunciano anche violenze praticate nei Reparti di osservazione psichiatrica, tra cui "contenzioni a mezzo di manette e sedazioni non consensuali". Non mancano i casi di violenze sessuali verso alcune detenute. A febbraio di quest’anno si è chiuso il processo contro una "guardia" penitenziaria: l’uomo è stato condannato a tre anni di reclusione. I fatti risalgono al 2005, quando l’agente, secondo l’accusa, nel perquisire una detenuta le palpeggia il seno, riservando lo stesso trattamento a diverse altre donne, che era solito toccare infilando le mani attraverso le grate delle celle. Capitolo a parte gli abusi per estorcere notizie. Quasi una prassi generalizzata. Il 28 febbraio 2008, secondo l’accusa, nel carcere di Firenze un agente esagera (ora è iscritto nel registro degli indagati). Un detenuto marocchino denuncia, infatti, di esser stato picchiato per ore. Il medico riscontra, qualche giorno dopo" l’interrogatorio", "segni di contusioni compatibili con calci e pugni". Giustizia: la tortura del "carcere duro", viola diritti dell’uomo di Andrea Armenante
Gli Altri, 4 novembre 2009
Intervista ad Adalgiso Amendola, professore di sociologia del diritto all’Università di Salerno. Il 41 bis, l’articolo entrato nell’ordinamento penitenziario sulla scia emergenziale dell’epoca stragista della mafia, è diventato lo strumento ordinario con il quale il sistema celebra la necessaria costruzione simbolica di un nemico", spiega Adalgiso Amendola, professore di sociologia del diritto all’Università di Salerno che, da anni, si occupa delle derive emergenzialiste nel diritto contemporaneo.
Dal punto di vista del diritto qual e la criticità dell’articolo 41 bis? Il problema del 41 bis è che si tratta di una norma che si colloca ai limiti del disegno costituzionale: è un modo di vivere la pena come uno strumento volto alla neutralizzazione del soggetto, all’interruzione di ogni contatto con l’esterno. Un disegno che contrasta in modo netto con le finalità rieducative previste dalla Carta fondamentale, che di certo non immagina la reclusione come un ulteriore incentivo alla de socializzazione del soggetto. Con il 41 bis siamo, cioè, nel pieno del diritto dell’esecuzione. Ed è una norma che sembra in contrasto anche con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ci sono state delle pronunce da parte della Corte europea su tale norma? Si ci sono stati degli interventi, che non hanno avuto il coraggio di dichiarare la norma incompatibile con l’ordinamento comunitario, limitandosi a elaborare dei limiti alla sua applicazione. Ma umanizzare un istituto che si propone l’isolamento totale di una persona è un obiettivo così contraddittorio che finisce solo con il rafforzare l’istituto stesso, renderlo, per paradosso, meno accettabile. Analogo discorso può essere fatto con le pronunce della Corte costituzionale, eppure l’insofferenza per questa norma non è ascrivibile solo a giuristi malati di garantismo. La criticità del 41 bis viene ribadita continuamente, la ribadisce il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, la ribadiscono i vari tribunali, come quello di sorveglianza di Napoli, secondo cui la norma finisce per creare una categoria differente di detenuti, in violazione del principio di eguaglianza.
Nel caso di Diana Blefari Melazzi quali sono state, a suo avviso, le incongruità nell’applicazione del 41 bis? La norma è pensata come una misura di emergenza. Il fatto che sia stata rinnovata per tre volte la fa diventare una misura ordinaria, non più proporzionata all’esigenza di evitare i contatti con la precedente attività criminale. Le condizioni psichiche della Blefari rendono impossibile immaginare una continuità con l’attività associativa. Anche in questo caso, dunque, l’applicazione del 41 bis sembra aver servito soprattutto una "funzione di bandiera": mettere la brigatista in un regime di carcere duro ha avuto, evidentemente, come scopo prevalente solo quello di marcare l’assoluta inaccettabilità del crimine dedotto. Difatti l’articolo, dinanzi all’opinione pubblica, non viene mai messo in discussione, mentre negli ambienti giudiziari se ne parla di continuo e a tutti i livelli. Perché quando l’eccezione diventa regola l’ordinamento giudiziario perde delle fondamentali garanzie. Inoltre la pratica ha rivelato che la disposizione non serve, nonostante i proclami espliciti, a isolare il detenuto dai suoi legami con l’associazione di provenienza. Serve, invece, a selezionare la figura di chi collabora da quella di chi non lo fa. Da qui il carattere più grave per tanti giuristi democratici, vale a dire il fatto che per uscire dal 41 bis occorre che sia provato che non esistano più tali legami. Sono delle minime considerazioni garantiste a volere, invece, che, a provare una persistente connessione con l’attività criminosa, sia chi vuole imporre e prorogare il 41 bis.
Perché l’opposizione al 41 bis continua a essere un "tabù generalizzato" tra i giuristi? Credo che pesi molto la sua "origine" meridionale, il fatto di essere nato come risposta alla criminalità organizzata. Come tutte le strategie di "tolleranza zero" la criminalità deve essere vissuta come fosse un’alterità assoluta e qualsiasi tentativo di spiegazione sociale del fenomeno, qualsiasi intervento che non passi per il grado massimo di criminalizzazione viene vissuto come una giustificazione collaborazionista. Chi voglia essere accettato come interlocutore legittimo nella sfera pubblica non deve dubitare dell’essenzialità del 41 bis. Giustizia: carcere e malattia mentale... parole impronunciabili di Luca Bonaccorsi
Terra, 4 novembre 2009
Dopo la morte, anzi l’omicidio, di Stefano Cucchi e il suicidio di Diana Blefari, l’Italia forse si ritrova (finalmente?) a guardare nelle sue galere. Non i soliti Radicali, che le prigioni le visitano dai tempi di Beccaria, ma l’Italia tutta. Per un attimo. E, come sulla vicenda Marrazzo, quando è toccato nelle viscere, il Paese reagisce visceralmente. In certa sinistra è già partito il riflesso tipo: "Se vedi un punto nero...". Gli "agenti" sono tutti, per definizione, geneticamente violenti e picchiatori. A destra invece è partita la patetica e surreale difesa d’ufficio dei "nostri ragazzi". Ma se la storia di Cucchi richiama Genova, Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi e tutti gli altri casi di assurde violenze, più o meno accertate, delle forze dell’ordine, il suicidio della brigatista Blefari aggiunge un’altra dimensione alla discussione e chiama in causa, direttamente, l’innominabile: la malattia mentale. Diana, si è detto, stava male. Non doveva stare in carcere. E dove allora? Chi ci deve stare in carcere? A fare cosa? E come si fa a stare "bene" in carcere (specie se ti hanno appena comminato una pena "senza fine" come l’ergastolo)? Domande. In carcere ci sono principalmente poveracci e malati di mente. Ai primi serve un lavoro, ai secondi un medico e una struttura che gli impedisca di distruggere se stessi e/o gli altri. Non è la più sofisticata delle analisi sulla popolazione carceraria italiana, ma è una buona approssimazione. Tolti i malati e i poveracci, di delinquenti in carcere ne restano davvero pochi (e smettetela di pensare a Previti o a Cuffaro). Mettere in galera un poveraccio o un malato serve davvero a poco. Non imparano alcuna lezione dentro, e infatti i tassi di recidiva sono altissimi, tanto da permettere, tranquillamente, di affermare che il carcere è una istituzione fallita. Nel 2006, quando ci fu l’ultimo indulto, il dibattito si era momentaneamente riaperto. A che serve il carcere, come deve essere gestita la pena? Tutte queste domande girarono nell’aria per lo spazio di una breve estate. Poi tornò la marea nera della cultura reazionaria, quella della pena come punizione. E se il carcere deve punire, più schifo fa meglio è, in fondo. Così oggi siamo qui aggrappati al minimo vitale, all’abc della civiltà, rappresentato dalle battaglie radicali per i diritti dei detenuti. Il discorso però è un po’ più complesso, specie per quanto riguarda la categoria "malati di mente" che, udite udite, sono violenti. Lo sono i tossici spesso, come ben sa chi lavora nei Sert. Ma non serve essere tossicodipendenti per essere malati. La Blefari, per esempio, si è ammalata in carcere o era malata quando ha partecipato all’assassinio di D’Antona? O quando l’ha pensato? Il tema del reato e della pena è certo uno di quelli in cui si misura la debacle del campo progressista. La cultura di sinistra ha prodotto, da un lato, l’idea del carcere rieducativo, che porta con se il concetto di trasformazione. Dall’altro ha dimostrato l’assoluta incapacità di affrontarlo teoricamente. A partire dal nodo principale dei crimini violenti: il concetto di capacità di intendere e di volere. La sinistra poi porta ancora con se i germi della stagione anti-istituzionale. Se molti Opg sono effettivamente dei lager, è l’idea stessa dell’Opg che è avversata a sinistra, come tra i liberali. Vuoi per un residuo di basaglismo, vuoi per il principio antico liberale che avversa una pena della cui durata non c’è certezza. Il numero dei suicidi in carcere però è piccola cosa rispetto al totale, rispetto alle depressioni, alla diffusione del disagio psichico tra i giovani. Eppure non si ricorda l’ultima manifestazione contro la chiusura di quelli che si chiamavano centri d’igiene mentale. Quasi nessuno combatte per la sopravvivenza dei presidi psichiatrici pubblici, che vedono falcidiati i fondi a ogni finanziaria. Neanche i Radicali. Giustizia: e meno male che, nel 2006, approvammo l’indulto... di Antonio Polito
Il Riformista, 4 novembre 2009
Leggendo che cosa succede nelle carceri italiane, mi sono detto: e meno male che il Parlamento approvò l’indulto nel luglio del 2006. In quel Parlamento io c’ero, come senatore, e votai a favore, con convinzione. Da allora mi hanno fatto venire un sacco di sensi di colpa. Nei giorni successivi all’approvazione della legge i giornali si riempirono di casi di cosiddetti in-dultati che, appena usciti, si erano rimessi a delinquere. Sembrava che avessimo liberato i più grandi criminali della storia. Ci fu addirittura chi disse che l’indulto segnò la fine del governo Prodi (anche se l’aveva votato pure Berlusconi e tutta Forza Italia). Poi, con il passare del tempo, si scoprì che i casi di recidiva erano molto meno numerosi, e che almeno quel provvedimento aveva svuotato temporaneamente le carceri italiane. Temporaneamente, appunto. Perché ora già scoppiano di nuovo. Come ha spiegato ieri Luca Ricolfi sulla Stampa, l’unico che parli in materia con dati alla mano e cognizione di causa, ci sono di nuovo 65mila detenuti, contro i 43mila posti disponibili. E aumentano al ritmo di settecento al mese. Nel 2013, a fine legislatura, saranno circa 100mila. Ma la situazione delle carceri italiane è tale che più detenuti ci sono, più maltrattamenti ci sono, più suicidi e tentativi di suicidi ci sono. Ieri il Riformista ha pubblicato i dati elaborati dall’associazione Ristretti orizzonti, secondo i quali dal 1990 al 2009, in meno di vent’anni, sono mille e tre i detenuti che si sono uccisi in carcere, proprio come il numero iperbolico delle conquiste spagnole del Don Giovanni di Mozart. Meno male dunque, che approvammo l’indulto: abbiamo evitato, con quel provvedimento, di sicuro qualche suicidio, e forse qualche maltrattamento, del genere che sempre il Riformista ha raccontato a proposito del carcere di Teramo. Nel carcere di Teramo il direttore è stato registrato mentre diceva a un suo dipendente che i detenuti non si massacrano in pubblico, "si massacrano sotto", in stanze evidentemente adibite alla bisogna. E perché la grande stampa e la tv si accorgessero del caso è stata necessaria la trasmissione dell’audio: ormai le cose in Italia fanno scandalo solo se c’è un video o un audio, è la civiltà dell’immagine, così dicono. Qualcuno potrebbe obiettare che l’indulto però è una misura d’emergenza, un pannicello caldo che non risolve il problema. E ovviamente avrebbe ragione. Se nel frattempo non si fa altro, l’indulto può solo essere ripetuto all’infinito, ogni volta che le carceri scoppiano, scuotendo la certezza della pena cui una società ben ordinata ha invece diritto. Ma quell’altro che si potrebbe fare, non si fa. Come ha scritto Luca Ricolfi, si possono fare solo due cose: o produrre meno detenuti o più celle. La prima soluzione, e la più saggia, sarebbe depenalizzare un pò di reati, evitare cioè di buttare in un carcere chi ha colpe minori che possono essere espiate in altri modi, consentire a qualche povero cristo ciò che è stato consentito a finanzieri come Callisto Tanzi o a politici come Arnaldo Forlani. Ma se invece l’Italia, travolta da un’ondata di isteria securitaria, sceglie la strada opposta e più probabile, e cioè trasformare in reato penale sempre nuovi comportamenti sociali devianti; se cioè, trainato dalla Lega, il governo si propone di mettere in carcere sempre più immigrati, sempre più tossicodipendenti, e magari anche i clienti delle prostitute e i graffitari di strada, allora ha bisogno di molte più carceri. Molte di più. Il guaio è che non ci sono e non ci saranno. Indipendentemente dal colore dei governi, infatti, sembra chiaro che lo Stato non è in grado di costruire abbastanza celle per tutti i carcerati che già ha, figurarsi per quelli che sogna di avere. Ricolfi calcola che l’ennesimo piano annunciato da questo governo, se anche davvero partisse nei tempi previsti, non coprirebbe nemmeno l’aumento dei detenuti prevedibile da oggi a quando si dovrebbe cominciare a costruire nuove carceri. Ci sarebbe un solo modo di avere carceri di numero e qualità soddisfacente, ma in Italia è un tabù per ragioni ideologiche: farle costruire e poi gestire ai privati. So che l’idea può essere dura da digerire, perché sembra un’abdicazione dello Stato e la cessione ad altri soggetti del monopolio della forza. Ma state sicuri che in carceri private i detenuti sarebbero trattati meglio che nelle prigioni nostrane, che non avrebbero due metri quadrati di spazio come è stato accertato nel processo in cui la Corte Europea ci ha condannato, che nessun direttore di carcere suggerirebbe di "massacrarli sotto", e che se arrivasse un detenuto nelle condizioni in cui è arrivato Stefano Cucchi l’avrebbero denunciato di corsa alla magistratura e all’opinione pubblica per non prendersene la colpa. Per un privato, i detenuti sarebbero fonte di reddito, non carne da macello come oggi sono in molte carceri italiane. E se neanche un governo di destra vuole seguire questa strada, allora preparatevi al prossimo indulto. E nel frattempo contate i suicidi. Giustizia: Berlusconi; non si può togliere la dignità ai detenuti
Ansa, 4 novembre 2009
"Dopo il processo civile stiamo riformando il processo penale. Dobbiamo costruire nuove carceri per ventimila detenuti. La situazione delle carceri che abbiamo ereditato è disastrosa". Lo dice Silvio Berlusconi a Bruno Vespa nel suo ultimo libro. "Uno Stato civile - osserva il premier - deve togliere la libertà a chi è stato condannato per aver commesso un reato, ma non può togliergli anche la dignità e perfino attentare alla sua salute. E poi la detenzione deve avere sempre la finalità di rieducare la persona. Stiamo realizzando la riforma dell’università per abolire i diplomifici e quella della sanità per diminuire la spesa e aumentare la qualità delle cure. Entro l’anno - promette ancora il premier - sarà operativo anche il piano casa che consente di ampliare la propria abitazione a chi ne possiede una mono o bifamiliare senza intralci burocratici". Giustizia: Ferranti (Pd): il piano carceri? Alfano non è credibile
Dire, 4 novembre 2009
Sulle "carceri Alfano non è credibile". Ne è convinta la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti che fa presente come "esattamente un anno fa, da Trieste, il ministro della Giustizia annunciava che avrebbe presentato nelle prossime settimane il nuovo piano di edilizia carceraria di concerto con il ministro Matteoli". Nel frattempo, insiste, "ci sono stati ben 40 consigli dei ministri ed Alfano non ha presentato nulla. Pertanto l’ennesimo annuncio di oggi sulla presentazione del piano entro due Cdm è privo di ogni credibilità anche perché come dichiarato poche settimane fa dal Capo del Dap, Franco Ionta, il piano costerebbe oltre un miliardo e mezzo di euro e, da quanto si apprende, Tremonti non sarebbe minimamente intenzionato a finanziarlo". Giustizia: Manconi; la situazione nelle prigioni è "insostenibile"
Ansa, 4 novembre 2009
Secondo Luigi Manconi, presidente dell’Associazione A Buon Diritto, per come è impostato al momento il carcere non ha alcuna utilità. Una soluzione potrebbe essere quella di tornare all’applicazione della Legge Gozzini del 1986, che ha garantito sicurezza ai cittadini, disinnescando la paura che le prigioni fossero fonte di minaccia per i cittadini. "Il carcere come sistema di applicazione della giustizia, non serve a nulla". Questa è la valutazione principale di Luigi Manconi, presidente dell’Associazione A Buon Diritto, nata nel 2001 "allo scopo di promuovere alcune questioni di grande rilievo pubblico, relative all’esercizio di diritti riconosciuti dal nostro ordinamento, ma non adeguatamente tutelati; o il cui riconoscimento viene messo in mora o contrastato o ritardato nei fatti". Secondo il presidente la politica dovrebbe ridurre "il ricorso al carcere come pena dei reati", aumentando invece la "depenalizzazione e la decarcerizzazione". In altre parole fare in modo che ci siano meno persone in carcere e solo quelle per reati gravi: "Un minore numero di atti deve essere considerato reato da sanzionare penalmente". La realtà è che "il carcere è ingolfato, intasato: in una parola non funzionante". La legge che fino ad oggi ha dato dei risultati civili e di reinserimento nella società, è stata la Gozzini del 1986: "È la legge che più ha garantito sicurezza ai cittadini: disinnescando il carcere come fonte di minaccia, ha fatto sì che non fosse più semplicemente una macchina di produzione di crimini e criminali". Giustizia: il compagno di cella di Cucchi; "mi disse delle botte" di Marino Bisso e Carlo Picozza
La Repubblica, 4 novembre 2009
"Qualche giorno prima di morire Stefano Cucchi disse di essere stato malmenato". A rivelarlo è un detenuto ascoltato ieri a Regina Coeli dai magistrati che indagano sulla morte del trentunenne arrestato con pochi grammi di droga la notte del 15 ottobre e morto all’alba del 22 (con due vertebre rotte e altri traumi). Dietro le sbarre, anche altri sembra siano stati informati da Cucchi delle violenze subite. "Sono stati gli "amici miei" a ridurmi così", avrebbe detto il giovane a un compagno di carcere indicando gli uomini in divisa. I pm Francesca Loi e Vincenzo Barba stanno cercando conferme alle dichiarazioni del detenuto: ascolteranno altri reclusi che hanno incontrato Cucchi in carcere. Intanto hanno interrogato i tre agenti penitenziari che hanno accompagnato il giovane nei suoi trasferimenti dal carcere al tribunale e in ospedale. Le conferme sulle lesioni del giovane, già dalla seconda notte della sua settimana di passione, arrivano dal senatore Stefano Pedica (Idv) che sabato scorso ha visitato la cella numero sei della medicheria di Regina Coeli: "Davanti al vicedirettore del carcere, ad alcuni agenti e a due miei collaboratori, alcuni detenuti hanno dichiarato che Stefano è arrivato in cella su una sedia a rotelle contorcendosi peri dolori alla schiena. Lo hanno aiutato a sdraiarsi su un fianco, gli hanno offerto una sigaretta che non è riuscito a fumare. Si è lamentato per tutta la notte". "I detenuti", commenta Pedica, "erano imbarazzati a raccontare dell’origine di quei traumi per la presenza del personale di Regina Coeli: me lo hanno fatto capire. Ma nelle stesse foto di rito all’ingresso in carcere, Stefano Cucchi ha un ematoma su uno zigomo, e un altro dall’occhio scende fino alla mascella. Collo e nuca sono arrossati con striature viola". Forse per timore, il giovane avrebbe detto di essere caduto dalle scale. Che fosse una bugia difensiva, lo confermerebbe il riferimento alle date: una volta ai medici del Pertini avrebbe raccontato che "l’incidente" era della sera prima nel pronto soccorso del Fatebenefratelli; in un’altra circostanza, indicò il 30 settembre, giorno del suo compleanno. Solo con i suoi compagni di carcere, Stefano sembra sia stato preciso : "Gli "amici miei " mi hanno ridotto così". Giustizia: Marroni; necessaria riflessione sul "sistema carcere"
Dire, 4 novembre 2009
"Apprendo che per il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, Stefano Cucchi non doveva morire e che si doveva evitare che morisse. Ora spero che, come solennemente promesso in aula al Senato, l’inchiesta faccia il suo corso in tempi brevi e che le responsabilità, se accertate, siano davvero punite". Lo afferma in una nota il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, vice coordinatore della Conferenza Nazionale dei Garanti. "Al ministro- aggiunge Marroni- vorrei ricordare che solo nel Lazio, negli ultimi 15 mesi, due persone di 41 e 47 anni gravemente ammalate sono morte in carcere mentre attendevano invano che le autorità decidessero sulle richieste di differimento della pena e un uomo di 89 anni è deceduto mentre attendeva l’autorizzazione a essere estradato in Canada e vivere lì, con i parenti, gli ultimi giorni di vita. Inoltre, a Roma, un italiano senza fissa dimora è stato arrestato in un letto d’ospedale perché doveva scontare meno di tre mesi di carcere per il furto (commesso 3 anni prima) di un pezzo di pane da un supermercato". Secondo il Garante, quelle narrate sono tutte storie di persone che, come Cucchi non solo non dovevano morire, "ma non dovevano stare in carcere. Credo che le istituzioni - conclude Marroni - siano chiamate a dare una risposta a un sistema come quello carcerario, che ormai da troppo versa in situazioni critiche. Una crisi che le vicende di Stefano Cucchi e Diana Blefari Melazzi, nella loro drammaticità, hanno contribuito a rendere evidente agli occhi di tutti l’opinione pubblica". Giustizia: Manconi; le lacune nel discorso di Alfano per Cucchi
Comunicato stampa, 4 novembre 2009
Luigi Manconi presidente di A Buon Diritto: "Quanto detto ieri dal ministro Angelino Alfano in Senato, "Stefano Cucchi non doveva morire e si doveva evitare che morisse", va indubbiamente apprezzato. Con altrettanta franchezza va detto, tuttavia, che la ricostruzione dei fatti, esposta dal ministro della Giustizia, presenta molte lacune. Ne sottolineo tre, in particolare: se fosse vero che "durante l’intera udienza, durata circa mezz’ora non è stata riferita né rilevata nessuna anomalia", perché mai alle 13.30 di quello stesso giorno, a distanza di appena un’ora dalla conclusione dell’udienza, Stefano Cucchi viene sottoposto a visita medica nell’ambulatorio del tribunale? Ed è proprio quella visita medica a evidenziare le "lesioni ecchimotiche riscontrate in regione palpebrale inferiore bilateralmente e lesioni alla regione sacrale dagli arti inferiori". Secondo interrogativo: testimonianze non contestate e convergenti dicono che Stefano Cucchi, appena giunto in caserma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, chiedeva di avvertire il proprio avvocato di fiducia, di cui forniva il nome, ma non gli venne dato ascolto. Dunque, all’origine di questa vicenda c’è una palese e gravissima violazione di un diritto fondamentale della persona. Perché su questo il ministro non ha detto parola? Terza questione: il ministro per ben tre volte fa riferimento alla dichiarazione di Stefano Cucchi di essere "caduto accidentalmente dalle scale", precisando inoltre che la presunta caduta sarebbe avvenuta due settimane prima dell’arresto attribuendo a questa le lesione al volto e, contemporaneamente, la frattura delle vertebre. Questo è chiaramente in contrasto con le dichiarazioni dei genitori che, avendo avuto modo di vedere Stefano la sera dell’arresto e in tutti i giorni precedenti, parlano di una condizione di salute assolutamente normale. Va evidenziato poi come il forte dolore provocato dalla frattura di due vertebre sia assolutamente incompatibile con la possibilità di deambulare senza problemi per due settimane, come sarebbe stato se la "caduta" fosse collocata così anticipatamente nel tempo. Per carità di patria e per decenza istituzionale, per un minimo di rispetto dell’intelligenza e del senso comune, andrebbe evitato di accreditare quella che è - e da sempre - l’ipocrita spiegazione di comodo offerta da tutte le "istituzioni totali" e i sistemi autoritari per occultare le violenze inflitte a chi si trovi nella loro disponibilità." Giustizia: protestano 39 psicologi vincitori concorso non assunti
Agi, 4 novembre 2009
L’Amministrazione Penitenziaria non spiega allora il motivo - affermano ancora gli psicologi - per cui tali prestazioni non possano essere svolte anche dai vincitori di concorso, ma solo da consulenti esterni. D’altro canto il Servizio Sanitario Nazionale pare non curarsi dell’assistenza psicologica dei detenuti, tant’è che in Italia gli psicologi che si occupano di sanità penitenziaria sono solo 16 per 65.000 detenuti (in base alle tabelle allegate al dpcm 1 aprile 2008 ) e nessuna Regione ha neanche lontanamente pensato di aumentare il numero dei professionisti in organico assumendo i 39 psicologi vincitori di concorso, pur potendolo fare. Riteniamo, quanto meno, poco responsabile l’atteggiamento di tutte le amministrazioni coinvolte in questa kafkiana vicenda e, paradossalmente, pur avendo vinto un regolare concorso pubblico, siamo stati costretti, a ricorrere alle vie legali per vedere riconosciuti i nostri diritti. Pur potendo essere assunti sia dal Ministero della Giustizia, sia dal Servizio Sanitario Nazionale, i 39 psicologi si trovano oggi senza lavoro. Considerata la situazione critica nelle carceri, sarebbero necessari psicologi a tempo pieno per ogni Istituto Penitenziario e per ogni Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, ma oggi addirittura non vengono assunti neppure i 39 vincitori del primo e unico concorso a psicologo su scala nazionale, che rappresenterebbero, quanto meno, il primo concreto segnale positivo. Per questi motivi, i 39 psicologi manifesteranno domani 4 novembre al Ministero della Giustizia ritenendo tale Dicastero il principale responsabile di quanto accaduto e augurandosi che il Ministro Alfano presti fede alle sue stesse parole pronunciate il 27 novembre dello scorso anno in Commissione Giustizia quando dichiarò che i 39 psicologi, in quanto vincitori di un concorso pubblico, hanno diritto all’assunzione. Giustizia: Sappe; gli agenti penitenziari salvano vita ai detenuti
Il Velino, 4 novembre 2009
"Rappresento il 30 per cento dei poliziotti penitenziari che con abnegazione assicurano la sicurezza e la rieducazione dei detenuti". Così a "Radio Anch’io" Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), si presenta e chiede di intervenire disciplinarmente e anche penalmente se necessario sul personale delle carceri che agisce in maniera scorretta. E sul caso della registrazione che arriva dal carcere di Teramo, in cui il comandante delle guardie darebbe istruzioni su come picchiare i detenuti, afferma: "Se ha sbagliato il comandante di Teramo deve pagare". E aggiunge sulla situazione di lavoro della polizia penitenziaria: "Noi siamo fortemente in emergenza. Siamo in sotto organico (mancano circa 5 mila agenti, ndr) e chiediamo di adeguare l’organico stabilito nel 2001. I nostri agenti fanno otto, nove ore a turno". Ma gli agenti sono violenti? "Non è vero - risponde -. I nostri agenti salvano la vita a decine di detenuti che tentano il suicidio". Giustizia: Cucchi; protesta in Campidoglio, vogliamo chiarezza
Dire, 4 novembre 2009
"Ci troveremo anche noi oggi pomeriggio in piazza del Campidoglio per chiedere allo Stato chiarezza sulla terribile morte di Stefano Cucchi, un ragazzo della nostra città la cui morte violenta non può e non deve rimanere un altro dei tanti misteri che avvolgono l’Italia. La chiarezza nei confronti della famiglia e verso l’Italia tutta è in questa fase l’unico elemento che, oltre ad essere indispensabile, appare come inderogabile, al fine di riconsegnare nel più breve tempo possibile fiducia e serenità negli animi di tutti i nostri concittadini, abbiano questi problemi o meno con la legge". Lo affermano in una nota Fabrizio Santori, presidente della commissione Sicurezza del Comune di Roma, Monica Picca, consigliere del Pdl del Municipio XIII, Marco Palma e Augusto Santori, consiglieri del Pdl del Municipio XVI, Marco Giudici, consigliere del Pdl del Municipio XVI, annunciando la loro adesione alla manifestazione che si terrà oggi pomeriggio alle 18 in Piazza del Campidoglio, cui parteciperanno esponenti politici, media, associazioni e comuni cittadini. Lettere: "infelice Repubblica"; il caso Cucchi i giudici e il potere di Livio Pepino (membro togato del Csm)
La Repubblica, 4 novembre 2009
Caro direttore, non riesco a levarmi dagli occhi l’immagine del viso martoriato di Stefano Cucchi, un viso - come ha scritto Adriano Sofri su Repubblica - "che eclissa quello del grido di Munch e delle mummie che lo ispirarono". Non posso e non voglio rimuoverlo. Nonio voglio come cittadino e non lo voglio come magistrato di questa infelice Repubblica. Non so come sia morto quel ragazzo (a volte sorridente, a volte disperato: come tutti noi). Non so chi, di quella morte, porti la responsabilità, o la responsabilità maggiore. Ma una cosa la so: quelle lesioni che gli hanno devastato il corpo, Stefano Cucchi non se le è procurate da solo e (quantomeno) la solitudine della sua agonia lunga una settimana poteva e doveva essere evitata. E vedo - insieme alla dignità di una famiglia che chiede rispetto per chi non c’è più - una sequenza tragica e già conosciuta in tante (troppe) analoghe occasioni: la negazione dell’evidenza; il rimpallo delle responsabilità; le assoluzioni preventive pronunciate da ministri e politici; i silenzi di chi dovrebbe parlare; le smorfie insensibili dei tanti burocrati che hanno attraversato la vicenda. E sento persino scaricare la colpa di quella fine orribile sulla vittima, colpevole di "nascondere sotto il lenzuolo il proprio viso tumefatto" e "di non volersi alimentare" (quasi che ciò - se vero - non imponesse l’immediato coinvolgimento della famiglia e delle persone in grado di incidere su una scelta autodistruttiva). Sento, insieme all’angoscia, un dovere in più come magistrato. Se, ancora una volta (l’ennesima volta) , non ci sarà un giudice capace di accertare in tempi brevi la reale dinamica dei fatti e le connesse responsabilità (tutte le responsabilità, anche - se necessario - in casa propria), allora il futuro di tutti, in questo Paese, sarà ancora più nero. Sta qui 0 banco di prova per i giudici e per la giurisdizione, non nelle sciocchezze interessate sulle "toghe rosse" e sulla "politicizzazione". Conosco le difficoltà dell’indagare e dell’accertare la verità. Rifuggo, per questo, da demagogie e pregiudizi. Ma la drammaticità del passaggio istituzionale non può essere taciuta. La tragedia tocca anche il personale. E se -come si diceva un tempo - il personale è politico, allora è bene non tacerlo. Forse sono un po’ anomalo. Faccio da quasi quarant’anni il magistrato, prevalentemente nel penale, e ancora sento la difficoltà e l’asprezza di incidere, con le mie decisioni, sulla libertà e sulla stessa vita del prossimo. Continuo a fare questo mestiere perché c’è una Costituzione il cui articolo 3 prevede l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge e impone agli organi e alle istituzioni della Repubblica (magistrati compresi, anche se non sempre se ne ricordano) di rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto tale uguaglianza. Non mi affascinano i rapporti tra i poteri, la classificazione degli organi costituzionali, le loro definizioni con sostantivi e aggettivi appropriati. Credo invece - continuo ostinatamente a credere - che il problema della giurisdizione stia nella sensibilità, nell’intelligenza, nella indipendenza dai poteri e dai luoghi comuni) dei giudici e dei pubblici ministeri, nella loro capacità di leggere i fenomeni sociali, le ansie, i problemi e le paure di chi entra nei tribunali, nella loro voglia di inverare la cultura dei diritti, delle garanzie, dell’uguaglianza. Questo sta scritto - almeno così io leggo - nel nostro sistema costituzionale. Se così non fosse resterebbe attuale l’amara riflessione svolta da Dante Troisi nel racconto autobiografico Diario di un giudice che, pubblicato nel 1955, gli procurò, insieme, un successo letterario e una condanna disciplinare: "Alle nostre spalle e di tutti gli altri (giudici) ora in funzione c’è il crocefisso e la scritta: "La legge è uguale per tutti"; domani, in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Giacché noi siamo sempre da quella parte". Spero che non sia più così. È che ciò emerga di fronte a un ragazzo morto - credo - per responsabilità di alcuni e per insensibilità di molti. Lettere: gli psicologi penitenziari denunciano disinformazione
Lettera alla Redazione, 4 novembre 2009
In relazione agli articoli di A. Retico e V. Polchi apparsi su La Repubblica del 2.11.09 noi psicologi penitenziari denunciamo l’assoluta disinformazione che viene fatta su chi opera ed in quali condizioni, nella realtà delle carceri italiane! Ancora una volta chi parla o non conosce il carcere o ne parla in cattiva fede. Come è possibile che P. Gonnella di Antigone ignori la presenza degli psicologi penitenziari-esperti ex art. 80,deputati proprio all’intercettazione e al recupero del disagio psichico? Gli psicologi penitenziari esperti ex art. 80, ancorché precari da 30 anni, non vengono messi in condizione di operare con la riduzione della loro presenza negli Istituti a causa dei notevoli tagli economici, disattendendo così il diritto della persona detenuta all’assistenza psicologica: 10 minuti di assistenza psicologica a detenuto in un anno! Come è possibile che Luigi Manconi, giudichi l’operato degli altri ma disconosce le proprie responsabilità quando, Sottosegretario alla Giustizia con delega per le carceri sotto il governo Prodi dal 2006 al 2008, non interveniva sui drastici tagli all’assistenza psicologica in carcere compresi i servizi di accoglienza e nuovi giunti? Nel mentre si realizzava il passaggio della Sanità penitenziaria alle Asl, ritenendola una legge civile (L 230/99) ed in realtà si riportava il carcere al solo regime custodialistico. A tutt’oggi nessun contratto è stato fatto sull’assistenza psicologica come cita la legge, ma in realtà le poche ore a disposizione degli psicologi- esperti ex art. 80 per l’Osservazione e Trattamento, vengono utilizzate per contenere il disagio psichico e il rischio suicidario. Gli psicologi penitenziari-esperti ex art 80, denunciano a gran voce che nella situazione attuale del carcere non c’è alcun "buon diritto"per le persone detenute né tantomeno per gli operatori. Napoli: muore detenuto di 25 anni, procura apre un’inchiesta di Gennaro Scala
Gazzetta del Mezzogiorno, 4 novembre 2009
Aveva quasi 25 anni Ciro Triunfo. Era un giovane detenuto che si trovava di passaggio nel carcere di Poggioreale, appoggiato alla camera di sicurezza della casa circondariale partenopea perché avrebbe dovuto partecipare al processo. Quell’udienza non si è mai tenuta, perché a causa di un malore improvviso Ciro Triunfo è morto. Dalla tragedia è trascorso circa un mese, adesso su quel decesso sono state aperte due inchieste. Una da parte della Procura di Napoli, l’altra è un’indagine interna al penitenziario. Un giallo la morte del giovane detenuto che - secondo quanto riferito -aveva accusato un malore riferendolo agli uomini della Penitenziaria. Poco dopo per il ragazzo era stato disposto il trasferimento al Cardarelli dove i medici, dopo un’indagine, hanno deciso che non era il caso di ricoverarlo. Triunfo è stato quindi trasferito nuovamente presso il carcere di Poggioreale dove ha trascorso la notte. Ma le sue condizioni non sono migliorate. "Si lamentava e abbiamo fatto il possibile per farlo stare meglio, ma è stato inutile" racconta uno dei detenuti in una lettera inviata al nostro giornale ripercorrendo i tragici momenti di quel giorno. Dopo una notte trascorsa tra atroci sofferenze Ciro Triunfo è stato trovato in fin di vita all’interno della camera di sicurezza. Il nuovo trasferimento presso l’ospedale Cardarelli è stato inutile, il 24enne è deceduto per cause che restano ancora da definire. La magistratura non è rimasta inerte e su quest’episodio ha deciso di aprire un’indagine. Ma la verità sta a cuore anche all’amministrazione carceraria che, a sua volta, ha avviato un’inchiesta interna. "Morire in questo modo a 25 anni è atroce. Sarà necessario stabilire le responsabilità in questa vicenda " afferma Dario Stefano dell’Aquila dell’Associazione Antigone. Dall’inizio di gennaio a oggi sono 146 i detenuti morti in carcere, 6 in più del totale registrato alla fine dello scorso anno. Ma è il dato dei suicidi a suscitare allarme: nei primi dieci mesi del 2009 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 59, venti in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Lo dice l’associazione Ristretti Orizzonti nel suo dossier Morire di Carcere sottolineando che "la morte di Stefano Cucchi e l’ondata di indignazione al riguardo, soprattutto dopo la pubblicazione delle sconvolgenti immagini del suo corpo martoriato, sono un fortissimo e drammatico richiamo alla realtà". "Quando il sistema penitenziario italiano viene definito fuori-legge, illegale, incivile dallo stesso ministro della Giustizia, vuol dire che la sofferenza di chi sta in carcere supera il livello ritenuto ammissibile, che la pena diventa supplizio - osserva il curatore Francesco Morelli - Soffrono in primo luogo i detenuti, ma soffre anche la polizia penitenziaria, che nell’ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un lavoro sempre poco riconosciuto. E dove gli agenti stanno male, devono fare turni di 12 ore, e via dicendo, non ci sarà un bel clima neanche per ì detenuti". Ristretti Orizzonti cita anche il "Bollettino degli eventi critici negli Istituti penitenziari", realizzato dal ministero della Giustizia, dal quale si evince che dal 1992 al 2008 mediamente ogni anno muoiono 150 detenuti, di cui circa un terzo per suicidio e gli altri due terzi per cause naturali non meglio specificate. Carceri: Pagano; detenuto suicida, medici agito con coscienza
Ansa, 4 novembre 2009
Credo che i medici si siano comportati con scienza e coscienza. Comunque attendiamo gli esiti dell’indagine nel rispetto del lavoro della Magistratura ed il diritto della famiglia del giovane ad avere risposte quanto più possibile chiare". È il commento di Luigi Pagano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, sulla vicenda del suicidio di un detenuto di 28 anni, avvenuto tre mesi fa a San Vittore, e sulla quale la Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati per abbandono di incapace, la psicologa e la psichiatra del carcere milanese. Dell’inchiesta, che riguarda la morte del giovane che aveva dato segni di fragilità psichica e che si è tolto la vita lo scorso luglio impiccandosi con un lenzuolo alla sbarra del bagno della sua cella del quinto raggio. Secondo l’articolo apparso questa mattina il padre e l’avvocato del detenuto avrebbero fatto di tutto per farlo uscire dal carcere e lo scorso 22 giugno era stata presentata anche un’istanza urgente, poi respinta, alla Corte d’Appello per ottenere il ricovero in una struttura idonea. Sul caso, riporta sempre il quotidiano, il pm Silvia Perrucci nell’indagare i due medici, avrebbe ritenuto che non venne considerato con sufficiente attenzione il rischio che il giovane avrebbe potuto togliersi la vita, cosa che aveva già tentato due volte. Luigi Pagano, sottolineando la correttezza dell’operato dei due medici, ha anche voluto precisare che San Vittore, dove ogni anno entrano 6 mila detenuti e ne escono altrettanti, e dove c’è sovraffollamento e carenza di organico, è una struttura attrezzata per evitare il trauma carcerario, tant’è che è da tre anni che non avvengono suicidi. Il provveditore ha sottolineato che ciò è stato reso possibile grazie al lavoro sinergico di polizia penitenziaria, psicologi, psichiatri e assistenti sociali. Abbiamo creato con il supporto delle istituzioni, il Dars - ha concluso Pagano - che è un’unità di pronto intervento rispetto alle situazioni critiche e che si occupa quindi di persone fragili. Reggio Calabria; morto detenuto di 77 anni, era ai "domiciliari"
Apcom, 4 novembre 2009
È morto questa mattina a Locri alle 7,30 uno dei capi storici della ndrangheta di San Luca. Antonio Pelle, detto "Ntoni gambazza", 77 anni, era considerato il capo indiscusso della famiglia Pelle-Vottari, da anni in guerra con i rivali Nirta-Strangio nella famosa faida di San Luca, che per anni ha insanguinato il territorio calabrese e non solo. Arrestato il 12 giugno scorso dai carabinieri del Ros, dopo anni di latitanza, che lo sorpresero nella stanza post operatoria dell’ospedale di Polistena dove era stato ricoverato per un’ernia strozzata. Pelle è morto stamani in seguito a un arresto cardiocircolatorio. Nel nosocomio locrese era stato trasportato questa notte dalla sua abitazione di Bovalino, dove era stato posto agli arresti domiciliari ieri dopo la scarcerazione, per gravi motivi di salute, dal carcere di Catanzaro. Pavia: nuova sezione del carcere? sorgerà nel campo sportivo di Manuela Marziani
Il Giorno, 4 novembre 2009
Troppi detenuti costretti a vivere in spazi ridottissimi, dove crescono le tensioni. La stampa lo ha scritto spesso, ma presto potrebbe essere una "notizia vecchia". Il ministero dell’Interno, infatti, ha inserito Torre del Gallo (nella foto) tra le strutture da ampliare (come accaduto anche per Voghera). Dove attualmente sorge il campo di calcio si realizzerà un padiglione per ospitare 300 detenuti (200 a Voghera). E sarà una struttura autonoma, un mini carcere nel carcere, dotato anche di uffici, sala colloqui e cucina. Però per fare posto a nuovi reclusi, si penalizzeranno le attività ricreative, sacrificando altre aree verdi in cui ricavare campi da calcetto e tennis. E non solo, i sindacati si domandano come l’amministrazione pensa di organizzarsi per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria. "Attualmente - commenta il delegato provinciale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Salvatore Giaconia - su 285 agenti previsti in pianta organica, solo 185 sono in servizio effettivo. Mentre i detenuti sono 420, oltre il limite di tollerabilità". Ampliare la struttura, quindi, è necessario, ma un nuovo padiglione richiede un numero maggiore di personale di sorveglianza. "A Pavia non si risente tanto del sovrannumero finché non arrivano i detenuti di San Vittore - aggiunge il sindacalista -. Il carcere del capoluogo pavese e tutti quelli del circondario, infatti, rappresentano una valvola di sfogo per la struttura penitenziaria milanese. Quando San Vittore scoppia, si mandano i detenuti nelle altre carceri della zona. Ora, poi, a causa della ristrutturazione di un padiglione del carcere di Lodi, sono stati trasferiti altri 50 reclusi, mentre i detenuti locali sono pochissimi". E, chi non ha parenti in zona e non riceve visite, viene spostato. "Si muovono le pedine - prosegue Giaconia -. Soprattutto gli stranieri spesso vengono trasferiti al sud dove è più facile che ci sia qualche posto libero". Ma chi si trova a Torre del Gallo in che struttura si trova ospitato? "Torre del Gallo avrebbe bisogno di molta manutenzione - sottolinea il delegato provinciale dell’Osapp -, ma mancano i soldi. Così anche la semplice tinteggiatura non viene effettuata. E sono stati anche tagliati gli stipendi dei detenuti che lavorano all’interno. Chi fa le pulizie dei locali, consegna la spesa, presta servizio per la scrittura delle istanze, si occupa della barberia o dei lavori domestici percepisce un salario per il proprio impegno. Ora è stato necessario ridurre il monte ore per carenza di fondi. In questo modo, anche quella piccola manutenzione che prima poteva essere eseguita, adesso non si fa". E la struttura si deteriora, ma anche i detenuti soffrono a causa di questa situazione. "Certo - aggiunge il sindacalista - perché lavorare è anche un modo per essere impegnati, per sfogare le proprie tensioni. Se non è più possibile svolgere certe mansioni, lo stress cresce, le tensioni si accumulano e poi rischiano di scoppiare all’interno della cella. Accade quotidianamente, purtroppo". Dopo aver creato in collaborazione con il Cfp un laboratorio di falegnameria in cui far lavorare i detenuti, laboratorio che non riesce a lavorare a causa delle poche commesse, ora anche all’interno si sta conoscendo la disoccupazione e l’inoperosità. Teramo: c’è il record di suicidi e, in un mese, cinque aggressioni
Il Centro, 4 novembre 2009
È il carcere con il maggior numero di suicidi e tentati suicidi: da anni la casa circondariale di Castrogno è al centro di polemiche e proteste per l’alto numero di detenuti e la carenza di personale. E che la situazione sia ormai quella dell’emergenza lo dimostrano i dati: nell’ultimo mese ci sono stati cinque agenti di polizia penitenziaria aggrediti e due tentati suicidi di detenuti sventati in poche settimane. Più volte i sindacati, tutte le sigle, hanno denunciato la carenza di personale e il sovraffollamento di una struttura che ospita circa 400 detenuti e che, sulla carta, ne dovrebbe ospitare poco più che duecento. 185 gli agenti, con una pianta organica risalente a più di venti anni fa. Il nucleo di traduzioni e piantonamenti effettua più movimenti di detenuti che i restanti istituti della regione messi insieme. La movimentazione detenuti in entrata e in uscita, oltre mille dall’inizio dell’anno, è pari a quella di tutti gli istituti d’Abruzzo messi insieme. Nelle ultime settimane numerose sono state le manifestazioni dei sindacati, che in più occasioni hanno lanciato appelli e chiesto l’intervento delle istituzioni. L’ultimo risale a qualche settimana fa. Uspp per l’Ugl, Sappe, Cgil, Cisl, Uil e Osapp scrivevano in una nota: "Gli ultimi eventi ci preoccupano fortemente e ci hanno indotto ad intraprendere questa iniziativa di sensibilizzazione, in quanto riteniamo che il pianeta carcere sia un problema sociale che non può non essere oggetto di un’attenzione particolare da parte di tutti gli organi politici e sociali". Venezia: detenuto accompagnato in ospedale sfugge ad agenti
Ansa, 4 novembre 2009
Rocambolesca fuga questa mattina dall’ospedale Civile di Venezia da parte di un cittadino extracomunitario detenuto. Rocambolesca perché, oltre ad aver dimostrato furbizia e lestezza straordinariamente pronte, l’uomo di colore fuggito ha potuto contare su doti acrobatiche invidiabili. È accaduto questa mattina in un reparto del padiglione Semerani al San Giovanni e Paolo. Qui si trova, anzi si trovava, degente l’uomo piantonato in una stanza del primo piano. Mentre la mattinata stava scorrendo normalmente tra visite e prelievi, improvvisamente l’uomo con una mossa fulminea è balzato dal letto ed è schizzato sulla finestra con una mossa così lesta da sorprendere tutti i presenti. In una frazione di secondo gli agenti di custodia sono intervenuti e sono riusciti ad afferrarlo, ma l’extracomunitario si trovava ormai quasi completamente all’esterno. Dopo averlo trattenuto letteralmente di peso per qualche istante l’uomo si è divincolato e si è lasciato cadere di sotto. Nonostante i cinque metri di altezza della finestra, il detenuto si è rialzato e si è dato immediatamente alla fuga. Altre pattuglie della Polizia sono arrivate immediatamente all’Ospedale in quanto si riteneva che l’uomo non avesse varcato le uscite e fosse quindi nascosto, ma le ricerche hanno dato esito negativo. Gorizia: carcere fatiscente va avanti solo grazie al volontariato
Il Gazzettino, 4 novembre 2009
I Radicali goriziani tornano alla carica. "Il carcere di via Barzellini custodisce un 30% in più dei detenuti previsti, gli agenti sono pochi e la struttura è fatiscente", denuncia il segretario di Trasparenza è partecipazione, Lorenzo Cenni, ricordando come la struttura "funzioni" solo grazie all’interessamento del mondo del volontariato. Pubblichiamo qui di seguito la lettera-denuncia di Cenni: "I recenti tragici fatti di cronaca hanno riportato alla ribalta il problema delle carceri in Italia anche se per i Radicali, occuparsi delle carceri, è una storia vecchia di 30 anni. Nelle patrie galere ci sono, a tutt’oggi, oltre 60 mila detenuti su una capienza prevista di poco più di 40 mila: non sono stati mai così tanti nella storia d’Italia. La maggioranza sono in attesa di giudizio, rendendo più che mai evidente il collasso del sistema giudiziario. La maggioranza sono stranieri e, sempre la maggioranza, sono detenuti per piccoli reati legati al mondo delle droghe leggere, quasi sempre privi di mezzi. Chi può permettersi di pagare validi avvocati riesce a cavarsela, magari riuscendo a far arrivare alla prescrizione il proprio reato, chi non ha soldi inevitabilmente arriva alla sentenza e spesso alla condanna, rendendo palese una immonda amnistia di classe. Di fatto le carceri sono oggi una discarica sociale. Non è migliore la situazione degli agenti di custodia: pesantemente sotto organico, costretti a turni massacranti, mal pagati e con le carriere bloccate da anni ormai. Gorizia non fa eccezione a questa situazione: il carcere di via Barzellini custodisce un 30% in più dei detenuti previsti, gli agenti sono pochi e la struttura è fatiscente. Si tira avanti grazie ai volontari, al senso di responsabilità del personale, del direttore e dei detenuti. Non c’è nessuna attività di recupero del reo, quelle che vengono definite come "attività trattamentali" non si possono fare, non ci sono soldi, personale, mezzi e spazi. Eppure la Costituzione dice che il carcere deve servire al recupero ed al reinserimento sociale di chi ha sbagliato. In queste condizioni, il carcere è solamente criminogeno, diventa una università del crimine dove nessuno può essere recuperato. Pure il Cie di Gradisca d’Isonzo è in condizioni difficili, c’è un internato in sciopero della fame da diverse settimane e la nuova legge sull’immigrazione non può che peggiorare la situazione. Si fa un gran parlare di costruire nuove carceri, non si sa come, dove, con quali fondi, ma per i Radicali non è questa la strada da seguire. Chi ha commesso reati è giusto che venga punito, su questo non c’è dubbio, ma bisogna pensare, per i reati meno gravi, alle pene alternative al carcere per poter alleggerire la situazione: detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali". Ferrara: solo percorso di reinserimento, può salvare i detenuti di Sergio Armanino
La Nuova Ferrara, 4 novembre 2009
Proteste, rivendicazioni sindacali più che legittime della polizia penitenziaria, largamente sotto organico in un carcere di massima sicurezza qual è l’Arginone, sovraffollato di detenuti ogni limite concepibile. Ma anche dibattito aperto sulla possibilità di alleggerire questo sovraffollamento: ad aprirlo è stato don Domenico Bedin, indicando vie alternative alla detenzione che potrebbero togliere dal carcere almeno cento dei 539 "ospiti" attuali. Ovviamente non liberandoli o mandandoli agli arresti domiciliari tout court, ma offrendo loro percorsi riabilitativi e di reinserimento. Un’opportunità che non è offerta soltanto dall’associazione Viale K del parroco della chiesa di Sant’Agostino, ma anche da altri enti ed associazioni che operano nel campo del sociale. Fra queste, fino ad oggi, c’è stato l’Enaip, attivando opportunità dentro e fuori l’Arginone. Il referente di questi progetti è Lorenzo Schiavina.
In che maniera l’Enaip ha promosso progetti di reinserimento per i detenuti? "Utilizzato tutti gli escamotage possibili, ricavabili nelle attività corsuali per attivare tirocini, borse lavoro, attività formative interne ed esterne al carcere. È partito proprio ora dentro al carcere, in partenariato con la cooperativa Il Germoglio, un corso di riciclaggio di apparecchiature elettroniche ed elettriche, un laboratorio che coinvolge 13 detenuti, di cui 6 lavorano per la ditta che fornisce il lavoro".
Come siete riusciti ad attivarlo? "Se non ci fosse stata collaborazione da parte dell’amministrazione penitenziaria (leggi il direttore Francesco Cacciola, ndr), per la gestione di tempi e spazi, non sarebbe mai potuto partire. Poi, c’è stata una grande collaborazione di Hera e dei grossi consorzi che fanno riciclaggio, come Ecodom, che ha dato l’ok a una ditta di Bologna, la Dismeco, che rinuncia a lavorare un migliaio di tonnellate di materiale e le gira alle carceri di Ferrara, Bologna e Forlì: ci hanno creduto anche loro, altrimenti potevano benissimo tenersi la lavorazione".
Si tratta di un’eccezione o sono percorsi che siete riusciti a far partire con una certa continuità? "Negli ultimi 4 anni abbiamo attivato una ventina di tirocini esterni, il più delle volte li facevamo partire come formazione professionale, alla fine del corso eravamo sostenuti dall’amministrazione comunale con la formazione lavoro: 4 ex detenuti hanno proseguito come dipendenti delle aziende che li avevano in tirocinio, gli altri hanno avuto una borsa lavoro dai servizi sociali".
Dunque, le aziende collaborano. "In questi anni abbiamo fatto 15 inserimenti nel polo chimico, alcuni dei quali ancora in atto, fra Liondelbasell (3 in ditte terziste), e Ifm (uno è ancora in tirocinio). Poi c’è anche chi è tornato dentro, chi ha scelto altre strade, compreso il ritorno alla delinquenza, ma questi per fortuna sono casi sporadici. Con il progetto Pegaso, qualche anno addietro, ne abbiamo sistemati 10 in una volta sola".
Come nascono questi percorsi? "Con la collaborazione di tutti. Noi cerchiamo d’inventarci qualcosa, poi ci dev’essere il magistrato di sorveglianza che ci crede, poi il direttore del carcere che individua le persone da far accedere al percorso: se è un lavoro di rete funziona, altrimenti c’è poco da fare. Non ci sono guadagni: o ci si crede o si fa a meno".
Ma funzionano questi percorsi di recupero? "Rispondo con una domanda: esiste un’altra possibilità? Ovviamente no. Nessuno esce dal carcere e trova qualcosa di pronto ad aspettarlo. Spesso il detenuto perde la famiglia, il lavoro, i rapporti sociali. Molti non sono solo inserimenti lavorativi, ma sociali, è tutto collegato. Ci sono molti ragazzi stranieri, molti del sud che devono ricrearsi una vita e con il mondo del lavoro che mette a casa quelli che ha non è facile. Ma questo è l’unico modo per scongiurare la recidiva".
Come viene recepito dalla società tutto questo? "Per cambiare il modo di pensare della gente abbiamo fatto un percorso nelle scuole, in particolare al liceo scientifico, sulla legalità, assieme al direttore del carcere e ai ragazzi (così Schiavina chiama i "suoi" detenuti, ndr). Anche alle elementari abbiamo cercato di passare il messaggio a bambini e insegnanti: non chiudere la porta in faccia alla gente prima di aver sentito cos’ha da dire".
Lei che ci entra, che percezione ha della situazione del carcere, con il sovraffollamento e la penuria di polizia penitenziaria? "Nell’Arginone ci sono il triplo delle persone che dovrebbero esserci. Mettono dentro di tutto, con la questione della garanzia della pena anche se uno ha una condanna di sette giorni la sconta. In teoria tutti potrebbero avere un percorso di reinserimento, è un principio costituzionale, ma se non ci sono uomini, mezzi e strumenti... Se si può fare un corso professionale all’anno con 25 persone, bisogna scegliere".
E con quali criteri? "Chi partecipa alle attività è perché lo chiede, se non gli piace può rinunciare: nessuno può essere obbligato, né noi ci teniamo ad avere persone controvoglia. Dalla scuola alla formazione si viene su richiesta, dopo l’incontro che si fa per spiegare programmi e obiettivi".
Ma a queste condizioni la sicurezza dentro il carcere è garantita? "Quando uno è costretto a stare nei metri quadri in cui dovrebbe stare da solo assieme ad altre due persone... si adatta. Piuttosto c’è da chiedersi su cosa si basa il fatto che è ancora aperto il carcere: i ragazzi (le guardie carcerarie, ndr) sono ancora calmi, vanno oltre i loro compiti, qui c’è il sacrificio, si coprono i turni fra colleghi. E così vengono garantiti i diritti dei detenuti, le loro attività, che tolgono risorse al lavoro ordinario delle guardie".
È una situazione al limite. "Da quello che ho visto, è come tenere un gruppo di ragazzini: che si arrivi al diverbio è normale. Ma una persona di cultura completamente diversa dalla nostra, è diversa anche quando si arrabbia. È un ambiente difficile, con tante culture, con tanti modi diversi di reagire alla frustrazione di stare dentro. Rispetto alle problematiche che ci sono, però, la situazione è ancora molto molto contenuta".
E ora che l’Enaip non c’è più, chi farà il vostro lavoro? "Continueremo in un altro modo, con nuove sigle, con nuove risorse o le vecchie sotto diverse forme: io spero che qualcun altro faccia sua questa idea e la porti avanti, a costo di farlo con nome e cognome e non "nascosto" da un ente".
Come sono i rapporti con le altre realtà che operano con i detenuti? "Si lavora in rete: Viale K, Noi per loro, coop Arti in libertà, tutte le cooperative sociali di Ferrara".
La crisi economica ha ristretto gli spazi per il reinserimento dei detenuti? "Sì, il numero delle aziende che prendono i ragazzi in tirocinio si è sensibilmente ridotto, anche perché a molte aziende manca il lavoro. Anche per questo abbiamo puntato su un punto lavorativo interno". Livorno: scrive su muro della sua cella e il giudice lo condanna
Il Tirreno, 4 novembre 2009
Ha imbrattato i muri della cella del carcere delle Sughere dov’era detenuto, dovrà pagare 300 euro per danneggiamenti. Lo ha stabilito il giudice del tribunale Sandra Lombardi, che ha condannato al pagamento di questa multa Stefano Esposito, che aveva riempito le pareti della sua cella con scritte di vario genere. Esposito è arrivato a giudizio con due accuse: oltre ai danneggiamenti anche la diffamazione, visto che le scritte prendevano di mira la polizia e coloro che l’avevano fatto arrestare (per droga). Ma dai rilievi effettuati dagli uomini della polizia penitenziaria durante la loro ispezione (avvenuta nel febbraio 2007, quando Esposito era in carcere da un paio di mesi), sono saltate fuori anche alcune scritte da stadio. E in questo caso il bersaglio preferito erano i pisani. Il pubblico ministero Antonio Giaconi ha chiesto una multa di 400 euro come pena per questo episodio. Il giudice ha sostanzialmente accolto la tesi del pm: condanna per i danneggiamenti, che emergevano chiaramente dalle foto della cella, assoluzione per la diffamazione visto che le frasi scritte sui muri non erano rivolte a persone ben definite ma solo a soggetti collettivi. Televisione: stasera Casellati e Bernardini, sui morti in carcere
Adnkronos, 4 novembre 2009
Perché si muore in carcere? Dopo gli ultimi episodi di cronaca, dal caso di Stefano Cucchi al suicidio della neo brigatista Diana Blefari Melazzi, stasera a Otto e Mezzo, alle 20.30 su La7, Lilli Gruber ospiterà in studio il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati e Rita Bernardini, deputata Radicale-Pd membro della Commissione giustizia. Interviene, la giornalista de Il Foglio Marina Valensise. All’interno, la rubrica Il punto di Paolo Pagliaro, autore del programma assieme a Gruber. Canada: in carcere manca assistenza psichiatrica e troppi morti
Ansa, 4 novembre 2009
L’ombudsman della prigione federale ha lanciato ieri un allarme sui servizi di igiene mentale nelle carceri canadesi. Nel rapporto annuale rilasciato lunedì, il Correctional Investigator Howard Sapers ha sottolineato le lacune e le gravi mancanze per numero, qualità e standard quando si tratta di detenuti con disturbi mentali. "Criminalizzare e poi trascurare la malattia mentale pesa sul sistema giudiziario e non contribuisce a migliorare la sicurezza pubblica" ha scritto Sapers nel suo rapporto. Il divario tra i detenuti canadesi e quelli stranieri sta diventando sempre più grande e, sempre secondo il Correctional Investigator, sono ancora molti gli ostacoli da superare per aiutare le detenute. Il 10-12 per cento delle persone che vengono arrestate ed entrano nelle prigioni federali sono affette da disturbi mentali rilevanti. E secondo Sapers, la popolazione carceraria aumenterà presto del 10 per cento. Tradotto in numeri, saranno circa 1.300 detenuti in più nei prossimi anni. Nei reparti psichiatrici il servizio carcerario ha solo il 50 per cento di posti letto di cui ha bisogno. Il rapporto si è concentrato anche sui detenuti con tendenze suicide. Sapers quindi chiede più professionisti ed esperti di igiene mentale e più unità di cura. A settembre dell’anno scorso Sapers aveva dichiarato che il rischio di decessi dietro le sbarre rimane ancora inaccettabilmente alto.
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