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Giustizia: fiducia nell’uomo, contro chi semina l’odio e la paura di Mario Cavallaro
Europa, 3 marzo 2009
"I numeri del terrore" e "Il governo della paura": due saggi recenti, che non casualmente anche nei sottotitoli (rispettivamente "Perché non dobbiamo avere paura" e "Guerra alla criminalità e democrazia in America") riecheggiano l’incombere in tutto l’occidente della paura collettiva nella strategia del contrasto, anzi della vera e propria "guerra", come tutti noi la definiamo retoricamente anche per paura di essere presi per conniventi o deboli, alla criminalità ed al terrorismo. La democrazia americana rispetto ai parametri europei è una società ad altissimo tasso di repressione criminale; stando a dati ufficiali del 2007, oltre 2,3 milioni di individui erano detenuti ed oltre 7,2 milioni erano sottoposti a qualche forma di controllo penale carcerario o extracarcerario. Un sistema repressivo severissimo, che ha eseguito negli ultimi trent’anni oltre mille condanne a morte, e nel quale l’appello verso le sentenze di primo grado è un rimedio eventuale, non impedisce fra l’altro che grande sia l’instabilità sociale, che il crimine sia diffusissimo nelle comunità meno favorite e soprattutto che nonostante il progressivo inasprimento della repressione crescano di pari passo la sensazione di insicurezza. La tesi di Jonathan Simon (I numeri del terrore) è sostanzialmente simile all’analisi anche di Loretta Napoleoni e Ronald Bee (Il governo della paura), che occupandosi del fenomeno del terrorismo evidenziano come anche in confronto del grande cancro della società globalizzata contemporanea si sia ricorsi ad una strategia anch’essa eminentemente fondata sulla paura e basata su analoghe ed inefficaci tecniche di repressione, dall’affievolimento della tutela dei diritti alla lunghezza delle detenzioni, alla creazione di corsie speciali di repressione. Ciascuno di noi, anche per l’amplificazione mediatica degli effetti devastanti del crimine, in poche parole si sente vittima indifesa di un prossimo e certo attentato alla propria vita ed incolumità ed è perciò disposto a barattare la crescita di una tranquillità che non è solo sociale, ma anche interiore, con l’affievolimento della certezza dei diritti, con la militarizzazione del contrasto sociale, con la crescita della repressione in termini quantitativi e qualitativi; conta poco che non solo statisticamente questo pericolo sia tutt’altro che grave e prossimo. Non tanto pulsioni ideologiche buoniste, ma dati certi dimostrano che le società con minor tasso di repressione rimangono anche quelle con minor tasso di incidenza del fenomeno criminale. E tuttavia, il nostro paese è fra quelli che più ottusamente e meno efficacemente si dirige verso un modello che ormai gli Stati Uniti, anche qui per merito non di emozioni buoniste, ma per un consapevole progetto socio-politico, stanno abbandonando. La società italiana tocca in questi giorni il non invidiabile nuovo record del numero di detenuti, che supera ormai le sessantamila unità e si dirige spedito verso gli ottantamila; le risposte governative sono addirittura arcaicamente risibili ma in linea con l’aspetto populista del sentimento di paura, basate su una improbabile vigilanza civile che vorrebbe trasformare i cittadini in milizie, dimentica forse della distruzione sociale e politica di democrazie - come quella tedesca di Weimar - che proprio nell’indulgenza a fenomeni di organizzazione paramilitare e violenta, inevitabilmente anche del consenso politico, trovarono la ragione prima della loro dissoluzione nello stato nazista. Una campagna mediatica che si fa fatica a ritenere casuale enfatizza certi crimini, semina come frutto (non voluto?) della spettacolarizzazione l’odio etnico. Scendono nella cronaca da ultime pagine di una rassegnata quotidianità le morti bianche, inefficacia delle politiche repressive nel combattere alcolismo e droga. Non commettiamo l’errore, in materia istituzionale penale, che già commettemmo nell’economia, quando - pur consapevoli delle ingiustizie e degli scricchiolii di un sistema che premiava i furbi ed i disonesti - ancora ci proponevamo blande correzioni, che l’opinione pubblica non percepiva come efficaci, preferendo l’originale degli esaltatori del capitalismo alla brutta copia di chi sembrava volere solo qualche inefficace e fastidiosa regola in più. Riaffermiamo con forza, come ora fa quasi solo un esiguo drappello di cattolici e laici ispirati dalla medesima tensione morale ed accomunati da un pressoché totale disinteresse pubblico, il valore della tutela dei diritti e la centralità della persona, anche nel sistema repressivo. Ritorniamo alla prevenzione, al miglioramento della qualità della vita nei luoghi dove più diffusa è l’inevitabile tentazione del crimine, riprendiamo ad insegnare ai giovani a veder volare le rondini e non a veder marciare le ronde, impegniamoci nella tutela reale delle vittime dei delitti, ancoriamo le nostre proposte alla necessità che nello sperimentare la giusta severità della repressione a chiunque venga data anche l’occasione di redimersi. In una parola diffondiamo un modello di società che crede nell’uomo e ne ha fiducia e non lo costringe, con la semina dell’odio e della paura, a rinchiudersi nel buio solitario del salotto a contemplare l’universo virtuale della televisione di regime. Giustizia: per le "ronde" i fondi delle Regioni sulla formazione di Marco Ludovico
Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2009
Le Regioni entrano in campo sulle ronde. Perché il Viminale sta pensando di delegare a loro la formazione degli prossimo volontari della sicurezza. "Ci sono già esperienze molto positive, come l’Iref in Lombardia (la scuola per la formazione e la specializzazione dei dirigenti e del personale della pubblica amministrazione regionale e locale, ndr). Intendiamo sfruttare queste opportunità" spiega al Sole 24 Ore il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano. "Ci consulteremo con le Regioni vista la loro titolarità in materia di formazione - aggiunge il sottosegretario -. Uno dei punti essenziali del decreto attuativo sarà quello di svolgere corsi di preparazione per chi parteciperà alla vigilanza volontaria: è evidente la necessità di un passaggio di questo genere". Ma c’è un altro aspetto che ha lasciato all’inizio in grande tensione i tecnici del Viminale per il quale ora sembra intravedersi una soluzione: la verifica dei requisiti di onorabilità di chi deciderà di pattugliare le strade in nome della sicurezza pubblica. "Applicheremo i criteri già adottati per coloro che fanno parte delle associazioni anti-racket riconosciute dalla legge - spiega il sottosegretario - comprese alcune norme ancora più stringenti introdotte di recente per coloro che chiedono indennizzi perché si considerano vittime della criminalità organizzata". Le garanzie sui volontari da autorizzare, insomma, non si esauriscono con la decisione di scegliere "prioritariamente" chi fa parte di associazioni di ex appartenenti alle forze di polizia e militari. Del resto, non è affatto escluso che anche lì si annidi qualche facinoroso. Al Viminale si immagina di avviare presto una sperimentazione -. Roma sarà una delle principali città coinvolte - e il provvedimento di attuazione della legge è già da giorni allo studio dei tecnici. L’intenzione è di poterlo varare "all’indomani della conversione in Parlamento del decreto legge" aggiunge Mantovano. Un ulteriore profilo da chiarire - ci lavora, in particolare, il Dipartimento di Pubblica sicurezza - è il raccordo tra attività dei volontari e forze di polizia. Per evitare, tra l’altro, imbarazzanti se non pericolose aberrazioni, come le ronde anti-ronde o le scorte alle ronde (è già accaduto). Proprio ieri il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha lanciato "un appello a tutti i sindaci d’Italia e alle associazioni perché non svolgano alcun servizio definito più o meno di ronde, finché non verrà licenziato il regolamento". Con più distacco, il titolare del Viminale, Roberto Maroni, parla di un "sistema sicurezza partecipato" e sostiene: "Molte polemiche mi sembra che nascano più da pregiudizi o dall’ancoraggio a schemi superati". Achille Vairati, sindaco Pd di Vicenza, si dice contrario "alle ronde spontanee e a quelle di partito" ma favorevole "ai volontari per Vicenza: ex appartenenti alle forze dell’ordine formati per aiutare i cittadini a non abbandonare parti di città". Mentre il generale Mario Mori, responsabile dell’ufficio extra-dipartimentale sicurezza urbana del Comune di Roma, sottolinea: "Noi non abbiamo mai parlato di ronde. Abbiamo detto che avremmo fatto dei servizi nei parchi e nei giardini della città, dalle io alle 16,30 con personale volontario, munito di telefonino che doveva solo segnalare fatti che avessero rilevanza". Ma per Marco Miositi, responsabile sicurezza del Pd "Il principio delle ronde mette in scacco un fondamento della nostra democrazia: l’ordine pubblico e la repressione del crimine sono funzioni primarie dello Stato e non possono essere lasciati al protagonismo di singoli senza alcuna preparazione. Si rischiano pericolose derive". Giustizia: la regola del garantismo, sebbene che siano romeni! di Riccardo Barenghi
La Stampa, 3 marzo 2009
Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli - e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro - la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario. Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante. Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più "segnalati" dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista. E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase "quello ha la faccia da romeno" (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, "Faccia da turco"?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti - noi che facciamo informazione - a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale. Giustizia: stupro della Caffarella; il Dna non è dei due romeni di Fiorenza Sarzanini
Corriere della Sera, 3 marzo 2009
Il Dna non corrisponde. I test comparativi tra i reperti biologici trovati addosso alla vittima e i profili genetici di Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, i due romeni arrestati per lo stupro avvenuto nel parco della Caffarella a Roma, danno esito negativo. La polizia scientifica effettuerà ulteriori verifiche, ma l’esito appare ormai scontato. Tutto da rifare, dunque. L’indagine per individuare gli uomini che la sera di San Valentino violentarono una ragazzina di 15 anni e picchiarono il suo fidanzato di 16, deve ripartire. Nuovi accertamenti anche per l’altra violenza, quella avvenuta il 21 gennaio a Primavalle. Resta in piedi l’accusa contro Racz, ma la signora di 41 anni bloccata alla fermata dell’autobus da due uomini avrebbe avuto incertezze al momento del riconoscimento e dunque sarà necessario effettuare altri riscontri per capire che cosa avvenne quella sera. Non mostra invece ripensamenti, pure di fronte alle ultime novità, la quindicenne: "Io li ho riconosciuti e non ho dubbi. Per me sono loro", ha ripetuto ai familiari. Nei prossimi giorni il Tribunale del Riesame si dovrà pronunciare sull’istanza di libertà presentata dai due indagati per la brutale aggressione della Caffarella. Ma non è escluso che lo stesso pubblico ministero sia costretto a chiederne la remissione in libertà, di fronte alla relazione conclusiva degli esperti scientifici. Anche perché ci sono numerose incongruenze nella ricostruzione della vicenda, soprattutto per quanto riguarda l’incrocio degli elementi a carico degli stranieri. Lo stesso magistrato potrebbe disporre accertamenti anche sul Dna del fidanzato al fine di escludere eventuali contaminazioni. È vero che Loyos ha inizialmente confessato e accusato il suo amico. Ma quando è stato portato davanti al giudice, assistito dall’avvocato Giancarlo Di Rosa, ha ritrattato accusando la polizia di averlo costretto a parlare. Racz ha invece negato sin dall’inizio di aver partecipato allo stupro sostenendo che il giorno di San Valentino è stato sempre nell’accampamento dove vive. "Ho persone che possono testimoniare", ha detto. Effettivamente gli altri nomadi hanno confermato la sua versione, ma non è questo ad alimentare dubbi sul suo coinvolgimento. Sono soprattutto le testimonianze dei due ragazzi, così come riportate nell’ordinanza di custodia cautelare, ad avvalorare l’ipotesi che ci sia stato uno scambio di persona. La giovane vittima ha riferito frasi pronunciate in italiano dai due violentatori, ma Racz non conoscerebbe affatto la nostra lingua. "Anche con me - conferma il suo avvocato Lorenzo La Marca - comunica attraverso l’interprete". L’altro elemento riguarda i riconoscimenti fotografici. Quando sono stati portati in questura i due fidanzati hanno visionato dodici immagini e la ragazzina ha effettivamente indicato quella di Loyos. Entrambi hanno poi identificato quella di Racz, ma in precedenza lei aveva riconosciuto un altro romeno risultato invece estraneo alla vicenda. Del resto la prima descrizione dell’aggressore fatta dalla giovane disegnava il volto di "un uomo con i capelli lunghi e il naso schiacciato", ma nessuno dei due romeni arrestati corrisponde a questo identikit. Entrambi erano stati ripresi in un video girato dalla polizia nell’accampamento durante un controllo effettuato nei giorni precedenti e sono uguali al momento del fermo. Dubbi forti ci sono anche sulle indagini che riguardano la violenza di Primavalle. Le tracce biologiche rilevate sulla vittima non consentirebbero di effettuare esami comparativi sul Dna. E così il magistrato ha preso tempo prima di chiedere un’ordinanza d’arresto.
La polizia: abbiamo il video del biondo che confessa
Le "impronte genetiche" dei violentatori c’erano, e si sapeva che prima o poi sarebbero state confrontate con quelle di qualunque indagato. Dunque che senso avrebbe avuto indurre qualche innocente a confessare, nella consapevolezza che presto o tardi sarebbe arrivata la sconfessione del Dna? Domanda logica, alla quale non c’è una risposta logica. Ma questo non risolve il problema di due arrestati per lo "stupro della Caffarella" sulla base di elementi che sembravano granitici e invece non reggono ai riscontri scientifici. Problema serio e un po’ imbarazzante per gli investigatori della questura di Roma. Dopo la soddisfazione della cattura a tempo di record, ecco la doccia fredda della "prova regina" che smonta il lavoro fatto fin qui. Di fronte alla quale tutti alzano le braccia, dal questore in giù. Se gli ulteriori esami di laboratorio confermeranno che i Dna dei due aggressori non corrispondono a quelli dei due romeni, Alexandru "il biondino" e Karol "faccia da pugile", bisognerà raddoppiare gli sforzi: per trovare i veri violentatori e per svelare il mistero del riconoscimento e (soprattutto) della confessione del "biondino", che ha chiamato in causa l’altro. La successiva ritrattazione di Alexandru, accompagnata dalla denuncia di "violenze e pressioni psicologiche" subite negli uffici di polizia per "estorcergli" le ammissioni, continua a non convincere gli investigatori. Non solo perché - ovviamente - alla squadra mobile negano qualunque percossa o minaccia al romeno, che comunque non avrebbe avuto senso col test del Dna in agguato. Ma anche perché la confessione del "biondino" (resa in presenza del pubblico ministero e dell’avvocato d’ufficio, il quale poi ha rinunciato per essere sostituito da un altro di fiducia) viene definita convincente, "tranquilla " e ricca di particolari. A testimoniare la genuinità del racconto - dicono i poliziotti e il magistrato - c’è una videoregistrazione, dove il giovane appare senza segni di violenza e senza remore nell’ammettere la rapina degenerata in stupro. Ha fornito dettagli difficili da inventare, come i pantaloni che gli si sono strappati (e un paio ne è stato trovato nella sua baracca), la marca di sigarette che fuma (la stessa dei mozziconi sul luogo dell’aggressione), i venti euro che aveva addosso (somma identica a quella sottratta al fidanzato della ragazzina) e altro ancora. Certo, Alexandru ha riferito di essere stato indottrinato ben bene, soprattutto dai poliziotti romeni che si trovavano in questura la notte della confessione. Ma su questo punto la polizia nega. Spiegando, ad esempio, che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di mettere in mezzo il complice (presunto) Karol, di cui in archivio c’erano le foto, ma che le vittime non avevano riconosciuto. Alexandru invece sì. E certo ha pesato - e pesa - che l’adolescente violentata abbia indicato "senza ombra di dubbio, fortemente provata e in lacrime", la faccia del "biondino" tra dodici foto segnaletiche. L’indagine è partita da lì, e la somma degli elementi successivi (compreso il fatto che Karol è fuggito da Roma il giorno dopo la violenza, come confermato dai nomadi presso i quali s’era rifugiato) ha portato agli arresti che nessuno in questura sconfessa. Perché si dovevano fare, insistono. Magari con minore enfasi, in attesa che si concludessero tutti gli accertamenti, che però è stata pure la conseguenza del clamore, delle polemiche e degli allarmanti raid punitivi scatenati dallo "stupro della Caffarella". Ora si pensa a una denuncia contro Alexandru per favoreggiamento, calunnia e autocalunnia. Nel tentativo di venire a capo della confessione ritrattata e del mistero di un "caso chiuso" che s’è improvvisamente riaperto. Giustizia: in Italia 350 vittime l’anno di "riduzione in schiavitù"
Redattore Sociale - Dire, 3 marzo 2009
Rapporto Unodc: in testa alla classifica mondiale America del Nord, Europa e Australia. Nel nostro paese, romeni protagonisti del mercato degli schiavi. "Ma i dati sono indicativi, il business potrebbe essere molto più ampio". New York - Il traffico di esseri umani è una realtà in Italia e nel resto d’Europa, ma ancora non si conosce l’ampiezza del fenomeno e quindi non lo si può contrastare efficacemente. È questo il bilancio che emerge dal primo rapporto globale sulla tratta degli esseri umani, pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, Unodc, sulle risposte di155 Paesi e territori. Secondo la mappa globale, la tratta degli schiavi sarebbe una realtà consolidata nel mondo occidentale e nei Paesi più ricchi. Alla testa della classifica si piazzano America del Nord, Europa e Australia, con almeno 10 condanne l’anno per i trafficanti di schiavi. Il 66% delle vittime, a livello globale, sono donne, rivendute sulle strade del sesso a pagamento. In Italia e in Europa, spesso sono i romeni i protagonisti del mercato degli schiavi, sia come carnefici sia come vittime, secondo quanto si evince dal rapporto. Nella Penisola, il crimine specifico di traffico di esseri umani è stato introdotto nel 2003 (art. 601 del codice di procedura penale). Prima, esistevano solo l’articolo 600 del Codice penale, che punisce la "riduzione in schiavitù" e l’art. 602 sulla "tratta degli schiavi". Secondo la Direzione nazionale antimafia, circa mille persone sono state processate per aver violato l’articolo 601, tra il 2003 e il 2007. Di queste, la maggioranza sono romeni (217 persone), seguono gli italiani (203), gli albanesi (176) e i nigeriani (144). Nello stesso periodo, oltre 2 mila persone sono comparse davanti ai giudici per "riduzione in schiavitù". Ma siccome non esiste un archivio unico e bisogna incrociare i dati, non è possibile capire se le rilevazioni si sovrappongano. Anche la maggior parte delle vittime del traffico nel nostro Paese sono romene (oltre 200), seguono quelle italiane, con una cifra molto inferiore (53). Ogni anno, circa 300 adulti e 50 bambini sono stati identificati come vittime della "schiavitù". I risultati dell’attività investigativa italiana risultano particolarmente bassi, se comparati con altri membri dell’Ue. In un altro Paese frontiera, come la Spagna, gli arresti per tratta di esseri umani sono stati 1.200 l’anno dal 2003 in poi. Nel solo biennio, 2005-2006, sono state identificate circa 4 mila vittime, di cui, ancora una volta, la stragrande maggioranza, oltre 1.500, sono romeni. Seguono i brasiliani, circa un migliaio. Dal 60 all’80% del business degli schiavi è rivolto allo sfruttamento sessuale. In Francia esiste un Ufficio centrale per la repressione della tratta di esseri umani (Ocrteh), che, tra il 2005 e il 2006, ha identificato 2.400 vittime, soprattutto donne costrette a prostituirsi, di cui 1.800 sono francesi. In Germania il crimine specifico esiste dal 1973. Tra il 2005 e il 2007, la polizia tedesca ha identificato oltre 2 mila vittime, di cui la maggioranza tedeschi. Anche qui, i secondi per numero sono i romeni. Si tratta di dati indicativi, ma da prendere con le pinze, per la stessa ammissione dei curatori del rapporto, che sottolineano: "Paesi con un sistema giudiziario molto attento possono avere una mole di attività di contrasto anche quando il traffico di esseri umani è abbastanza raro. E viceversa: ci possono essere Stati meno capaci ma con un problema più ampio". È probabilmente il caso dell’Africa sub-sahariana e del Maghreb, dove in molte nazioni il fenomeno risulta inesistente nelle statistiche ufficiali dei sistemi giudiziari. Giustizia: dramma bambini romeni, da violentati a violentatori di Luigi Manconi
www.innocentievasioni.net, 3 marzo 2009
La parlamentare radicale Elisabetta Zamparutti segue da tempo la vicenda di Gratian Gruia, quattro anni non ancora compiuti. Il bambino venne trovato due anni fa in una situazione terribile dalla squadra mobile di Roma: abbandonato dalla madre, era costretto dalla nonna a mendicare. A seguito della perdita della potestà genitoriale da parte del padre e della madre, Gratian veniva accolto in una casa famiglia di Roma. Qui lo raggiunse una richiesta di riconsegna da parte del Governo Romeno e il Tribunale dei minori di Roma decideva il rimpatrio di Gratian, nonostante il parere negativo del Pm e dei consulenti. E così Gratian, dopo esser stato affidato a un’assistente sociale romena, venne poi assegnato, dal tribunale locale, a familiari del clan Gruia. L’intera storia può essere letta sul sito www.innocentievasioni.net. Non è certo un caso isolato. La Romania, sta adottando una politica di "recupero dei minori non accompagnati" a cui il Governo italiano si è reso disponibile firmando un accordo di cooperazione. Si noti che le circa tremila richieste di rimpatrio, riguardano esclusivamente bambini in età pre-scolare: e questo rende ancora più inquietanti i timori sul loro destino. Ma c’è un ulteriore considerazione da fare. Al di là delle deformazioni mediatiche e delle campagne di manipolazione degli allarmi sociali, è in dubbio che esista una qualche correlazione tra romeni in condizioni di marginalità sociale e atti di violenza sessuale. Le interpretazioni sono tante e le cause, probabilmente, assai fitte e inestricabili. Ma un’ipotesi va fatta, senza attribuirle alcuna pretesa di lettura generale e, tanto meno esaustiva. La storia e la cronaca della Romania presentano uno scenario drammatico dove è strettissimo l’intreccio tra infanzia/adolescenza e condizioni diffuse di maltrattamenti, abusi, violenze sessuali, in ambito familiare e non. Nella storia della Romania post-comunista la tragedia dei bambini abbandonati è stata documentata mille volte. Ma si tratta di situazioni che, probabilmente, affondano le radici in epoche assai precedenti. Fino a configurare una sorta di modello latente di rapporto con l’infanzia/adolescenza dove la pratica dell’abuso e della sopraffazione costituisce un tratto significativo. Se tali comportamenti, ispirati alla violenza e alla violenza sessuale, hanno nutrito il senso comune di successive generazioni, o comunque di parti di esse, come stupirsi se si hanno le conseguenze attuali: bambini cresciuti all’interno di simili modelli culturali, e vittime di quegli stessi modelli, perché mai - una volta diventati adulti - non dovrebbero trasformarsi in predatori? Giustizia: sì a una Commissione d'indagine sulle intercettazioni di Piero Laporta
Italia Oggi, 3 marzo 2009
Mesi addietro, partecipando a "Otto e mezzo" su La7, a proposito di intercettazioni ai funzionari del Sismi, oltre ai costi eccessivi additai l’impropria presenza di oltre cento ditte private e l’impossibilità di sapere chi fosse dietro queste ditte. Partecipava anche Antonio Di Pietro. Si inviperì. Tentò di tacitarmi; la dura realtà delle cifre tacitò lui. Andò via che era livido. Benché il personaggio sia noto per le sue intemperanze, la scena mi rimase impressa perché tradiva una sofferenza singolare, come quella che affiora oggi nei toni con cui Di Pietro annuncia una interrogazione per fare "chiarezza su quanto dichiarato", dal solito Gioacchino Genchi. A un magistrato? No, al sito di Beppe Grillo. E basterebbe questo per dire della serietà della cosa. Le epifanie di Genchi concernono nuove verità su Capaci e allusioni a vari personaggi, fra cui Claudio Martelli e Francesco Rutelli. Se Di Pietro cerca la verità allora farà bene a sostenere la proposta dell’On. Renato Farina di istituire una commissione parlamentare di inchiesta sulle schedature illegali. In quella sede Genchi potrà annunciare tutte le verità di cui è, a quanto pare, esclusivo depositario da 17 anni. Nel frattempo tuttavia, per il rispetto che dobbiamo tutti alla sovranità costituzionale del Parlamento e dei suoi organismi, è opportuno che il capo della polizia, il dottor Antonio Manganelli, induca questo suo funzionario, se suo è ancora, a scusarsi per i toni oltraggiosi verso il Copasir, sebbene sia comprensibile il suo nervosismo. Quanti e quali funzionari dell’Interno, della Difesa e dell’Economia assumono incarichi esterni di consulenza? Quanti, in aspettativa, utilizzano risorse dell’amministrazione? Ha chiesto l’On. Farina nella sua interrogazione. Chi al Viminale doveva vigilare su Genchi? Perché l’Agenzia delle Entrate non recupera all’erario i proventi delle consulenze non autorizzate di Genchi? Farina non risparmia neppure Renato Brunetta, al quale chiede se i suoi funzionari sapessero dell’andazzo di consulenze e aspettative. Farina osserva pure che la magistratura dispone di Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di finanza (300mila uomini!). Le intercettazioni sono nella competenza di strutture eccellenti come Polizia postale, Ros e Gat. Disponibili sono pure i servizi segreti, che invece di essere utilizzati al meglio, osserva Farina sono spiati "compromettendo la sicurezza nazionale". Siamo il paese con più polizia al mondo. Il Parlamento, dedicando risorse finanziarie ingenti, istituisce polizie e agenzie specializzate, il cui impiego è eluso a favore di soggetti come Genchi. "Un organo sovrano, come il Parlamento, non può accettare che si affermino procedure e modus operandi, sotto il mantello dell’autonomia della magistratura" conclude Farina che non esita ad additare una "normalità eversiva" e, aggiungiamo, dispendiosa. Un’inchiesta parlamentare vasta e profonda è quindi assolutamente urgente, se non altro perché è impensabile che una serie inquietante di fatti, nel cui sfondo vi sono dei magistrati, debba essere indagata con la consueta autoreferenzialità dagli stessi magistrati. Se taluno dirà che è un oltraggio alla magistratura, ben prima e più grave è stato l’oltraggio al Parlamento ed è tuttora in corso, come abbiamo visto. Ma nell’attesa bisogna provvedere e prevedere ben al di là di quanto c’è nel ddl Alfano. Giustizia: il ddl Alfano sulle intercettazioni, nasconde le verità di Giorgio Santelli
Articolo 21, 3 marzo 2009
Qualcosa si muove. Dopo mesi di grande difficoltà in cui la sensazione insopportabile era che cronisti e Magistrati avessero deciso di fare una battaglia "di casta" contro la legge Alfano per le intercettazioni, c’è finalmente un’inversione di tendenza da parte dell’opinione pubblica. Comincia ad essere chiaro che la posizione di magistrati e cronisti non è a difesa della categoria ma a difesa di una giustizia giusta e del diritto dei cittadini ad essere informati. Una campagna lunghissima che, di fatto, senza soluzione di continuità ha preso il via dalla legge Mastella fino a giungere al disegno di legge Alfano. Oggi alla sala Tobagi della Fnsi ha presentato l’instant book "Ddl Alfano, se lo conosci lo eviti". Una serie di interventi ben argomentati di giuristi, magistrati, avvocati investigatori e giornalisti che finalmente spiegano la dannosità e l’inutilità di questa legge. "Non è un de profundis sulla professione ma un meccanismo di intervento nel dibattito in atto. E fa piacere - afferma il Presidente dell’Unione Cronisti Guido Columba - avere la certezza che la Corte Costituzionale resta il baluardo di difesa dei principi costituzionali. Giovanni Maria Flick lascia la presidenza affermando che è la Costituzione che vieta forme di censura alla stampa. Lo sostituisce Francesco Amirante che afferma che una stampa libera è un elemento di garanzia della democrazia". Per il prof. Enzo Cheli con la legge 1415 (Alfano) entrano in gioco tre interessi costituzionali di livello primario: la corretta amministrazione della Giustizia, l’interesse alla difesa della dignità della privacy della persona e il diritto all’informazione e alla libertà d’espressione. La Corte Costituzionale ha sempre sottolineato l’inviolabilità del diritto all’informazione, anche con interventi particolari sul diritto penale. Con Grosso Cheli diede una valutazione pro-veritate alla Federazione degli editori nell’autunno scorso. "Ci sono due norme che non possono superare il vaglio costituzionale. - afferma Cheli - In sede di cronaca giudiziaria non si può nemmeno richiamare i contenuti dell’istruttoria (si sottrae al controllo dell’opinione pubblica la conoscenza del processo); l’altro, che investe gli editori, è l’art 14 dove si stabilisce una sanzione pecuniaria a carico dell’impresa che permette pubblicazione di notizie". Ciò che provoca è semplice. Il potere di controllo ricade sulla proprietà che, per evitare altissime sanzioni, potrebbe decidere la censura. Ciò è incompatibile con la legge sulla stampa e su i diversi poteri dell’editore e della direzione responsabile, l’autonomia dei giornalisti. L’Alfano, inoltre, non rispetta alcuni vincoli internazionali come la Convenzione di Ginevra. Per Giovanni Salvi, sostituto procuratore alla Corte di Cassazione, va affermato con chiarezza che questa discussione non è cosa che interessa magistrati e giornalisti. Il tema è l’informazione. Nell’indulto fu l’Anm a rappresentare preoccupazioni per le conseguenze di quella legge. Ma quando i carceri cominciarono a svuotarsi, quando la certezza della pena non fu più chiara, le responsabilità non furono della politica che fece quella scelta, ma della Magistratura. Giuste o sbagliate che siano le leggi, il discredito sulla mancanza di certezza della pena ricade sulla magistratura. "Non vorrei che la fine dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche con tutte le conseguenze del caso ricadessero anche questa volta come responsabilità di Magistratura e investigatori. Deve essere chiaro - afferma Salvi - chi fa questa scelta e chi ne risponderà di fronte all’opinione pubblica delle conseguenze che la legge provocherà". Perché di conseguenze ce ne saranno. Si vuole rendere impossibile l’uso delle intercettazioni ma nessuno se ne vuole assumere le responsabilità. E quando alcuni crimini potranno essere perseguiti con maggiore difficoltà, alcune indagini non si potranno fare al meglio, a quel punto il rischio è che la "colpa" sarà data ancora una volta non a chi ha votato e pensato quella legge, ma a magistrati e investigatori che saranno costretti ad applicarla. Infine Salvi afferma: "Si può dire no alle intercettazioni ma non si può dire che l’informazione non si fa. Incidere in materia surrettizia sul diritto di informazione senza assumersene le responsabilità è sbagliato". Per Roberto Natale, Presidente della Fnsi, non è vicenda che riguarda rapporto tra politica e magistratura, un match che si sta disputando da anni. Da settimane si comincia a capire che c’è un diritto di cronaca messo in discussione. Non stiamo rivendicando il diritto di devastare la vita privata delle persone. Né vogliamo spiare dal buco della serratura e mettere tutto in piazza. Non è di questo che ci lamentiamo. Se abbiamo potuto insistere in questi mesi cominciando a creare qualche varco nella posizione di chi sostiene questo disegno di legge, lo abbiamo fatto perché non del diritto di una categoria stiamo parlando ma di un diritto molto più generale. La posizione è forte perché non ha nulla di corporativo, presenta il nostro diritto e dovere dei cronisti affiancandolo al diritto dei cittadini a conoscere ed essere informati. Non parliamo di vite private ma del crack Parmalat, vicende come quelle della clinica Santa Rita di Milano, scalate all’editoria, vicende Banca d’Italia. Per il presidente della Fnsi, inoltre, non è vero che tutto ciò che non è reato non è notizia. È una semplificazione un po’ grossolana per la definizione di notizia. Il modo in cui viene amministrato il servizio pubblico può essere irrilevante da parte del reato ma rilevante perché si tratta di personaggio pubblico che gestisce un’azienda pubblica per conto degli italiani. Si vuole allargare in modo eccessivo la sfera privata degli individui nascondendo elementi essenziali per conoscere personaggi pubblici. A intervenire anche l’avvocato Laura Malavenda non si può trattare sulla libertà. Se c’è un diritto va tutelato fino a quando non si scontra con un altro diritto. La libertà di informazione non può essere limitata. Le cose si potranno raccontare ugualmente, andando a intervistare le persone coinvolte, come si faceva prima del 1989. "Ma perché dovremmo fare come prima del 1989? - afferma l’Avvocato - Si pretende che il giornalista non pubblichi atti che non sono segreti. Li può leggere, dare ad amici ma non li può pubblicare. Stabiliamo da quando un giornalista può conoscere gli atti, stabiliamo quali atti sono utili alle indagini, quali possono essere pubblicati. Ma a quel punto possono essere utilizzate. Per Laura Malavenda la cosa forse più assurda è che "Le regole ci sono già, anche quelle dell’autocontrollo. Basta applicarle. Ma la categoria dei giornalisti deve impuntarsi su pochi e chiari concetti. Sono concetti ovvi e logici, nessun parlamento può non considerarli. Se il parlamento prosegue su una strada sbagliata si va alla Corte Costituzionale". L’impegno dunque c’è, il coinvolgimento dell’opinione pubblica si comincia a far sentire e la politica sembra aprire le porte ad eventuali modifiche della Legge Alfano. E questo, come ha ricordato il Presidente dell’Ordine Lorenzo Del Boca, nonostante alcuni pareri di distinguo anche di alcuni colleghi, come Piero Sansonetti e Pierluigi Battista. Straordinariamente anomale quest’ultima posizione con Battista che accusa i giornalisti di essere artefici della macchina dello sputtanamento pubblico. Per inciso: lui, vicedirettore di uno dei principali quotidiani italiani, cosa fa e cosa ha fatto per guidare la sua redazione al miglior esercizio della professione? È la secca risposta di Del Boca. Le conclusioni sono state affidate al segretario della Fnsi Franco Siddi. "La difesa è su alcuni principi costituzionali. Ed è una battaglia che dobbiamo portare avanti. Non sono principi di centrodestra o centrosinistra, anche perché i diversi governi, in un modo o nell’altro, hanno tentato di mettere un bavaglio. Se le cose andranno davvero male dovremo lavorare sulla disobbedienza civile, invocando il segreto sulle fonti e poi, la sede ultima, la via giudiziaria in sede europea". Giustizia: Unabomber; il Gip accoglie richiesta di archiviazione
La Stampa, 3 marzo 2009
Il Gip della Procura di Trieste Enzo Truncellito ha accolto la richiesta di archiviazione della posizione di Elvo Zornitta, l’unico indagato nell’inchiesta Unabomber, così come richiesto il 30 dicembre scorso dal pm Federico Frezza a causa della mancanza di sufficienti prove a carico dell’ingegnere di Azzano Decimo. Si chiude così, con una sconfitta per la giustizia, la ricerca del folle bombarolo che da almeno 14 anni terrorizza il Nordest, disseminando le sue trappole esplosive. Su Unabomber hanno indagato quattro Procure, decine di investigatori, una ventina di magistrati. La prima esplosione risale al 21 agosto 1994, alla Sagra degli Osei, a Sacile (Pordenone). Gli attentati sono proseguiti per un paio d’anni con la stessa tecnica (un tubo metallico esplosivo), poi hanno subito uno ‘stop’ di circa quattro anni, dal 1996 al 2000, quando il bombarolo è passato a una confezione di uova, prima, un tubetto di pomodoro, poi, e uno di maionese acquistati in un supermercato di Portogruaro (Venezia), fino a un cero votivo nel cimitero di Motta di Livenza (Treviso). A Natale 2003 un ordigno è scoppiato nel Duomo di Cordenons (Pordenone). È a questo punto che viene costituito un nucleo specializzato di investigatori, il ‘pool’ interforze, che comincia a controllare centinaia di persone, cui segue un’intesa tra le Procure generali di Venezia e Trieste, che riuniscono i vari fascicoli d’indagine sparsi nel Nordest sotto l’ipotesi dell’aggravante terroristica, e le mettono in capo alle Procure distrettuali di Venezia e Trieste. In questo periodo Elvo Zornitta, ingegnere di Azzano Decimo (Pordenone), sposato, una figlia, viene indagato per gli attentati. Da allora si susseguono altri episodi, tra cui lo scoppio in uno sciacquone di un bagno del Palazzo di Giustizia di Pordenone, l’esplosione di un evidenziatore giallo nelle mani di una bimba di nove anni sul greto del Piave e un accendino inesploso, avvolto in nastro adesivo nero, il 2 aprile 2004 dentro un inginocchiatoio nella chiesa di Sant’Agnese, a Portogruaro (Venezia). È proprio per questo episodio - che non è l’ultimo della serie - che nell’agosto 2006 il nome di Elvo Zornitta diventa pubblico. La Procura di Trieste chiede un incidente probatorio per acquisire al fascicolo la prova (le microstrie di un paio di forbici su un lamierino trovato in un ordigno inesploso) contro Zornitta, ma l’incidente (dal 10 ottobre 2006 al 19 febbraio 2007 davanti al Gip Enzo Truncellito), ribalta le accuse per la scoperta di una presunta modifica nel lamierino, avvenuta successivamente al suo sequestro. Il perito balistico del Lic, Ezio Zernar, viene così messo sotto indagine dalla Procura di Venezia, il ‘pool’ interforze viene sciolto, il pm triestino Federico Frezza chiede l’archiviazione del fascicolo contro Zornitta e passa la parola al Gip Truncellito che oggi ha decretato l’archiviazione del procedimento per Zornitta per il quale oggi è la fine di un incubo. Giustizia: disastro-carceri; i detenuti crescono, e i fondi calano!
Secolo XIX, 3 marzo 2009
Le carceri italiane sono tornate ad ospitare oltre 60 mila detenuti, quanti se ne contarono nel giugno 2006, alla vigilia dell’indulto. L’Italia raggiunge il 139% di indice di affollamento, il più alto d’Europa. L’Emilia Romagna comanda la graduatoria delle regioni con un indice pari al 189% e il triste primato di 600 aggressioni al personale penitenziario registrate negli ultimi mesi. E mancano i soldi. Gli stanziamenti per il 2009 decisi dal Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) sono stati drasticamente ridotti. Daniela Verrina, Magistrato di Sorveglianza di Genova, relatrice al convegno dell’Associazione Idee in libertà, su "Efficacia riabilitativa della pena e razionalizzazione dei costi di detenzione", ha snocciolato altri numeri da far accapponare la pelle. Nel carcere genovese di Marassi sono stipati 700 detenuti, la capienza ufficiale è di 456 posti, la capienza tollerata di 581. In compenso gli stanziamenti per le traduzioni dei detenuti sono stati tagliati del 70% e del 50% i fondi per le mercedi ai detenuti che svolgono un lavoro. Il Guardasigilli Alfano ne parlerà a Genova il 20 marzo. Roberto Cassinelli, deputato del Pdl, ha ricordato che l’emergenza carceraria ha indotto a conferire poteri straordinari al responsabile del Dap, Franco Ionta, ex pm alla procura di Roma. Ancora un dato illuminante: sono 16 mila i detenuti in attesa di giudizio, oltre un quarto del totale. In un anno 170 mila persone entrano ed escono dalle nostre carceri. Un turnover forsennato. Servono nuove carceri, allora? Maurizio Raso ha richiamato il modello inglese, carceri costruite con l’intervento di capitali privati, sistema citato pure dall’economista Luca Gandullia. L’avvocato Alessandro Vaccaro si è intrattenuto sul 41 bis (il carcere duro per mafiosi e terroristi), sotto revisione in senso peggiorativo. Giuseppe Comparone, direttore del carcere di Genova Pontedecimo, si è soffermato sulle difficoltà provocate dai tagli di bilancio al lavoro in carcere. L’architetto Paolo Falabrino ha stimato che costruire un carcere costa il 450% in più che ristrutturare una struttura esistente. Giustizia: lavoro a rischio per gli operatori sanitari penitenziari?
Comunicato Amapi, 3 marzo 2009
I medici e su infermieri penitenziari dopo tanti rischi e sacrifici rischiano di perdere il posto di lavoro. Pur essendo inseriti in un ruolo assolutamente precario, privo di qualsiasi tutela assicurativa e previdenziale, gli Operatori Sanitari Penitenziari hanno saputo assicurare con grande spirito di sacrificio e con grande serietà professionale il diritto alla salute per la popolazione detenuta. Tutto questo in tempi terribilmente difficili quando i numeri della popolazione detenuta superavano oltre ogni limite le soglie di tolleranza in un contesto dove le risorse economiche venivano ridimensionate in modo preoccupante ogni anno. Ora rischiano di essere messi alla porta privando la Sanità in carcere di un immenso patrimonio di competenze e di esperienze acquisite sempre in prima linea. Per la Sanità in carcere non sarà facile cominciare tutto da capo e si prevedono delle ripercussioni assolutamente negative. La continuità assistenziale è un criterio, un valore cardine,intorno a cui si realizza e si estrinseca il significato riformatore del passaggio della Medicina Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Continuità assistenziale significa assicurare uno schema organizzativo di operatività medica ed infermieristica adeguata alle esigenze di salute del singolo paziente. Continuità assistenziale significa soprattutto l’insieme dei servizi assistenziali assicurati da personale (medico, infermieristico, tecnico) di provata competenza ed esperienza. Ai detenuti isolati tra le sbarre deve essere rivolta l’assistenza che solo Medici ed Infermieri di particolare sensibilità sanno prestare, un’assistenza maturata attraverso la continuità di una sperimentata dedizione. La Riforma della Medicina Penitenziaria dovrà essere in grado di raccogliere quanto di positivo è maturato in anni di esperienza e valorizzarlo anche attraverso una seria incisiva opera di formazione. Tra gli Operatori Sanitari meritano particolare attenzione i Medici di Guardia ,gli Specialisti e gli Infermieri. Invece alcune Regioni tra cui la Lombardi, il Veneto e la Calabria, senza tenere in alcuna considerazione le direttive contemplate dal Dpcm dell’1.04.08, impongono già dei termini di scadenza delle Convenzioni (la Lombardia impone ad esempio il 31.12.2008), minacciando incompatibilità a tutti. Questo è arbitrario e illegittimo. Non è questo lo spirito della Riforma. Non è il modo giusto per gestire una Riforma così importante e così delicata. I Medici di Guardia e gli Infermieri testimoniano anni di presenza costante ,anni di impegno professionale in prima linea, anni di lavoro in condizioni sempre precarie in termini di organizzazione e dignità del lavoro. Hanno scelto di lavorare in carcere. Hanno dimostrato coraggio. Hanno assicurato la tutela della salute in carcere in tempi difficili. Per questo devono essere premiati, non penalizzati e puniti. I Medici sono transitati al Servizio Sanitario Nazionale tutelati dalla legge 740/70 che contempla la piena, assoluta compatibilità del lavoro. Non si possono frapporre dubbi. Non sono ammissibili interpretazioni arbitrarie. Quando le Convenzioni andranno in scadenza, devono essere rinnovate con gli stessi criteri previsti attualmente. Gli Operatori Sanitari attuali devono continuare la loro opera per assicurare la continuità assistenziale. Altrimenti subentrerà il caos e l’anarchia con la perdita di un inestimabile patrimonio di esperienze e di competenze professionali. Non ci sembra una prospettiva rassicurante. L’Amapi vigilerà con molta attenzione su tutto il territorio nazionale perché il Dpcm venga applicato in tutta la sua interezza senza interpretazioni distorte o di comodo,ricorrendo immediatamente, se nel caso, al Tar. Sembra giusto e corretto prefigurare per coloro che già lavorano tutelati dalla Legge 740/70, la continuazione in questi termini. Per coloro che inizieranno a lavorare in carcere da ora in poi si possono prevedere gli assetti normativi e giuridici dell’Azienda Usl. L’Amapi chiede il rispetto dei diritti acquisiti. Per la tutela del nostro posto di lavoro siamo pronti a scendere da subito in piazza paralizzando i servizi sanitari penitenziari. Gli impegni assunti dai politici nel corso dei lavori preparatori della Riforma ora devono essere onorati.
Il Presidente dell’Amapi Francesco Ceraudo Modena: Giovanardi; carcere scoppia, situazione è drammatica di Valentina Beltrame
Il Resto del Carlino, 3 marzo 2009
il numero di detenuti nel carcere di Modena ha raggiunto il massimo storico. Ieri - quando il Senatore Carlo Giovanardi e il Sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati sono venuti in visita al Sant’Anna - i carcerati erano 555. Ma oggi potrebbero essere già qualcuno in più. I posti, invece, sono sempre gli stessi: 220 celle singole che ora sono occupate anche da tre o quattro detenuti. Insomma, sono presenti più del doppio delle persone che il carcere potrebbe ospitare. La visita dei sottosegretari è cominciata alla casa lavoro di Castelfranco Emilia, il tour è proseguito al San’Anna e si è concluso al tribunale di Modena. "Il carcere di Modena vive una situazione drammatica", ha detto Giovanardi. L’obiettivo è stato quello di fare il punto sulla situazione modenese della giustizia, sia sotto il profilo delle strutture detentive, sia riguardo il funzionamento degli uffici giudiziari. Le novità partono proprio dalla Casa Lavoro di Castelfranco che, oltre ai 123 internati (di cui 73 in licenza) ospita anche 15 detenuti tossicodipendenti. "Abbiamo constatato - rilevano Giovanardi e Alberti Casellati - che gli investimenti per fare della casa lavoro anche un luogo di recupero per detenuti tossicodipendenti stanno dando i loro frutti". I finanziamenti concessi dal governo riguardano anche la costruzione di una nuova ala annessa alla casa lavoro con un centinaio di posti: qui potrebbero essere trasferiti i detenuti del Sant’Anna con problemi di tossicodipendenza. In questo modo il carcere di Modena potrebbe alleggerirsi rimanendo comunque in emergenza. Un progetto di ampliamento del carcere di Sant’Anna esiste sulla carta ma l’allarme sovraffollamento deve essere risolto subito. Dei 555 detenuti le donne sono 33: il 76 per cento dei carcerati sono stranieri (421), tra i quali 184 marocchini, 99 tunisini, 31 albanesi, 15 algerini e altrettanti romeni. Per questo una delle soluzioni proposte dai sottosegretari è quella di far scontare le pena agli stranieri nel loro paese di origine: sarebbe sia un modo per disincentivare i reati, sia una soluzione per svuotare le carceri italiane. Giancarlo Cinelli, segretario Cisl-Fns Modena osserva come "nell’istituto l’atmosfera che si respira, sia per i detenuti che per gli agenti di polizia penitenziaria, sia pesante. Sono certo che il sottosegretario Giovanardi prenderà posizioni concrete per l’istituto di Modena". Giovanardi e il sottosegretario Alberti Casellati hanno concluso il loro viaggio in tribunale, nell’ufficio del presidente Mario Lugli. "Il tribunale di Modena - spiega Alberti Casellati - ha una buona produttività, che permette di smaltire gli arretrati. Quello che manca è il personale amministrativo. La nostra proposta è quella di richiedere personale ad altri enti, come le Regione, da spalmare poi nelle cancellerie dei tribunali".
Stipati nelle celle e i letti non bastano più
Una riunione a porte chiuse tra il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, il sottosegretario alla giustizia con delega alle carceri Maria Elisabetta Alberti Casellati, il presidente del Sant’Anna Paolo Madonna e il prefetto di Modena Giuseppina Di Rosa. Mezz’ora di discussione ai piani alti del carcere di Sant’Anna per illustrare ai senatori la situazione drammatica del carcere modenese, il più affollato in regione, nella speranza che il governo possa fare qualcosa di concreto. Poi il giro nei piani bassi, dove ci sono i detenuti, che scontano la loro pena anche in quattro dietro le sbarre di un’unica cella. Perché ormai non c’è più posto. Un giro per mostrare ai senatori le condizioni in cui vivono i carcerati e in cui lavorano gli agenti della polizia penitenziaria. Un giro che parte dal reparto temporaneo, dove sono rinchiuse le persone in attesa di convalida degli arresti. Sulla porta ci sono i loro nomi, scritti a penna su pezzetti di carta. Sono quasi tutti magrebini. È ora di pranzo al carcere di Sant’Anna. I detenuti sono nelle loro celle, dietro porte pesanti con una piccola grata che permette di vedere all’interno. Mangiano seduti attorno a un tavolino. Ma a terra c’è di tutto: soprattutto materassi e coperte, perché i letti non sono abbastanza. Quattro o cinque persone nella stessa cella sono troppe. Così la maggior parte dei detenuti dorme su materassi appoggiati sul pavimento a stretto contatto con i compagni di stanza con i quali si condivide tutto. Va meglio nel reparto femminile, dove c’è solo qualche detenuta in più del previsto. Qui il personale è tassativamente formato da agenti donne, anche se è capitato che, per carenza di personale, siano stati mandati agenti uomini a sorvegliare le detenute. Poi ci sono il reparto dei malati di Aids e l’isolamento che ormai non è più un settore riservato ai detenuti più pericolosi. Per sopperire alla mancanza di letti qualcuno è stato trasferito qui. Infine c’è il settore più affollato, quello di detenzione ordinaria maschile in cui ci sono fino a quattro o cinque detenuti in un’unica cella. I senatori hanno anche visitato la falegnameria e l’officina dove i detenuti lavorano trascorrendo parte delle loro giornate. Nei corridoi ci sono i dipinti di un carcerato che sta scontando il suo conto con la giustizia da anni e che ha abbellito le pareti del Sant’Anna: è l’artista del carcere e si merita le congratulazioni delle autorità. La guardia carceraria dà l’ultimo giro di chiave. La visita è finita, si torna negli uffici alla ricerca di una soluzione. La speranza è che i sottosegretari riescano a fare qualcosa una volta a Roma per risolvere il problema del carcere di Modena che è come una bomba a orologeria.
I detenuti stranieri scontino la pena nei loro paesi d’origine
"La soluzione delle carceri che scoppiano, come il Sant’Anna, va cercata nei rapporti internazionali. Dobbiamo stringere rapporti più stretti con Paesi come il Marocco, la Tunisia e la Romania per fare in modo che i detenuti di queste nazionalità scontino negli Stati d’origine le loro pene". È questa la ricetta del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, che ieri ha visitato la casa lavoro di Castelfranco, il carcere di Modena e il Tribunale. Polverizzato l’effetto indulto, con strutture penitenziarie stracolme di detenuti, il governo sta già cercando di trovare accordi bilaterali con questi Paesi. Gli stranieri al Sant’Anna rappresentano il 76 per cento dei detenuti, quando la media nazionale degli immigrati nelle carceri è del 40 per cento. Insomma, a nelle celle di Modena ci sono il doppio degli stranieri rispetto alla media nazionale, perché la città è ricca, attira gli immigrati, anche quelli clandestini e che delinquono. "Mi sono reso conto - aggiunge il senatore Giovanardi - di come nel carcere di Modena la situazione sia drammatica, con mancanza di letti, celle con quattro detenuti e una presenza massiccia di magrebini. Porteremo il problema a Roma dove il Governo si è già attivato per risolvere il nodo carceri". Malgrado il sovraffollamento del Sant’Anna Giovanardi riconosce come a Castelfranco gli investimenti stiano dando buoni risultati: "Ci sono stati miglioramenti notevoli - dice riferendosi alla casa lavoro che ora ospita anche quindici detenuti con problemi di tossicodipendenza - Importanti saranno anche i finanziamenti stanziati per un futuro ampliamento del carcere Sant’Anna e gli oltre quattro milioni richiesti per la ristrutturazione del tribunale". Gli agenti della Polizia Penitenziaria - aggiunge il Sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, Maria Elisabetta Alberti Casellati - sono male distribuiti a livello nazionale. A Modena c’è un agente ogni quattro detenuti. In più ci sono anche persone che scontano il regime di alta sorveglianza. C’è bisogno di spartire meglio le forze e non mancherò di segnalare il caso modenese a livello centrale". Quel che serve però è una soluzione imminente che, per ora, pare non esistere. Valentina Beltrame Reggio Emilia: Comune, Provincia e Anci; le carceri nel degrado
Redattore Sociale - Dire, 3 marzo 2009
Provincia, Comune e Anci di Reggio Emilia prendono di petto la situazione delle due strutture penitenziarie cittadine, il carcere la "Pulce" e l’Opg. Le istituzioni faranno pressing sui parlamentari locali per segnalare anche a livello nazionale le condizioni di sovraffollamento, carenza di organici e insalubrità degli ambienti, denunciate a più riprese dai sindacati. Novità potrebbero esserci a breve perché a metà marzo il consigliere regionale Gianluca Borghi del Pd, primo firmatario della legge regionale 3 del 2008 sulle condizioni detentive, potrebbe ottenere l’incontro chiesto già a novembre con i dirigenti del ministero di Grazia e Giustizia. Se l’operazione dovesse andare in porto, una delegazione reggiana potrebbe accompagnare Borghi per presentare di persona le specifiche istanze del territorio. La Regione intanto si sta attivando per far ripartire il Tavolo sulle carceri e in arrivo per Reggio, tramite la legge regionale approvata, ci sarebbero circa 80 mila euro. La strategia è stata messa a punto nel corso di un vertice, promosso stamattina dall’assessore provinciale alla Solidarietà Marcello Stecco, che ha riunito gli Enti locali reggiani, dirigenti regionali, il consigliere Borghi e le sigle confederali e autonome dei sindacati di polizia penitenziaria. "La situazione - dice Stecco - è diventata ormai insostenibile e una soluzione non è assolutamente rinviabile". Il quadro trova riscontro nei numeri e nei resoconti dei sindacati che denunciano, tra l’altro, "il caso di ipotermia di un internato" e quello di un agente che "ha trovato un verme nella pasta e fagioli", vicenda su cui è stato fatto un esposto in Procura. Quanto ai numeri, risulta che il carcere ospita una popolazione di 338 detenuti contro una soglia di capienza tollerata di 279 persone. All’ospedale psichiatrico invece, dove la situazione è ancora più delicata per la tipologia di pazienti, gli internati sono 312 contro una capienza di 256. Per la Pulce i sindacati propongono di "decongestionare" le celle aprendo la sezione femminile del carcere ora chiusa. E di impiegare gli allievi dell’ultimo anno per fronteggiare la scarsità di personale. Sulla situazione reggiana il consigliere Borghi commenta: "Da novembre chiediamo questo incontro e marzo potrebbe essere il mese buono. Dobbiamo interloquire assolutamente con il sottosegretario delegato per presentare una situazione fuori dall’ordinario anche perché qui c’è una specificità unica che è quella dell’ospedale psichiatrico giudiziario". Inoltre, dice Borghi, "riattiveremo il tavolo regionale dove tutte le carceri regionali si trovano per discutere di quali cose, indipendentemente dai problemi strutturali per i quali si devono cercare altre soluzioni, si possono fare ora e subito".
Punto di non ritorno per l’Opg di Reggio Emilia
"Da tre settimane gli internati dell’Opg non hanno carta igienica: questo è il segno, scandaloso, della situazione in cui ci troviamo". L’allarme arriva dal consigliere regionale Gianluca Borghi, dopo il summit sull’emergenza carcere convocato stamattina a Reggio Emilia dalle amministrazioni locali. "All’Opg la situazione non è mai stata così drammatica - continua Borghi - siamo a un punto di non ritorno". La struttura, secondo i dati forniti dal consigliere, oggi conta 250 persone a fronte di una capienza di 150 posti. "Da tempo ormai - spiega Borghi - gli Opg non sono luoghi terapeutici ma unicamente luoghi di custodia per persone dimenticate da tutti: da 30 anni si discute inutilmente su come cambiare queste strutture: l’unica strada è la de-istituzionalizzazione degli Opg". Non molto diversa la situazione nella casa circondariale "La pulce", sempre a Reggio Emilia. Anche qui i problemi più urgenti riguardano le condizioni igienico-sanitarie. "Gli agenti di polizia penitenziaria - spiega il consigliere - da tre settimane non utilizzano più le mense, dopo che nel cibo sono stati trovati dei vermi". Trovare risposte all’emergenza era l’obiettivo del summit di oggi, che ha visto riuniti allo stesso tavolo comune e provincia di Reggio Emilia, la direttrice dell’Opg Rosalba Casella e la comandante del reparto della casa circondariale Linda De Maio, oltre che i rappresentanti di Cigl, Cisl, Uil e dei sindacati autonomi. "Gli enti locali stanno pensando a come affiancare le strutture penitenziarie - continua il consigliere -. Un’ipotesi potrebbe essere quella di coinvolgere l’Ausl, come già successo a Bologna e a Ravenna, dove il sindaco ha emesso un’ordinanza perché l’amministrazione penitenziaria rispettasse le norme igieniche". "La responsabilità di questa situazione - spiega Borghi - è tutta della politica, che ha fatto delle carceri la soluzione a tutti i problemi sociali". Per questo l’assessore provinciale alla Solidarietà Marcello Stecco si propone di aumentare le pressioni su Roma. "Dobbiamo avanzare le nostre istanze, anche attraverso il lavoro dei parlamentari reggiani, nei confronti del ministero di Grazia e Giustizia e, ovviamente, del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria". Nei prossimi giorni dovrebbe in effetti svolgersi un incontro al ministero, sollecitato dal consigliere Borghi, a cui parteciperà anche una delegazione reggiana. Viterbo: radiologi carcerari senza stipendio sospendono servizi
Ansa, 3 marzo 2009
Dal 4 marzo sospeso il Servizio di Radiologia all’interno del carcere "Mammagialla" di Viterbo. I tecnici, senza stipendio dallo scorso settembre, non garantiranno più il servizio. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "Ho scritto al direttore generale della Asl viterbese affinché si adoperi per evitare il blocco di un servizio fondamentale per la salute dei detenuti". Senza stipendi dallo scorso mese di settembre, i tecnici di radiologia che operano all’interno del carcere "Mammagialla" di Viterbo hanno annunciato che, da mercoledì 4 marzo, cesseranno ogni tipo di prestazione all’interno della struttura. La notizia è stata diffusa dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che ha ricevuto la comunicazione dal responsabile dell’area sanitaria del carcere, Dottor Franco Lepri. "Ho subito inviato una lettera al vicepresidente della Giunta Regionale Esterino Montino e al direttore generale della Asl Viterbese - ha detto il Garante - invitando ognuno per quanto di propria competenza ad adoperarsi affinché si arrivi al pagamento delle spettanze dei tecnici e venga scongiurato il blocco di un servizio fondamentale per la tutela del diritto alla salute dei detenuti". Dopo il passaggio, lo scorso ottobre, delle competenze della medicina penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, spetta alle singole regioni - attraverso le Asl di competenza - garantire il diritto alla salute nelle carcere attraverso la gestione di tutti gli aspetti a ciò connessi (strutture, personale, prestazioni, etc.). "Il rischio che si corre con la sospensione del servizio di Radiologia in carcere - ha aggiunto Marroni - è che, per tutelare la salute dei detenuti, bisognerà chiedere l’invio dei reclusi in ospedale ogni volta che sarà necessaria una radiografia,con aggravi di lavoro e di costi legati all’utilizzo della polizia penitenziaria e di disagi e paure per i cittadini che frequentano l’ospedale Belcolle di Viterbo". Roma: interrogazione in Regione su situazione di Regina Coeli
Asca, 3 marzo 2009
"Ho presentato un’interrogazione urgente all’Assessore Fichera sulla situazione igienico-sanitaria molto critica dell’Istituto Penitenziario Regina Coeli". Lo ha dichiarato Peppe Mariani, Presidente della Commissione Lavoro e Vice Presidente della Commissione Sicurezza della Regione Lazio. "Ho ritenuto doveroso farlo - ha aggiunto Mariani - in seguito ad una mia recente visita presso l’Istituto, durante la quale ho potuto constatare di persona le problematiche riguardanti in particolar modo il servizio radiologico all’interno della struttura. Quest’ultimo è stato sospeso a causa della rilevazione di apparecchiature ormai vetuste, fuori norma e dagli alti costi di manutenzione, e ciò comporta chiaramente il trasferimento presso l’Ospedale S. Spirito, dei pazienti detenuti, con grave sovraccarico di lavoro per il Nucleo Traduzioni del Regina Coeli". "La sostituzione delle apparecchiature - ha proseguito Mariani - è diventata, dunque una vera e propria urgenza, che bisognerà affrontare in tempi rapidi; così come gli interventi di ristrutturazione dei locali doccia, presenti nella VI sezione detentiva dell’Istituto, la cui inagibilità provoca gravi ripercussioni sull’igiene delle persone recluse". "L’impegno da parte delle Istituzioni - ha concluso Mariani - verso il mondo dei detenuti e degli operatori penitenziari, deve essere intensificato e rafforzato, perché la situazione, già oltre i limiti della vivibilità, non possa degenerare in poco tempo". Mantova: polizia penitenziaria chiede ispezione urgente dell’Asl
Comunicato stampa, 3 marzo 2009
Oggetto: sovraffollamento popolazione detenuta presso la Casa Circondariale di Mantova. Le scriventi Organizzazioni Sindacali inviano la presente al fine di portare a conoscenza degli organi competenti, delle gravi condizioni di vivibilità dei detenuti ristretti presso la Casa Circondariale di Mantova. Ad oggi, la popolazione carceraria si aggira mediamente sui 190-200 detenuti, rispetto ai 120-130 di qualche anno fa. Il 15 febbraio è stato raggiunta quota 208. La capienza delle camere detentive è quasi raddoppiata, si va dai due ai dodici posti su letti disposti a castello a tre piani. Le camere sono umide, i muri sgretolati e privi di tinteggiatura da almeno dieci o quindici anni. Le condizioni igienico sanitarie sono inadeguate con alto rischio di malattie dovute soprattutto all’eccessiva presenza di detenuti. Negli ultimi periodi ci sono stati anche casi di sospetta Tbc, con alto rischio di contagio tra i ristretti e il personale di Polizia Penitenziaria che quotidianamente opera all’interno dell’istituto Mantovano. Si prega di voler effettuare al più prestò un’ispezione, al fine di verificare le condizioni igienico sanitarie, la capienza delle camere detentive e quant’altro di pertinenza. Sicure di un sollecito accoglimento della presente, anticipatamente porgono distinti saluti.
Sappe, Cisl, Osapp, Clpp, Uil Firenze: Corleone; 800-850 detenuti, Sollicciano è sovraffollato
Ansa, 3 marzo 2009
È di circa 800-850 persone la popolazione detenuta attualmente nel carcere fiorentino di Sollicciano dove, se non ci fosse stato l’indulto e non fossero stati operati alcuni sfollamenti saremmo a oltre 1.500 detenuti. Così il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze Franco Corleone nella relazione, la quinta, presentata oggi al Consiglio comunale. Proprio il sovraffollamento, per Corleone, resta il problema più grave di Sollicciano, risolto per "un periodo troppo breve" grazie all’indulto. La quasi
totalità della popolazione è costituita da uomini, circa un centinaio le donne. In totale i tossicodipendenti sono 275, di cui 40 donne. Il 62% dei detenuti maschi e il 51% della popolazione femminile
è costituita da stranieri, in maggioranza extracomunitari. Più in generale Corleone ha rilevato come nei penitenziari italiani le cifre sulle presenze si avvicinano a quelle pre-indulto. "Il Dap - ha spiegato - orienta i propri piani di intervento sul livello record di 70.000 detenuti. Non intendo essere accusato di essere una Cassandra ma ho lanciato un allarme preoccupato di fronte a una bomba ad orologeria che attende solo la scintilla di scoppiare". Ha aggiunto che in questi cinque anni di attività come garante, riguardo all'azione dei vari governi succedutisi, l'unica riforma positiva per il carcere è rappresentata dal passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario pubblico. Corleone ha poi voluto ringraziare il Consiglio comunale per aver, nel novembre scorso, sancito il riconoscimento nello Statuto del Comune della figura del garante dei diritti dei detenuti, che nel 2003, quando venne istituito, aveva posto Firenze all'avanguardia tra le città italiane. Firenze: all’Opg 6-8 persone per ogni cella, aggredito un agente
Ansa, 3 marzo 2009
"Un assistente della polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto dell’ospedale psichiatrico giudiziario al momento in cui è andato ad aprire la sua cella, subendo alcuni colpi in faccia". La denuncia arriva dal Sappe. L’episodio è avvenuto ieri, intorno alle 18. "L’agente - spiega il Sappe - è stato curato all’ospedale di Empoli. Ha una prognosi di 10 giorni. Anche un ispettore, intervenuto per frenare le escandescenze del detenuto, è stato ferito". Non si tratterebbe di un caso isolato. "È l’ennesimo episodio di violenza subita da agenti - prosegue il sindacato - gli agenti sono tutti sotto pressione perché la capienza della struttura dovrebbe essere di 110-120 detenuti, ed invece sono saliti a 196. Ci era stato promesso che negli scorsi 4 mesi la situazione sarebbe stata risolta, invece aumentano gli internati e il numero di agenti è sempre lo stesso: 85. È uno stress continuo, siamo in costante allarme poiché in ogni cella vivono 6-8 persone. È facile intuire che si registrino episodi critici". Bergamo: la polizia manganella i manifestanti, ripresa in video di Beatrice Macchia
Liberazione, 3 marzo 2009
"La professionalità degli agenti ha evitato il peggio". Un piede sulla testa di un ragazzo sdraiato per terra. Un altro giovanissimo da solo in mezzo ai celerini (lui a volto scoperto, loro con caschi e fazzoletti) che cerca di far smettere le botte sul suo amico, insultato, spinto, qualche calcio e pugno, bestemmie... Forse il prefetto di Bergamo la chiama professionalità, ma le immagini su www.youreporter.it riprese da molti media parlano chiaro. Una squadraccia di un paio di centinaia di uomini con bastoni, caschi, inni fascisti, saluti romani, bandiere celtiche è stata scortata e protetta dalla polizia. Una contromanifestazione di un migliaio di persone a volto scoperto e mani nude che viene allontanata, spinta via e dopo il lancio di alcune bottiglie (cosa fastidiosa, ma mica "guerriglia") viene manganellata e inseguita con un finale di quelli che non si vedono spesso: 57 fermi e 2 arresti (confermati ieri con scarcerazione e obbligo di firma). Così l’apertura di una sede di Forza Nuova a Bergamo (ma non erano vietate le associazioni fasciste?) è diventata l’ennesima occasione per scoprire lo strano modo di intendere l’agibilità democratica da parte del ministero retto da Roberto Maroni: protezione agli squadristi, botte a centro sociali, giovani comunisti e chiunque "puzzi" di alternativo. Con tanto di polemiche rovesciate del centrodestra bergamasco a chiedere conto a sindaco e coalizione di centrosinistra di una manifestazione "non autorizzata", quella degli antifascisti. E il prefetto a difendere "i suoi": "Reazione giusta e misurata" dice, ma quel poliziotto in borghese e passamontagna che si accanisce su manifestanti a mani alzate in via Quarenghi, signor prefetto, chi è? Il mondo va al contrario. Qualcuno lo deve dire. In un’affollatissima conferenza stampa presso la sala di Rifondazione in Comune, i centri sociali hanno chiesto la destituzione del Questore e hanno mostrato i video del "black block" in passamontagna e manganello d’ordinanza oltre alle controdenunce di manifestanti arrestati mentre andavano a casa o malmenati per nulla. E hanno ricostruito la storia delle presunte autorizzazioni e manifestare insieme a Maurizio Morgano, consigliere comunale del Prc: "Da dieci anni tengo i rapporti con la polizia per manifestazioni e presidi e anche questa volta con il consigliere Armanni abbiamo concordato col questore che avremmo evitato qualsiasi contromanifestazione se fosse stato vietato il corteo fascista". Ma il Questore dice che non c’è nessun corteo di Forza Nuova non c’era. Era previsto "un trasferimento" per lasciare andare in gruppo i fascisti alla loro sede. E così gli antifascisti organizzano solo un presidio. Solo che un corteo è prendersi la strada con megafoni e bandiere mentre un trasferimento cos’è? "Di certo non una sfilata paramilitare di un’ora e mezza con mazze e caschi per attestarsi in piazza con cori fascisti - commenta Morgano - le spiegazioni adesso le vogliamo noi. Vogliamo sapere perché è stata garantita una manifestazione non autorizzata inneggiante al fascismo. Vogliamo sapere perché è stato permesso tutto ciò". Intanto la Questura fa sapere che il materiale video da loro girato sarà analizzato per intero. Il che vuol dire che rischiano qualcosa anche i fascisti in corteo se venissero ravvisati gli estremi della Legge Mancino. Dopo averli usati. Ne gettano qualcuno. Come è sempre stato. "Quanto successo a Bergamo è di inaudita gravità", commenta Ezio Locatelli segretario provinciale di Rifondazione "le forze dell’ordine a manifestazione conclusa hanno pensato bene di procedere in maniera indiscriminata e ingiustificata a cariche, fermi e maltrattamenti nei confronti di persone che poi sono risultate estranee a qualsiasi addebito". Un chiarimento a ministero e prefetto è stato chiesto anche dal segretario nazionale Paolo Ferrero. Cinema: l’intervista al regista del film "Giulia non esce la sera" di Margherita Ferrandino
www.innocentievasioni.net, 3 marzo 2009
Intervista a Giuseppe Piccioni, regista di "Giulia non esce la sera", con Valeria Golino e Valerio Mastandrea. Nel suo ultimo film "Giulia non esce la sera", il personaggio interpretato da Valeria Golino è una donna condannata per omicidio che, dopo sette anni di carcere, ottiene la libertà vigilata per insegnare nuoto in una piscina.
Perché ha scelto di raccontare la storia di una detenuta? Nel film non c’è l’intenzione di denuncia né di inchiesta sul sistema carcerario, la scelta è unicamente complementare all’ altro protagonista della storia, interpretato da Valerio Mastandrea, uno scrittore famoso, refrattario alle passioni e ai sentimenti, che rimane coinvolto da una donna che vive una realtà molto particolare. Giulia ha ucciso un uomo per amore, ha causato un danno irreversibile ad altri ma anche a se stessa, la libertà vigilata non le permette di pensare a un ritorno in pieno alla vita e mi interessava scoprire se una donna come lei si aspetta ancora di innamorarsi nuovamente. Giulia, nel film, non prova più alcun interesse per nulla e dice che per lei "dentro" o "fuori" è uguale ma forse stare fuori le fa più paura perché per alcuni detenuti il carcere è paradossalmente protettivo rispetto all’esterno. Giulia è un personaggio che si giudica ancora prima che la giudichino gli altri ed è una donna che non si assolve, atipico in un mondo dove si è sempre molto indulgenti con se stessi e, inoltre, non fa mercato del suo dolore, della sua storia, come succede spesso a chi decide di raccontare i propri errori nei libri o in tv.
Che tipo di esperienza è stata per lei girare in un carcere? Prima di scrivere il film ci siamo consultati con psicologi e operatori del carcere di Rebibbia perché ho scoperto che le regole sulla libertà vigilata cambiano a seconda dei luoghi di detenzione. Il film è stato girato nel carcere di Velletri in una zona riservata alle detenute in libertà vigilata, abbiamo anche parlato con alcune di loro e in particolare con una che aveva una storia simile a quella di Giulia e che ci ha ispirato nel modo di vestire e di prendersi cura della propria persona. Non tutte le donne, in carcere, curano il loro aspetto anche se in qualche caso hanno la possibilità di servirsi di un parrucchiere. Mi ha colpito il grande rispetto che c’era, in quel carcere, fra la polizia penitenziaria e i detenuti, quasi un patto di solidarietà e l’esperienza che mi è rimasta non è stato tanto nel guardare e girare in quei luoghi, quanto nel cercare di capire perché si arriva lì dentro e con quanto dolore! Immigrazione: i romeni; per voi, oramai noi siamo tutti mostri di Guido Ruotolo
La Stampa, 3 marzo 2009
"Sò loro. Se sò sbaglia...". Nel bar di via Mario Menghini, tra l’Appia e via Latina, all’ingresso della "Caffarella", il Parco dove nel giorno di San Valentino fu stuprata una ragazzina di 14 anni, nessuna "prova scientifica" resiste a quella che ormai è diventata una certezza popolare. "Sò stati quei due romeni". Se fosse per gli avventori del bar, Karol e Alexandru dovrebbero essere condannati all’ergastolo. Il prato del Parco è inzuppato d’acqua. Nonostante la pioggia fina fina, due signori portano i cani a passeggio. "Il biondino non aveva confessato? E la ragazza non li aveva riconosciuti? Se non sono loro - chiede il signor Perrone - vuol dire che sono in libertà due stupratori?". "Innocenti o colpevoli - interviene il suo amico - i romeni se ne devono andare. Sò sempre loro che fanno i casini". All’ingresso del Parco, in Largo Pietro Tacchi Venturi, arriva Paolo il ciclista, pizzetto che ricorda Jovanotti: "Due volte a settimana pedalo nel Parco. Oggi ho visto anche un Suv della polizia municipale perlustrare gli anfratti della Caffarella. Penso che in questi casi dovrebbe prevalere il silenzio. Bisognerebbe sempre aspettare gli esiti delle indagini prima di condannare qualcuno. Se non sono loro, che tornino in libertà". Loro, i romeni. Diventati invisibili ormai. Prima li vedevi in gruppo, nei soliti posti di ritrovo, ora è come se vivessero in clandestinità. La signora Cerasela è una badante. Ha una busta della spesa in mano. Vive all’Appio da sette anni: "Non è giusto prendersela con noi. Se sono loro i colpevoli, che restino in carcere tutta la vita. Ma se non lo sono, la polizia abbia il coraggio di riconoscerlo. Quello che sta succedendo a Roma è una cosa bruttissima. A casa, in Romania, le nostre famiglie hanno paura che ci possa capitare qualcosa". Elena, invece, è infermiera: "Certo, sarei più contenta se non fossero stati i miei connazionali. Ma che cosa cambia? Lo stupro di quella povera ragazzina c’è stato comunque". Aurelian fa il muratore, in nero naturalmente. "Vivo ai Castelli Romani. Per me non ci sono problemi, mi conoscono tutti. Ma non è giusto -mastica amaro - che prima si cerca il romeno e poi si fanno le indagini. Ci hanno crocefisso senza avere le prove in mano". Alma Harhya è giornalista, lavora per un canale news romeno. "Ma da voi - dice polemica - non vale la presunzione d’innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l’ho con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina". Rabbia, dolore, paura. Dall’omicidio della povera signora Giovanna Reggiani, il 30 ottobre del 2007, la comunità romena si sente assediata. E sorprendentemente c’è anche chi, di fronte al dna che non combacia -nei fatti scagionando i due romeni arrestati per lo stupro della "Caffarella" - vorrebbe che questa ferita non si riaprisse: "Forse è sballato il test scientifico - dice Adrian Grigor - e va rifatto. Il biondino ha confessato". E anche Eugen Tertaleac, presidente dell’Associazione dei romeni in Italia, si augura che i colpevoli "siano loro": "Siamo d’accordo con le ronde, purché miste. Con i volontari romeni e italiani. Così si tranquillizzano i miei connazionali". Immigrazione: gli sbarchi continuano, ma seguono nuove rotte di Mario Porqueddu
Corriere della Sera, 3 marzo 2009
Gli sbarchi sulle nostre coste continuano e sono in aumento rispetto ai primi due mesi dell’anno scorso. Ma le rotte cambiano: da un po’ non arriva più quasi nessuno a Lampedusa. Gli ultimi 218 che hanno attraversato il Mediterraneo sono approdati a Porto Empedocle domenica sera. "Ce li ha segnalati un peschereccio quando erano 35 miglia al largo di Licata" racconta l’ammiraglio Ferdinando Lavaggi, direttore marittimo della zona di Ricerca e soccorso in mare della Sicilia occidentale. Su una barca lunga 8 metri c’erano 45 donne, due bambini, e 171 uomini fuggiti dalla Somalia. Le vedette di Guardia Costiera e Finanza li hanno scortati a terra, poi sono stati trasportati nei centri di accoglienza di Caltanissetta e Trapani A parte le 9 persone che i carabinieri di Lampedusa hanno intercettato il 22 febbraio a Punta Sottile, - "abbiamo viaggiato in gommone", dissero - gli ultimi arrivi consistenti di immigrati non hanno toccato l’isola delle Pelagie. La struttura di contrada Imbriacola che da settimane è stata trasformata da Centro d’accoglienza a Centro di identificazione ed espulsione ora respira. Ci sono circa 500 persone: uno scherzo rispetto alle quasi 1.500 che capitava di vedere una sopra l’altra un paio di mesi fa (ma anche la capienza è stata ridotta dall’incendio del 18 febbraio). "Da un lato, a confronto con la frequenza di fine 2008, ci sono meno sbarchi. Dall’altro le rotte stanno cambiando-dice Lavaggi -. Se la tendenza sarà confermata ci adegueremo, perché il nostro compito è salvare vite intervenendo nel minor tempo possibile". Un cambio nelle rotte emerge dai dati sugli arrivi via mare, n 21 e 22 febbraio, su due diversi barconi, 379 persone hanno raggiunto Porto Empedocle (Agrigento). Anche in questo caso molti erano cittadini somali o dell’Africa sub sahariana. Il 1° febbraio una barca con 226 migranti è giunta a Portopalo di Capo Passero (Siracusa), n 20 gennaio a Pozzallo, nel ragusano, sono approdati in 228. Gli ultimi sbarchi importanti a Lampedusa sono del 20 gennaio scorso. In tutto, dall’inizio dell’anno, sono arrivate in Italia dal mare 2.121 persone. Nello stesso periodo del 2008 ne sbarcarono circa 1.650. Sempre in questi due mesi altri 770 immigrati sono finiti a Malta. "Chi arriva a Lampedusa sarà rimpatriato in pochi giorni direttamente da lì" annunciò il ministro dell’Interno tra dicembre e gennaio. Ci furono proteste, fughe dal centro, tentativi di suicidio, poi il rogo. Ora pare che il problema l’abbiano risolto alla radice gli scafisti, facendo rotta altrove. I rimpatri, intanto, proseguono. Le agenzie di stampa hanno documentato i seguenti: 35 egiziani partiti il 31 dicembre, 12 mandati via il 14 gennaio, e altri 38 il 22 di quello stesso mese. E ancora: 34 nigeriani spediti a Lagos il 29 gennaio. Più 190 persone rimpatriate a febbraio: molti tunisini, qualche algerino. L’accordo con Tunisi dice che l’Italia può rimandare al di là del mare 1.000 uomini (i secondi 500 scaglionati: 100 al mese, non più di 7 per volta). A Crotone, Trapani, Caltanissetta i centri che a vario titolo accolgono immigrati sono ai limiti della capienza. Non c’è un’emergenza, ma si cercano nuovi posti. Molte Regioni, però, non vogliono Cie sul loro territorio. "È un momento interlocutorio - dice Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati -. Aspettiamo gli sviluppi Ma va sempre analizzata la composizione dei flussi: anche gli ultimi sbarchi confermano che chi fugge da guerre e persecuzioni non si scoraggia di fronte a nuove misure, perché non ha nulla da perdere". Immigrazione: Accademia della Crusca; no a classi per stranieri di Gianna Fregonara
Corriere della Sera, 3 marzo 2009
"Per imparare l’italiano meglio stare in aula con gli altri" Il consiglio: formare i docenti. Ora la decisione del ministro. Confusa. Generica e per lo più impraticabile. In altre parole, inadeguata. L’imprevista bocciatura è dell’Accademia della Crusca, che critica la proposta di formare classi differenziate (le classi di inserimento o classi ponte) per far apprendere l’italiano agli stranieri, presentata dal leghista Roberto Cota e approvata dalla maggioranza lo scorso ottobre. Non serve: funzionerà certo a tranquillizzare genitori italiani e docenti alle prese con problemi di integrazione, ma dal punto di vista scientifico e dell’apprendimento dell’italiano per studiare è del tutto inutile. Sul periodico dell’Accademia, la "Crusca per voi", si possono leggere due saggi argomentati sul tema. E, come se non bastasse, la rivista si fa portavoce delle impietose osservazioni delle altre istituzioni custodi della nostra lingua: la Società italiana di Glottologia, la Società di linguistica italiana, l’Associazione italiana di linguistica applicata, il Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica e l’Associazione per la storia della Lingua italiana, che della proposta Cota scrivono: "La mozione risulta non chiara nelle premesse, poco perspicua nel metodo e inefficace nella soluzione". E ancora: "D metodo proposto per affrontare il problema è piuttosto incongruente rispetto all’obiettivo di favorire la promozione dell’acquisizione dell’italiano ai fini,almeno dichiarati, di una armonica integrazione". Replica Cota: "Rispetto la Crusca, ma loro rispettino il problema vissuto da migliaia di famiglie nelle periferie delle grandi città. Temo che vedano più il tarlo del razzismo che altro, ma io spero che al più presto il ministro Gelmini possa varare un provvedimento dettagliato sulle classi ponte, la mozione indica soltanto la linea politica, non le soluzioni tecniche migliori". Per ora il ministro sta studiando la pratica, e i presidi sono in attesa di lumi per le iscrizioni. I dati innanzitutto. Nello scorso anno scolastico, 2007-2008, secondo le rilevazioni del ministero dell’Istruzione, su dieci milioni di alunni, 574.000 erano stranieri, cioè con "cittadinanza non italiana": in percentuale il 6,4, il 7 per cento dall’asilo alle medie e il 4 per cento nelle superiori. Non una cifra spaventosa, in termini assoluti. Ma dieci volte di più degli studenti stranieri inseriti a scuola appena dieci anni prima, nel 1997. Tanto da creare, come riconoscono anche gli studiosi della Crusca, "una situazione di disagio". Di questo mezzo milione tuttavia, i non-italiofoni, quelli cioè che non parlano l’italiano, entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano, e che avrebbero bisogno di corsi e sostegni non sono più di 50 mila: "Circa il 70 per cento dei bambini stranieri che frequentano la scuola dell’infanzia e la metà di quelli che sono alle elementari - si legge nell’articolo di Silvia Morgana, ordinaria di linguistica italiana alla Statale di Milano - sono nati in Italia, mentre un’altra parte consistente è in Italia da anni e ha già frequentato altri gradi di scuola e quindi è sostanzialmente in grado di comunicare in italiano, anche se con diversi livelli di competenza linguistica". Dov’è dunque il problema secondo la Crusca? Non è l’italiano di base, quello che si insegnerebbe prima dell’inserimento nelle scuole normali, da verificare con gli ormai famosi test entro dicembre il vero problema: l’apprendimento di queste conoscenze da parte degli stranieri è di solito rapido e "richiede da pochi mesi, all’anno e mezzo dall’inserimento nella scuola "normale"", a contatto con gli studenti italiani. Il problema che può insorgere e creare difficoltà di apprendimento è "la lingua per lo studio", cioè quelle competenze specialistiche che servono per comunicare le proprie conoscenze più avanzate: "Queste risultano spesso ben più difficili da padroneggiare completamente anche per gli studenti italiani e la lingua per lo studio può richiedere fino a cinque anni per essere utilizzata nel modo più efficace", spiega ancora Morgana. Se le classi di inserimento o differenziali o ponte non servono, allora che fare, per situazioni in cui in una classe ci sono tre quarti di studenti stranieri e gli italiani sono in fuga? Di idee e sperimentazioni, ne sono nate tante in questi ultimi anni. La Crusca suggerisce di puntare sui docenti, preparandoli per la formazione dell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, disponendo una formazione specifica per i docenti che lavorano nei Cpt, e più in generale creando una "vera e propria cultura della valutazione" non solo delle competenze linguistiche, formando gli insegnanti ad una revisione dei curriculum in chiave interculturale. A provare le classi di inserimento è da qualche mese la Catalogna, in Spagna, in due città vicino a Barcellona, Vie e Reus. Ma il modello, proposto tra mille polemiche, ha una durata dì tempo molto limitata: da uno a sei mesi, soltanto per i nuovi entrati. In questo primo periodo di tempo dalle classi separate è passato qualche centinaio di studenti e oltre i due terzi sono già stari inseriti nelle classi normali Non che in Italia negli ultimi anni non sia suonata la campanella dell’emergenza L’osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale presso il ministero, ha prodotto diversi documenti di indirizzo, segnalando già due anni fa il problema di quel 20% di alunni stranieri che arrivano ad anno scolastico già iniziato. La linea fin qui seguita nelle zone ad alta concentrazione era quella di lasciare autonomia alle scuole per tare corsi e laboratori di lingua pomeridiani e di sostegno. Ancora non è stato valutato il successo. Ma lo stesso osservatorio aveva messo in guardia "contro i rischi di pregiudizi e preconcetti su base emozionale rispetto ai nuovi arrivati". Per ora alcuni Comuni si sono arrangiati da sé, trovando nelle raccomandazioni europee e nelle esperienze di altri Paesi, l’ispirazione per le proprie politiche. A Vicenza il sindaco Achille Variati (Pd) ha imposto un tetto di tre alunni che non parlano italiano per ogni classe, gli altri verranno aiutati dal Comune e dai presidi a trovare altre sistemazioni. La Commissione europea non ha censurato l’idea. A Novara succede il contrario. Nelle scuole del quartiere Sant’Agabio, ad alta densità di stranieri, sono gli studenti italiani che sono invitati a iscriversi: per loro mensa e scuolabus gratis. Stesso incentivo per gli stranieri che accettano di spostarsi in altre realtà. Il modello è la Spagna, quella Catalogna che però poi ha deciso di introdurre i corsi di inserimento. A Milano il Comune sta pensando a qualcosa di simile. A Roma l’assessore alle politiche educative Laura Marsilio ha proposto l’obiettivo di avere negli asili non più di cinque stranieri per classe. Tutto questo in attesa di una parola definitiva da parte del ministero. Russia: nuovo processo per Khodorkovsky, rischia altri 22 anni
Apcom, 3 marzo 2009
È iniziato oggi con un’udienza preliminare il processo Yukos 2 a Mikhail Khodorkovsky, un banco di prova non soltanto per l’ex miliardario ma anche per la giustizia russa e per l’immagine di Dmitri Medvedev in Occidente. L’ex patron di Yukos alla vigilia dell’udienza, ha detto di aver visto a Mosca "segnali positivi di cambiamenti istituzionali", compreso "il della giustizia come una branca separata del potere". Il processo riporta sul banco degli imputati l’ex uomo più ricco di Russia che questa volta rischia fino a 22 anni di carcere aggiuntivi per operazioni finanziarie illegali e riciclaggio. Khodorkovsky per l’occasione è stato trasferito dal carcere siberiano di Chita, vicino alle miniere di uranio al penitenziario moscovita di Matrosskaya Tishina. "Su uno sfondo di comprensibili problemi economici sono visibili segni positivi dei cambiamenti istituzionali" afferma il nemico numero uno di Vladimir Putin, con un chiaro riferimento ai mutamenti voluti dalla nuova amministrazione al Cremlino. "Finora, solo i segni iniziali: normali tentativi di opposizione, una ragionevole risposta agli sviluppi internazionali in alcune parti dell’elite al potere, l’inizio di un sistema di giustizia indipendente come branca del potere". Khodorkovsky "per quanto riguarda il processo" garantisce "trasparenza, chiarezza e nessun tentativo di eludere la giustizia" nel caso Yukos 2. Un affare politico, secondo gli esperti, sullo sfondo di accuse per quasi 32 miliardi di euro richiesti dallo stato russo. Khodorkovsky era già stato condannato a nove anni di carcere duro e sino a pochi giorni fa era detenuto in un penitenziario siberiano a Chita, poco distante dalle miniere di uranio. Ma ora con l’avvicinarsi delle nuove udienze a suo carico, Khodorkovsky è stato trasferito a Mosca, con il suo ex socio d’affari Platon Lebedev. I due attendono ora il nuovo processo che inizierà domani, nel carcere della capitale russa, Matrosskaja Tishina. È il segnale che la richiesta di grazia da parte degli avvocati del magnate e gli appelli alla clemenza giunti da Occidente, difficilmente verranno ascoltati. "Penso che anche il presidente Dmitri Medvedev non farà nulla: è un tema troppo sensibile per il suo predecessore" spiega il politologo Aleksei Mukhin, in riferimento alla posizione irremovibile di Putin. "È un affare politico, legato a una distruzione economica e in fondo la seconda ondata di accuse era prevedibile", aggiunge. La lotta in sede giudiziaria si preannuncia molto dura. L’appropriazione indebita di beni e fondi di cui sarebbe responsabile l’ex oligarca prevede un massimo di 10 anni di reclusione e il riciclaggio altri 15 anni, ma il totale della pena non potrà essere superiore a 22 anni e mezzo di carcere supplementari. Oltre ai nove che Khodorkovsky sta già scontando in Siberia, tra ostilità dei compagni di cella e rieducazione a base di taglio e cucito.
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