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Giustizia: quando la cultura dell’odio mette il pilota automatico di Roberto Bertoni
www.articolo21.info, 2 marzo 2009
La settimana appena trascorsa è stata piuttosto illuminante per chi ancora nutriva dei dubbi sul fatto che dalla passata primavera, cioè da quando il Cavaliere è tornato al governo, l’Italia sia divenuto un paese a libertà limitata. Tralasciando l’ennesima raffica di leggi vergogna (su tutte la riforma Brunetta che di fatto abolisce il diritto di sciopero violando la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori) che ridurranno ulteriormente i nostri diritti, è opportuno concentrarsi sul pacchetto sicurezza targato Maroni che, tra le altre cose, legalizza le ronde di volontari, assestando un colpo mortale al prestigio della magistratura e delle forze dell’ordine nonché ai principi fondamentali dello Stato liberale di diritto. Si tratta di un provvedimento i cui effetti saranno devastanti, soprattutto in quelle regioni dove purtroppo ci sono amministrazioni locali infiltrate da organizzazioni malavitose che da sempre basano la propria forza sulle vessazioni e gli abusi nei confronti dei più deboli. Consideriamo, ad esempio, certi comuni meridionali in cui le attività più sviluppate e redditizie sono lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione, il pizzo e simili. Come sappiamo, in quelle zone, la malavita d’importazione si integra con quella locale formando una miscela esplosiva di criminalità che rende determinati paesi un covo di delinquenti in cui le persone oneste si sentono fuori luogo e vivono malissimo. Ebbene, vi sembra così assurda l’ipotesi che da quelle parti, insieme agli ex poliziotti e alle persone perbene, si arruolino nelle ronde cittadine anche personaggi poco raccomandabili, sfruttando l’occasione per andare a dare un avvertimento o una lezione a qualche membro di un clan rivale, o anche del proprio, che ha osato commettere uno sgarro? Della triste eventualità deve essere stato informato anche il ministro Maroni che, infatti, si è subito precipitato davanti ai microfoni di tutti i telegiornali per scongiurare il sospetto che si costituiscano le cosiddette "ronde fai da te", cioè che quei cittadini desiderosi di menar le mani si sentano legittimati a compiere spedizioni punitive modello Ku Klux Klan con la certezza di restare impuniti. Peccato che, per quanto Maroni e soci si affannino a smentire, la norma che legalizza le ronde non chiarisca a chi spetti il compito di assoldare i volontari che dovrebbero garantire la nostra sicurezza, soprattutto di notte. Il fondato timore è che chiunque, d’ora in poi, possa incaricare dei volontari di garantire la propria sicurezza, ma come non è dato saperlo, visto che finora ci è stato assicurato che le ronde di volontari gireranno disarmate ed esclusivamente per fini di prevenzione e difesa, mai di offesa. Non essendo esperti in materia di giustizia, ci affidiamo alla saggezza e all’esperienza di Vito D’Ambrosio, sostituto procuratore generale della Cassazione, che sull’argomento si è espresso con grande chiarezza: "Le ronde sono pericolose e inefficaci: c’è il grosso rischio che si tratti di una forma di giustizia "fai da te". In tutte le democrazie moderne è lo Stato, e non gruppi di cittadini con la voglia di menare le mani, che si fa garante della sicurezza". Le prime avvisaglie di cosa potrebbe accadere nelle nostre città le ha raccontate nei giorni scorsi Marco Travaglio, riferendo di un episodio avvenuto a Padova dove, all’esordio delle ronde padane, i rondisti, accompagnati da alcuni parlamentari di Lega e An per far sì che l’iniziativa avesse il maggior impatto sociale possibile, si sono scontrati con i contro-rondisti della "Rondinella rossa" (una parodia delle ronde messa in atto da alcuni militanti di Rifondazione comunista, al punto da lanciarsi spintoni, insulti e uova, costringendo la Digos ad intervenire. Pensate voi se questo incidente diventasse una consuetudine: le forze dell’ordine, invece di occuparsi dei delinquenti abituali, dei topi d’appartamento e di tutti coloro che turbano l’ordine pubblico, sarebbero costrette a intervenire per placare gli opposti furori di gruppi di esagitati intenti a darsi la caccia anziché svolgere l’incarico di presidiare i vari quartieri della città, come previsto. In un simile contesto, pur apprezzando la fermezza dell’opposizione nel condannare questo ritorno alla concezione medievale della giustizia, siamo rimasti sconcertati nell’apprendere la reazione del presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati del Partito Democratico, alla deriva morale verso cui ci sta trascinando il governo. Il Nostro ha stanziato duecentocinquantamila euro per finanziare i "presìdi" specificando, però, che saranno composti solo da poliziotti e carabinieri in pensione. L’aspetto più singolare della vicenda è che tutto questo non lo ha detto nel salotto di casa parlando con gli amici ma lo ha raccontato lunedì 23 febbraio a Enrico Bonerandi de "la Repubblica", spiegando che "alcune idee il governo attuale le ha prese di peso da quello precedente. Poi c’è la demagogia, l’esercito in piazza, i contentini alla Lega. Non condivido gran parte del decreto Maroni. Ma che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presidi e non ronde, mettendo in chiaro che non avranno potere di intervento, ma solo di segnalazione, e le obiezioni verranno meno". Qualunque cronista di buonsenso (e Bonerandi, di sicuro, lo è) sarebbe impallidito sentendo un amministratore di centrosinistra esprimersi in questo modo. Difatti Bonerandi ha obiettato che sempre di ronde si tratta, e allora Penati ha sferrato un colpo da KO a tutte le battaglie che chi ha davvero a cuore il futuro di questo Paese sta combattendo da mesi, rispondendo: "Al contrario. Se autorizzo presidi di questo genere, posso con maggior forza vietare altri tipi di intervento, come le ronde fai-da-te, gli esagitati, i razzisti. Il tema della sicurezza deve uscire dall’ideologia, una buona volta". Come a dire: lo faccio per noi, per il bene del Pd, per evitare che la destra si prenda tutta la paternità delle sciagure che crea e porta avanti ogni giorno. La sfortuna ha voluto che quell’obiezione fosse anche l’ultima domanda dell’intervista perché altrimenti, ne siamo certi, Bonerandi gli avrebbe chiesto come pensa, lui che è un dialogante, di andare a spiegare ai "celoduristi" della Lega e agli ex missini di An che su argomenti così importanti non ci devono essere barriere ideologiche, quando sono gli stessi che hanno vinto le ultime elezioni dipingendo l’Italia come una sorta di "Gomorra" in cui orde di criminali, stupratori, malfattori, clandestini e altri mostri della stessa natura si aggiravano tranquilli per le strade a causa del lassismo della sinistra. Ha fatto benissimo il giornalista a ricordare a questo "moderato d’assalto" le parole di Dario Fo, il quale sostiene che Penati non possa fare altro in una Regione in cui la destra impera da anni, specie a Milano. Alla fine della lunga dissertazione sulla necessità di mostrarsi solidali nei confronti dei ceti più deboli che vivono nelle periferie "dove alle elezioni la gente ci ha voltato le spalle", il Presidente della Provincia ha concluso la risposta con una frase che deve aver mandato in visibilio Storace e Gasparri: "Il governo Prodi non varò certi provvedimenti proprio perché la sinistra critica si mise di traverso". Ma con quale coraggio personaggi del genere si permettono di andare a chiedere il voto e la fiducia degli elettori di centrosinistra, provati dal dominio autoritario di un governo che, per il momento, gode di un forte consenso nell’opinione pubblica e sembra destinato a rimanere in sella ancora per parecchi anni? Si è mai chiesto Penati cosa ci stia a fare in un partito riformista, nato per varare riforme nell’interesse del Paese e non per assecondare il livore di quell’esigua parte della popolazione verso gli immigrati e le persone considerate "diverse"? Possibile che a furia di vivere nel feudo di Berlusconi, non si renda conto di essere del tutto incompatibile con un partito il cui ex segretario propone da anni il voto per gli immigrati regolari, almeno alle amministrative, e il cui nuovo segretario, come primo atto, ha giurato pubblicamente sulla Costituzione in cui c’è scritto che tutti i cittadini hanno pari diritti e pari dignità, indipendentemente dalla razza e dall’orientamento politico e sessuale e che la giustizia la amministra lo Stato nell’interesse comune proprio perché tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge? Quando si accusa il Partito Democratico, e l’opposizione in generale, di non svolgere in modo adeguato il proprio compito, è doveroso fare dei distinguo tra i tanti amministratori locali (Cofferati per primo) che si opporranno alla barbarie delle ronde, tra la maggior parte dei parlamentari, come Furio Colombo e lo stesso Veltroni, che mai si sarebbero sognati di varare una norma così incivile e retrograda e chi come Penati pare, in effetti, un berlusconide capitato per caso nello schieramento opposto. A farci dormire sonni ancora meno tranquilli, ha provveduto giovedì 26 "l’Unità", dedicando un ampio servizio al rischio che queste ronde siano costituite da personaggi assai poco raccomandabili, vicini agli ambienti dell’estrema destra e dunque propensi a dare la caccia al "negro", anche se questi è un padre di famiglia o un ragazzo che passeggia tranquillamente in un parco pubblico senza disturbare nessuno. Tuttavia, il caso di Penati è indicativo di un altro terribile fenomeno che si sta diffondendo in questo periodo: l’impossibilità per chi ripudia l’arroganza di questa destra di esprimere le proprie idee. Mi è capitato personalmente di riflettere a lungo sull’argomento e di chiedermi: ma sarà il caso di insistere tanto sulla questione degli immigrati, sul dovere di accogliere e integrare le tantissime persone oneste che vengono in Italia per costruirsi un avvenire migliore, respingendo anche con vigore i delinquenti ma solo i pochissimi malfattori che vengono da noi credendo di poter delinquere a loro piacimento? Dopo attenta riflessione, mi sono risposto senza remore di sì poiché un uomo di sinistra non può venire meno ai propri ideali, ai valori in cui crede e per cui si è sempre battuto solo per meri fini elettorali. Poi, però, ho fatto un’altra attenta riflessione e sono arrivato alla conclusione che tutto questo è giustissimo, ma potrei dire le stesse cose se fossi candidato come sindaco in un comune in cui si vota nel prossimo giugno? Potrei esprimermi così liberamente se fossi candidato in un paese veneto dove da anni domina la Lega dei Gentilini, dei Tosi e dei Borghezio? Il rischio di finire come Michael Dukakis, il candidato democratico alle Presidenziali statunitensi del 1988 che perse moltissimi consensi (passando dal 49% al 42% delle preferenze) a causa della sua ferma avversione alla pena di morte, sarebbe altissimo e non posso escludere che, forse, l’amore per la mia Nazione mi impedirebbe di anteporre i miei ideali alla necessità di sventare la concreta minaccia che la comunità di cui ho deciso di mettermi al servizio cada nelle mani di politici spregiudicati come i campioni di "fair play" che ho citato prima. A pensarci bene, è una riflessione drammatica e amarissima, di cui mi pento, ma purtroppo trova un quotidiano riscontro nella realtà. È il frutto avvelenato di questa destra che predica l’odio e trae vantaggio da esso, non facendo nulla per mettere al sicuro i cittadini poiché se la gente si sentisse sicura e non covasse rancore anche verso chi non le ha fatto niente di male non avrebbe motivo di votare esponenti che tagliano i fondi alle forze dell’ordine, eliminano quasi la possibilità di servirsi delle intercettazioni come mezzo investigativo e promuovono ogni giorno politiche che vanno esattamente nella direzione opposta a quella verso cui dicono di andare. La cultura dell’odio (se è lecito accostare due termini così distanti senza fare storcere la bocca a qualcuno) ormai fa parte di ciascuno di noi che, volontariamente o involontariamente, la esercita anche senza accorgersene. È capitato perfino a me di sentirmi un po’ a disagio in un autobus con a bordo quasi esclusivamente stranieri; poi mi sono vergognato di quel che stavo pensando e mi sono seduto accanto ad essi senza alcun pregiudizio, ma il solo fatto di aver avuto dei sospetti mi ha fatto capire che la propaganda xenofoba di questa destra è talmente potente da influenzare pure chi è certo di aver acquisito le apposite difese immunitarie. Nel nostro Paese, l’inciviltà e il terrore verso chi non è simile a noi si è radicata al punto che perfino il centravanti della Juventus Amauri (non proprio uno sconosciuto), di recente, è stato vittima di un episodio di razzismo: in una farmacia stava posando un pacco di pannolini in uno scaffale vicino all’uscita e la farmacista voleva chiamare i carabinieri, accusandolo di stare rubando la merce. Un calciatore di Serie A che gioca in una delle squadre più blasonate del mondo: comprendiamo in che baratro siamo scivolati? Per chi fosse debole di memoria, ricordiamo che il governo che ha varato le ronde è lo stesso che ha approvato le classi differenziali per gli immigrati, tutte le ignobili leggi razziali (dalle impronte ai bambini rom alla possibilità per i medici di denunciare i clandestini) di cui abbiamo parlato a lungo nelle scorse settimane e tutte le norme tese a smantellare la giustizia affinché funzioni come vuole il Premier, cioè non funzioni per niente. La cultura dell’odio è come la censura: non ha più bisogno di un innesco, di qualcuno che la pratichi perché ormai viaggia col pilota automatico. La gente viene costantemente terrorizzata dai telegiornali di proprietà o sotto il diretto controllo del padrone (cinque su sei); dopodiché viene irretita dal "Grande Fratello" e da tutta la spazzatura televisiva che impazza in prima serata per nascondere ciò che c’è di buono (perché qualcosa di buono ancora c’è) in seconda se non addirittura in terza serata; infine, per chi li legge, viene definitivamente addomesticata dai giornali che, anche quando non sono di proprietà del Padrone, finiscono col diventarlo dato che Berlusconi ha il dominio assoluto non solo sull’informazione ma pure sulla pubblicità e senza gli introiti pubblicitari nessun giornale può sopravvivere. Per rendere ancor più opprimente il monopolio del Padrone, il fido Tremonti ha varato una Finanziaria che prevede nuovi tagli all’editoria, così da rendere imprescindibile per le varie testate l’apporto delle entrate pubblicitarie, altrimenti l’unica prospettiva è il fallimento. Detto in altri termini, più espliciti: o stai con noi o muori, il che dimostra che in gioventù Berlusconi ha imparato più di quanto non si pensi dallo "stalliere" Vittorio Mangano. Alcuni irriducibili ottimisti si chiedono come mai la gente non si arrabbi, non si batta, non protesti più. La risposta è semplice: la gente non esiste più, è stata irretita, colonizzata mentalmente, ridotta ad un insieme di automi che dicono ciò che vuole il Padrone e agiscono come vuole il Padrone, proprio come i suoi ministri. Eppure, questo Paese è ricchissimo di menti eccezionali, di ragazzi capaci, di persone che si impegnano e spendono tutte le proprie energie per quello in cui credono, senza rassegnarsi al pensiero unico ben incarnato dagli studenti intrappolati nei grembiulini della pedagoga Gelmini. Un tempo l’opinione pubblica si sarebbe indignata se qualcuno avesse proposto le ronde, sarebbe andata a manifestare solidarietà sia nei confronti della ragazza stuprata sia nei confronti dei commercianti stranieri presi di mira dalle squadracce fasciste che girano indisturbate per le vie delle nostre città; oggi l’opinione pubblica non esiste più, la gente plaude ogni volta che viene maltrattato un poveraccio che non sia italiano e finisce con l’avere paura di chiunque, se è "diverso" non ne parliamo, i bambini arrivano a disegnare con perfida voluttà i campi rom dati alle fiamme, i giornalisti hanno rinunciato al proprio dovere di esercitare un controllo su chi governa per non mettere a rischio la loro carriera e l’odio aumenta. Spero di sbagliarmi, ma non vorrei che prima o poi dovessimo cominciare ad avere seriamente paura della rabbia incontrollata di questi immigrati che non ce la fanno più a subire le angherie, il disprezzo e la violenza di un popolo di cittadini pensanti che questa destra ha reso un’accozzaglia di sudditi. Giustizia: da Padova a Forlì s’è aperto il "mercato delle ronde" di Paolo Persichetti
Liberazione, 2 marzo 2009
Dopo l’entrata in vigore del decreto legge sulle ronde in molte parti d’Italia si è assistito ad un proliferare di "associazioni di volontari per la sicurezza", intenzionati a presidiare il territorio con funzioni ausiliarie delle forze dell’ordine. A Padova militanti di An e della Lega sono scesi in alcuni quartieri fino a quando hanno trovato la strada sbarrata dai giovani dei centri sociali. Un po’ di sberle e l’intervento della polizia hanno messo fine ad all’iniziativa. L’indeterminatezza e la prosa allusiva contenuta nel testo varato dal governo lo scorso 25 febbraio hanno lasciato ampio spazio alle interpretazioni più pericolose e così si è immediatamente scatenata la corsa all’accaparramento del mercato politico-mediatico delle ronde. Il testo approvato, infatti, pur dando priorità alle associazioni composte da personale delle forze dell’ordine in congedo, estende il ricorso alla collaborazione con i comuni ad ogni altro tipo di "associazione tra cittadini non armati", purché compaiano in un’apposita lista depositata in prefettura e non usufruiscano di finanziamenti pubblici. Formulazione che sembra aprire al finanziamento privato della vigilanza, sul modello delle "agenzie private di sicurezza" teorizzato dai partigiani dell’ultracapitalismo selvaggio come lo studioso americano Robert Noizick. L’impresa delle ronde è diventata subito un terreno d’accesa competizione per il controllo del territorio tra schiere di leghisti e squadre di An, Storace, Forza nuova e Fiamma tricolore. A Verona la giunta comunale ha istituito gli "assistenti civici", ad Udine la Lega ha annunciato la creazione di ronde entro il mese. A Milano come a Napoli agiscono da tempo i City Angels e i Blue Berets. A Torino e Ferrara giovani di An sono scesi in strada, mentre a Trieste Fiamma tricolore sta organizzando ronde intitolate alla memoria di Ettore Muti. A Bologna ci sono state iniziative episodiche di An, Forza nuova e Lega. A Forlì la Lega ha creato delle "ronde civiche". A Roma invece è molto attiva la Destra di Storace che ha sguinzagliato i propri militanti e annunciato la nascita di "ronde rosa" nel quartiere dell’Eur. Un’Italia, insomma, che assomigli sempre più al piazzale di una caserma con adunate e alzabandiera mattutini. "Riprendiamoci la città" era uno degli slogan che più echeggiava ne gli anni 70. Lanciato da Lotta continua venne ripreso durante il movimento del 77, dove risuonò come una slavina durante gli enormi cortei. Dietro questa parola d’ordine agiva il protagonismo di soggetti deboli e misconosciuti, la partecipazione irruenta dei senza parola alla vita pubblica contro ogni forma di sfruttamento, sopraffazione, carovita, per un uso pubblico e sociale della città, dove trovassero soddisfazione i bisogni dei cittadini, reddito, trasporti, verde, cultura, gli spazi di socialità, musica, feste. Mai il senso delle parole ha potuto segnare la direzione di un’epoca come in questo caso. Ciò che allora voleva indicare la riconquista condivisa dello spazio pubblico, un allargamento della cooperazione e della socializzazione, l’uscita dai ghetti della fabbrica, dei quartieri dormitorio, del privato, ora indica l’esatto opposto. Oggi a lanciare questo slogan sono le truppe del Carroccio e le squadre della destra che coagulano gli interessi particolaristici dei bottegai, di cittadini blindati nei loro villini a schiera, di lavoratori atterriti dalla crisi economica. Ma le ronde non fanno primavera. Giustizia: carabinieri e poliziotti; bisogna fermare queste ronde
Corriere della Sera, 2 marzo 2009
La definizione non lascia spazio agli equivoci: "Misura impraticabile". Così il Cocer dei carabinieri boccia le ronde e chiede un incontro al capo dello Stato e al presidente del Consiglio "per avere chiarimenti su tematiche che oggi offuscano la serenità dei nostri colleghi". Fanno sponda i sindacati di polizia, in particolare il Silp Cgil e il Sap (che da Torino denuncia: "I partiti cercano di lottizzare le ronde, per noi un ruolo di badanti"), che al governo si appellano affinché "non sia convertita in legge quella norma". Il fronte contrario è compatto, soprattutto dopo quanto è avvenuto a Padova con la rissa tra i leghisti di "Veneto Sicuro" e gli antagonisti del centro sociale "Pedro" e la Digos in mezzo a cercare di dividere i contendenti. E tenendo conto di quanto potrebbe avvenire nei prossimi giorni, con le associazioni di cittadini che in molte città si stanno organizzando per pattugliare parchi e strade. A Napoli, dove gli abitanti del quartiere dove è stato arrestato Pasquale Modestino per lo stupro su un dodicenne avevano già annunciato ronde antipedofili, in tanti hanno chiamato il numero verde della Protezione civile, per chiedere una presenza davanti alle scuole dei propri figli. Oggi il debutto. Favorevole il sindaco di Cicciano, contrario quello di Massa di Somma, i Comuni che sono stati teatro delle ultime violenze. La rappresentanza dell’Arma è chiara: "Non è così che si risolvono i problemi della sicurezza". Un lungo comunicato entra nel dettaglio di quanto avvenuto nelle ultime ore e poi chiede risorse economiche "assegnate ormai da anni in misura sempre minore dalle varie Finanziarie alle forze dell’ordine", ma anche potenziamento degli organici perché "non si possono istituire ronde di vigilanza quando tra poliziotti e carabinieri mancano quasi 10 mila uomini". Per il Cocer "l’impianto sicurezza dev’essere basato su due pilastri fondamentali: l’incremento consistente delle risorse economiche al fine di migliorare gli standard operativi, logistici e tecnologici delle forze di polizia; la creazione immediata di nuovi istituti di pena al fine di scongiurare nuovamente l’ipotesi di un indulto, vanificando i notevoli sacrifici di magistrati, poliziotti e carabinieri". Nei giorni scorsi i sindacati di polizia avevano espresso critiche forti sulla scelta di inserire le ronde nel decreto legge. E adesso Claudio Giardullo del Silp-Cgil ribadisce "la necessità di ripensare questa norma, perché bisogna evitare che la gente si faccia male per strada, ma soprattutto impedire che la gestione della sicurezza sia affidata ai partiti. E invece proprio questo sta avvenendo, con ronde politicizzate che non possono garantire né sul piano dell’imparzialità né su quello della professionalità". In ogni caso "è urgente, visto che il provvedimento è in vigore, varare il regolamento di attuazione in modo da vietare sponsor economici e politici e fissare le regole sugli equipaggiamenti. Bisogna impedire che la gente vada in giro con cani, bastoni, spray urticanti, caschi". Anche il segretario del Sap Nicola Tanzi evidenzia le difficoltà e sottolinea come "i centralini di questure e comandi dei carabinieri, così come i numeri di emergenza siano intasati dalle chiamate di chi segnala situazioni e chiede l’intervento delle forze dell’ordine. Noi non riusciamo a fare fronte e quando non arriviamo in tempo c’è chi interviene da solo. Una spirale pericolosa che va fermata con la massima urgenza". Giustizia: ronde e centri sociali si scontrano, interviene la polizia di Frida Roy
Aprile on-line, 2 marzo 2009
La cronaca di questo fine settimana ci parla di scontri tra ronde e centri sociali, di poliziotti costretti a scortare le ronde per evitare tafferugli. Insomma i fatti parlano da soli e dimostrano come le scelte tanto decantate di questo governo in tema di sicurezza siano non solo inutili, ma anche dannose. Il caso di Padova e la manifestazione di Milano contro le logiche securitarie, per l’autogestione e gli spazi sociali. Le ronde sono solo una misura "di facciata" e servono per "calmare gli istinti", hanno funzionato come "milizie peripatetiche di partito" con il rischio di creare più problemi che benefici. come recentemente dimostrato dai fatti di cronaca. A dirlo non è un esponente dell’opposizione né un giovane dei centri sociali bensì il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Beppe Pisanu, ospite del sabato sera alla trasmissione "Che tempo che fa" di Fabio Fazio. E la cronaca di questo fine settimana ci parla di scontri tra ronde e centri sociali, di poliziotti costretti a scortare le ronde per evitare tafferugli. Insomma i fatti parlano da soli e dimostrano come le scelte tanto decantate di questo governo in tema di sicurezza siano non solo inutili, ma anche dannose A Milano. Dai colori e gli sfottò in perfetto clima carnevalesco, con il solito strascico di scritte disseminate sui muri lungo il percorso, al nervosismo dell’attesa delle notizie provenienti da Bergamo. È stato il cambio di clima che ha spezzato in due il corteo nazionale di sabato a Milano indetto dai centri sociali contro le logiche securitarie, per l’autogestione e gli spazi sociali. Le prime voci degli scontri tra i compagni partiti per la città orobica per impedire l’apertura di una sede di Forza Nuova e le forze dell’ordine sono cominciate a circolare a metà del lungo tragitto iniziato alle 16 da piazza XXIV Maggio. Arrivati all’altezza di via De Amicis le preoccupazioni sono rimbalzate fino al corteo di testa che ha comunicato a tutti le poche informazioni che arrivavano via cellulare da Bergamo. Con il crescere del numero dei fermati di cui giungeva via via notizia, è aumentato il nervosismo tra i 10 mila partecipanti. È stato il punto di svolta di un corteo che, fino a quel momento, aveva attraversato la città pacificamente riempiendola di colori, maschere carnevalesche, pupazzi e cori di scherno diretti verso l’amministrazione comunale e il governo. Poi, l’eco degli scontri bergamaschi ha fatto comparire decine di ragazzi a volto coperto con cappucci delle felpe, sciarpe e passamontagna. Dopo diversi minuti passati a decidere il da farsi, il corteo ha deciso di proseguire la sua strada fino a quando "i compagni fermati non verranno tutti liberati". I numeri si sono quindi ridotti. Sono andati via gli spezzoni dei lavoratori della Innse e delle sigle partitiche della sinistra radicale. A sfilare sono rimasti in oltre un migliaio compresi i diversi esponenti di realtà occupate di fuori Milano e di altre regioni. Dai fumogeni e dalle azioni spettacolari, come gli striscioni issati sopra Porta Romana in piazzale Medaglie d’Oro e il sabotaggio dei cancelli dei giardini di piazza Vetra, si è passati ai cestini incendiati e ai petardi lanciati contro gli agenti e i mezzi delle forze dell’ordine che controllavano a distanza. Quando la tensione ha raggiunto il culmine, all’incrocio tra viale Toscana e via Castelbarco, dove allo schieramento massiccio di agenti in tenuta antisommossa i manifestanti hanno risposto con il lancio di qualche petardo, le telefonate rassicuranti dei legali dei ragazzi fermati a Bergamo, in cui comunicavano il rilascio dei più, hanno smorzato la rabbia e i toni della protesta e il serpentone che ha paralizzato per ore il traffico del sabato ha raggiunto, intorno alle 21, il luogo da dove era partito, piazza XXIV Maggio, dove il corteo si è infine sciolto. A Padova. Le ronde dovrebbero dare una mano alle forze dell’ordine per la sicurezza nelle città. A Padova, invece, succede che la polizia deve fare gli straordinari per proteggere i leghisti di "Veneto Sicuro". È successo sabato sera in occasione di una mini ronda (meno di 10 persone) alla stazione ferroviaria, dove sono volati insulti e qualche schiaffo tra i rondisti e i giovani dei Centri sociali che invece volevano portare coperte e generi di conforto ai senzatetto. Per il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, si è giunti al paradosso: "siamo arrivati alle guardie dei guardiani - dice -, il risultato pratico è che le forze dell’ordine devono impegnarsi per proteggere i rondisti anziché i cittadini nei quartieri". I componenti del centro sociale Pedro che avrebbero provocato i volontari leghisti con la pettorina verde di Veneto Sicuro sono stati tutti identificati dalla Digos e verranno deferiti all’autorità giudiziaria. Attendendo l’eventuale querela di parte, la polizia segnalerà l’episodio delle minacce, insulti e spintoni di cui si sono resi protagonisti i disobbedienti nei confronti dei leghisti. Il questore di Padova, Luigi Savina, invita però a mantenere la calma: "la verità sull’impiego di cittadini per il controllo del territorio - dice il questore - ci sarà fra 60 giorni, con l’emanazione del decreto del ministro Maroni che regolamenterà in maniera seria i volontari per la sicurezza. Chi si muove adesso in forma estemporanea, in una passeggiata per poche ore chiamandola ronda o facendo una fiaccolata sono manifestanti così come lo sono gli studenti quando fanno i loro sit-in, o gli operai in sciopero". Il questore snocciola infine i dati del bilancio 2008 del crimine nel padovano. "Sono in calo del 20% - osserva Savina - ed è un trend comune in tutta Italia. Noi ci auguriamo di trovarci alla fine di quest’anno con un ulteriore calo di un altro 20%". Ronde e rondisti permettendo. Giustizia: testamento biologico; se l’urgenza fa male alla legge di Carlo Federico Grosso (Ordinario di Diritto all’Università di Torino)
La Stampa, 2 marzo 2009
L’hanno dichiarato cardinali e vescovi, l’hanno ripetuto politici e persone comuni: si tratta di omicidio. Qualcuno, zelante, ha anche presentato una denuncia. La procura della Repubblica ha, di conseguenza, iscritto i responsabili della procedura nel registro degli indagati con l’imputazione di omicidio volontario. È ragionevole pensare che tale vicenda giudiziaria, se i protocolli sono stati rispettati, si afflosci subito, poiché c’è stata una sentenza che ha riconosciuto a Eluana Englaro il diritto di morire, e pertanto al suo tutore e ai medici il diritto di procedere. E se si esercita un diritto non si può, nello stesso tempo, commettere un reato. L’ultima coda della vicenda ripropone, comunque, il tema della presenza minacciosa del codice penale in ogni caso di "morte accompagnata", si tratti di omesso accanimento terapeutico, di cura palliativa, di stacco della spina o del sondino. Si ricorderà che anche nel caso Welby, dove una persona cosciente aveva manifestato la volontà d’interrompere il trattamento che le consentiva di respirare, dopo la morte è dovuto comunque intervenire un giudice per riconoscere la liceità di quanto era accaduto. Sul terreno della tutela della vita il codice è rigoroso. Commette omicidio chi cagiona la morte di un uomo. Costituisce condotta omicidiaria sia l’azione che determina la morte (sparare, avvelenare), sia l’omissione di atti che avrebbero impedito di morire (omessa erogazione di cibo, di cure). Ma non solo: cagionare l’accorciamento della vita equivale, per la legge, a causare la morte. La volontà di proteggere in maniera forte la vita emerge, altresì, dalle norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o l’aiuto al suicidio. La vita è bene assolutamente indisponibile, si ragiona, e pertanto il consenso a essere uccisi non giustifica, mentre chi determina altri al suicidio, o lo agevola, è considerato, nella sostanza, un concorrente in omicidio. Queste norme sono state, ovviamente, pensate con riferimento alla normalità della vita che viene offesa: la vita di chi sta bene o di chi, seppure malato, non si trova in una condizione estrema (malattia terminale, incoscienza persistente). Di per sé, esse parrebbero tuttavia applicabili a ogni ipotesi di privazione o accorciamento della vita. E in effetti, fino a una quarantina di anni fa, nessuno azzardava che fosse lecito interrompere le cure principali a un malato terminale o praticare interventi palliativi al costo di abbreviare i tempi naturali della vita. Poi le cose sono cambiate. Si è giudicato, pian piano, che l’accanimento terapeutico nei confronti del malato terminale costituisse una inutile protrazione di sofferenza e che fosse preferibile interrompere le cure principali e affidare alla natura il decorso di fine vita. È emersa, nel contempo, una grande attenzione per il problema dell’eliminazione del dolore. In questa prospettiva si è cominciato a pensare, pesando vantaggi e svantaggi, che l’erogazione di sostanze idonee fosse comunque consentita. Oggi, con la benedizione della Chiesa, entrambe tali pratiche sono diventate prassi e norme deontologiche mediche, anche se esse non sono state, fino ad ora, espressamente legittimate da una legge. La scienza giuridica, di fronte alla nuova realtà, ha spiegato che nel caso dei malati terminali non c’è ragione di sostenere con le medicine una vita ormai consunta. Non c’è, nella realtà, più vita dignitosa e viene quindi meno il dovere giuridico di impedire (o procrastinare) una morte comunque prossima, salvo che il malato abbia dichiarato di voler essere curato fino in fondo. Rimane aperto, invece, il problema della liceità o meno dello stacco della spina o dell’interruzione dell’alimentazione artificiale di chi si trova in stato di coma persistente. Si tratta di un ulteriore caso estremo, che si differenzia dal precedente per non essere, il malato, in una condizione di vita terminale. La sua vita incosciente può durare anni. È certo, soltanto, che non dovrebbe più risvegliarsi. Di fronte alla condizione d’incoscienza persistente, nessuno si è sentito di affermare che è lecito staccare la spina o interrompere l’alimentazione artificiale. La situazione cambia, soltanto, nel caso in cui il malato, quando era cosciente, abbia manifestato la volontà di non essere sottoposto a trattamento. In quest’ipotesi, si sostiene, le norme sulla protezione della vita dovrebbero cedere il passo al principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà (art. 35 della Costituzione). In caso di mancanza di volontà manifestata, nessun terzo potrebbe, comunque, legittimamente intervenire. La legge sulla fine della vita dovrebbe, ora, fare chiarezza su tutti questi punti, e in astratto sarebbe bene che ciò accadesse. In materia di accanimento terapeutico e cure palliative vi è ampio consenso. In tema di alimentazione artificiale, invece, grande divisione: c’è chi sostiene che l’alimentazione dovrebbe essere imposta anche a chi ha dichiarato di non volerla, chi ritiene che la volontà del paziente debba essere rispettata, chi propone di affidare, pure in questo caso, la decisione all’apprezzamento di medici e fiduciari. Il rischio è che, nella concitazione del momento, la politica si lasci sopraffare da sentimenti ed emozioni e licenzi una legge pessima, prevaricatrice di diritti e libertà. E allora, perché non soprassedere, aspettando che, decantate le reciproche acrimonie, tempi più provvidi consentano l’adozione di soluzioni ragionate e condivise? Sarebbe, tutto sommato, oggi, la soluzione più prudente. Giustizia: ecco come "non fare" la riforma sulle intercettazioni di Roberto Miliacca
Italia Oggi, 2 marzo 2009
Tanto tuonò che piovve. Non ci viene altro pensiero seguendo il dibattito di queste settimane in materia di intercettazioni. Una riforma annunciata da tempo, sulla quale però sono più i passi del gambero che sono stati fatti da governo e parlamento, piuttosto che le conferme date alle previsioni del testo originario. Certo, si dirà che il dibattito è l’essenza stessa della democrazia e che si sta affrontando un provvedimento che va a toccare moltissimi diritti: quelli degli indagati, innanzitutto, che hanno diritto a veder tutelata la riservatezza delle proprie comunicazioni e a una giusta durata delle indagini nei loro confronti; quelli della magistratura inquirente e della polizia giudiziaria, che hanno diritto a ricercare le prove del compimento di un reato con tutti gli strumenti, anche informatici, che le attuali tecnologie gli consentono; e anche quelli degli avvocati, che hanno diritto a raggiungere quella reale e giusta parità con la pubblica accusa nel processo penale, ad esempio nella ricerca delle prove per scagionare i propri clienti, da sempre agognata. Tutti diritti sacrosanti, sia ben chiaro, per difendere o attuare i quali il ministro della giustizia aveva messo a punto un disegno di legge per contenere l’abuso, peraltro costoso, di intercettazioni: nuove modalità di autorizzazione, minor durata e limiti alla loro pubblicabilità sui giornali. Bene, da quando è stato presentato a oggi, quel ddl ha subìto e sta subendo tante di quelle modifiche che alla fine il testo sul quale il parlamento dovrà votare non farà altro che riconfermare lo status quo: i reati per i quali potranno essere disposte le intercettazioni sono praticamente gli stessi di oggi; il principio dell’esistenza di "gravi indizi di colpevolezza" come motivazione che giustifica la firma del decreto che dispone l’intercettazione torna sostanzialmente a essere l’attuale, cioè i "gravi indizi di reato" (o meglio "oggettivi", anche se a firmarlo sarà un collegio composto da tre giudici); i giornali continueranno a esercitare il loro diritto di cronaca (per fortuna, ndr) pubblicando gli atti del processo nel momento in cui questi saranno a disposizione delle parti (come avviene oggi, d’altronde). E allora? Cosa cambia? Ci si chiede: è una vera riforma? E evidente che bisogna attendere la fine dell’iter parlamentare prima di emettere un verdetto. Però i giudici di Roma mercoledì, nel disporre l’archiviazione dell’indagine per corruzione nei confronti del premier e dell’ex direttore di Rai Fiction, hanno disposto anche la distruzione delle intercettazioni utilizzate nel procedimento. E lo hanno fatto "sic stantibus rebus", cioè alla luce della normativa esistente. Viene da domandarsi, insomma: serve proprio legiferare in questo modo? Speriamo solo di non dover ripeterci la domanda per altre riforme. Giustizia: nel reato di stalking l’aggravante è solo per gli "ex" di Antonio Ciccia
Italia Oggi, 2 marzo 2009
Il coniuge separato o divorziato è più tutelato del coniuge attuale. Scatta, infatti, un’aggravante in caso di stalking ai danni dell’ex, mentre la pena è quella base se la vittima della molestia è l’attuale moglie o marito. Così prevede il decreto legge 11/2009 (in vigore dal 24 febbraio 2009), che pure rischia di non avere alcun effetto pratico. E questo perché condiziona la punizione del colpevole alla presentazione della querela della persona offesa. E l’esperienza insegna che la vittima molto spesso è in tale stato di paura e soggezione da non sporgere querela per timore di ritorsione. Insomma in materia di stalking i provvedimenti del cosiddetto decreto sicurezza rischiano di essere simbolici (per tacitare l’opinione pubblica scossa dalle notizie di cronaca nera) e quindi senza effetto pratico. O addirittura con alcune sorprese (non si capisce perché l’incolumità fisica e psichica del coniuge debba valere meno di quella dell’ex). Sul piano astratto e pur con le riserve di effettività della normativa, il decreto legge in esame vuole alzare barriere contro chi, soprattutto in famiglia, costringe la vittima a una vita di inferno. Le barriere sono di duplice natura: amministrativa e penale. Anche se la fattispecie introdotta dal decreto legge nasconde insidie interpretative per la vaghezza della formulazione della disposizione. Peraltro la norma stessa potrà essere utilizzata per chiedere risarcimenti dei danni esistenziali, apparentemente azzerati dalla Corte di cassazione, ma ancora oggi conseguibili se il fatto illecito assume rilevanza penale. La tutela delle vittime di stalking potrà esprimersi, quindi, anche sul piano civile come effetto derivato dal decreto in esame. Peraltro il provvedimento interviene direttamente solo sulla legislazione penale e su quella amministrativa. Quanto alla prima si introduce il reato di atti persecutori (nuovo articolo 612 bis del codice penale); quanto alla seconda viene conferito all’autorità di pubblica sicurezza il potere di ammonire il molestatore o stalker e di allontanarlo dai luoghi frequentati dalla persona molestata. La necessità di intervenire sul piano penale è conseguenza della inadeguatezza del codice penale a punire le molestie continuate di ex mariti, ex conviventi, ex fidanzati, o anche solo conoscenti, colleghi, ma anche estranei. In assenza di una norma espressa (come quella portata dal decreto) era difficile inquadrare penalmente ripetute condotte di per se stesse non integranti reato, come telefonate, appostamenti, pedinamenti. Contro questo mobbing relazionale si sono rilevati insufficienti i reati di violenza privata, minaccia, ingiuria, danneggiamento. L’assenza di una rete di tutela aveva, soprattutto nelle personalità deviate, l’effetto incentivante a reiterare le molestie. Per contrastare il fenomeno il decreto legge, dunque, introduce il nuovo reato di "atti persecutori", punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, consistente in condotte reiterate di minaccia o molestia in modo da "cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita". Il reato è "causale": ossia non descrive esattamente una condotta, ma punisce tutti i comportamenti in grado di causare una determinata conseguenza; inoltre questa conseguenza dipende dalle caratteristiche soggettive o da scelte della vittima. Inoltre mentre è ben chiaro il concetto di "minaccia" i giudici dovranno approfondire quello di "molestia", così da evitare lassismi o rigorismi nella punizione. La norma vuole infatti punire chi rende la vita impossibile e costringe altri a non condurre le proprie occupazioni in serenità. Ci sono, comunque, due barriere di garanzia per l’incolpato: la prima è che le condotte devono essere più di una. La seconda è che il timore ingenerato nella vittima deve essere "fondato" e quindi non può essere rilevato in una percezione sproporzionata della vittima di atti magari emulativi e non molesti. Nella consapevolezza che la sede in cui si colloca lo stalking è molto spesso la famiglia, il decreto prevede l’aumento di pena se la vittima è il coniuge separato o divorziato o l’ex partner. Si tratta di un notevole riconoscimento non solo della convivenza more uxorio, ma anche della semplice relazione sentimentale (anch’essa sarà oggetto di accertamento in sede giurisprudenziale). La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. Non si comprende perché la tutela rafforzata dall’aggravante non scatti per il coniuge attuale. Mentre scatta una aggravante nel caso di stalking a minorenne, donna incinta o persona disabile. Facendo un passo indietro rispetto al disegno di legge (assorbito nel decreto) in il delitto è punito a querela della persona offesa (per cui sono accordati sei mesi di tempo, contro i tre ordinari), tranne che per stalking a danni di minore o disabile o connessione con reato procedibile di ufficio. La tutela amministrativa si svolge mediante l’intervento del questore, che può ammonire il responsabile. Si tratta di un richiamo ufficiale a comportarsi bene, che peraltro neppure impedisce la richiesta di porto d’armi. L’unica conseguenza è che il soggetto ammonito sarà perseguibile d’ufficio per successivi atti di stalking. Insomma non molto per la vittima, che anche per questo sarà disincentivata dal timore di ritorsione. Non si colloca sul piano penale, ma potrà avere una sua rilevanza l’attività di assistenza psicologica che dovrà essere fornita tramite un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori, attivo 24 ore su 24. Inoltre, viene introdotta la misura cautelare (in attesa di giudizio) del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ovvero dai suoi prossimi congiunti o conviventi. Il giudice potrà vietare all’imputato di comunicare con qualsiasi mezzo, non solo con la vittima ma anche con le persone a questa affettivamente vicine. Il giudice ha anche discrezionalità di decidere quale misura adottare se aggressore e aggredito hanno abitazioni vicine o stessi posti di lavoro. Per gli atti persecutori sarà possibile l’incidente probatorio, con particolari cautele se si tratta di ascoltare minorenni. Con una integrazione al codice civile, infine (articolo 342-bis), si amplia la durata, in 12 mesi, del decreto del giudice con cui si ordina la cessazione della condotta criminosa, l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima. Giustizia: Carfagna; contro stupri pene "speciali" e banca del dna
La Repubblica, 2 marzo 2009
Una banca del Dna e una punizione "speciale" per il branco: sono le misure che il ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna vuole introdurre nel decreto anti-stupri varato dal governo il 20 febbraio, come annuncia in un’intervista al settimanale "Gente" in edicola oggi. "Chiederò d’introdurre con un emendamento la banca dati del Dna, che richiede regolamenti attuativi che mal si sarebbero adattati allo strumento del provvedimento d’urgenza, e la punizione speciale per il branco: a rischiare l’ergastolo non sarà più solo chi commette lo stupro, ma anche il palo, per esempio". Nell’intervista, il ministro Carfagna annuncia anche un ulteriore giro di vite sulle pene per i responsabili di violenze sessuali: "In commissione Giustizia c’è un testo unico che contiene alcune mie proposte, tra cui aggravanti e ulteriore inasprimento della pena se lo stupratore ha usato armi o sostanze atte a modificare la lucidità della vittima, nel caso in cui il colpevole abbia fatto uso della propria autorità, o ancora quando la vittima è un minore, un soggetto instabile o una donna in stato di gravidanza". L’emergenza stupri, tuttavia, non riguarda solo la sicurezza, ma è anche un problema culturale, se è vero che l’80 per cento dei colpevoli è conosciuto dalla vittima. "È evidente", osserva il ministro Carfagna, "che in Italia c’è ancora una cultura che nega pari diritti e pari dignità alle donne: io sto lavorando con il ministro dell’Istruzione Gelmini perché nelle scuole venga insegnato il rispetto dell’altro sesso e la cultura della non violenza e nei prossimi mesi usciremo con una campagna, su Tv e stampa, per far capire alle donne che quando si subisce qualcosa del genere bisogna denunciare immediatamente. Ancora: vogliamo potenziare il numero verde antiviolenza 1522, creando una sinergia col ministero dell’Interno collegandolo alle centrali operative delle forze dell’ordine". Giustizia: giornali, abuso del diritto di cronaca e intercettazioni di Pierluigi Battista
Corriere della Sera, 2 marzo 2009
Gentili dirigenti della Federazione nazionale della Stampa, illustri rappresentanti dell’Ordine dei giornalisti, non credete che tra i valori costituzionalmente tutelati vi sia anche il diritto di un cittadino nemmeno indagato di non vedersi massacrare dalla pubblicazione di intercettazioni talmente marginali da prevederne addirittura la distruzione disposta dalla stessa magistratura? Non credete che il da tutti riconosciuto abuso delle intercettazioni squadernate dai giornali appaia statisticamente irrilevante se considerato in generale, ma devastante, mortale, offensivo, insopportabilmente violento per il singolo che ne viene stritolato? Non credete che il diritto alla riservatezza, il diritto di ciascuno a non vedere sfigurata e distrutta la propria reputazione abbia un valore uguale, non inferiore o superiore, ma semplicemente uguale, a quello che giustamente attribuiamo alla libertà di stampa? Vi piacerebbe che il vostro nome, o il nome di un vostro caro, sia divorato dalla macchina dello sputtanamento pubblico? E se non vi piace, perché fate finta di ignorare la violenza esercitata su altri cittadini che pure dovrebbero godere dei vostri diritti? L’articolo 15 della Costituzione vale per voi, ma per i poveri diavoli sprovvisti del magico tesserino dell’Ordine invece no? Gentili e illustri colleghi, sapete indicare una nazione, una sola nazione nel novero delle democrazie occidentali che hanno consuetudine con l’esercizio della libertà di stampa, in cui gli "abusi" siano così frequenti, martellanti, serialmente "abusivi" come da noi? Avete anche una pallida idea di come sia rigidamente applicato il diritto alla riservatezza in Gran Bretagna, che forse una certa dimestichezza con i diritti di tutti e di ciascuno, dall’habeas corpus in poi, la può legittimamente vantare? Possibile che la vostra cecità corporativa, il vostro unilateralismo professionale non vi permetta di vedere che la registrazione, la divulgazione, addirittura la teatralizzazione televisiva di conversazioni personali prive di alcun rilievo penale costituisce una forma di linciaggio che dovrebbe indignare chiunque abbia a cuore i diritti fondamentali di ciascuno? Vi sentite colpiti e mortificati per la dismisura del carcere previsto per i giornalisti? Non siete i soli a giudicare sproporzionata, eccessiva, vendicativa una punizione così severa, ma è possibile proporre la promozione di una lettura poco edificante per la nostra categoria? Contribuireste a diffondere tra i vostri iscritti e nostri colleghi un libro come "Applausi e sputi. Le due vite di Enzo Tortora" di Vittorio Pezzato (Sperling & Kupfer) dove è minuziosamente documentata la sequenza di nefandezze servili e di infamie conformiste e forcaiole di cui la nostra categoria (con le sue migliori firme, andate a controllare l’indice dei nomi) finì per macchiarsi con voluttà autolesionistica? Sareste disposti a riconoscere che in quell’occasione, più che la libertà di cronaca, la bandiera sventolata dai vostri e nostri colleghi fu quella del diritto impunito al linciaggio, alla caccia all’uomo, all’abuso di menzogna per colpire un uomo inerme e innocente? Avete qualche altra proposta credibile per fermare i nostri "abusi"? Con riconoscente cordialità. Giustizia: operaio-detenuto; il carcere non aiuta a cambiare vita di Stefano Di Leonardo
www.primonumero.it, 2 marzo 2009
Intervista a un bassomolisano in carcere per spaccio di droga. "Ho trovato un lavoro esterno, ma quante difficoltà. Se non c’è qualcuno che ti dà una mano, reinserirsi nel mondo civile è impossibile". I problemi burocratici e gli intralci di norme che mortificano la voglia di lasciarsi alle spalle il crimine. Una condanna a quattro anni per spaccio di sostanze stupefacenti. La detenzione in diversi carceri fra Abruzzo e Molise. Da qualche mese un lavoro stabile, lo stato di semilibertà, la giornata divisa fra casa, fabbrica e cella. Fra pochi mesi la libertà. È la storia del bassomolisano Paolo (nome di pura invenzione, ndr) che ha accettato di incontrare Primonumero per raccontare la sua vicenda di detenuto in semilibertà al carcere di Vasto. Paolo ha voluto parlare delle difficoltà nel portare avanti un lavoro nonostante la detenzione, della sua voglia di reinserimento, dei problemi economici derivati dalla necessità di portare avanti una famiglia in una situazione così particolare. Senza dimenticare le sue prospettive future e le sue speranze per i prossimi mesi, quando finalmente tornerà a essere un uomo libero.
Da quanto tempo è in carcere? "Sono in carcere da circa tre anni e mezzo a causa di una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti. Sono stato recluso dapprima a Larino e ora sono a Vasto. La mia pena scadrà fra pochi mesi".
Lei però non è un detenuto per così dire classico, di quelli che si vedono nei film, tutto il giorno chiuso fra quattro mura. "No, infatti. Da circa un anno ho trovato un lavoro stabile, grazie al quale mi è stata concessa la semilibertà. Faccio l’operaio in una fabbrica del Vastese. Così passo tutta la giornata fuori, con la possibilità di trascorrere del tempo con mia moglie e i miei figli. Di notte però, devo tornare a dormire in carcere, tutti i giorni, tassativamente alle 21".
Come fa un detenuto a trovare un lavoro fuori? È stato difficile? "È fondamentale farsi aiutare dalle persone vicine, soprattutto i parenti, che vanno in giro a cercarti un posto, con tutte le difficoltà del caso. Per fortuna ho trovato quest’occupazione. Certo, all’inizio non è facile e devo dire che di certo il carcere non aiuta".
Cosa vuole dire? "Io credo che lo scopo di una detenzione deve essere principalmente quello di recuperare chi ha sbagliato e aiutare il suo reinserimento nella società. Invece spesso succede tutto il contrario".
Si spieghi meglio. "Quando l’educatore o gli assistenti sociali che seguono i detenuti incontrano per la prima volta il datore di lavoro che ha manifestato l’intenzione di assumere uno di noi, capita che dicano: "Guardi che lei sta prendendo un delinquente". Invece di dire che si sta dando una seconda possibilità a una persona che ha fatto uno sbaglio".
Quanto pesa questa situazione sul posto di lavoro? "All’inizio un po’. Poi per fortuna ci si conosce, calano le diffidenze. Posso dire che sul posto di lavoro mi trovo bene con tutti, dal capo ai colleghi e non mi fanno pesare niente. Anche se spesso il datore di lavoro deve sopportare delle grosse seccature".
Ad esempio? "Beh, innanzitutto le continue visite degli assistenti sociali, che non si limitano a osservare e riportare ciò che faccio, ma mi interrompono sul lavoro per farmi delle domande e questo si ripercuote sulla produzione. Poi c’è la questione della busta paga".
Quale questione? "Il nostro stipendio non viene versato a noi direttamente, ma passa prima alla amministrazione del carcere. Così capita che passino giorni prima di poter finalmente riscuotere i soldi che mi sono guadagnato. Persino prima di Natale ci hanno fatto aspettare per ottenere i pagamenti. I soldi ci sono stati versati solo il 23 dicembre. Ma il problema più grosso è un altro".
Quale? "C’è una norma che prevede che noi detenuti con un lavoro dobbiamo alla casa circondariale un quinto del nostro stipendio mensile che ci verrà poi restituito alla scadenza del periodo di detenzione. Io guadagno 1400 al mese, se mi si toglie anche quei 300 euro circa come faccio ad andare avanti?"
Ha difficoltà economiche? "Certo. Ho una famiglia da mantenere e le spese sono tante. Dalla benzina per recarmi ogni giorno al lavoro fino al mutuo per la casa. Non ce la faccio ad andare avanti. A cosa serve trattenere i soldi ora e ridarmeli quando sarò libero a tutti gli effetti se già ora vivo fuori. Io ho bisogno adesso di quei soldi."
Come riesce ad arrivare a fine mese? "Con grosse rinunce. E poi, se proprio è necessario, mi faccio prestare dei soldi, da amici, parenti, colleghi. Ma non so fino a quando. Ho anche provato a chiedere al direttore del carcere di poter svincolare quei soldi, ma lui mi ha risposto che si potrebbe fare solo in casi di seri motivi, tipo una grave malattia. Ma io non ho i soldi per mandare avanti la mia famiglia, questo non è un motivo serio?"
Ha mai trovato comprensione nella sua vita da carcerato? "Mi è capitato a Larino. Lì c’è una direttrice (Rosa La Ginestra, ndr) molto brava e molto umana. Lei ha fatto qualcosa di concreto per i detenuti, ha formato una cooperativa per aiutare il reinserimento. Anche con le famiglie, a Larino, c’era un rapporto diverso. Spesso erano gli assistenti sociali a contattare i miei familiari per sapere se occorreva loro qualcosa".
Fra qualche mese, sarà fuori. Cosa spera per la sua vita? "Innanzitutto spero di rimanere al lavoro dove sono adesso e riprendere una vita normale. Penso che tutti possano sbagliare nella vita, ma l’importante è dare sempre una possibilità di rimediare". Giustizia: stupro di Caffarella; dubbi sulle prove contro i romeni
La Stampa, 2 marzo 2009
Non ci sarebbe ancora la certezza scientifica che il Dna rilevato sulle vittime e su alcuni reperti dopo lo stupro e la rapina del 14 febbraio nel parco della Caffarella ai danni di una coppia di giovanissimi fidanzati corrisponda a quello dei due romeni arrestati qualche giorno dopo, Alexandru Loyos Isztoika e Karol Racz. I biologi hanno lavorato anche ieri per poter fornire al magistrato inquirente, il pm Vincenzo Barba, una relazione dettagliata e completa, ma altre analisi - secondo indiscrezioni - si renderebbero necessarie proprio per le differenze tra il Dna repertato sul posto subito dopo la violenza e quello ottenuto successivamente, con i prelievi attraverso il tampone salivale, dai due romeni arrestati, l’uno a Roma e l’altro a Livorno. Inoltre, a quanto pare, c’è un secondo aspetto che è ancora da chiarire: i telefonini in possesso dei due non sarebbero stati presenti nella zona della Caffarella nella fascia oraria in cui avveniva lo stupro, ovvero le "celle" non corrispondono. Questo comunque non significa automaticamente che i possessori dei due apparecchi non potessero essere ugualmente nel parco e magari non avessero con sé i telefonini. Si tratta quindi di chiarire questi aspetti che potrebbero essere determinanti. Il più giovane dei due, Alexandru Loyos, 19 anni, nei giorni successivi all’arresto aveva ritrattato la piena confessione resa, mentre l’altro, il 36enne Racz, si è sempre proclamato innocente. Ma gli investigatori della Squadra Mobile romana si dicono certi dei risultati delle indagini che nel giro di pochissimi giorni portarono all’arresto dei due romeni. Intanto proprio questa stamattina Racz dovrà comparire davanti al giudice in quanto sospettato di essere stato l’autore di uno stupro avvenuto in precedenza, la sera del 21 gennaio, sempre a Roma, vittima una 41enne aggredita e trascinata dietro alcuni cespugli mentre aspettava l’autobus e quindi violentata. La vittima parlò dell’aggressore come di una persona dal naso schiacciato, come quello di un pugile, e Racz ha questa caratteristica fisica. Puglia: le carceri scoppiano, 1.260 detenuti in più della norma di Marisa Ingrosso
La Gazzetta del Mezzogiorno, 2 marzo 2009
È emergenza nelle carceri di Puglia e Basilicata. Secondo gli ultimi dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), sono rinchiuse 1.260 persone in più rispetto alla "capienza regolamentare"; 1.125 sono nelle carceri pugliesi e 135 nei tre istituti lucani. In pratica - come si vede nelle tabelle pubblicate in queste pagine - ci sono 4.216 esseri umani stipati in celle che ne potrebbero contenere 2.956. Questo vuol dire che fino a 5 adulti si trovano a vivere in uno stanzino blindato di tre metri per quattro. Tolto lo spazio per il letto a castello, un tavolino, sedie, mobiletto ed effetti personali, restano pochi centimetri quadrati a testa. Come ha confermato il Dap di Roma, è proprio sul rapporto "persone-centimetri disponibili" che si basa la famigerata "capienza tollerabile". Essa però, non tiene in alcun conto i servizi e gli agenti, a disposizione dei detenuti. Così finisce che la struttura non riesce a garantire i servizi di formazione e recupero, i laboratori, la scuola, l’incontro col confessore. Con buona pace dell’articolo 27 della Costituzione, la "rieducazione del condannato" va in malora e le celle diventano solo dei contenitori, contenitori di carne umana. A causa del sovraffollamento, nelle celle di Puglia e Basilicata il tempo trascorre in un nulla di denti digrignati, di reazioni amplificate da cattività e promiscuità. Le difficili condizioni di vita cui sono sottoposti i detenuti (uomini e donne) spesso diventano concime per la loro rabbia e, talvolta, deflagrano. Si moltiplicano gli appelli della Polizia penitenziaria. Gli agenti denunciano l’aumento di aggressioni, risse, atti di autolesionismo e tentati suicidi. Purtroppo, quasi sempre i loro appelli cadono nel vuoto. Malgrado le richieste in questo senso, inoltrate dai provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata (ovvero Gaspare Sparacia e Gasparo Napoleone), da Roma tardano ad arrivare soluzioni ed agenti di rinforzo. E questo anche se accadono cose gravi e che meriterebbero grande attenzione. Come a Melfi, un carcere destinato ad accogliere i criminali comuni, e che invece conta già decine di criminali ad alta pericolosità. E come a Lecce che - stando alle testimonianze - trabocca di gente pericolosamente esasperata. Quanto ai cittadini, mostrano mediamente un totale disinteresse a quanto accade "dentro". L’impressione è che facciano il seguente ragionamento: "in uno Stato garantista come il nostro, sta dietro alle sbarre soltanto chi è stato condannato" e allora "scontasse la sua pena nelle peggiori condizioni e chissenefrega". Chi la pensa così sbaglia due volte. In primo luogo, spulciando i dati del Dap si scopre che in Basilicata e in Puglia, dei 4.216 detenuti, quasi 2.000 sono gli imputati (in Puglia sono 1.729). "Imputati", e non "condannati". Cioè persone che - sempre a norma dell’art. 27 della nostra Costituzione - non possono essere considerate colpevoli in quanto, per l’appunto, non ancora condannate. E poi, a sentire i cappellani delle carceri, è proprio chi sta "fuori" che dovrebbe temere il sovraffollamento delle carceri. Dicono che far vivere i galeotti in queste condizioni, anziché avviarli ad un percorso di recupero, li renderà più cattivi. Quando usciranno (perché poi escono) c’è il concreto rischio che tornino a delinquere. A quel punto saranno "fuori" e saranno persone peggiori.
Bari: 5 persone in una cella da 1
Agenti preoccupati per quanto avviene nella struttura carceraria di Lecce. Lì i numeri del Dap, almeno in teoria, non danno sovraffollamento: la capienza regolamentare è di 681 detenuti, quella tollerabile è di 1.213 e ce ne sono 1.211. Invece Domenico Mastrulli spiega: "È un carcere molto dispersivo e, come si può notare, lì il Dap considera "tollerabile" un numero di detenuti doppio rispetto a quello regolamentare. Per noi ci sono almeno 300 detenuti in più". Inoltre "in alcuni padiglioni l’amministrazione centrale vuole addirittura creare un reparto per "ricoveri detenuti", una sorta di centro clinico o addirittura un raccoglitore di detenuti in semilibertà (cioè quelli che rientrano la sera). Arriverebbero lì tutti quelli di Brindisi, Lecce e Taranto. E, però, non intendono fare assunzioni". A Bari, invece, "in una cella da 1 detenuto (cioè una da 3x3 metri) ce ne sono 5" e "la caserma agenti è inidonea". A Foggia "il problema è che ci sono decine di gruppi criminali diversi: foggiani, cerignolani, campani, lucerini. Sono di una cattiveria criminale non paragonabile ad altri gruppi, sono di pistola facile. E - spiegano gli agenti - bisogna tenere in celle diverse i clan avversari, così come si devono separare i membri d’uno stesso gruppo mettendoli in reparti differenti. Ciò è possibile in condizioni normali, senza sovraffollamento".
Lecce: sul fronte sicurezza è emergenza
Il carcere di Lecce conta 6 sezioni di alta sicurezza e 4 sono dedicate ai "giudicabili ". Chi si trova lì ha in corso uno o più processi e non soltanto in Puglia, ma magari in Calabria, in Campania, e - ogni volta - un "grappolo" di agenti deve scortare ciascun detenuto fino in tribunale. Poi ci sono sezioni precauzionali, con pedofili e stupratori di donne, che comportano livelli di sicurezza particolari (altre risorse/agenti dedicati). Si tratta di soggetti generalmente più problematici, anche dal punto di vista psichico e dei rapporti con le famiglie, e andrebbero seguiti con attenzione. Poi ci sono gli extracomunitari, persone che magari da 2 anni non hanno notizie da casa. Lì, in mezzo a questo mare di sofferenza ed orrore, don Raffaele Bruno porta tutto l’aiuto che può. È il cappellano del carcere di Lecce da 11 anni, ovvero da quando l’istituto ha aperto i battenti, e ne ha viste d’ogni colore. Oggi lancia l’allarme: "Noi qui siamo in emergenza sia per la sicurezza, sia per le attività che devono essere svolte e che permettono al detenuto di fare un percorso per capire i suoi errori. A causa del sovraffollamento, salta la scuola, saltano le attività nei laboratori. Oramai salta pure la messa". Secondo don Raffaele, in questo modo, "il carcere diventa solo un contenitore, anziché il luogo in cui le persone possono essere recuperate" e "si corre il rischio che escano peggiori". Perché? "Perché il sovraffollamento rallenta moltissimo il funzionamento del carcere e nei detenuti determina stasi, noia, rabbia. Vengono meno una serie di cose, anche aspetti sanitari". I detenuti "urlano" il loro disagio come possono e "sono in aumento i casi di autolesionismo" ma, spiega il sacerdote, "a volte, la violenza è un modo per attrarre l’attenzione". Sono situazioni che, secondo don Raffaele Bruno, "non possono essere addebitate al personale (e non si fanno assunzioni da anni e anni). È il territorio che dovrebbe avere più senso di responsabilità, giacché questi sono problemi strutturali e ci vorrebbero soluzioni strutturali". Ricorda che "i soggetti che scontano la pena fuori dal carcere hanno tassi di recidiva molto bassi, attorno al 30%. Mentre, in Italia, per chi sconta la pena in cella la recidiva è del 60-65%". Il rischio è che, "se non altro per rabbia ", una pena scontata in un carcere sovraffollato come quello leccese potrebbe riconsegnare alla società, a fine pena, delle "persone più pericolose di quanto non fossero quando sono entrate".
Melfi: la situazione è esplosiva
In base ai dati del Dap, sembrerebbe che a Melfi non ci siano problemi: a fronte di una "capienza tollerabile" di 245 detenuti, ce ne sono 216. Invece, secondo Domenico Mastrulli, segretario dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp) di Puglia e Basilicata, la situazione è "esplosiva". "La struttura di Melfi - afferma - è stata realizzata per l’accettazione di persone detenute per criminalità comune, invece l’amministrazione penitenziaria sta assegnando lì persone dall’elevata pericolosità criminale. Parliamo di un centinaio di detenuti di questo spessore. Quindi, è vero che ce ne sono 216, ma la metà è gente pericolosa. Noi siamo molto esposti sul fronte della sicurezza". "In un reparto si arriva al sovraffollamento perché - aggiunge Mastrulli - se arriva un boss lo mettono da solo e l’utenza che stava lì deve essere spostata andando a sovraffollare le altre celle. E ricordiamo che l’istituto di Melfi è stato classificato di Terzo livello, il livello più basso". A Potenza, secondo l’Osapp, "non ci dovrebbero essere più di 130 persone". Ce ne sono 217. "È un vecchio carcere, al centro della città, - spiega il sindacalista - ed è così lasciato all’abbandono che chi la fa da padrone è il sovraffollamento dei topi. Poi, ci sono moltissimi detenuti extracomunitari di diverse etnie. Ci sono scontri e risse un giorno sì e uno no".
Potenza: non inviateci altri detenuti
"È vero, in Basilicata abbiamo il problema del sovraffollamento in tutti e tre gli istituti e, infatti, di questo problema abbiamo già interessato il Dap di Roma - dice la dirigente dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato di Basilicata, Maria Rosaria Petraccone - Abbiamo chiesto di sospendere l’eventuale assegnazione di ulteriori detenuti". Il carcere di Melfi è di "terzo livello", ovvero dovrebbe avere livelli di custodia attenuata, dovrebbe spingere più sul recupero che sul piano punitivo e, ovviamente, dovrebbe ospitare criminali comuni, ladri di autoradio. Le risulta che, invece, a Melfi ci siano decine di detenuti ad alto livello di pericolosità? "Noi abbiamo proposto di definire Melfi come Istituto di secondo livello (ossia di sicurezza media; ndr). Il provveditorato ha proposto il livello più alto proprio vista la tipologia di detenuti. Ciononostante, è stato definito di terzo livello". Se a Roma avessero accolto la proposta del Provveditorato di Basilicata, il carcere di Melfi avrebbe avuto anche più fondi e più agenti? "Sì - dice la dirigente - invece è stato l’istituto di Potenza ad essere definito di secondo livello, malgrado non abbia la stessa tipologia di detenuti di Melfi, cioè non hanno detenuti ad alta sicurezza". Ma il carcere di Potenza ha anche altri problemi... "Anche Potenza è interessata da sovraffollamento e poi è interessata da continui lavori di ristrutturazione. Il provveditore ha fatto fare vari sopralluoghi e, infatti, è tra le priorità del Dipartimento - spiega Maria Rosaria Petraccone - Inoltre, i detenuti sono per lo più stranieri e c’è una sezione di sex-offenders (persone responsabili di reati a sfondo sessuale; ndr), quindi ci sono problematiche diverse e importanti. Noi abbiamo chiesto e chiediamo più unità di Polizia penitenziaria ma purtroppo, più che chiedere, non possiamo". Avellino: suicida detenuto 54enne; gli rimaneva un anno di pena
La Repubblica, 2 marzo 2009
La morte arriva dietro le sbarre del carcere di Bellizzi Irpino. Vincenzo Sepe, 54 anni, di Marzano di Nola, si è ucciso nel bagno della cella, impiccandosi alla grata della finestra. Detenuto dal 2004 per aver ucciso a fucilate il vicino di casa, ha utilizzato una cintura rudimentale per farla finita. Era da solo, gli altri compagni di stanza erano già usciti per l’ora d’aria. Lui è rimasto dentro, con una scusa banale. Un piano calcolato, ma che nessuno aveva messo in preventivo. "Un gesto davvero improvviso - commenta Cristina Mallardo, la direttrice del penitenziario - forse il detenuto è stato tradito dalla paura di uscire nel mondo esterno". Ma quale paura? Nessuna vendetta lo attendeva all’uscita, anche se il suo paese, Marzano, nel Vallo di Lauro, è famosa per la sanguinosa faida di camorra tra i clan rivali dei Cava e dei Graziano. Cinque anni fa aveva ucciso al termine di una lite il vicino di casa che derideva suo figlio, inchiodato su di una sedia a rotelle. "Un detenuto modello", lo ricorda così la direttrice del carcere che ha immediatamente avviato una indagine interna sul tragico episodio, avvisando anche la Procura della Repubblica di Avellino che ha disposto tutti gli accertamenti. Ma non c’è nessun giallo. Le prime indagini hanno subito escluso responsabilità di altre persone. Gli agenti di polizia penitenziaria ed il personale medico del carcere avellinese si sono subito allertati, ma i soccorsi - benché tempestivi - sono stati del tutto inutili. Nessuno, nemmeno tra i compagni che dividevano con lui la stanza, aveva intuito il malessere di Vincenzo Sepe che sarebbe tornato libero tra un anno. Fine pena: 2010, grazie alla buona condotta dimostrata in questi anni nel carcere irpino. Un’altra notizia positiva per il detenuto era arrivata solo due giorni fa, il magistrato di sorveglianza gli aveva concesso il benefico di uscire dal carcere per lavorare. Vincenzo Sepe era un abile muratore. "Aveva un mestiere, avrebbe potuto ricominciare per rifarsi una vita una volta uscito dal carcere", conferma la direttrice Cristina Mallardo, che ricorda il comportamento sempre irreprensibile del detenuto, capace di ottenere una serie di permessi premio. Alle spalle nessun disagio, una vita familiare regolare che non gli aveva mai creato disagi. Ora grazie alla semilibertà sarebbe uscito per iniziare a lavorare per conto di una ditta edile, come aveva disposto il magistrato. Si riprendeva una vita normale dopo cinque anni di reclusione dietro le sbarre del penitenziario avellinese. Forse Vincenzo Sepe ha avuto paura di non farcela. Bologna: morto un ex detenuto di 55 anni, è probabile overdose
Il Resto del Carlino, 2 marzo 2009
Un uomo è stato trovato morto l’altra sera in strada in via Dè Toschi. Il decesso è probabilmente dovuto a un’overdose di stupefacenti. A suggerire quella che è più di un’ipotesi è il ritrovamento, accanto al corpo, di una siringa e un accendino, oltre a un tagliaunghie. A dare l’allarme, attorno alle 19, è stato il personale della vigilanza di un vicino museo che si affaccia su via Castiglione. Oltre agli agenti delle volanti, sul posto è intervenuto il 118, ma per l’uomo non c’era niente da fare. Addosso non aveva documenti d’identità ma un foglio rilasciato dalla Questura relativo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Si tratterebbe, sulla base di tale indicazione, di un casertano di 55 anni, G.C., già noto alle forze dell’ordine soprattutto per reati contro il patrimonio e legati alla droga. Saranno gli accertamenti attraverso le impronte digitali a confermare la sua identità. Il casertano fino a poche settimane fa era detenuto alla Dozza. Le cronache si sono più volte occupate di lui in occasione di arresti per furti su auto o per intemperanze compiute mentre era in stato di alterazione. Dal penitenziario di via del Gomito ci aveva scritto nello scorso gennaio lamentando le pessime condizioni di vita all’interno del carcere. "Per mia sfortuna sono ricapitato qua, ho 55 anni e non riesco a trovare una via d’uscita - si legge nella lettera -, ma ho sempre pagato di persona e anche quando non meritavo sono stato punito". Cagliari: arrivano le unità cinofile, contro le droghe nel carcere
La Nuova Sardegna, 2 marzo 2009
Da due mesi quattro cani antidroga lavorano per scovare hascisc, marijuana, cocaina nascosti addosso a parenti in visita oppure infilati fra i generi di conforto che vengono portati ai detenuti rinchiusi nelle carceri sarde. Con i loro conduttori ("perché l’unità cinofila è un tutt’uno di cane e conduttore", spiegava ieri l’istruttore Gianni Solinas), i tre pastori belga malinois e un curly coated retriver hanno girato gli istituti di pena dell’isola per intercettare la droga portata dentro il carcere. Con risultati: su 1.715 familiari e 196 detenuti controllati, 375 pacchi introdotti, all’autorità giudiziaria sono stati presentate quindici segnalazioni. Si sa che la droga entra nelle carceri, l’intenzione è quella di combattere in modo più incisivo il fenomeno e ieri è stato presentato il nuovo strumento di questa azione: le unità cinofile in forze al Corpo degli agenti di polizia penitenziaria. Le ispezioni coi cani antidroga nelle carceri si sono sempre fatte in maniera sporadica grazie alla collaborazione con la Guardia di finanza. Poi la scuola Gdf è stata frequentata da un assistente della polizia penitenziaria, Gianni Solinas, che a sua volta è diventato istruttore e ha contribuito a formare la scuola del Corpo che ha sede ad Asti. Ieri nel carcere di Buoncammino è stata fatta una dimostrazione di quel che i cani possono fare: dieci persone sono passate sotto il loro naso senza problemi, a un tratto il cane ha puntato con decisione verso il taschino di un "attore", che aveva un po’ di droga in tasca. Infallibile per scovare le sostanze proibite che possono essere nascoste così bene da sfuggire ai controlli abituali. D’altronde, per esempio a Buoncammino, il sabato ci sono tre turni di colloqui da 150 detenuti alla volta: in un paio d’ore possono passare all’ingresso 450 persone, più difficile che la droga sfugga al naso dei formidabili cani. Presenti il direttore della casa circondariale, Gianfranco Pala e il comandante degli agenti penitenziari, Giuseppe Atzeni, ha gestito la mattinata il dirigente dell’ufficio della sicurezza e delle traduzioni, Marco Piras, con il coordinatore regionale del servizio cinofili, l’ispettore Sergio Cadoni. I cani andranno in giro per gli istituti e appena ci saranno i mezzi di trasporto necessari, potranno dividersi per i diversi istituti sardi. Una decisione giustificata dai numeri: il 36 per cento dei detenuti sardi è tossicodipendente, il 43 è in carcere per traffico di droga. "Questo andrà anche a vantaggio della tranquillità dei colloqui - diceva il dirigente - dopo che gli agenti hanno la certezza che nulla di illegale può essere stato portato". Massa: il carcere di Pontremoli è chiuso, ma il personale è pagato
Il Tirreno, 2 marzo 2009
Il carcere di Pontremoli è chiuso da un anno e mezzo. Ma intanto lo Stato continua a pagare per la sorveglianza. Una situazione paradossale, soprattutto in un momento in cui è all’ordine del giorno il sovraffollamento delle carceri. A richiamare l’attenzione sulla struttura è la Cgil-Funzione Pubblica: "Mentre i Ministri del Governo Berlusconi, con Brunetta in testa, rincorrono e danno i "numeri" in una mera ottica propagandistica - si legge in un comunicato - ci si guarda bene dall’incidere fattivamente sull’efficienza ed efficacia dell’attività amministrativa e sull’eliminazione delle situazioni che generano sprechi di danaro pubblico, grazie all’inezia di dirigenti generali e non profumatamente pagati". Quindi la Cgil spiega quanto sta avvenendo al carcere pontremolese: "Un esempio eclatante è la situazione in cui è l’ex casa mandamentale di Pontremoli, già trasformata in casa circondariale femminile e da oltre 19 mesi tecnicamente chiusa per ospitare i detenuti, ma che comunque è fonte di spesa pubblica dovendone assicurare la sorveglianza e i servizi minimi per il personale lì impiegato". Una situazione che, secondo il sindacato, era ampiamente prevedibile: "Eppure quando nel luglio del 2007 avevamo come Cgil messo in guardia il Provveditore Regionale dell’Amministrane Penitenziaria, dr.ssa Giuffrida, circa il rischio che la struttura correva in termini di difficoltà di riapertura istituzionale, se non si fosse subito delineato un piano di riconversione della casa circondariale di Pontremoli, eravamo stati tacciati di catastrofismo". "Nel Paese di Pulcinella, invece di far pagare a chi è responsabile di una situazione in cui a fronte di una carenza di posti nelle carceri per sovraffollamento si tiene tranquillamente chiusa una struttura che potenzialmente potrebbe ospitare fino a 30 detenuti. A pagare - secondo la Cgil Funzione Pubblica - saranno i soliti noti: i lavoratori, in termini di dignità perché, non certo per loro colpa, sono o saranno additati come "fannulloni" o peggio mangia pane a tradimento, perché oggettivamente in una struttura chiusa di lavoro ce n’è ben poco; e i cittadini che con le loro tasse mantengono in piedi una struttura che oggettivamente non serve a nessuno. Invece chi, come il Provveditore Regionale anziché preoccuparsi dell’efficienza dell’amministrazione loro affidata pensa solo a imbrigliare sempre più la stessa in una morsa burocratica e autoreferenziale, mantengono non solo il loro posto ben retribuito, ma perpetuano indisturbati uno scempio di danaro pubblico. La situazione sopra denunciata è intollerabile per qualsiasi Paese civile che ha a cuore che il danaro pubblico sia speso con la dovuta attenzione essendo il frutto principalmente di imposte gravanti sui redditi da lavoro dipendente". La segreteria provinciale della Funzione Pubblica Cgil chiede che "chi di dovere, dal Ministro della Giustizia al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dai Dirigenti Generali dell’amministrazione penitenziaria al Provveditore Regionale della Toscana, si attivino subito tutte le procedure che diano soluzione all’utilizzo penitenziario immediato della struttura di Pontremoli dandogli un progetto, una caratterizzazione e un’autonomia gestionale". Savona: un carcere che scoppia, e i detenuti vanno "in trasferta"
La Stampa, 2 marzo 2009
Ottantaquattro detenuti: il carcere di Sant’Agostino è di nuovo al collasso. Al punto che ieri non c’era posto per un marocchino arrestato ad Albenga per aver aggredito i vigili urbani. Poi, nella tarda mattinata, la svolta: due romeni (arrestati venerdì per un furto di pinoli in un supermercato) sono stati scarcerati su disposizione della Procura, e si è trovata una cella per l’extracomunitario. Ma la situazione al Sant’Agostino è esplosiva e a denunciarlo sono proprio gli organismi sindacali del "Sappe", di Cgil e Cisl. Nelle celle piccole sono ospitati dai quattro ai sei detenuti, che arrivano a otto-dieci in quelle più grandi. E siccome non sono sufficienti, i nuovi arrivati sono stati messi nelle celle inagibili perché non hanno le finestre o sistemati alla bell’e meglio nella sala yoga e nell’aula della scuola. "Se va avanti così - commenta ironicamente Aniello Peluso, segretario provinciale del Sappe - i prossimi li metteremo nelle camere e negli spogliatoi del personale...". E se non bastasse mancano anche lenzuola, materassi, coperte, piatti, posate. "Ci si arrangia - dice ancora Peluso - come meglio si può. Ma non è con l’arrangiarsi quotidianamente che si lavora serenamente e questo crea malcontento nel personale di custodia". Ottanquattro detenuti in un carcere nel quale ce ne possono stare soltanto trentasette. Come si è arrivati a questa situazione? Le organizzazioni sindacali puntando il dito contro il "servizio di traduzione periodica", voluto dall’Amministrazione carceraria per abbattere i costi, ridurre le spese necessarie per il trasferimento dei detenuti nei tribunali dove devono essere interrogati o processati. Due volte la settimana (il martedì e il venerdì) un pullman della polizia penitenziaria percorre avanti indietro la Liguria, da La Spezia a Sanremo, raccoglie i detenuti e li porta da un carcere all’altro. Un esempio per chiarire. C’è un detenuto a Sanremo, che il lunedì deve essere processato a Savona. Finora succedeva che il mattino dell’udienza, gli agenti penitenziari lo caricavano a bordo del cellulare e lo portavano a destinazione. Ora non è più così. Il venerdì, dunque due giorni prima del processo, lo va a prendere il pullman navetta che raggiunge Savona: qui il detenuto viene fatto scendere e ospitato temporaneamente al Sant’Agostino. Risultato? Da quando è iniziato questo servizio, il carcere savonese è letteralmente scoppiato. Napoli: Romeo; in carcere da 70 giorni... e non capisco il perché
La Repubblica, 2 marzo 2009
Nella cella sono in sei. Cinque ragazzi finiti dentro per rapina o spaccio. E un imprenditore accusato di pilotare appalti milionari. Uno dei ragazzi cucina per tutti e lo chiamano "il cuoco". Prepara spaghetti al pomodoro, tra poco uscirà e per chi dovrà restare in carcere questo è un pensiero in più. L’imprenditore legge molto, soprattutto le carte della sua inchiesta. È Alfredo Romeo, detenuto a Poggioreale ormai da 71 giorni. Indossa una tuta, appare dimagrito, gli occhi un po’ arrossati. Quando il visitatore si presenta, Romeo gli chiede: "Ma lei fa il giornalista? Mi sbaglio, o ha scritto anche di me"? Il giornalista è Giancarlo Lehner, parlamentare del Pdl, che ieri incontrato il protagonista della complessa indagine sugli appalti e il Global Service del Comune di Napoli. "Dodici giorni prima che mi arrestassero - dice l’imprenditore ho ricevuto la telefonata di un giornalista che mi anticipava i provvedimenti. Avrei potuto andar via, eppure non l’ho fatto. Non ci ho mai pensato perché ho la responsabilità di 18mila dipendenti che adesso sono preoccupati per il futuro. Però mi scrivono lettere di solidarietà e questo mi conforta, come i miei compagni di cella, che sono sempre gentili. Ma questa carcerazione non l’ho capita e continuo a non capirla". Quindi i due rivolgono un occhio al passato. "Si ricorda - chiede Lehner - quando lei era iscritto al Pci e io al Psi? Quanti scontri verbali fra i due partiti". E Romeo replica: "Ho sempre avuto stima di Craxi. Vedo che ora ne parlano bene anche quelli che lo avevano affossato". Sottolinea, Lehner, di aver trovato il carcere di Poggioreale "in condizioni esemplari, nonostante il sovraffollamento" e di aver visto Alfredo Romeo "provato, ma sicuro delle proprie ragioni. Non ci sono motivi per tenerlo in cella, anche perché la Cassazione ha annullato l’ordinanza per turbativa d’asta emessa nei confronti di uno dei coimputati", l’ex provveditore alle Opere pubbliche Mario Mautone. La Procura invece ha espresso parere negativo all’istanza della difesa e ha depositato nuovi atti. Come la testimonianza di un’avvocatessa romana, Teresa Napolitano, che ha raccontato di aver chiuso ogni rapporto con Romeo appena si rese conto che l’imprenditore voleva "utilizzarla come inconsapevole strumento" per ottenere benefici giudiziari attraverso "canali alternativi a quelli legali". E come la deposizione dell’ex segretario cittadino della Margherita, Nino Bocchetti, il quale ha descritto Romeo come persona molto influente all’interno del partito, al punto da essersi sentito in un rapporto "di subordinazione gerarchica e politica nei confronti dell’imprenditore. Per me - si legge nel verbale - era la voce di Rutelli". L’ex vicepremier, oggi presidente del Copasir, non è indagato e, sentito come teste il 17 dicembre, ha spiegato di non aver mai avuto con Romeo "particolare confidenza né colloqui connessi ai suoi interessi". Padova: "Prevenire è meglio che imprigionare", giornata di studi
Redattore Sociale - Dire, 2 marzo 2009
Giornata nazionale di studi organizzata da Ristretti Orizzonti a Padova il 22 maggio: giornalisti, familiari di vittime, educatori e detenuti a confronto. Tra i presenti la sorella di Giovanna Reggiani. Prevenzione nei confronti delle nuove generazioni, informazione scorretta, certezza della pena, irresponsabilità dell’emergenza: sono solo alcuni dei nodi che saranno affrontati nel corso della giornata nazionale di studi "Prevenire è meglio che imprigionare" organizzata da Ristretti Orizzonti e in calendario a Padova per il 22 maggio. La bozza di programma alterna interventi di giornalisti, familiari di vittime, educatori, detenuti. Quest’anno molta attenzione sarà riservata ai giovani, al loro modo di pensare al carcere e all’illegalità. Sarà quindi un ulteriore passo in avanti nel dialogo con gli studenti già avviato con il Progetto-scuola, nato per "dare ai ragazzi un’idea diversa dei comportamenti a rischio, di come le vite a volte deragliano, delle pene e del carcere - come si legge nella presentazione del convegno -. Volevamo che gli studenti si facessero una loro idea sulla base di una conoscenza diretta. Perché in realtà, bombardati da un’informazione che spinge all’irresponsabilità, quello che i giovani non sanno, per esempio, è che non è vero che nessuno nel nostro Paese sconta la pena in carcere, semmai il problema è quanto tempo dopo aver commesso il reato la sconterà". Ma il team di Ristretti sa bene che parlare di prevenzione è un compito delicato: "Ai ragazzi spieghiamo che dietro ogni reato c’è una persona, ma conosciamo il rischio che si finisca con il vedere solo la persona e con l’essere coinvolti dalla sua storia. E non va bene neppure così, perché l’umanità di un detenuto non cancella la gravità del reato". Per poter parlare davvero di prevenzione, però, si deve ripensare anche al modo di fare informazione ed evitare di rendere "emergenza" ciò che non lo è. Per questo a Padova interverranno personalità come Lorenzo Guadagnucci, giornalista autore di "Lavavetri" e Paola Reggiani, sorella minore di Giovanna, la donna aggredita e uccisa a Roma da un cittadino romeno. Ma ci saranno anche Benedetta Tobagi, figlia di Walter, giornalista ucciso dalle Brigate Rosse, e Giovanni Bachelet, figlio del giurista ucciso sempre dalle Br. Sulla questione del farsi giustizia da sé interverranno invece i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, mentre del clima di emergenza fomentato da politica e media parlerà Giovanni Torrente, docente di Sociologia giuridica dell’Università della Valle d’Aosta, autore della ricerca "Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità". In programma ci sono anche gli interventi di Gianfranco Bettin, sociologo autore di "Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar", Elena Valdini, autrice di "Strage continua. La verità sulle vittime della strada" e Mauro Grimoldi, psicologo autore di "Adolescenze estreme". La giornata di studi inizierà alle 9 per concludersi alle 16.30. Le iscrizioni sono aperte: la partecipazione è gratuita e i posti disponibili sono circa 500. Per informazioni e adesioni: redazione@ristretti.it - Per info: 049.8712059). Verona: sciopero detenuti; i familiari pregano davanti al carcere di Alessandra Vaccari
L’Arena di Verona, 2 marzo 2009
A Montorio, una trentina di persone ha scelto di manifestare in maniera diversa dal solito. Dall’interno arrivavano grida e rumori di pentole Un tam tam metropolitano per denunciare le carenze. Gridano da dentro al carcere, urla forti, fortissime perché debbono superare due edifici e arrivare fin sul piazzale davanti alla struttura, là dove i carcerati sanno essere arrivati alcuni loro familiari, alcuni volontari delle associazioni che si occupano di loro e soprattutto i giornalisti che debbono essere la cassa di risonanza delle loro proteste. Si sentono i rumori ritmati quasi musica tribale realizzata con pentole, coperchi, posate, quello che c’è di reperibile da sbattere per far sentire la loro voce. Un tamtam metropolitano. Davanti al piazzale del carcere una trentina di persone, un unico politico, Mauro Peroni, del Partito democratico, arrivato a portare solidarietà. Alcuni volontari con le chitarre per intonare canzoni, quelle che di solito si suonano in chiesa. Ma oggi in carcere alla messa non c’è andato alcuno proprio per protestare contro la condizione del carcere, il suo sovraffollamento, soprattutto. Fra Beppe Prioli, della Fraternità che da quarant’anni va in carcere ha sottolineato, uscendone anche ieri mattina, che la fede per un detenuto è un rifugio importante. A maggior ragione non aver partecipato alla messa è stata una privazione grande. Sono in sciopero i detenuti della Casa Circondariale di Montorio. L’avevano annunciato giorni fa e adesso sta arrivando a completamento il periodo. Cinque giorni avevano deciso. Cinque giorni in cui non accettare il cibo della mensa, non partecipare alla messa, e battere le pentole per far sentire la voce di protesta che è stata messa in atto a livello nazionale. Davanti al piazzale uno dei volontari ha letto una riflessione, poi c’è stata una preghiera. Roberto Sandrini presidente della Fraternità ha sottolineato ancora una volta che la situazione non è più sostenibile, che il sovraffollamento è eccessivo, che bisogna intervenire quanto prima. I familiari ribadiscono le lamentele dei parenti, sottolineano che non si possono lavare perché non c’è acqua calda, che hanno le mani rovinate per il bucato con l’acqua gelata, che non possono sostenere la spesa interna perché ci sono rincari altissimi. E ancora il problema di non poter portare dentro che 20 chili di biancheria al mese, il fatto di restare in 12 metri quadrati in quattro persone. E quello spazio va diviso anche con i letti e le suppellettili. Chiedono tutti una maggior attenzione da parte del magistrato di sorveglianza, concessione dei benefici di legge a chi ne ha diritto. Il carcere dev’essere riabilitazione dicono e invece così altro non si fa che mettere gente dentro una gabbia e lasciarla lì a non fare niente. Invocano una pastorale destinata ai carcerati, chiedono un mediatore culturale che possa interagire tra società e detenuti, il tutto per rendere più dignitosa la detenzione. I familiari anche se un figlio, un marito, un fratello ha sbagliato, sia che abbia spacciato droga, che rapinato piuttosto che ferito qualcuno stanno comunque dalla sua parte, perché sostengono chiunque può sbagliare, ma bisogna dare la possibilità di redimersi. E chiusi in una gabbia da 12 metri quadrati è difficile farlo, perché si perde il senso di quello che si fa e di quello che si è. Palermo: la Crvg ricorda le due volontarie morte in un incidente
Comunicato Stampa, 2 marzo 2009
Venerdì 13 marzo alle ore alle ore 18.00 presso la parrocchia Maria SS. del Divino Amore di Brancaccio la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia farà celebrare una messa in memoria di Grazia Croce e Claudia Manzotti. Sono morte incarnando il detto di Padre Pino Puglisi: "Se ognuno fa qualcosa". Loro ci hanno creduto mettendosi al servizio di chi soffre a causa della giustizia. Noi non l’abbiamo conosciute ma ci riempie il cuore di speranza sapere che già partecipano alla Gloria di Dio contemplando il Suo Volto dopo averlo servito in questa terra che tanto ha bisogno di persone come Grazia e Claudia. Un sentito cordoglio giunga ai loro cari da parte di tutti noi volontari. Vi ricordo che le volontarie decedute in un grave incidente stradale sono Grazia Croce di 59 anni e Claudia Manzotti di 45 anni entrambe di Messina. L’incidente è avvenuto mentre si recavamo al seminario del Seac a Palermo il 13 Febbraio 2009.
Maurizio Artale Responsabile Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Droghe: dal 12 al 14 marzo, a Trieste, la "Conferenza nazionale"
Vita, 2 marzo 2009
Si svolgerà dal 12 al 14 marzo a Trieste la Conferenza nazionale sulle politiche antidroga, organizzata dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, cui sono rimesse le deleghe in materia di tossicodipendenza. E proprio Giovanardi ha affidato a un messaggio la spiegazione dello spirito della manifestazione: "riunire in una "rete ideale" tutti gli attori in grado di analizzare il problema, proporre e condividere possibili soluzioni. Questa conferenza vuole porsi al di fuori dei soliti rituali dove spesso ci si confronta solo sulle realtà che ci dividono e non su quelle che ci uniscono. È necessario fare un salto di qualità relativamente alle modalità con cui ci confrontiamo e comunichiamo le nostre idee, guardando al futuro e al bene comune. Solo attraverso una concertazione efficace e concreta, basata sul rispetto reciproco e sulla condivisione di principi tesi al recupero totale delle potenzialità della persona tossicodipendente, potremo tracciare un percorso virtuoso che ci porterà ad avere una piattaforma di intervento condivisa". Giovanardi chiarisce inoltre i "due paletti" sui quali il governo elabora le politiche sulle tossicodipendenze: primo, "non esiste un diritto a drogarsi e questa azione è da considerarsi illecita per i danni che il consumo delle sostanze arreca alla singola persona e alla società"; secondo, "ogni terapia, intervento sulla persona tossicodipendente per la tutela e il ripristino della sua salute e della sua integrazione sociale e lavorativa è accettabile, purché sia inserito in un programma più ampio dove il fine ultimo sia il recupero totale della persona". Il termine per iscriversi alla Conferenza Nazionale è giovedì 5 marzo. Il programma della manifestazione e ogni utile informazione si trova al sito: www.conferenzadroga.it. Droghe: la Cassazione promuove l’alcol-test per gli automobilisti
Notiziario Aduc, 2 marzo 2009
La Cassazione promuove l’alcol test agli automobilisti per strada, come forma di "screening veloce" in grado di "incrementare in modo significativo il numero delle persone controllate". In nome di una costante sicurezza sulle strade, la Quarta sezione penale (sentenza 8805) dà il "nulla osta a che l’accertamento con strumenti e procedure determinati dal regolamento possa avvenire sul posto, cioè sulla strada". Di diverso avviso era stato il Tribunale di Firenze che, lo scorso 29 maggio, aveva assolto un’automobilista fiorentina indagata perché la prova dell’etilometro fatta sulla strada aveva riscontrato un tasso di alcolemia di 0,8 mg. La donna, Laurence M. era stata assolta perché per il giudice era "mancata la prova dell’elemento costitutivo del tasso alcolemico". Contro l’assoluzione, la Procura di Firenze ha fatto ricorso con successo in Cassazione. Scrivono i supremi giudici che "gli organi di polizia stradale possono sottoporre tutti i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili". La norma ha infatti "l’evidente scopo di fornire strumenti di screening veloci per incrementare in modo significativo il numero delle persone controllate garantendo il carattere non invasivo dell’esame e la riservatezza personale". Del resto, annota la Cassazione, "la gamma dei metodi utilizzabili è molto ampia. È infatti consentito effettuare test comportamentali o utilizzare apparecchi portatili in grado di rilevare la presenza di alcool senza che ciò si accompagni alla quantificazione del valore". L’esito positivo degli accertamenti con gli apparecchi portatili, chiarisce ancora la Suprema Corte, "non costituisce fonte di prova per l’accertamento del reato in stato di ebbrezza alcolica, ma rende solo legittimo il successivo accertamento tecnico mediante etilometro (strumentazione omologata), in grado di certificare, ai fini legali, il valore del tasso alcolemico nel sangue". Usa: la pena di morte è a rischio, la "colpa" della crisi economica di Simonetta Cossu
Liberazione, 2 marzo 2009
La crisi economica che sta travolgendo il mondo ricco e avanzato dell’occidente riserva delle inattese sorprese. Ad esempio potrebbe accelerare la fine della pena di morte negli Stati Uniti. Il perché è molto semplice e facile da capire: uccidere un detenuto costa assai di più che tenerlo in carcere per tutta la vita. Ed è questo agghiacciante paradosso che sta spingendo molti Stati americani a prendere seriamente in considerazione l’idea di abolirla. La pena di morte è al momento in vigore in 36 dei 50 Stati americani e stando agli ultimi sondaggi, è condivisa dai due terzi della popolazione Usa. Ma ora che la crisi è si è abbattuta sul paese l’impatto sui budget federali si sta rivelando dirompente. Mantenere la pena di morte significa immolare a questa causa milioni di dollari dei cittadini, mentre i servizi per garantire la sicurezza sono sottoposti a tagli pesanti: centinaia di poliziotti licenziati, programmi cancellati, tribunali impossibilitati a funzionare e in ultimo decine di detenuti rilasciati per l’impossibilità di gestirli. In un recente rapporto dell’associazione degli avvocati si legge: "Il sistema giudiziario in molte parti dell’America è sull’orlo del collasso a causa della mancanza di fondi e dei budget ormai fuori controllo". Par capire il peso economico che l’applicazione della pena di morte comporta per gli Stati che la riconoscono è bene dare alcuni dati. Nello stato della California, 667 detenuti nel braccio della morte il gruppo più numeroso degli Stati Uniti, la pena di morte costa ai cittadini 137 milioni di dollari all’anno, e questa cifra non tiene conto delle spese per mantenere i prigionieri nelle carceri. Ogni esecuzione è costata allo Stato 250 milioni di dollari. E l’ultima indagine dice che un sistema che cancellasse la pena di morte e applicasse il carcere a vita costerebbe allo Stato "solo" 11 milioni all’anno. In Kansas il costo di un processo che insegue una condanna alla pena capitale costa il 70% in più di qualsiasi altro caso. Farla applicare è costato allo Stato della Florida 51 milioni di dollari all’anno in più di quello che sarebbe costato condannare tutti i colpevoli all’ergastolo. Considerando che dal 1976, da quando la Corte Costituzionale ha reintrodotto la pena di morte, in Florida sono state eseguite 44 sentenze capitali, lo Stato ha speso 1 miliardo e 56 milioni di dollari, 24 milioni ogni esecuzione. In Texas un caso di pena di morte costa allo Stato 2,3 milioni, il triplo di quanto spenderebbe se detenesse quel detenuto in una cella singola in un carcere di massima sicurezza per 40 anni. L’alto costo della pena capitale sfugge così all’assioma che lo stesso presidente Obama ha illustrato presentando la sua finanziaria: il rapporto costi e benefici non torna. Applicare la pena di morte è quindi ormai comprovato che è decisamente ed inesorabilmente più cara della sua più vicina alternativa: ergastolo senza possibilità di libertà. La ragione di questa discrepanza è dovuta all’iter processuale. Un processo che insegue una condanna capitale è più lungo ed più costoso in tutti i suoi passaggi rispetto ad un procedimento ordinario. E i costi maggiori si registrano prima della esecuzione. Le mozioni che precedono il processo, gli esperti investigativi, la selezione della giuria, la necessità di due procedimenti - uno di colpevolezza e un secondo per la sentenza - pesano sui conti pubblici in modo abnorme. Le cifre indicate poco sopra inoltre non tengono conto degli appelli. Considerando inoltre che non tutti i condannati, per fortuna, non vengono giustiziati ma trascorrono la loro vita in carcere fino alla loro morte naturale, ai costi del processo vanno sommati quelli della detenzione in carceri apposite e al mantenimento in funzione delle macchine e del personale preposto ad eseguire quelle sentenze. Dulcis in fondo le cause per negligenza. In Louisiana un procuratore distrettuale si prepara a dichiarare bancarotta dopo che un ex detenuto ha fatto causa all’ufficio ed ha ottenuto un risarcimento di 14 milioni di dollari. Il detenuto in questione dopo aver trascorso 18 anni in un braccio della morte è stato esonerato dal reato capitale dopo che un secondo processo ha riconosciuto che l’ufficio del procuratore distrettuale aveva tenuto nascoste delle prove. Ora il procuratore, e lo Stato, dichiarano che non hanno i fondi per pagare e non resta che dichiarare bancarotta e chiudere l’ufficio con le logiche conseguenze. È comprensibile quindi capire quali sono le ragioni che hanno portato molti Stati, dal Kansas al Nebraska, governatori e parlamentari, a prendere in considerazione l’abolizione. In una pubblica dichiarazione il governatore del Maryland, il democratico Martin Ò Malley, davanti ai propri deputati ha detto: "Non ci possiamo permettere questa soluzione quando sappiamo che ci sono sistemi più economici per ridurre la criminalità". Sulla stessa linea si stanno orientando anche Colorado, Kansas, New Hampshire, Montana e New Mexico. In quest’ultimo Stato dove il Senato locale ha già approvato il progetto di legge per mettere al bando la pena di morte ed è in attesa di essere approvato dalla Camera, il governatore Bill Richardson, noto sostenitore della pena, ha ammesso che se questa legge fosse arrivata sul suo tavolo qualche tempo fa l’avrebbe bocciata, ma oggi sta prendendo in seria considerazione di firmarla. Ed è quasi certo che i parlamentari e gli amministratori che si apprestano a nuove elezioni abbandoneranno la retorica della pena di morte spesso sbandierata a sproposito come panacea a combattere tutti i crimini. Iraq: 25 anni di carcere per soldato Usa che uccise un detenuto
Ansa, 2 marzo 2009
È stato condannato a 25 anni di carcere dal Tribunale militare del Kentucky Michael Behenna, il militare americano accusato di essere coinvolto nell’omicidio di un prigioniero iracheno, Ali Mansour. Assolto dall’accusa di dichiarazioni mendaci, Behenna è stato riconosciuto colpevole anche per le aggressioni che sarebbero avvenute durante l’interrogatorio a cui è stato sottoposto il detenuto lo scorso mese di maggio in Iraq. Brasile: Battisti sarà estradato se l'Italia rinuncerà all’ergastolo di Cesare Gaia
Il Giornale, 2 marzo 2009
Bollare come illegale l’asilo politico concesso a Cesare Battisti e dare il via libera alla sua estradizione in Italia. Ma a una condizione: che Roma converta la condanna dell’ex terrorista a trent’anni di carcere (massima pena prevista dall’ordinamento brasiliano) invece che all’ergastolo. Così potrebbe pronunciarsi il Supremo Tribunal Federal mettendo fine alle tensioni che negli ultimi mesi hanno rischiato di incrinare - se non addirittura compromettere - i rapporti fra Italia e Brasile ma creando qualche imbarazzo al presidente Luis Inácio Lula e certamente al ministro della Giustizia Tarso Genro, che ha osteggiato il rientro in Italia dell’ex membro dei Pac. Finora è solo una previsione ma l’analisi che è apparsa ieri sul quotidiano brasiliano Estado de S. Paulo viene giudicata attendibile. La probabilità che alla fine la maggioranza dei giudici dell’alta Corte del Brasile deciderà per il sì al rimpatrio di Battisti è supportata da una serie di precedenti giuridici e alimenta l’ottimismo italiano, la sensazione che la vicenda possa chiudersi senza strascichi nelle relazioni tra Brasilia e Roma. Sullo sfondo del pronunciamento della Corte brasiliana restano però alcune incognite o comunque la prospettiva di ripercussioni interne nel governo brasiliano. Perché l’ultima parola spetta comunque al presidente, che dovrà apporre la sua firma al verdetto. Lula ha fatto sapere che si rimetterà al parere dei giudici ma sul piatto resta la possibilità che possa intervenire per dare man forte al ministro della Giustizia. E che se non lo farà - sconfessando in qualche modo il suo Guardasigilli, che sulla questione si è esposto in maniera inequivocabile offrendo asilo politico all’ex terrorista - Genro potrebbe presentare le dimissioni e dare uno scossone al governo oltre che aprire uno scontro tra potere esecutivo e potere giudiziario. La decisione del Supremo Tribunal arriverà dopo un dibattito diluito in varie sessioni e tre votazioni distinte, che potrebbero protrarsi oltre il mese di marzo. Tutto si gioca sul filo dell’interpretazione giuridica, per stabilire se la concessione dell’asilo da parte del ministro ha interrotto l’iter di estradizione. Secondo l’autorevole quotidiano brasiliano così non sarebbe: l’asilo interrompe semmai la richiesta di estradizione ma non il suo iter. I giudici potrebbero - com’è probabile secondo l’analisi del giornale - sancire l’illegalità della misura pro-Battisti (la concessione dell’asilo, ndr) e riconoscere la piena legalità delle sentenze emesse in Italia e l’insussistenza delle accuse lanciate da Genro ai tribunali che hanno giudicato Battisti. A quel punto si tratterebbe semplicemente di evitare che con l’estradizione il detenuto italiano debba scontare in Italia una pena superiore a quella prevista dalla Costituzione brasiliana. Ma il problema sarebbe risolto con la richiesta di convertire l’ergastolo in trent’anni di carcere. È quello che si augura l’Italia, ma è quello che potrebbe creare qualche guaio interno a Lula.
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