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Giustizia: piccoli "ladri d’immondizia", ma non è nel Terzo Mondo di Monica Ceravolo
La Stampa, 31 marzo 2009
Palermo: bambini non vanno a scuola per frugare tra i rifiuti dei ricchi. I genitori li sfruttano perché non sono imputabili. Si infilano dentro i cassonetti dei rifiuti, rovistano, cercano ferro, cartone, alluminio. Frugano nella spazzatura alla ricerca di quello che gli altri buttano via. È un piccolo esercito di bambini sfruttati da genitori, parenti, conoscenti che li utilizzano per la raccolta di qualunque cosa possa essere rivenduta o riciclata. Vengono usati perché hanno il vantaggio di essere piccoli e agili e si possono infilare dentro i contenitori dei rifiuti, dove gli adulti non riescono ad arrivare con altrettanta facilità. E così sono avviati sulla strada della microcriminalità. Prendere la spazzatura infatti costituisce un reato, equivale a rubare da quando anche il Comune di Palermo si è adeguato alle nuove norme. Ma se i bambini vengono scoperti a rovistare dentro i cassonetti della spazzatura non sono imputabili. E questo rappresenta un motivo in più per sfruttarli. A Palermo, quello del "raccoglitore di ferro" è un vecchio mestiere, un lavoro come un altro per sbarcare il lunario. Escono nottetempo. Sono padri e figli, zii e nipoti, bambini che accompagnano conoscenti che li ricompensano con pochi soldi. Si spostano, a bordo dell’Ape, dalle periferie alle zone più ricche della città, dove la gente butta cose ancora utilizzabili. Accostano davanti ai recipienti della nettezza urbana, gli adulti restano a bordo col motore acceso a controllare i movimenti sulla strada, i ragazzini scendono, si infilano nell’immondizia e passano qualunque cosa possa fruttare qualche euro. C’era una coppia famosa che fino a qualche tempo fa viveva così: Natale e Salvuccio. Il padre, Natale, ha una bottega di rigattiere in una zona popolare. Se ne andava in giro col figlio (il quale ovviamente non andava a scuola per lavorare) alla ricerca di merce per il suo negozio. Uscivano la mattina e tornavano con mille cose: lattine di alluminio (tra i materiali più ambiti perché vengono pagate più di mezzo euro al chilo), cartone, ferro ma anche vecchi lampadari, elettrodomestici fuori uso, oggetti rotti. Al rientro si smistava la merce: le materie prime venivano vendute un tanto al chilo, il resto diventava mercanzia per la bottega dopo essere stato riparato o smembrato per farne pezzi di ricambio. È andata avanti così fino a quando Salvuccio è diventato troppo grande e, per sua fortuna, è stato "intercettato" dagli assistenti sociali del centro "Padre Nostro" che lo hanno quasi costretto a prendere un titolo di studio. Suo padre continua da solo a fare la stessa vita e se ne vanta: "Meglio nell’immondizia che andare a rubare", dice. Di Salvuccio a Palermo ce ne sono tanti e passano facilmente nel mondo dell’illegalità quando, oltre a frugare nella spazzatura, vengono costretti a rubare pezzi di grondaie di rame dai condomini e fili elettrici. E qualcuno c’è pure rimasto secco. È stato valutato che ogni mese i raccoglitori di ferro immettono sul mercato 13 mila tonnellate di materie prime. Quando il Comune ha bandito il prelievo dei rifiuti, in duemila sono scesi in piazza. La Regione ha creato una task force per fronteggiare la protesta. È stato raggiunto un accordo: chi si mette in regola, registrandosi come ambulante, può vendere le materie prime agli enti pubblici, tutti gli altri restano fuori dal mercato. Si sono adeguati in 800.
La dannazione dei vicoli
Erano piccoli, è vero, spesso non superavano gli otto anni, ma nessuno li chiamava bambini. A Palermo erano semplicemente saittuni: una parola che sta a indicare qualcosa di minuscolo, quasi invisibile ma estremamente rapido e imprendibile. Come una saetta, appunto. O come un topo che fugge più veloce dello sguardo umano. Saittuni furono battezzati i ragazzini che l’8 luglio del 1960 dai quartieri popolari si riversarono nel centro storico, nel pieno della guerriglia urbana scatenata per fermare il governo Tambroni. Non erano comunisti, i saittuni, e neppure antifascisti. Erano semplicemente affamati: bambini digiuni che nella bolgia cercavano di svoltare la giornata. Bambini già tanto adulti da decidere di sfidare le pallottole della polizia che allora non sparava in aria e neppure proiettili di gomma. Uno dei saittuni fu ritrovato secco dietro un’aiuola del teatro Politeama. Una pallottola vagante lo uccise, nessuno l’ha mai ricordato, se non una canzone poi cantata dal giornalista-poeta Salvo Licata in uno degli spettacoli arrangiati in una cantina di via XX Settembre. È una storia dolente, quella dei bambini di Palermo. Vederli, adesso, tuffarsi dentro i fetidi cassonetti dei mercati popolari riporta indietro la memoria verso una realtà che sembrava cancellata. E invece - sarà la moderna crisi o una miseria mai debellata? - eccoli ancora i saittuni, come negli Anni Cinquanta e Sessanta. Allora non c’erano i cassonetti, perché il demone del consumismo non ci aveva ancora posseduti. Perciò bisognava cercare altrove. Per esempio nei retrobottega dei negozi di alimentari, nei depositi delle officine dove ferro e metalli "preziosi" come il rame erano facilmente reperibili. Economia del dopoguerra? Economia povera, come poveri sono i "kamikaze" contemporanei che rimangono attaccati ai fili dell’alta tensione nel tentativo di rubare il rame, appunto. Morivano come le mosche, i bambini a Palermo. Lo Zen, oggi icona di tutti gli inferni, non c’era ancora. Ma c’era qualcosa di peggio: c’era il centro storico, debilitato dai bombardamenti, che crollava come cartapesta e ogni volta uccideva i bambini che giocavano nei vicoli del Capo o della Vucciria. Ma non era, quello, il massimo del degrado. Basta rileggere l’inchiesta su Palermo di Danilo Dolci, pubblicata sull’Ora, per avere il quadro di cos’era la città. A Cortile Cascino si concentrava la vita grama della Palermo sottoproletaria. Centinaia di famiglie asserragliate nei tuguri, senza fogne, gabinetti e acqua. I bambini nudi, esposti alla tubercolosi. Di giorno uscivano a cercare rame e cartone. Già, i "cartonai": un mestiere che, per esempio al Borgo Vecchio, ha resistito fino alle soglie degli Anni Ottanta. Scomparve un po’ prima, invece, il mestiere degli adulti di Cortile Cascino che per sopravvivere facevano i cenciaioli. Sembrava definitivamente consegnato alla memoria dei meno giovani l’orrore dei bambini che giocavano coi topi, che rubavano l’energia elettrica per alleviare la bolletta dei genitori. Una nuova povertà ci dice che il filo lungo non si è ancora interrotto. Una tentazione ottimistica ci potrebbe forse indurre all’autoconsolatoria conclusione che, in fondo, "meglio rischiare l’epatite in un cassonetto che consegnarsi alla mafia". La storia ci dice che non è così: molti bambini sopravvissuti a Cortile Cascino non hanno poi evitato l’abbraccio criminale. Giustizia: Feo-Fivol; 6.500 volontari per l'assistenza ai detenuti di Giacomo Bagnasco
Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2009
Strutture penitenziarie. Censimento della Feo-Fivol: in aumento i volontari, più donne che uomini. Fondamentale l’intesa tra organizzazioni ed équipe interne. Un contingente di quasi 6.500 persone, attive soprattutto nelle carceri, ma anche negli ospedali psichiatrici giudiziari e negli Uepe, gli Uffici esecuzione penale esterna, lasciando invece fuori le strutture riservate ai minori. Ecco i soggetti "censiti" dalla sesta rilevazione nazionale sul volontariato penitenziario, realizzata dalla Feo-Fivol - Fondazione Europa Occupazione e Volontariato - per conto della Conferenza nazionale volontariato giustizia, il coordinamento delle organizzazioni del settore. I volontari costituiscono una solida maggioranza sul fronte degli operatori esterni. Sono infatti 6.485 su un totale di 9.286, che si raggiunge considerando anche chi lavora, remunerato, per organizzazioni non profit 0 enti pubblici. Il numero di tutti gli operatori esterni fissato al mese di maggio 2008 risulta aumentato in confronto alle indagini precedenti: più 10% nei confronti dell’ultima rilevazione del 2005, rispetto alla quale, peraltro, sono cambiati alcuni criteri.
Doppio binario
A prevalere, nel gruppo preso in considerazione, sono i volontari che accedono alle strutture in base all’articolo. 17 della legge 354/75: si tratta di 5.068 persone che possono legare la loro presenza anche a un singolo progetto o evento. I cosiddetti "assistenti volontari" (previsti dall’articolo 78 della stessa legge) sono invece 1.417. La loro opera è rivolta sia al futuro reinserimento nella vita sociale dei detenuti, sia a forme di sostegno morale. Gli assistenti volontari si distinguono, tra l’altro, per la durata del loro impegno: il 57,3% è attivo nel set-tore da più di cinque anni, percentuale che scende al 29,6% per i volontari ex articolo 17.
I confronti
È innegabile l’esistenza di un gap geografico. Al Nord risultano attivi 3.192 volontari (il 49,2% del totale), al Centro se ne contano 1.854 (il 28,6%) e al Sud 1.439 (il 22,2%). Considerando tutti gli operatori esterni, e non solo i volontari, il rapporto risulta di uno ogni quattro detenuti al Nord e al Centro, mentre diventa di uno ogni 11 nel Meridione. Le donne costituiscono il 56,3% dei volontari, che - per classe di età - si collocano principalmente nella fascia tra i 46 e i 65 anni, in grado di assorbire il 38% del totale. L’età media tende comunque a scendere al Sud, dove anche le associazioni, in linea di massima, operano da meno tempo. Tra le numerose attività svolte (dal rifornimento di generi di prima necessità alle iniziative in campo culturale e sportivo, dalle attività religiose alla consulenza legale) nel 41,7% dei penitenziari prevalgono i colloqui di sostegno, sempre più finalizzati - si legge nella relazione che accompagna l’indagine - a impostare percorsi di sensibilizzazione verso obiettivi di recupero.
Le valutazioni
Renato Frisanco, che ha curato lo studio come ricercatore della Feo-Fivol e fa anche parte della Conferenza nazionale volontariato e giustizia, evidenzia innanzitutto i progressi compiuti: "È migliorata - dice - l’intesa tra le organizzazioni e le équipe trattamentali che operano nelle carceri. C’è una maggiore capacità di programmare gli interventi e di integrarli in una progettualità condivisa. Si registrano anche una crescita nel livello dei progetti e un collegamento più puntuale tra carcere e territorio". "I problemi - prosegue - si evidenziano quando all’interno delle strutture le équipe sono di fatto assenti e la progettualità viene meno. Sulla via del reinserimento, poi, sarebbe importante applicare misure alternative al carcere per i detenuti che si avvicinano alla fine della pena. Ma in questo momento si sta andando nella direzione opposta".
Un sostegno esteso alle famiglie
Genitori in carcere, prevenzione della criminalità tra gli adolescenti, aiuto alle famiglie dei detenuti. Il volontariato carcerario, negli anni, ha messo a punto "buone pratiche" in ambiti originali, anche fuori dalla cinta muraria degli istituti. "A marzo i turni sono così serrati che facciamo fatica a pulire l’appartamento - racconta Luisa Bove, presidente dell’associazione di volontariato "Il Girasole Onlus" -. La richiesta è tale che ci sarebbe bisogno di numerose strutture come la nostra". Il Girasole, che ha partecipato nei giorni scorsi alla sezione "economia carceraria" della fiera milanese "Fa’ la cosa giusta!", nasce a Milano nel 2006 e sceglie da subito di lavorare al "confine" del mondo carcerario. Ovvero con le famiglie dei detenuti rimaste, dopo l’arresto, senza capo e riferimenti. "Gestiamo un appartamento con cinque posti letto - spiega Bove - offerto a chi è costretto ad affrontare un lungo viaggio per venire a Milano in visita, in carcere, al proprio caro. Lo stesso appartamento costituisce una base per i detenuti senza domicilio in permesso premio. Inoltre aiutiamo le famiglie all’esterno con pacchi alimentari". "Ristretti Orizzonti", realtà di Padova da 12 anni tra le più attive nell’ambito del volontariato penitenziario, ha aperto da poco due nuovi fronti di attività: "Il primo è quello dell’ingresso in carcere delle classi di studenti - spiega Ornella Favero, responsabile dell’associazione -. Negli ultimi anni sono entrati al "Due Palazzi" di Padova circa 700 studenti in visita didattica. La cosa incredibile è che l’incontro con i detenuti, che hanno imparato a riconoscere le proprie responsabilità, ha un impatto molto forte. E funziona come prevenzione alla criminalità. La nostra seconda attività è quella di far incontrare, all’interno di convegni, autori e vittime di reati. Il loro dialogo produce una comprensione e un ascolto che aiuta a vivere". Un’altra best practice del volontariato penitenziario è quella di "Bambini senza sbarre", associazione milanese che si preoccupa di curare la genitorialità dei detenuti. "Con l’arresto - afferma Lia Sacerdote, responsabile dell’associazione - l’interruzione improvvisa del rapporto genitore-figlio è drammatica; se è la mamma ad essere arrestata, i bambini finiscono spesso in comunità. Non di rado i genitori si separano. Noi facilitiamo l’incontro con i figli e facciamo in modo che il rapporto riprenda al più presto". Giustizia: giovani "toghe" di Md; sì al confronto con il Governo di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Il contrasto è diventato esplicito quando Giuseppe Cascini - 44 anni, pubblico ministero a Roma, esponente di Magistratura Democratica ma anche segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati, il sindacato dei giudici - è salito sul palco e ha lanciato la sfida: "Siamo tutti d’accordo nel presentarci all’esterno come non ideologicamente contrari al governo e disponibili al dialogo e al confronto sulle riforme necessarie per il funzionamento della giustizia? Siamo d’accordo sul considerare la politica l’arte del possibile e del ragionevole che richiede duttilità, apertura al confronto, capacità di dialogo e ascolto, rifiutando logiche pregiudiziali e puramente ideologiche?". No, ha risposto, non siamo tutti d’accordo. Invece lui crede fermamente a una linea di "resistenza costituzionale" e "difesa a oltranza" dell’assetto attuale della magistratura, certo, affiancata però a rigorosi criteri di professionalità e di merito quando c’è da valutare singoli comportamenti, "rompendo le logiche di appartenenza e protezione". Per questo - rivendica - l’Anm ha scelto di menare fendenti da una parte e dall’altra nella "guerra" tra le Procure di Salerno e Reggio Calabria; e per questo Magistratura democratica ha contribuito, nella grande maggioranza dei casi, alle nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura di circa 300 responsabili di uffici direttivi. Una linea meno ideologica e più pragmatica che ha alimentato i mugugni della "vecchia guardia" di Md, la corrente di sinistra e più politicamente caratterizzata delle toghe. Un gruppo nato nel 1964 che ama definirsi "intellettuale collettivo" e che per molti aspetti ha "fatto" la storia della magistratura italiana. Fornendo indirizzi e riferimenti teorici e culturali, ma anche contributi concreti - attraverso il lavoro di giudici e pubblici ministeri iscritti alla corrente - nel contrasto al terrorismo, alla mafia, alla corruzione. Arrivata a 45 anni d’età e al suo XVII congresso, Md si ritrova a vivere una divisione interna che è di metodo prima che di merito, e un po’ anche frutto del ricambio generazionale e della nuova stagione politica. Per tre giorni le "toghe rosse" hanno discusso e litigato, seppure coi toni felpati dei tecnici del diritto, su come sono state affrontate le difficoltà del passato e come affrontare quelle del futuro. Alla fine ha prevalso la voglia di evitare rotture formali, tanto che l’unico risultato certo è la conferma del segretario uscente - Rita Sanlorenzo, cinquantenne giudice del lavoro a Torino - che incarna la volontà di tenere insieme le "differenti sensibilità" della corrente uscita sconfitta dalle ultime competizioni elettorali per il Csm e l’Anm, dopo l’aumento dei consensi nei primi anni Duemila, quando più aspro era lo scontro tra politica e giustizia. Ora che quello scontro rischia di rinnovarsi, i magistrati di sinistra scelgono di restare uniti in difesa dell’autonomia e dell’indipendenza di chi amministra la giustizia. Ma sulla rotta da seguire affiorano le differenze. Tanto che Livio Pepino, 64 anni, uno dei "padri" di Md, torinese anche lui e capodelegazione al Csm, ammonisce: "Non si può navigare a vista" mentre il governo "fa la guerra ai poveri anziché la guerra alla povertà" e nella stessa magistratura si vedono preoccupanti segnali di "auto normalizzazione". Il vecchio magistrato invita a non appiattirsi sul quotidiano e "volare alto ", ma un giovane appena arrivato - Tommaso Pierini, rammaricato di aver frequentato l’università senza politica di fine anni Novanta, "altro che ‘68 o ‘77, purtroppo" - replica: "Cercate di volare un po’ più basso, altrimenti tanti di noi non riusciranno nemmeno a vedervi". E invita a riflettere sulla "cultura dell’organizzazione del lavoro", per calarsi nella realtà degli uffici giudiziari. Un monito condiviso dalle nuove leve che partecipano alla Giunta tricolore dell’Anm composta da Md, Unità per la costituzione e Movimento per la giustizia. Un governo delle toghe di centrosinistra, contrapposto a quello politico di centrodestra senza pregiudiziali ideologiche, bensì nel merito delle questioni concrete. Tentando di limitare i danni, quando non si possono evitare. Su questa scelta le divisioni tra i "magistrati democratici" non si spiegano soltanto con il salto generazionale. Il giudice napoletano Francesco Menditto, 54 anni, ammonisce: "Nell’Anm e nel Csm dobbiamo far emergere la nostra specificità" e cita un altro fondatore di Md, il defunto Pino Borrè, per richiamare il ruolo di "guardianaggio duro fino alla resistenza". Nello Rossi, 62 anni, procuratore aggiunto a Roma, ribatte invocando il rinnovamento e la necessità di "non stare soli nella società, nella magistratura e nelle istituzioni". La mozione finale approvata dal congresso prova a ricomporre le diverse posizioni. Si accusa la "rottura con la legalità costituzionale" perseguita dal governo che mal sopporta "la funzione giurisdizionale a tutela delle libertà e dei diritti", ma c’è scritto pure che "Md si riconosce nella linea politica della giunta dell’Anm"; cioè quella dei "giovani" a cui partecipano Cascini e altri. In una prima stesura questo riconoscimento era definito "pieno", poi il rafforzativo è saltato; come a non voler esagerare nel sostegno alla politica del confronto anziché dell’arroccamento. Che comunque resta, almeno per ora. Giustizia: Caselli; non svendersi, c'è timore di derive pericolose di Dino Martirano
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Formalmente rimane equidistante. Il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli - uno dei padri nobili di Magistratura democratica - non prende partito tra i "giovani riformisti " e i "custodi della pregiudiziale antigovernativa" della componente di sinistra dei giudici e dei pm italiani. Ma poi ai "giovani riformisti", soprattutto, consiglia prudenza: "Ben venga il dialogo con il governo sulle riforme... Servono però paletti rigorosi se il vero obiettivo della politica non è quello di migliorare il servizio giustizia ma quello di limitare gli spazi e l’autonomia della magistratura". Insomma, se il giovane pm Giuseppe Cascini (segretario dell’Anm) invita i colleghi di Md a "prendere il badile e a spalare lo sterco che cade dal cielo", Caselli risponde così: "Piuttosto che spalare il letame piovuto preferirei fare qualcosa perché di letame ne piova sempre di meno. Come per la grandine, non starei solo ad aspettare: cercherei di azionare anzitutto i cannoni antigrandine. Dico questo perché oggi la magistratura intera, e non solo Md, è inquieta, incerta, sconcertata dal futuro. Perché, poco o tanto, teme comunque derive pericolose". Iscritto a Md fin dal ‘68 da giovane uditore a Torino, transitato attraverso la drammatica stagione dell’antiterrorismo (dal 73 all’82), eletto al Csm insieme a Pino Borrè e a Elena Paciotti (86- 90), procuratore di Palermo dopo le stragi del ‘92 e capo dell’accusa al "processo del secolo" contro Giulio Andreotti, Caselli racchiude in sé molti dei filoni che, nel bene e nel male, hanno scandito la storia di Md. Oggi quel rigore maturato in trincea non è mutato: "Sarebbe stupido e antidemocratico rifiutare il dialogo. Il problema è come dialogare: un conto è il compromesso e la mediazione a svendere, un altro è confrontarsi sostenendo con decisione e senza arroganza i valori della giurisdizione". Coi tempi che corrono, però, la posta in gioco è alta con interventi imminenti del Parlamento su intercettazioni e rapporto pm-polizia giudiziaria: "Se l’obiettivo dell’interlocutore è chiaro, trasparente, ben venga il dialogo sull’efficienza del sistema giustizia. Se invece l’obiettivo appare chiaramente diverso, ovvero ridurre gli spazi di intervento della magistratura, che il dialogo serva per denunciare l’inaccettabilità di questi obiettivi". Ma qual è il consiglio che Caselli si sente di dare ai colleghi che chiedono più chiarezza alla vecchia guardia di Md? "Sento crescere la tentazione di cedere alla rassegnazione se non all’opportunismo. Invece, credo che la strada giusta sia guardare al futuro irrobustendo la nostra capacità di magistrati, educando noi stessi alla radicalità del presente. Quando essere radicali oggi è l’unico modo per essere realmente vivi, coerenti con il passato". Al congresso di Md sono stati i giovani a chiedere un segnale di discontinuità sulla professionalità del giudice. Per Caselli l’invito è sacrosanto: "Ci vuole capacità di critica anche verso se stessi. Serve un grande impegno nel quotidiano, senza corporativismi, perché deve crescere la consapevolezza che noi siamo chiamati a svolgere un servizio. Diritti e libertà, però, meglio si tutelano quanto più c’è efficienza. Altrimenti la tutela è vuota". Ma ha ancora un senso per la politica parlare di toghe rosse? "Per quanta attenzione i magistrati mettano in campo, è il male esclusivo del nostro Paese attribuire delle appartenenze fasulle a tutti coloro che adempiendo il loro dovere incrociano determinati interessi: il magistrato che non subisce attacchi o è particolarmente bravo o è fortunato oppure sceglie il basso profilo. Chi fa è attaccato (le critiche sono sempre legittime quando sono argomentate), chi non fa è sempre incensato". Infine, se vinceranno i "custodi dell’ideologia", Md è destinata all’isolamento? Caselli risponde così: "Un certo isolamento è nel Dna del magistrato. Il giudice giusto è quello che condanna, quando ci sono le prove, anche se la piazza chiede l’assoluzione. È quello che assolve, quando non ci sono le prove, anche quando la piazza chiede la condanna". Giustizia: l'Europa rafforza la cooperazione in materia penale di Valerio Stroppa
Italia Oggi, 31 marzo 2009
La cooperazione giudiziaria in materia penale tra paesi Ue si rafforza, pur tutelando il diritto alla difesa dell’imputato. Se l’interessato non è comparso personalmente al processo terminato con la sentenza, l’autorità giudiziaria dello stato membro di esecuzione può rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo (Mae) emesso da un giudice in un altro paese membro (di emissione), a meno che il mandato non documenti particolari circostanze. Vale a dire, in primis, che l’imputato (assente) sia stato a tempo debito citato personalmente e quindi informato della data e del luogo del processo, oppure sia stato messo a conoscenza del fatto che una decisione poteva essere emessa anche in caso di sua mancata comparizione in giudizio. Discorso analogo se, essendo al corrente della data fissata, egli aveva conferito mandato a un difensore ed è stato poi in effetti patrocinato in giudizio da tale legale. È quanto prevede la decisione quadro 2009/299/Gai del Consiglio europeo del 26 febbraio 2009, pubblicata sulla Guue L 081 di ieri, che stabilisce le condizioni in base alle quali il riconoscimento e l’esecuzione di una sentenza pronunciata al termine di un procedimento cui l’imputato non ha presenziato dovrebbero essere rifiutati. Tali novità vengono apportate tramite l’inserimento dell’articolo 4-bis nella decisione quadro 2002/584/Gai. Tra i presupposti, oltre a quelli già menzionati, c’è anche il caso in cui l’interessato, dopo aver ricevuto la notifica della decisione ed essere stato informato del diritto a un nuovo processo o a fare appello, ha dichiarato espressamente di non opporsi al verdetto dei magistrati o non ha presentato ricorso entro il termine stabilito. Infine, la decisione quadro stabilisce che l’autorità giudiziaria del paese di esecuzione dovrebbe procedere all’arresto se l’imputato, pur non avendo ricevuto personalmente la notifica della decisione, la riceverà senza indugio dopo la consegna e sarà espressamente informato del diritto a ricorrere. Tutte queste condizioni, spiega il documento del Consiglio, sono alternative: basta che una di esse sia soddisfatta perché l’autorità di emissione, completando l’apposita sezione del Mae o il pertinente certificato ai sensi delle altre decisioni quadro, garantisce che i requisiti sono o saranno soddisfatti, il che dovrebbe essere sufficiente al fine dell’esecuzione della decisione in base al principio del reciproco riconoscimento. Giustizia: Cassaz.; ubriaco al volante, non è omicidio volontario
Notiziario Aduc, 31 marzo 2009
Non basta essere ubriachi al volante ed aver falciato un gruppo di persone sul marciapiede per meritare una condanna per omicidio volontario. La Cassazione si oppone, di fatto, alla linea dura delle procure contro i pirati della strada e conferma una sentenza dei giudici di Salerno che hanno trasformato in omicidio colposo l’originaria accusa di omicidio volontario contestata ad un romeno che, ubriaco al volante di un’auto di grossa cilindrata in compagnia di alcuni amici, era finito sul marciapiede travolgendo due persone. I pm salernitani, nel luglio 2008, avevano arrestato per omicidio volontario un romeno di 24 anni che ubriaco alla guida, in pieno centro di Salerno, era finito sul marciapiede uccidendo un passante e ferendone un altro. Come non bastasse era ripartito a tutta velocità finendo la corsa nelle vetrine di un negozio. Ma i giudici hanno derubricato, come si dice in gergo, l’accusa di omicidio volontario in quella, assai più lieve, di omicidio colposo. Anche se aggravato. La Procura, seguendo la linea che vede diversi uffici inquirenti contestare l’omicidio volontario nei casi in cui l’automobilista sia sotto l’effetto di alcol o droghe, ha perciò presentato ricorso in Cassazione. Ma i giudici della quarta sezione penale, con la sentenza 13083, non hanno condiviso la linea dura sottolineando invece gli aspetti sociologici del comportamento. In particolare la Corte ha evidenziato il fatto che, a loro parere, la giovane età del conducente e la disponibilità di un veicolo di grossa cilindrata rendono evidente il quadro di un giovane spericolato ed eccitato, indotto ad una condotta di guida estremamente imprudente e negligente, e intesa a rimarcare agli occhi degli amici passeggeri la propria sicurezza, il predominio, la padronanza dell’auto e della strada. In sintesi, secondo la Cassazione la ricostruzione dei fatti sarebbe la prova che il ragazzo non voleva l’evento. La Corte aggiunge inoltre che è proprio stato di ubriachezza che ingenera il senso di onnipotenza. Due ingredienti, conclude la Cassazione, che associati alla giovane età hanno portato il ragazzo a credere di non correre rischi. Insomma, anche se ubriacarsi e mettersi alla guida è una scelta, le conseguenze che ne derivano sono involontarie. Giustizia: Cassazione; il Gratuito Patrocinio non ammette bluff di Antonio Ciccia
Italia Oggi, 31 marzo 2009
Il gratuito patrocinio non ammette bluff. Anche dichiarare falsamente circostanze che, se riferite in termini veritieri, non pregiudicherebbero l’ammissione, costituisce reato ai sensi dell’articolo 95 del Testo unico delle spese di giustizia (dpr 115/2002). E quindi salta retroattivamente il gratuito patrocinio, con recupero dello stato a carico del colpevole. La corte di Cassazione a sezioni unite (sentenza 6591 del 27 novembre 2008, depositata il 16 febbraio scorso) ha abbracciato la tesi più rigorosa, abbandonando la tesi buonista. Il problema è se il reato previsto dall’art. 95 dpr n. 115 del 2002 sia integrato da falsità od omissioni nelle dichiarazioni o comunicazioni per l’attestazione di reddito necessarie per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato o il mantenimento del beneficio, anche se il reddito accertato non dovesse superare la soglia minima prevista dalla legge. Le risposte al quesito sono diverse a seconda di una diversa valutazione dello scopo della norma e cioè a seconda se si consideri la questione più sotto un versante economico: che senso, economico, avrebbe punire chi ha dichiarato un elemento non rilevante ai fini dell’ammissione? Diversa è la risposta della Cassazione, che fa invece appello alla necessità di fornire esattamente al magistrato il quadro della situazione senza tolleranza per nessuna finzione, nemmeno per quella innocua. Filone rigorista: Il filone rigorista, che ha prevalso, annovera parecchie sentenze che esprimono il seguente principio: il reato di cui all’articolo 95 del dpr 115/2002, previsto a carico di chi rilasci dichiarazioni false in ordine alle proprie condizioni reddituali ai fini dell’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, sussiste a prescindere dall’incidenza che tali dichiarazioni possano aver avuto sulla detta ammissione; questo perché qualsiasi elemento indicativo di reddito, anche inferiore a quello significativo ai fini del superamento della soglia, va dichiarato per consentire agli organi competenti di effettuare le valutazioni del caso (Cassazione penale, sez. V, 24 gennaio 2008, n. 13309). Quindi il reato di false dichiarazioni si consuma anche quando il reddito realmente percepito avrebbe ugualmente consentito l’ammissione del soggetto al beneficio (Cassazione penale, sez. V, 9 ottobre 2007, n. 42060; Cassazione penale , sez. III, 20 giugno 2006 , n. 28340). È poi stato ritenuto non rilevante se l’interessato abbia o meno ottenuto il beneficio, in quanto è configurata la previsione di un aggravamento di pena quando la falsità sia risultata determinante ai fini dell’ammissione (Cassazione penale, sez. V, 13 giugno 2006, n. 37603). Giustizia: Maroni; tra interventi sociali e... repressione dei reati
Redattore Sociale - Dire, 31 marzo 2009
Milano diventerà un laboratorio sul tema delle periferie: il ministro alla presentazione dell’indagine della Cattolica su 103 province e 10 aree urbane. Dal governo 10 milioni per affrontare il problema dei campi rom abusivi. Per scongiurare il rischio banlieu le forze dell’ordine non bastano, occorrono interventi di prevenzione del disagio sociale. È quanto sostiene Roberto Maroni, ministro dell’Interno, che è intervenuto questa mattina alla presentazione della ricerca "Processi migratori e integrazione nelle periferie urbane", commissionato dallo stesso ministero all’Università cattolica di Milano. La ricerca, che mira a studiare la situazione della popolazione immigrata nelle periferie di 103 province e 10 aree urbane, non è ancora conclusa, i risultati non sono ancora pubblici, ma per il ministro è già chiara la linea da seguire: "Le azioni repressive non risolvono i problemi delle periferie e della concentrazione di immigrati, ci vogliono politiche di integrazione". Milano diventerà un laboratorio sul tema delle periferie. "Ritengo importante che governo, comune di Milano e Università Cattolica collaborino per definire un modello di integrazione che renda la città più vivibile e per gli immigrati anche più accogliente. Un modello che se funzionerà potrà essere esportato anche in altre città". Per il ministro Maroni la "sicurezza urbana" è questa: prevenzione del disagio con interventi sociali e repressione dei reati. "La ‘sicurezza urbana’ così intesa sarà al centro del G8 dei ministri dell’interno e della giustizia che si terrà a Roma il 28 e 29 maggio", annuncia Roberto Maroni. Su Milano e i comuni della provincia stanno per arrivare anche 10 milioni di euro per affrontare il problema dei campi rom abusivi. "Sono fondi che mettiamo a disposizione del prefetto Gian Valerio Lombardi, che è anche commissario straordinario per l’emergenza rom, e serviranno per lo smantellamento di tutti i campi nomadi abusivi e la realizzazione di strutture non solo autorizzate ma attrezzate. Servono quindi per smantellare il degrado dei campi attuali". Giustizia: la Polizia protesta i contro "tagli" economici e le ronde di Alberto Custodero
La Repubblica, 31 marzo 2009
Non era mai successo che tanti sindacati di polizia, da quelli di sinistra della Silp-Cgil a quelli del centrodestra dell’Ugl, assediassero il Viminale, sede del ministero dell’Interno, per protestare contro la politica di sicurezza del Governo. Contro i tagli e contro le ronde. È avvenuto ieri, unico assente il Sap, ufficialmente per non essere strumentalizzato da Cgil, Cisl e Uil, ufficiosamente per l’imbarazzo di avere l’ex segretario Filippo Santamartini come senatore del Pdl. Non era mai accaduto che sotto il Viminale, a sostegno degli agenti di pubblica sicurezza, si schierassero, oltre al leader del Pd Dario Franceschini, il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani e quello della Cisl, Raffaele Bonanni (per la prima volta di nuovo uniti in una lotta sindacale dopo la rottura sulla riforma dei contratti). E con loro anche la segretaria dell’Ugl, Renata Polverini. "C’è qualcosa che non quadra - attacca Epifani - le destre politiche di tutto il mondo, al tema sicurezza rispondono investendo di più nelle forze dell’ordine. In Italia avviene un paradosso: il taglio più corposo a quei fondi arriva dal governo di centrodestra che proprio sulla sicurezza ha impostato la propria campagna elettorale". "È un mondo alla rovescia", dice Epifani. Quando al governo c’era Prodi, a protestare a fianco della polizia era scesa in campo la destra. Oggi, al contrario, durante il governo Berlusconi, a solidarizzare con le divise s’è schierato il centrosinistra. "Il governo - ha incalzato il leader del Pd Dario Franceschini - ha tradito le promesse fatte in campagna elettorale tagliano 3 miliardi e mezzo per il comparto sicurezza e difesa. E raccontando che il problema ordine pubblico si risolve con ronde di privati cittadini. La realtà è che ai poliziotti che andranno al G8 in Sardegna è stato chiesto di anticipare le spese di missione, per albergo e vitto". "La nostra proposta - ha detto ancora - resta l’election day: facciano votare in un’unica giornata, il 7 giugno, le amministrative, le europee e il referendum. Così si risparmieranno 500 milioni di euro da destinare alla polizia". Su questa linea si sono schierati tutti i sindacati di polizia che ieri hanno protestato al Viminale. "Basterebbe recuperare il 10 % dell’evasione - ha concluso il leader del Pd - per destinare risorse per le forze dell’ordine e per quelli che stanno perdendo il posto di lavoro". Subito è arrivata la replica del ministero dell’Interno. "Nel 2006 - ha dichiarato Roberto Maroni - sono stati stanziati 6,9 miliardi di euro, nel 2007 e nel 2008 6,7, e nel 2009 7,4. Come potete vedere la curva sale". Ma a fare le pulci ai conti del titolare del Viminale sono gli stessi sindacati di polizia. "Al question time alla Camera del 18 febbraio - ha ribattuto Enzo Letizia, del sindacato funzionari di polizia - Maroni ha dato altri numeri: 7,14 miliardi nel 2008 e 7,79 nel 2009. Perché questa differenza? Gli chiediamo di rifare i conti. E gli ricordiamo che la maggior parte di quegli incrementi derivano dagli oneri stipendiali relativi a aumenti contrattuali stipulati nel biennio del governo Prodi, pari a 580 milioni. Gli altri coprono gli arretrati degli affitti, spese di riscaldamento, costi dei collaboratori di giustizia. E solo qualche euro in più per l’acquisto automezzi". Giustizia: dal "tesoretto" dei beni mafiosi 100 milioni alla Polizia di Roberto Petrini
La Repubblica, 31 marzo 2009
C’è la Ferrari 512 TR sequestrata a un narcotrafficante, la Porche Cayenne da 500 cavalli di un ricettatore, l’Audi di un clan camorristico. Ma anche la villa confiscata al "re delle case da gioco" di Varese e trasformata in una caserma della Polstrada. Sono solo le punte di un iceberg che ammonta a 100 milioni di euro dei beni frutto della lotta alla criminalità organizzata, un patrimonio immenso di immobili, quote societarie, titoli e denaro liquido, che il ministro degli Interni Roberto Maroni, ha utilizzato per mettere una toppa alle richieste delle forze dell’ordine che protestano per i tagli al personale e all’operatività dei reparti spesso senza benzina e con le "pantere" ferme per mancanza di manutenzione. La mossa di Maroni, contenuta in un emendamento al decreto antistupri, in discussione questa settimana alla Camera, porta al debutto il nuovo "Fondo unico Giustizia", approvato nell’autunno dello scorso anno e ora reso operativo. Con una forzatura contabile: la disposizione originaria prevedeva che le risorse del fondo fossero destinate solo per un terzo alla sicurezza e per gli altri due terzi al risanamento del bilancio dello Stato e alla protezione civile. Invece il blitz di Maroni consente al ministero di acquisire l’intera torta e di ribattere ai sindacati parlando di risorse aumentate: i 100 milioni infatti serviranno per l’assunzione di circa 2.500 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e vigili del fuoco oltre a far fronte alla cosiddetta "emergenza benzina". Tuttavia i sindacati contestano la misura. "Le vendite dei beni della mafia non costituiscono entrate strutturali mentre le spese per il personale lo sono", spiega Claudio Giardullo, segretario del Silp-Cgil. E in effetti il fondo, sebbene alimentato da una costante lotta alla criminalità, rischia di prosciugarsi e di non fornire risorse con regolarità. Nei primi mesi di quest’anno, oltre ai 100 milioni cash e disponibili, sono arrivati altri 30 milioni. Successivamente bisognerà attendere i 200 milioni che si prevedono nei prossimi mesi: si tratta tuttavia di risorse sequestrate che saranno disponili solo dopo la confisca con i relativi tempi e procedimenti giudiziari. Le cifre dei tagli, dovuti al decretone dello scorso anno e alla Finanziaria 2009, ammontano invece a circa 1 miliardo. La riduzione di risorse tra ministero dell’Interno (cioè Polizia e Carabinieri), ministero dell’Economia (Guardia di Finanza), Politiche Agricole (Guardia forestale) e Trasporti (Polfer) ammontano a 553 milioni, fondi che servono alla operatività delle forze dell’ordine. A queste cifre si sommano i 200 milioni per l’edilizia carceraria. Infine c’è il problema del personale: i tagli, denunciati dai sindacati di polizia, sono notevoli. Tra il 2009 e il 2012 si calcola che il blocco del turnover porterà ad una riduzione di 6.689 uomini che va aggiunta all’attuale carenza di organico pari a circa 9.000 unità: si arriverà così nel 2012 ad una riduzione di organico pari a circa 15 mila unità che, in termini di risorse, significa 277 milioni. Lettere: l'appello; sono uscito dal carcere, aiutatemi a rinascere
www.livesicilia.it, 31 marzo 2009
Una premessa necessaria. Questo quotidiano online ha iniziato una campagna per realizzare condizioni di vita più umane nelle carceri siciliane. In questo siamo perfettamente in sintonia con l’ufficio del garante per i detenuti siciliani - rappresentato dal senatore Salvo Fleres, coadiuvato dall’avvocato Lino Buscemi - che da anni conduce una splendida battaglia. È dunque con affettuosa attenzione che pubblichiamo questa lettera. È un messaggio in bottiglia. È la richiesta d’aiuto di un ex detenuto, un ragazzo di vent’anni che ha pagato e non vuole sbagliare più. Ci auguriamo con tutto il cuore che non venga disattesa. Chi scrive è un ragazzo di 22 anni che vorrebbe reintegrarsi nella società dopo 2 anni e 2 mesi di galera. Il mio incubo è iniziato il 13 gennaio 2007 per colpa di alcune amicizie sbagliate, ritrovandomi senza alcuna possibilità di difendermi, con questo non voglio farle capire che sono innocente anche perché del reato che ho commesso ne ero consapevole, però pur avendo pagato la mia pena senza alcuno sconto non riesco a trovare lavoro. Io nella vita ho sempre lavorato senza mai dare problemi ai miei familiari, sono un ragazzo che ha capito di aver sbagliato, però credo che a 22 anni si può avere un’altra possibilità e che un ex detenuto possa ritornare a vivere e a crearsi un avvenire lavorando onestamente. Dopo tutte le sofferenze passate in galera (C.C. Ucciardone di Palermo) ora mi ritrovo a soffrire anche fuori perché le persone mi guardano come se fossi ancora un criminale, e ora come ora sono convinto che nessuna persona al mondo voglia credere in me e nelle mie capacità. Mi ricordo alcune parole di un mio compagno di cella che mi diceva sempre:"Nessuno nasce con la matricola". Con queste parole voleva dire che nessuno nasce dentro il carcere e che quando una persona sbaglia può rimediare, ma adesso che sono fuori mi domando: "Con quale aiuto?". Io spero tanto che ci sia qualcuno che mi possa aiutare ma soprattutto voglio ritornare a vivere. Non ho nient’altro da aggiungere, non ho più lacrime da versare, ho tanta forza e volontà per andare avanti, rimediare agli sbagli commessi e non voglio più deludere le persone che in tutto questo tempo mi sono state vicine e che continuano a farlo giorno dopo giorno.
Giovanni Ruisi Calabria: Sappe; sovraffollamento e carceri vecchie da sostituire
Comunicato stampa, 31 marzo 2009
"Anche la Calabria, così come le altre regioni italiane, è interessata dal grave fenomeno del sovraffollamento penitenziario. Il 26 marzo scorso la capienza delle dodici strutture penitenziarie della Regione (2 Case di Reclusione e 10 Case Circondariali) ha registrato la presenza record di 2.566 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di 1.778 posti. E in Calabria c’è una grave carenza di poliziotte penitenziarie rispetto alle necessità operative: parliamo di una cinquantina di Agenti. È ovvio allora che servono urgenti provvedimenti del Ministero della Giustizia, a cominciare dal prevedere nel piano carceri che si appresta a varare l’Amministrazione penitenziaria le sedi penitenziari calabresi che necessiterebbero di una nuova struttura." È quanto dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa della Categoria, da questo pomeriggio in visita alle strutture penitenziarie della Calabria con il Segretario generale aggiunto Sappe Giovanni Battista Durante ed il Segretario regionale Sappe per la Calabria Damiano Bellucci. Capece, che incontrerà il Personale di Polizia penitenziaria di Castrovillari e Rossano ed il Provveditore regionale penitenziario Quattrone a Catanzaro, aggiunge: "Recenti operazioni di Polizia hanno riportato all’attenzione dei mass media nazionali il problema della criminalità organizzata in Calabria, fronteggiata quotidianamente dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, con uomini e mezzi comunque inadeguati. E tra le forze dell’Ordine non può essere sottaciuto il lavoro svolto quotidianamente dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, chiamato a gestire oltre a tutte le generali problematiche attinenti gli Istituti anche quelle relative alla criminalità organizzata, particolarmente presente in regione ed indicata come una delle più pericolose tra le associazioni mafiose. Noi abbiamo rappresentato recentemente al Capo del Dap Franco Ionta le sedi penitenziari calabresi che necessiterebbero di una nuova struttura. In particolare sono state rappresentate le situazioni relative a Lamezia Terme, in cui l’attuale Casa Circondariale è ubicata in un ex convento con una capienza di soli 30/50 posti; Crotone e Cosenza anche in aggiunta alle Case Circondariali esistenti, attese le mutate esigenze di custodia e di trattamento dei detenuti, sì da consentire condizioni di sicurezza anche di ristretti del circuito di A.S.; Reggio Calabria, dove è certamente da completare l’istituto attuale, e la ex Casa Mandamentale di Mileto. I contenuti della nostra lettera sono stati ripresi dal deputato dell’Italia dei Valori Giovanni Paladini, che ha presentato una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ora ci auguriamo che il Guardasigilli risponda presto all’interrogazione parlamentare e che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ponga tra le priorità d’intervento anche la risoluzione delle criticità calabresi". Roma: la visita dell’Ucpi; Rebibbia è una bomba ad orologeria di Cristiana Mangani
Il Messaggero, 31 marzo 2009
Una tendenza alla carcerizzazione, il sovraffollamento che sta arrivando alla situazione pre-indulto, l’incapacità di gestire e frenare la ripopolazione degli istituti di pena: a lanciare l’allarme sono gli avvocati dell’Unione camere penali italiane. Nel primo giorno di astensione dalle aule giudiziarie hanno voluto affrontare una questione molto spinosa e, ieri mattina, una delegazione di penalisti ha visitato Rebibbia tracciandone un quadro molto preoccupante. "Le condizioni in cui abbiamo trovato la Casa Circondariale - spiega il vice presidente dell’Ucpi, Renato Borzone - non possono che destare allarme, nonostante i grandi sforzi messi in campo dal direttore Carmelo Cantone".
Avvocato, come è considerata Rebibbia rispetto ad altre Case Circondariali? "Dovrebbe essere una delle migliori in Italia, o per precisione, tra le meno peggio. In realtà, abbiamo trovato quello che ci aspettavamo. Sin dal momento in cui è stato approvato l’indulto, infatti, avevamo già previsto quanto sarebbe accaduto: e cioè che, a distanza di pochissimo tempo, le carceri si sarebbero nuovamente riempite. Così è stato".
Quali i numeri? "Rebibbia ospita oggi 1.460 detenuti, di cui 800 con condanne definitive, mentre prima dell’indulto erano 1.600 (di cui 1.200 con condanne definitive). La capienza, però, è di 1.080 detenuti, quindi il numero è di gran lunga superiore a quello stabilito. Questo porta ad avere spesso fino a 6 detenuti in celle da 2, con le conseguenti complicazioni anche di ordine sanitario. Ne bastano altri 100 e da qui all’estate, sarà il collasso".
C’è un reparto più affollato di altri? "Il problema che abbiamo riscontrato non è soltanto questo. Si tratta di un carcere che dovrebbe ospitare esclusivamente detenuti con condanne definitive. Invece si registra un forte aumento di detenuti in attesa di giudizio. In alcuni reparti, al contrario di quanto stabilito dalla legge, convivono detenuti condannati con quelli in attesa di giudizio che, fino alla sentenza definitiva, dovrebbero essere considerati presunti innocenti. È una situazione molto pericolosa. A esempio, nel reparto G-9 che ospita i sex offenders ci sono 425 detenuti, di cui 200 in attesa di essere giudicati. Proprio durante la nostra visita se ne sono aggiunti altri 5 e il reparto ha superato i limiti di capienza".
Le proteste arrivano anche dai sindacati degli agenti penitenziari. "Hanno ragione perché, a fronte del sovraffollamento della struttura, si registra una grave carenza del personale: in alcuni reparti tra cui il G-11, che ospita 400 tra tossicodipendenti e nuovi arrivati, in determinati turni ci sono solo 7 agenti di custodia. Ciò comporta spiacevoli conseguenze sulla quotidianità dei reclusi che spesso sono costretti a scegliere tra l’ora d’aria e la doccia, e che di domenica devono rinunciare alla doccia".
Quali i rischi e le conseguenze? "Voglio sottolineare quanti sforzi vengano fatti ogni giorno dal direttore Carmelo Cantone. All’interno del carcere sono state realizzate attività sociali e lavorative. Numerosi detenuti lavorano in un call center, altri per le autostrade. Il rischio è che tutto questo debba essere interrotto, perché se continua ad aumentare il numero degli ospiti bisognerà occupare i locali dove abitualmente si svolgono le attività socialmente utili".
Di chi la colpa? "Una buona parte di responsabilità ce l’ha sicuramente il Governo con la politica sulla sicurezza che sta attuando. Il decreto insiste sull’incremento della custodia cautelare, limitando l’accesso alle misure alternative alla detenzione. È un errore, perché la recidiva in caso di benefici è molto bassa. Noi siamo in astensione proprio per denunciare il tradimento degli impegni e chiedere il rispetto dei provvedimenti sull’ordinamento giudiziario, dalla separazione delle carriere alla velocizzazione dei processi. Tutto questo non fa che riflettersi sulla mancanza di fiducia che la gente nutre verso la giustizia e sul senso di insicurezza che si avverte". Roma: la crisi arriva a Regina Coeli; licenziati addetti alle pulizie di Valentina Di Nino
Il Messaggero, 31 marzo 2009
La crisi arriva anche a Regina Coeli. Il carcere romano è in rosso e a rimetterci per primi saranno gli addetti alle pulizie: da oggi saranno licenziati e al loro posto lavoreranno i detenuti. Per questo sono sul piede di guerra. "Quasi quasi mi conveniva fare qualcosa contro la legge protesta esasperata Mara, una delle persone che non sanno più cosa fare Ma vi pare giusto? D’accordo: il detenuto deve essere agevolato e reinserito. Ma a noi lavoratori chi ci tutela?". La signora Mara e due colleghi, Annalisa e Domenico, pulivano l’area uffici del carcere per conto della ditta che ha preso in appalto il servizio dal Ministero della Giustizia. Guadagnano (guadagnavano) 320 euro al mese. Troppo, evidentemente. Così il Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria ha deciso di affidare il compito a due detenuti di Rebibbia. I quali, secondo le norme sul trattamento penitenziario, hanno la possibilità di lavorare all’esterno del carcere: lo faranno, sebbene sempre in prigione. Ai detenuti viene riconosciuta, per il lavoro svolto, una cosiddetta "mercede" che ammonta in genere ai due terzi di quanto previsto dal contratto di riferimento. Un bel risparmio. "Facevo questo lavoro da venti anni per una ditta che rinnova il contratto anno per anno aggiunge Mara mai una certezza e adesso ci mandano a casa. Allora divento cattiva e penso che, se pure io vado a rubare mi mettono in galera, non devo pensare più a niente: pigione, bollette, spesa e mi trovano pure lavoro". "Capisco la disperazione dei lavoratori coinvolti dice il dottor Mauro Mariani, direttore del penitenziario di Regina Coeli avevamo chiesto di rinnovare il contratto con la loro ditta. Ma purtroppo la cosa, per il momento, non è possibile. Il Provveditorato ci ha invitato a organizzarci diversamente". Così si è pensato di ricorrere alla possibilità prevista dalle leggi penitenziarie: "La scelta di ricorrere al lavoro dei detenuti aggiunge Mariani è stata fatta in base a due criteri. Il primo è quello trattamentale: il lavoro all’esterno è importantissimo per la rieducazione, che poi è il nostro scopo principale. Delle pulizie si occuperanno due detenuti. Ma speriamo più avanti di poterne inserire anche un terzo. Il secondo aspetto che siamo stati costretti a prendere in considerazione è quello strettamente finanziario: bisognava alleggerire le spese sui servizi, in questo settore siamo ormai in rosso". Il contratto biennale tra il carcere romano e la ditta di pulizie è scaduto il 28 febbraio. Agli addetti è stata concessa una proroga di un mese, tempo necessario a "formare" i due detenuti che li sostituiranno. Da oggi, quindi, sarà difficile tirare avanti, a meno che l’amministrazione non trovi qualche "posticino" alternativo: "Mi serve questo lavoro dice Mara come campo? Sono separata e ho due figli, la mattina vado pure a servizio. Ma senza il posto in carcere sono rovinata". Milano: la direttrice; a San Vittore fino a 7 persone in celle per 3
Milano Web, 31 marzo 2009
Intervista a Gloria Manzelli, direttrice di San Vittore dal 2005.
Ogni giorno si sente parlare di sovraffollamento delle carceri. Attualmente qual è la situazione a San Vittore? La situazione è difficile. Abbiamo infatti 1458 detenuti a fronte degli 800 posti disponibili. La gran parte di essi - 1100 - è in attesa di giudizio e quindi, molti, verranno destinati ad altre strutture, per esempio a Bollate.
Stranieri? Il 70% dei detenuti è straniero. Uno studio del 2008 rivela che sono arrivati a San Vittore 6993 persone, di cui 4713 extracomunitari.
In media, ogni giorno, quante persone vengono arrestate? Una quarantina. Ieri, per esempio, sono state 41.
Maschi e femmine? Il rapporto è iniquo. Le donne sono solo un centinaio.
È vero che esiste una struttura specifica per le detenute madri? È vero. È contigua all’Ospedale Macedonio Melloni. In questa sede è più facile prendersi cura di chi ha dei figli da seguire ma allo stesso tempo non può abbandonare il carcere.
Fra gli stranieri chi commette più reati? In carcere abbiamo soprattutto magrebini. A seguire albanesi, rumeni e sudamericani.
Quali i principali reati di accusa? Prevalentemente quelli legati al mondo della droga.
Tra i dati più preoccupanti c’è quello secondo il quale, negli ultimi anni, c’è stato un incremento dei reati commessi dai più giovani... Purtroppo. Fra i giovani adulti arrivati in carcere nel 2008, 1500 sono sotto i 25 anni; due hanno 18 anni, sessanta 19 anni. Poi ci sono 153 ventenni, 128 ventunenni, e 1036 ragazzi fra i 22 e i 25 anni. È anche sulla luce di questi dati che ci stiamo dando da fare per creare strutture in grado di seguire al meglio i giovanissimi.
Per esempio? Abbiamo creato un’equipe interdisciplinare il cui scopo è quello di coinvolgere il più possibile i ragazzi in attività ricreative e lavorative. Abbiamo dei corsi di laboratorio musicale, disegno, scrittura... Compito degli esperti è quello di individuare le predisposizioni naturali di ogni singolo per indirizzarlo sulla giusta strada.
Quanto tempo passa dal momento in cui un detenuto viene incarcerato a San Vittore e poi indirizzato in un altro istituto? Dipende dal tipo di reato.
È vero che in molte celle è stato necessario aggiungere una terza branda per i letti a castello, per far star comodi tutti? In realtà ne sono state aggiunte molte di più: una quinta, una sesta, a seconda delle circostanze.
Due numeri per stimare il sovraffollamento? In una cella da 3 vivono 6 o 7 detenuti.
La crisi colpisce anche San Vittore. In particolare c’è chi sostiene che i pasti, per cui sono stanziati 2 euro e 95 centesimi, sono insufficienti a soddisfare il fabbisogno della popolazione carceraria... Questa è una sciocchezza. Peraltro cucinano gli stessi detenuti...
Nella Finanziaria 2009 sono previsti 133 milioni di euro di tagli per il Dipartimento di amministrazione penitenziaria... Non sono al corrente di questo dato, tuttavia comprendo la necessità del Governo di dover tagliare un po’ ovunque per far fronte alla grave crisi economica in atto.
Quali sono le principali associazioni di volontariato che intervengono per il benessere dei detenuti? Ce ne sono tante: la Sesta Opera, l’Associazione Naga, l’Associazione Cuminetti, Incontri e Presenza, Angel Service. Poi ci sono parecchi volontari inseriti in specifici progetti pedagogici.
Il capo del Dap - che dal 2 marzo è anche commissario straordinario per l’emergenza - deve preparare entro il 2 maggio il piano per la costruzione di nuove carceri voluto dal Guardasigilli Angelino Alfano. Quali sono le prospettive per Milano? Entro il 2015 - quindi per Expo - dovrebbe vedere la luce la "Cittadella Giudiziaria", una nuova struttura per accogliere i detenuti della città. (Gli spazi carcerari, dagli attuali 5.500 metri quadrati di San Vittore, arriveranno a 220mila. L’inizio dei lavori è previsto per il 2009, ndr).
Dove? Zona Porto di Mare.
E San Vittore? Non esisterà più.
Da che anno è in piedi? Dal 1879.
Da un punto di vista architettonico, però, si è rivelato un ottimo carcere... Senz’altro. Ciò dipende dal sistema detto panottico, con un corpo centrale che controlla tutti i raggi.
Alcuni giornalisti di Milanoweb hanno recentemente intervistato degli extracomunitari che vivono di espedienti. Alla domanda "non hai paura del carcere?", hanno risposto "per niente", sottolineando che solo così sono certi di poter contare su un letto e un piatto caldo. È una triste realtà. Sicuramente le condizioni igieniche, sanitarie e alimentari di molti extracomunitari in carcere, sono migliori di quelle che sarebbero se vivessero per strada.
Ci dice qualcosa del San Vittore Sing Sing? È una manifestazione canora che va avanti con successo da 4 anni. Ci sono dei gruppi rock come i Franco Branco e i Vlp Sound che fanno furore. Ne fanno parte sia detenuti che agenti.
Altre iniziative? Tempo fa è venuta a cantare Antonella Ruggiero.
Se qualcuno vuole esibirsi a San Vittore cosa deve fare? Fare richiesta. Se lo spettacolo è interessante saremmo lieti di promuoverlo.
Quanti agenti lavorano a San Vittore? Circa 1.000.
Altri membri del personale? Un centinaio di professionisti fra medici e psicologi.
C’è poi chi viene a visitare il carcere per cultura... Spesso accogliamo le scolaresche. Ogni anno vengono a visitare San Vittore circa 4mila persone. Milano: il Tribunale "sposta" i processi e gli avvocati protestano di Luigi Ferrarella
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Trasferiti 5 casi da una sezione (intasata) all’altra. Toghe divise, la questione al vaglio del Consiglio giudiziario. Delocalizzare? Non è indolore non solo nelle fabbriche ma neppure in Tribunale a Milano, se ad essere "delocalizzati" dal presidente Livia Pomodoro, smistati dall’ottava sezione penale in apnea ad altre due sezioni meno cariche (sesta e settima), sono cinque grossi processi di criminalità organizzata che altrimenti non si riuscirebbe a celebrare, uno dei quali però già iniziato da mesi (seppure ancora alle prime battute) davanti ai giudici dell’ottava. E se gli avvocati protestano per il cambio di sezione e di giudici, ed esplorano la chance di ricorsi al Tar, anche i magistrati, in particolare dentro la corrente di Magistratura democratica, pesano i pro e contro di due valori entrambi cruciali, e accusano il mal di pancia di chi deve scegliere se dare priorità alla tutela assicurata dalle regole o all’efficienza di concrete soluzioni organizzative. Alla base di tutto, c’è il macigno di tre lettere che zavorra l’ottava sezione: Ros, cioè il maxiprocesso al generale Ganzer e agli altri ufficiali del reparto dei carabinieri imputati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Nella disattenzione generale, il dibattimento va ormai all’asilo: ha infatti appena compiuto tre anni di vita e, dopo 174 testi del pm, pur a forza di una o due udienze alla settimana (ormai se ne sono celebrate più di 100) è a mala pena a metà, avendo appena raggiunto la fase degli interrogatori degli imputati, dopo i quali toccherà all’altrettanto nutrita lista di loro testi. Non basta. Tra i rinviati a giudizio c’era anche il magistrato bresciano Mario Conte, la cui posizione era stata poi stralciata per problemi di salute: non più riunita per non fermare il troncone principale, da allora è rimasta congelata sino al 19 marzo. Ora, però, anche questo processo- stralcio deve ripartire, il Csm vuole che i processi alle toghe non ristagnino, ma il secondo collegio dell’ottava sezione è già schiacciato da processi di criminalità organizzata con detenuti (che quindi hanno priorità) e dal processo per riciclaggio, stralcio dell’inchiesta Mediaset, a carico dell’avvocato parlamentare Massimo Maria Berruti, che ha pure priorità perché prossimo a prescrizione. Di fronte all’ennesimo Sos lanciato dalla sezione, la presidente Pomodoro ha usato i suoi poteri per trasferire alle altre due sezioni che fanno criminalità organizzata (sesta e settima) i cinque processi la cui celebrazione all’ottava avrebbe impedito di fatto quella dei due processi-Ros e del Mediaset-Berruti. Scelta che ha scatenato una reazione a catena. Prima, tra i giudici del dibattimento, specie in seno a Md, si è aperta una discussione a tratti anche aspra sull’accettabilità o meno delle motivazioni, dei criteri e delle forme assunte dal "riequilibrio " delle assegnazioni dei processi alle varie sezioni. Poi, quando davanti alla settima sezione è dovuto ripartire il processo a 25 degli iniziali 95 imputati (di cui alcuni detenuti) accusati di 5 associazioni a delinquere, dibattimento che dal primo luglio 2008 ha già visto davanti alla ottava sezione le questioni preliminari, l’ammissione delle prove e metà interrogatorio del primo teste, gli avvocati hanno protestato, invocando la prospettata lesione del diritto al giudice naturale precostituito per legge. Stamattina la questione sarà discussa dal Consiglio giudiziario, il mini Csm locale. E intanto, per paradosso, gli auspici di maggior efficienza rischiano di infrangersi nel dubbio prospettato dai difensori del processo trasferito in corso d’opera: e cioè che uno dei tre giudici della nuova sezione possa subito risultare "incompatibile " perché incidentalmente già espressosi, sui fatti contestati agli imputati odierni, in alcuni passaggi della motivazione di un’altra sentenza di 9 anni fa. Varese: arrestato Mario Chiesa, "primo uomo" di Tangentopoli
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Mario Chiesa, ingegnere, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, casa di riposo nota anche come "Baggina", fu il primo arrestato dell’inchiesta passata alla storia come Mani Pulite, che portò a galla il sistema delle tangenti e che rivoluzionò la vita politica italiana. Era il 17 febbraio 1992 e a tradirlo fu una mazzetta da sette milioni di lire. Esponente del Psi, era diventato presidente del Trivulzio nel 1986, acquisendo potere e meriti in ambienti politici, anche se alla fine si era legato soprattutto a Craxi. Quello che fu definito "mariuolo" proprio dal leader socialista, aprì la strada all’inchiesta dei magistrati milanesi - che a quel tempo avevano in primo piano l’allora pm Antonio Di Pietro - quando decise, dopo cinque settimane di carcere, di spiegare il sistema delle tangenti per la spartizione degli appalti. Le indagini si estesero a migliaia di persone, fra politici, amministratori, imprenditori. E Tangentopoli divenne un pezzo di storia d’Italia. Mario Chiesa rimediò, attraverso i riti alternativi - mai fu giudicato pubblicamente - condanne per 5 anni e 4 mesi, restituì sei miliardi e, otto anni e mezzo dopo quel febbraio ‘92, nell’agosto 2000 uscì definitivamente dalla scena di Tangentopoli, dopo aver passato un periodo in prova ai servizi sociali, occupandosi di assistenza ai disabili. Da tempo sembrava ormai ai margini della cronaca. Oggi, invece, torna protagonista con l’arresto disposto dalla magistratura di Busto Arsizio (Varese) nell’inchiesta sul traffico di rifiuti. Matera: 2 milioni di euro e 20 anni di lavori ma il carcere non c’è
www.lucanianews24.it, 31 marzo 2009
Il carcere che non c’è. Nonostante le ingenti spese sostenute. In tutto, circa 4 miliardi di vecchie lire. Ossia, poco più di 2 milioni dell’odierna moneta unica. E solo per iniziarlo. Alla periferia sud di San Mauro Forte. Su di un’area di circa 15.000 metri quadrati. Località Pantoni, per la cronaca. Ormai terra di nessuno. Tant’è. Visitare per credere. Il degrado regna sovrano. L’imponente fabbricato, incustodito. Da anni. In mezzo ad ulivi secolari. Spazio rubato alla natura. Previsto come penitenziario di massima sicurezza (classe 1°), non ha ancora visto la luce. E (forse) mai la vedrà. Un domani. A sentirne l’esigenza fisica alla fine del 1980 l’Amministrazione comunale dell’epoca. "Tenuto conto - si legge negli atti - dell’inadeguato stato di sicurezza statica e di limitata ospitalità (13 posti detentivi) dell’esistente casa mandamentale" di via Roma (chiusa nell’ottobre del 2000), l’esecutivo cittadino inoltra apposita istanza - previa individuazione di idoneità del sito prescelto con il placet della Commissione tecnica comunale - all’allora Ministero di Grazia e Giustizia - Ufficio XIII per il necessario rilascio del nullaosta circa la redazione del progetto di massima. Il Ministero si dice subito favorevole, invitando l’ente di via Pietro Marsilio a redigere il progetto esecutivo. È il 5 luglio 1982. La pratica va avanti. Forte della concessione edilizia (n. 13 del 26.04.1983) rilasciata dall’apposita Commissione tecnica, il progetto (categoria F) - completo di tutti gli elaborati normativi - viene inviato a Roma per il pronunciamento ministeriale. Positivo. Come il giudizio ottenuto, in sequenza, dalla competente Soprintendenza ai Beni Ambientali della Basilicata. Il "dado" è tratto. Il destino, segnato. Cinque anni per l’avvio (in data 22.08.1988) dei lavori. Da subito all’insegna del frazionamento. Sospesi dal 28.09.1988 al 04.12.1988. Ed ancora: dall’11.09.1989 al successivo 03.12.1989 e dall’1.02.1990 al 14.04.1992, come risulta dai verbali redatti in pari data. Ben 954 le giornate lavorative complessivamente "perse". Che spostano - così - il countdown di ultimazione (parziale) dell’opera dal 21.02.1990 all’1.10.1992. Pur tuttavia nel rispetto della tempistica contrattuale utile. E da allora una fitta cortina di silenzio avvolge questo classico vaso di Pandora. Passato, nel frattempo, al patrimonio comunale. L’ente di via Pietro Marsilio, però, non ha ancora deciso cosa farne. Nonostante disponga di un residuo di mutuo pari ad 88.000 euro. E gli anni passano. Rovigo: carcere scoppia; detenuti costretti a dormire per terra di Ivan Malfatto
Il Gazzettino, 31 marzo 2009
"L’altro ieri sono stati portati materassi da Padova per compensare le carenze del magazzino. Ma il direttore del carcere ha dato l’autorizzazione a metterli per terra e far dormire i detenuti lì, se serve, perché non sempre ci sono le brande". Tamponata un’emergenza se ne presenta un’altra. Le parole di Livio Ferrari confermano lo stato di sovraffollamento ai limiti della decenza della casa circondariale di via Verdi a Rovigo. L’appello lo aveva lanciato giovedì dalle colonne del "Gazzettino" Tomaso Narsilio, vice sovrintendente e segretario provinciale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). Ora lo raccoglie, lo conferma e lo amplia il garante dei diritti dei detenuti nel comune di Rovigo, Ferrari appunto. "Do tutta la mia solidarietà ai detenuti che vivono e al personale che opera in una situazione del genere, lesiva dei diritti umani - prosegue Ferrari - La sezione maschile del carcere di Rovigo ha una disponibilità di 32 posti, una tollerabilità di 45, e l’altro giorno ospitava cento detenuti uomini su 133 complessivi. Le donne sono al limite della tollerabilità, che è a quota 34. La situazione di sovraffollamento purtroppo è una piaga comune. In Emilia Romagna, dati aggiornati al 25 marzo, era del 187%, in Veneto del 159%, in Lombardia del 152% e a livello nazionale del 141%. Purtroppo subiamo l’incapacità del Governo di fare scelte precise rispetto ai problemi penali". Ferrari conferma le accuse del sindacato sulle conseguenze nefaste per le case circondariali della legge Bossi-Fini sull’immigrazione clandestina. "Fa incarcerare mediamente 11 mila persone l’anno che non hanno commesso reati, ma sono semplicemente irregolari. O fornisci agli stranieri la possibilità di integrarsi, oppure li rispedisci in patria, ma non ha nessun senso tenerli nelle carcere". L’altra grossa fetta di detenuti riguarda la piaga della tossicodipendenza. "Sono le persone incarcerate dalla legge Fini-Giovanardi, tutte per la maggior parte con problemi sociali, che andrebbero seguite in altro modo - spiega Ferrari. Invece il 35% dei detenuti è tossicodipendente e il 40% è straniero. In tutto il 75% di carcerati appartenenti alle due categorie. Se il Governo prendesse una decisione su questi due problemi, di colpo le carceri si svuoterebbero. Non avremmo più bisogno di costruirne di nuove per combattere il sovraffollamento, ma addirittura di chiudere qualcuna di quelle vecchie, diventate ormai inutili". Bari: Sappe; chiudere subito Seconda Sezione, è una vergogna
Comunicato stampa, 31 marzo 2009
Da parecchio tempo il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - maggior sindacato di categoria, sta denunciando la situazione paradossale che si sta vivendo presso il penitenziario barese. Infatti una ditta edile venuta da Roma con pochi operai (6, 7 al massimo) ha aperto più cantieri all’interno della struttura costringendo da più di un anno gli operatori penitenziari a lavorare in mezzo alla polvere ed ai disagi, creando peraltro grossi problemi di sicurezza al penitenziario barese che si ritrova con il muro di cinta (anch’esso da più di un anno) completamente sguarnito. Ciò, nonostante la struttura sia situata al centro della città e soffra di un sovraffollamento mai raggiunto che è arrivato a 550 detenuti a fronte di 220 posti disponibili, in cui sono stati rinchiusi (o ancora presenti) pezzi da 90 della delinquenza organizzata (mafia, camorra, ndrangheta) e terroristi nazionali ed internazionali. Così mentre vengono eseguiti lavori (così urgenti e necessari?) quali rifare portinerie, etc. si continua a violare la legge e calpestare i diritti umani di centinaia di detenuti ed operatori penitenziari tenendo aperta in maniera vergognosa la Seconda Sezione, nonostante le prescrizioni (emanate da diverso tempo) di chiusura immediata da parte delle autorità sanitarie competenti a causa delle gravi condizioni igienico - sanitarie. La situazione è ormai fuori controllo poiché in reparti che possono ospitare non più di 40, 45 detenuti ne sono ristretti oltre 100, stipati in stanze a 6, 7, 8 dove al massimo se ne potevano sistemarne 3, in pessime condizioni igieniche e con dei bagni (situati nelle stesse stanze) ricavati da divisori in lamiera da cui vengono fuori odori e puzze nauseabonde. Come pure dai corridoi dei piani cadono calcinacci in continuazione per le fatiscenti condizioni dei muri e dell’umidità che ha invaso dovunque, e che in qualche occasione hanno sfiorato e colpito sia i detenuti che il personale di Polizia Penitenziaria. Addirittura in qualche occasione è stato richiesto l’intervento dei vigili del fuoco. Per limitare i danni si è arrivati persino a puntellare con delle reti le pareti. Che dire poi degli impianti idrici e fognanti pieni di ruggine, fatiscenti, che perdono sia acqua corrente che reflue, con odori e puzze incredibili. Come pure mancherebbe un ascensore capace di accogliere una barella ed in caso di emergenze, non è possibile operare nessun soccorso urgente. In questa situazione anche la Polizia Penitenziaria è costretta a lavorare in condizioni inaccettabili a seguito delle gravi carenze di organico poiché costringono un solo operatore a controllare fino a 100 detenuti. Il Sappe. ritiene a questo punto che non ci sia più un minuto da attendere e chiede che l’Amministrazione Penitenziaria rispetti la legge e proceda alla chiusura immediata della Seconda Sezione per motivi igienico-sanitari, provvedimento che avrebbe l’obbligo di adottare il sindaco di Bari Emiliano, quale autorità sanitaria locale, cosa peraltro fatta poco tempo fa dal Sindaco di Pordenone.
Il Segretario Regionale Sappe Federico Pilagatti Roma: Osapp; 2 agenti Rebibbia aggrediti da detenuto in 41-bis
Ansa, 31 marzo 2009
Un detenuto in regime di 41-bis (il cosiddetto carcere duro) ha aggredito e ferito due agenti di polizia penitenziaria nel carcere romano di Rebibbia. L’episodio, avvenuto nel pomeriggio di oggi, viene denunciato dall’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp). "È un fatto gravissimo - dice il segretario generale del sindacato, Leo Beneduci - non era mai accaduto che un detenuto in 41-bis arrivasse a tanto: fanno vita blindata e dunque sono generalmente tranquilli". L’aggressione sarebbe avvenuta al rientro del detenuto in cella, dopo l’ora di socialità: l’uomo, non si sa per quale motivo, avrebbe inveito contro gli agenti, aggredendoli. Due poliziotti penitenziari sono stati medicati all’ospedale Sandro Pertini, mentre il detenuto è stato denunciato all’autorità giudiziaria ed ora rischia anche una sanzione disciplinare "Si parla tanto di inasprimento del 41-bis e di renderlo effettivo. Aspettiamo che dalle parole si passi ai fatti. Innanzitutto - aggiunge Beneduci - va risolto il problema degli agenti sotto organico, e in secondo luogo i detenuti in regime di carcere duro vanno concentrati in due-tre strutture per essere meglio controllati". Pisa: picchiato dal compagno di cella, il carcere dovrà risarcirlo
La Nazione, 31 marzo 2009
Il detenuto è stato aggredito e malmenato da un compagno di cella e per questo l’amministrazione penitenziaria di Pisa è stata condannata a rifondere i danni patiti, con una provvisionale di cinquemila euro, in attesa della sentenza del giudice civile di fronte al quale la parte lesa chiederà un risarcimento di 50mila euro. Protagonista della vicenda, ricostruita ieri in tribunale, è un viareggino di 62 anni - C.R. le sue iniziali - che nel 2005 era detenuto dietro le sbarre del carcere Don Bosco di Pisa per spaccio di droga. Proprio qui, all’interno della casa di pena pisana, l’uomo venne aggredito da un altro detenuto, L.P.L., accusato di aver ucciso la moglie. Un raptus scoppiato dal nulla, senza alcun motivo particolare a giustificare l’esplosione di violenza improvvisa. Provocata - secondo il giudice - da uno stato di alterazione psicologica in cui versava l’aggressore di cui sopra. Un raptus che costò al detenuto viareggino a frattura di una mano, e varie ferite alla testa. Dopo questo episodio il sessantaduenne ha presentato una querela e, assistito dall’avvocato Marisa Gargiulo, si è costituito parte civile sia nei confronti del detenuto che lo aveva aggredito, sia nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, ritenuta responsabile di non aver attuato tutte le misure di controllo necessarie per evitare l’aggressione all’interno della struttura carceraria. Ieri il processo di primo grado al tribunale di Pisa, che ha assolto L.P.L. perché ritenuto totalmente incapace di intendere e di volere; ma nel contempo ha condannato l’amministrazione penitenziaria al pagamento di una provvisione di cinquemila euro. L’avvocato Gargiulo e il suo assistito intendono ora andare sino in fondo. Faranno una causa civile nei confronti del carcere e chiederanno un risarcimento di 50mila euro per i danni materiali e morali subito con quell’aggressione. Roma: inaugurato Anno accademico Istituto Studi Penitenziari
Adnkronos, 31 marzo 2009
Si è svolta oggi a Roma la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto superiore di studi penitenziari, alla presenza del sottosegretario al ministero della Giustizia Giacomo Caliendo, con gli interventi del prorettore vicario dell’università di Roma Sapienza Francesco Avallone, docente di facolta’ di psicologia, con una prolusione sul tema "Il valore della persona nella organizzazione penitenziaria". L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, "secondo la tradizione propria dei centri di formazione di livello superiore", intende sottolineare, "tramite la tradizionale cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, l’avvio delle attività formative che si svolgeranno nel corso del 2009. L’occasione viene individuata anche quale momento di riflessione utile a focalizzare e puntualizzare gli obiettivi raggiunti nel corso delle attività didattiche concluse nell’anno 2008, che sono state rivolte alla complessità delle figure direttive e dirigenziali operanti nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria". Verona: un incontro tra gli studenti e gli operatori del carcere
Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2009
Prosegue la serie di incontri con gli studenti di cinque classi dell’Istituto Giorgi nel progetto di prevenzione alle devianze, iniziato in autunno e che si concluderà alla fine dell’anno scolastico. Dopo aver incontrato il Magistrato di Sorveglianza, dott.ssa Lorenza Omarchi e l’Assessore Regionale alle Politiche Sociali, dott. Stefano Valdegamberi, oggi 30 marzo 2009, sono intervenuti il Direttore della Casa Circondariale dott. Salvatore Erminio e il Comandante di Polizia Penitenziaria, dott. Giacomo Presti per raccontare del carcere dal punto di vista del loro ruolo professionale. Interessante il confronto mosso anche dalle domande poste dagli studenti. Le richieste di informazione hanno riguardato l’organizzazione e la struttura dell’istituto, la giornata del detenuto e i costi della detenzione, poi sono state orientate a conoscere le prospettive dei clandestini all’uscita dal carcere e l’importanza della famiglia nella fase di reinserimento. Il Direttore ha illustrato la presenza dei detenuti a Montorio e le tipologie più frequenti di reato, ha dialogato sulla pena di morte, facendo anche riferimento agli stati nei quali è ancora adottata, per osservare che non costituisce un deterrente né una forma di prevenzione, e ha citato la Costituzione all’articolo 27 sul senso rieducativo della pena. La Dirigente Scolastica del C.T.P. Carducci, responsabile della scuola nel carcere di Montorio, dott.ssa Luciana Marconcini, dopo aver descritto l’offerta scolastica rivolta alle persone detenute, ha promosso alcune riflessioni sull’incidenza del precario o inesistente percorso scolastico nella casistica degli ingressi in carcere, ribadendo la valenza dell’istruzione e della cultura nella padronanza della propria vita, concetto sottolineato anche dal dirigente del Giorgi, Dott. Andrea Sivero. Gli interventi sono stati intervallati dalla lettura di alcune lettere scritte da detenuti rivolte agli studenti, gli stessi che, compilato un questionario iniziale, avevano espresso opinioni durissime e di intransigenza nei confronti di chi commette reati. Scrive Filippo:"Anch’io qualche anno prima guardavo i drogati come marziani pensando fra me e me che mai sarei diventato come loro. Posso dire che mi è andata molto peggio." E Jerry, trascrivendo le risposte al questionario,: "certe parole mi hanno fatto male perché, anche se sono in carcere mi sento una persona con sentimenti e valori". "Alla vostra età, - prosegue Andrea, - io non ho mai accettato consigli da nessuno, se in voi scatterà la molla come è scattata in me, di volere di più, di credervi più forti e di volere tutto e subito, inevitabilmente cadrete in un meccanismo micidiale, una trappola. Se vi lascerete trascinare dallo sballo, dalla droga e dal gruppo, è qui che finirete. Voi avete tutto il tempo e le strade davanti a voi, la scelta è vostra e di nessun altro". Ed infine Adil: "alcune persone pensano che uno dentro il carcere sia un mostro ma non siamo solo detenuti, abbiamo anche una storia da raccontare, non solo di criminalità ma anche di noi stessi. L’importante è imparare la lezione e cambiare vita verso la strada giusta per trovare pace e serenità e metterci d’accordo con la nostra coscienza. Spero che la mia esperienza possa servire a tutti i ragazzi che si considerano completamente al di fuori di un ipotetico "rischio carcere" che invece, di questi tempi, è sempre più dietro l’angolo, anche solo per l’uso delle cosiddette droghe leggere o guida in stato di ubriachezza". In attesa della visita in carcere e dell’incontro in classe con i detenuti, il dialogo è iniziato.
Paola Tacchella Immigrazione: strage davanti alle coste libiche, otre 300 i dispersi
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Sono centinaia i dispersi in mare, al largo delle coste libiche, vittime dell’ultima tragedia dell’immigrazione. Tripoli parla di 21 vittime accertate, mentre solo 20 persone sono state tratte in salvo da tre barconi naufragati lunedì a poca distanza dalla terraferma. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, citando finti libiche, ha quantificato i dispersi in trecento. Sembra che i tre barconi, sovraccarichi di persone (tra cui molti egiziani) e privi di salvagenti a bordo, siano colati a picco per il forte vento. "Non erano a una distanza dalla costa che consentisse di raggiungerla a nuoto" ha detto il portavoce dell’Oim Jean-Philippe Chauzy. Una quarta imbarcazione in difficoltà è stata rimorchiata e portata in salvo. Rimorchiatore italiano - Dal Comando generale delle Capitanerie di porto arriva la conferma di una notizia diffusa in precedenza da Tripoli: circa 350 migranti sono stati soccorsi dal rimorchiatore italiano Asso 22 al largo delle coste libiche dato che l’imbarcazione aveva grosse difficoltà. L’allarme è scattato la sera di sabato e l’intervento di soccorso, condotto insieme alle autorità libiche, si è concluso domenica pomeriggio, quando il barcone è stato rimorchiato fino al porto di Tripoli. Salvi tutti gli occupanti. L’Asso 22, iscritto a Napoli, normalmente assiste tre piattaforme petrolifere al largo della Libia. Proprio da una di queste piattaforme, ricostruisce la Guardia costiera, sabato intorno alle 23 sono state trasmesse le coordinate di un barcone carico di migranti che navigava in condizioni precarie. L’unità ha raggiunto il posto, dove si è unita ad una motovedetta della Guardia costiera libica, che ha coordinato le operazioni di salvataggio dato che la barca era in acque affidate alla giurisdizione di Tripoli. Tre militari libici sono saliti sul mezzo italiano che a mezzanotte e mezzo ha agganciato il barcone e cominciato il rimorchio. Sbarchi in Sicilia - L’ennesima tragedia in mare non ha fermato i viaggi della disperazione verso l’Italia: oltre 400 extracomunitari sono approdati nelle ultime ore sulle coste orientali dell’isola, dopo i 222 arrivati lunedì a Lampedusa. Sbarchi che, ha assicurato il ministro dell’Interno Roberto Maroni, "termineranno il 15 maggio, quando entrerà in vigore l’accordo siglato dal governo italiano con quello libico sul pattugliamento congiunto delle coste". Il primo barcone si è arenato lunedì sera sulla spiaggia di Scoglitti, una frazione di Vittoria in provincia di Ragusa. A bordo c’erano 153 immigrati, tra cui 29 donne, che dopo le procedure di identificazione sono stati portati nella palestra comunale di Pozzallo. Una carretta di circa 20 metri con a bordo 249 persone, tra cui 31 donne (tre incinte) e otto minori, è approdata invece all’alba a Portopalo di Capo Passero, nel Siracusano. Gli extracomunitari, in gran parte somali ed eritrei, sono stati scortati in porto dall’unità navale delle Fiamme gialle e da una motovedetta della Guardia costiera. Un giovane somalo di 24 anni, il presunto scafista, è stato arrestato dalla Guardia di finanza. Caos a Lampedusa - Intanto a Lampedusa c’è stata una nuova fuga dal Centro di identificazione ed espulsione: una ventina di migranti sono riusciti ad allontanarsi dall’edificio, prima di essere bloccati qualche ora dopo dai carabinieri. Due di loro, sorpresi a rubare dentro villette disabitate, sono stati arrestati; altri cinque denunciati per violazione di domicilio. Sull’isola si trovano complessivamente 720 extracomunitari distribuiti tra il Cie di contrada Imbriacola e l’ex base Loran di Capo Ponente. Il sindaco Dino De Rubeis ha lamentato la mancanza di assistenza medica adeguata per i 222 migranti sbarcati nel pomeriggio. Affermazioni seccamente smentite dal responsabile del Dipartimento immigrazione del Viminale, Mario Morcone. Immigrazione: Maroni; dopo accordi con Libia sbarchi finiranno di Fiorenza Sarzanini
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Evitare Lampedusa. Il mare in burrasca non ferma l’arrivo di centinaia di immigrati e il ministero dell’Interno mette in atto il nuovo dispositivo che prevede di "dirottare" a Porto Empedocle i mezzi soccorsi al largo. Chi riesce ad aggirare i controlli e approdare sull’isola siciliana deve essere invece trasferito nella struttura di Isola Capo Rizzuto, trasformata un mese fa in centro di identificazione ed espulsione. Le decisioni, prese in sede riservata durante il comitato per l’ordine e la sicurezza del 12 marzo scorso, sono operative. Alla riunione di una settimana fa presieduta dal ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva partecipato anche il comandante generale delle Capitanerie di porto Raimondo Pollastrini. A lui il titolare del Viminale aveva affidato il compito di comunicare le ultime direttive alle motovedette impegnate nel pattugliamento del canale nel tratto che separa l’Italia dalle coste africane. Ieri Maroni ha ribadito la "certezza che dal 15 maggio, quando sarà operativo l’accordo siglato con i libici, gli sbarchi finiranno". Ma si tratta più che altro di una speranza, non c’è alcuna certezza che le autorità di Tripoli consentano davvero ai poliziotti italiani di partecipare ai controlli di fronte alle loro coste. E dunque si sceglie di percorrere strade alternative, visto che Lampedusa è ormai al collasso. Il flusso di arrivi da record che ha segnato il 2008 non sembra arrestarsi anche nei primi mesi del 2009, così come i naufragi. La decisione di Maroni di trasformare il centro di accoglienza in Cie era stata presa per disporre il rimpatrio direttamente dall’isola siciliana, senza il trasferimento in altre strutture dove gli stranieri devono essere identificati per verificare se abbiano diritto all’asilo. Nelle intenzioni del ministro doveva servire anche da deterrente per chi pensava di fare tappa a Lampedusa, essere portato altrove e poi far perdere le proprie tracce al termine del periodo di permanenza obbligatorio. E invece dalle coste libiche continuano a partire barconi, ma la rivolta dei clandestini scoppiata sull’isola un mese fa e culminata con l’incendio della base ha dimezzato i posti disponibili. Si cambia, dunque, e si portano gli extracomunitari in Sicilia. Oppure in Calabria. Il decreto firmato il 23 febbraio da Maroni dispone che "parte dell’area demaniale sita nell’ex distaccamento dell’Aeronautica Militare "Sant’Anna" di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, finora usata come centro di prima accoglienza e per chi richiede asilo, sia individuata come centro di identificazione ed espulsione". Nel provvedimento si sottolinea che la modifica si è resa necessaria "perché i Cie funzionanti non sono al momento sufficienti a soddisfare le esigenze e dunque occorre attivare ulteriori strutture". Lo stesso Maroni aveva annunciato più volte la creazione di nuovi Cie nelle regioni dove non ci sono strutture, ma il piano si è fermato per le resistenze degli enti locali e perché gli edifici messi a disposizione dal Demanio sono per lo più fatiscenti e dunque devono essere completamente ristrutturati. I tempi non potranno essere brevi, visto che lo stanziamento dei fondi necessari a compiere i lavori è stato inserito nel ddl sulla sicurezza che non sarà approvato in via definitiva prima di fine maggio. Immigrazione: il caso dei bambini costretti a tornare in patria di Gian Antonio Stella
Corriere della Sera, 31 marzo 2009
Il padre è stato assassinato, lui ha viaggiato per tre anni. In Italia era arrivato a bordo di un Tir. Non l’hanno mica chiesto al piccolo Alidad, perché fosse scappato dal Paese degli aquiloni e dell’orrore. Avrebbero saputo che suo papà era stato assassinato dai talebani, che a 9 anni era scappato con la mamma e i fratellini in Iran, che aveva impiegato mesi e mesi per arrivare clandestinamente lì al porto di Ancona e insomma aveva diritto a essere accolto. Come rifugiato politico e come bambino. Ma non gliel’hanno chiesto. Come non lo chiedono ogni giorno a decine e decine di altri. L’hanno caricato su una nave e spedito via: fuori! A dodici anni. Eppure le leggi italiane e quelle europee, come sarà ribadito oggi in un convegno a Venezia con Massimo Cacciari, Gino Strada, i rappresentanti di Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie, sarebbero chiarissime: non si possono respingere alla frontiera tutti quelli che arrivano così, all’ingrosso. Certo, il questore (anche senza il via libera del magistrato, secondo l’interpretazione più dura) può decidere il "respingimento con accompagnamento alla frontiera nei confronti degli stranieri che sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo", ma con eccezioni. Le regole "non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari". Ovvio: non si possono ributtare le vittime in pasto ai carnefici. Così come la Francia, per fare un solo esempio tratto dalla storia nostra, non riconsegnò il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, agli assassini fascisti di Giacomo Matteotti. Sui minori, poi, l’articolo 19 del Decreto legislativo 28 gennaio 2008, che neppure la destra al governo ha toccato (anche per rispettare la convenzione di New York sui diritti del fanciullo) è netto. Punto primo: "Al minore non accompagnato che ha espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale è fornita la necessaria assistenza per la presentazione della domanda. Allo stesso è garantita l’assistenza del tutore in ogni fase della procedura per l’esame della domanda...". Punto secondo: "Se sussistono dubbi in ordine all’età, il minore non accompagnato può, in ogni fase della procedura, essere sottoposto, previo consenso del minore stesso o del suo rappresentante legale, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi al fine di accertarne l’età". Punto terzo: "Il minore deve essere informato della possibilità che la sua età può essere determinata attraverso visita medica, sul tipo di visita e sulle conseguenze della visita ai fini dell’esame della domanda. Il rifiuto, da parte del minore, di sottoporsi alla visita medica, non costituisce motivo di impedimento all’accoglimento della domanda, né all’adozione della decisione". E allora, chiede l’avvocato Alessandra Ballerini che con un gruppo di altri legali ha preparato un esposto alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, come può l’Italia ignorare nei fatti, nei porti di Ancona, Bari, Brindisi o Venezia, quanto riconosce sulla carta? Come si possono respingere le persone caricandole sbrigativamente sulle navi, dalle quali sono sbarcati appesi sotto i Tir o assiderati nelle celle frigorifere, senza controllare neppure se sono in fuga da dittatori sanguinari? Come si possono buttar fuori uomini, donne, bambini senza neppure farli parlare con un interprete o un avvocato, così come dicono ad esempio decine e decine di testimonianze raccolte da giornalisti e operatori sociali quali Alessandra Sciurba, tra i disperati accampati nella baraccopoli di Patrasso? Risposta standard: mica li rimandiamo in Afghanistan o in Iraq, li rimandiamo in Grecia da dove erano venuti. Vero, in astratto. In realtà, spiega la denuncia, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati consiglia ufficialmente "i governi dei Paesi che hanno sottoscritto il Regolamento di Dublino di non rinviare i richiedenti asilo in Grecia" perché lì "nell’assegnazione dello status di rifugiato non sono garantite al momento le più basilari tutele procedurali". I numeri, accusa il Consiglio Italiano per i Rifugiati, dicono tutto: "La percentuale di riconoscimenti dello status di rifugiato in Grecia è prossima allo zero: nel 2007 è stata dello 0,4%, nel 2006 dello 0,5...". Le obiezioni di quanti sbuffano sono note: "Troppo comodo, spacciarsi tutti per rifugiati politici!". Sarà... Ma anche ammesso che qualcuno faccia il furbo facendosi passare per un perseguitato, le regole internazionali vanno rispettate. E queste regole dicono che ogni singola persona ha diritto a essere "pesata". Succede? Prendiamo Venezia. Partendo dalle parole della Responsabile del Consiglio Italiano Rifugiati, Francesca Cucchi, a un convegno di qualche mese fa. Come mai le autorità portuali avevano denunciato dal gennaio 2008 ad allora 850 clandestini se il Cir era stato informato solo di 110? E gli altri 740? Tutti caricati sulle navi e ributtati indietro senza controllare se avessero o meno diritto allo status di rifugiati? Una cosa è certa: ammesso (e non concesso) che alcuni si spaccino per rifugiati, certo è che nessun adulto può spacciarsi per un bambino. Ed era un bambino quell’Alidad Rahimi scacciato a 12 anni dopo che ne aveva passati tre a sfuggire attraverso l’Iran e la Turchia e la Grecia ai talebani che gli avevano ammazzato il padre ed era sbarcato solo per poche ore ad Ancona dentro la pancia di un camion. Era un ragazzino Alisina Sharifi che a 14 anni era scappato ai guardiani della fede afghani ed era arrivato in Italia semi assiderato per essere buttato fuori appena ripresi i sensi. Era un ragazzino Salahuddin Chauqar, scappato dall’Afghanistan quando aveva sette anni e arrivato dopo mille odissee, nascosto in un Tir, a Venezia: "Il ricorrente continuava a ripetere di avere 15 anni e di voler chiedere asilo ma i poliziotti lo costringevano a firmare due fogli a lui incomprensibili (...) Il ricorrente veniva poi condotto a forza in una cabina di ferro all’interno di una nave diversa da quella con la quale era arrivata e rinchiuso con altri 3 minorenni, fino all’arrivo a Patrasso". Certo era più comodo commuoversi per il piccolo Marco in viaggio "dagli Appennini alle Ande". Immigrazione: dalla "Cattolica" la mappa dell’Italia clandestina di Daniele Biella
Vita, 31 marzo 2009
La città con più immigrati irregolari? Napoli, con il 33%. Poi Catania, 30%, e Palermo, 24%. Ovvero, tre città del sud. E il nord? Solo Bologna arriva al 24%, la maggior parte delle altre, al 1 gennaio 2008, era sotto il 20%. È uno dei risultati a sorpresa della ricerca dell’università Cattolica di Milano "Processi migratori e integrazione nelle periferie urbane", la cui prima parte (avviata a fine 2008 avviata a fine 2008 su volontà del ministro dell’Interno Maroni, si concluderà a gennaio 2010) è stata presentata questa mattina dal rettore e da un’equipe di docenti dell’ateneo milanese. Dentro le periferie, per portarle al centro dell’attenzione. Con un occhio alle migrazioni in atto: questo l’obiettivo della ricerca, "che parte dalla necessità di studiare la periferia italiana per evitare situazioni spiacevoli come la rivolta delle banlieues francesi del 2005", spiega il sociologo Vincenzo Cesareo, uno dei professori dell’ateneo milanese coinvolti nella ricerca. La cui prima fase riguardava soprattutto l’elaborazione dei dati di partenza: oltre a quelli sul tasso di irregolarità dei migranti presenti nelle periferie cittadine, l’attenzione è stata rivolta ad altri due ambiti, il primo dei quali è il numero di stranieri presenti sul territorio (103 le province analizzate), che sono il 6% di media al centro nord, il 3,5% al sud, ma con un raddoppio in quattro anni della popolazione non italiana in sole due province del nord (Ferrara, +123%, e Pavia, +102%) contro le undici del sud (su tutte Cosenza, +127%, Vibo Valentia, +122% e Caltanissetta, +118%). L’altro aspetto analizzato dalla ricerca è l’impatto sulla società della criminalità, italiana e straniera. In particolare, negli anni dal 2004 al 2007, se per gli omicidi si osserva una graduale diminuzione in quasi tutte le città (rimanendo comunque Napoli, seguita da Catania, la città con più casi), per quanto riguarda le rapine, si registra un forte aumento a Milano (+58%, soprattutto quelle in banca), Firenze (+49%), Roma e Bari (+33). Viceversa, a Bologna e Torino sono scese quasi del 50%. "In generale, i fatti più gravi di criminalità sono in calo negli ultimi anni. Quelli che crescono sono i reati lievi, gli illeciti non penali", sottolinea nel suo intervento il docente Giancarlo Blangiardo. Per questo motivo, "è importante che la sicurezza ‘percepita’ non sia l’unica determinante nelle politiche governative sull’immigrazione, che si devono invece basare su una maggiore sinergia tra cittadini e istituzioni", afferma successivamente il professore Marco Lombardi, al quale il ministro dell’Interno Roberto Maroni, presente in sala, prima ha rivolto cenni d’assenso, poi, nel prendere la parola, ha ribadito: "dobbiamo intervenire prima che succeda qualcosa di simile ai fatti francesi. Non con l’intervento repressivo, o solo con esso: piuttosto, con interventi di prevenzione e di lotta al disagio. La stessa idea di questa ricerca", ha aggiunto Maroni, "è nata dall’impressione che mi ha suscitato l’imponente manifestazione di giovani di seconda generazione all’indomani della morte del ragazzo ucciso da due gestori di un bar per un furto di nessun valore (Abdul Guibre, ‘Abba’, 19 anni, morto il 13 settembre 2008 dopo le sprangate ricevute, ndr)". Poco prima del ministro dell’Interno, era intervenuto anche il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento per le libertà civile e l’immigrazione del Viminale: "Oggi in Italia non si può parlare di immigrazione ‘sì’ o immigrazione ‘no’", ha spiegato, "il binomio è tra immigrazione ‘ben regolata’ o ‘mal regolata’, e il fatto che prevalga la prima accezione dipende da tutti gli attori coinvolti: ministero, istituzioni locali e terzo settore". Immigrazione: Roma; in coma il commerciante pakistano pestato di Paolo Persichetti
Liberazione, 31 marzo 2009
Pestato a freddo ad un semaforo della periferia di Roma. In coma da una settimana commerciante pakistano. Ma non ha fatto notizia. Stanno lì appollaiati sul muretto, presidiano il loro angolo di strada, un pezzo di marciapiede, un semaforo trasformato nel Totem sacro del loro territorio. Parte da qui l’odio incarognito che muove le piccole bande di giovani italiani spesso minorenni, che a Tor Bella Monaca, immenso quartiere della periferia sud-est della capitale, imperversano contro gli immigrati. Vessazioni e intimidazioni sono un fatto quotidiano. Piccole angherie, minacce, insulti, vetri rotti, macchine danneggiate finché un episodio un po’ più grave, una rapina, un’aggressione o un pestaggio, buca l’indifferenza e finisce nelle cronache locali, a volte nelle pagine nazionali. Stavolta ne anche questo è successo. Otto giorni fa, lunedì 23 marzo, Mohammad Basharat, un negoziante pakistano di 35 anni è finito in coma dopo una brutale aggressione. Ma la notizia è uscita fuori solo domenica 29, quando i familiari indignati per il completo blackout mantenuto sull’episodio hanno dato la notizia al Messaggero. Lunedì pomeriggio, Mohammad, insieme al cugino Alì, era andato col suo furgone Ducato al supermercato del quartiere per rifornirsi di merce da mettere in vendita nel suo negozio aperto meno di un anno fa. Sulla strada del ritorno era fermo a un semaforo. Non un semaforo qualunque ma quel semaforo, il Totem sacro. Chi passa da lì, nei pomeriggi che non terminano mai, deve pagare pegno se è un immigrato. Pakistani, Srilankesi e Bengalesi della zona lo sanno benissimo. Soprattutto sanno bene che non bisogna raccogliere provocazioni, mai incrociare gli sguardi, fare finta di non aver sentito gli insulti, non aprire vetri e portiere, anzi mettere la sicura e spingere a tavoletta l’acceleratore appena arriva il verde. Quello è il semaforo della paura. Nella comunità funziona il passa parola, per questo ora tutti si domandano perché mai Mohammad non si è attenuto alle indicazioni, ma al contrario ha addirittura aperto la portiera. Sembra che quei brutti ceffi, cinque giovani secondo le testimonianze, teste rasate, orecchini, anello al pollice, insomma il solito look da coatto fascistoide, da popolo delle scimmie che agita le curve degli stadi, siano riusciti ad ingannarlo facendogli credere che avesse il portellone posteriore aperto. Mohammad ha abbassato il livello di vigilanza e quelli l’hanno letteralmente estratto dal mezzo e pestato. I pugni al volto sono stati devastanti; lui è caduto a terra sbattendo la testa. Un automobilista che ha assistito alla scena ha subito chiamato i soccorsi. All’inizio, per timore di ritorsioni, Mohammed non ha voluto sporgere denuncia. La paura era tale che per ben due volte ha rifiutato l’ambulanza ridimensionando l’episodio. Solo dopo esser andato finalmente in ospedale per il ripetuto mal di testa ha ricostruito esattamente la dinamica dell’aggressione. Ma la polizia sapeva già ogni cosa perché i testimoni avevano parlato. Un ritardo nei soccorsi che ha permesso all’emorragia cerebrale di dilagare. Mohammad, che doveva sposarsi a giorni in moschea, non sa che la sua compagna, incinta di pochi mesi, ha perso il bambino a causa del forte stress causato dalla vicenda. Lei, Chamdy Karunasekera, 38 anni, dello Sri Lanka, in un sol colpo rischia di ritrovarsi sola, senza più figlio e marito. La loro vita non era stata semplice. Avevano tentato con un phone center a Colli Albani, un’altra zona periferica della città, ma avevano dovuto chiudere a causa delle ripetute rapine notturne. Chamdy racconta anche di un’altra aggressione subita due anni fa dal suo compagno, sempre da parte d’Italiani in un’altra zona di Roma, l’Eur. Sembra di capire che il razzismo non ha quartiere e la xenofobia ormai uniforma i comportamenti. Periferia e aree residenziali, rampolli della borghesia bene, ceto medio e proletari, hanno condotte identiche e un medesimo humus culturale. Il marketing politico sulla sicurezza, la politica delle ronde, l’inasprimento della legislazione contro l’immigrazione carezzano l’odio che erutta dalla profondità antropologiche degli Italiani. Sull’immigrato, additato come capro espiatorio della crisi, si è costruita l’ultima immagine del nemico interno su cui costruire le nuove emergenze. Chi aggredisce così spudoratamente, senza nemmeno la presenza di un pretesto ma quasi per gioco, per riempire pomeriggi vuoti, pieni di noia, sente alle proprie spalle il sostegno della politica, sente che ha con se l’air du temps. Una destra di governo che usa la paura contro i migranti, aizza l’intolleranza, legifera la discriminazione. Una polizia culturalmente connivente con i picchiatori bianchi. Commissariati di zona che mentre chiudono un occhio e restano indifferenti verso le intimidazioni di strada, tartassano di controlli gli immigrati, li fermano in continuazione, impediscono loro di guadagnarsi da vivere, li spingono sempre più verso la marginalizzazione e la clandestinità sociale. Nonostante le politiche di riqualificazione urbana, che pure sono state avviate, Tor Bella Monaca resta terra di frontiera. L’apertura di un teatro comunale, di una ludoteca, di una biblioteca, la costruzione di giardini, hanno avuto l’effetto di una goccia d’acqua nel mare dell’emarginazione e della frustrazione che avvelena i giovani del quartiere. Ci sono forze più profonde, spiriti animali di un’epoca dove predomina la volontà grave; di sopraffazione verso il debole e l’acquiescenza verso il forte. Immigrazione: se gli ambulanti nigeriani vogliono fare le "ronde" di Corrado Magnoni
L’Espresso, 31 marzo 2009
I primi a voler fare le ronde sono proprio loro, gli extracomunitari. Sono stanchi, davvero stanchi. Stufi quanto gli italiani di una vita malavitosa dilagante, e sono pronti ad aiutare le forze dell’ordine in cambio di un regolare permesso di soggiorno pur di mettere fine al fenomeno delinquenziale che sta inquinando i territori urbani. Così due venditori ambulanti nigeriani si propongono come supervisori della città e raccontano come la loro situazione sia peggiorata negli anni per colpa di connazionali poco rispettosi delle regole. E di conseguenza subiscono per colpe altrui. "Sono molto arrabbiato" dice Gossigban con la voce strozzata e i pugni stretti, quasi a volerlo urlare ai quattro venti, ma con la paura di non essere ascoltato. Mentre sui giornali si susseguono i nomi e i volti di immigrati africani arrestati per spaccio e detenzione di stupefacenti, la sua rabbia si accumula, si espande e sente il bisogno di dirlo a qualcuno, ai ferraresi stessi. "Quando questi ragazzi vengono arrestati, io non lavoro più, nessuno compra niente. Adesso, la gente ci guarda male, pensano che siamo tutti uguali e che ci comportiamo allo stesso modo. Quelli che vanno in giro a vendere non lo fanno, è successo a uno soltanto ed è già stato arrestato. Nascondeva la droga fra i fazzolettini". Gossigban ha circa una quarantina d’anni, è nigeriano e nel suo paese faceva l’insegnante d’inglese, ma da quando è in Italia fa il venditore ambulante. "Faccio questo mestiere per vivere, per mangiare - racconta egli stesso - non so cosa voglia dire "vù cumprà", per quanto ne so sono solo uno che vende un po’ di tutto girando per la strada: fazzolettini, calze, cerotti, accendini". Giura di non vendere droga, anzi, odia chi lo fa e vorrebbe che non ci fosse più nessuno in grado di farlo. "Gli spacciatori’loro’ che vendono droga: tunisini, marocchini e nigeriani particolarmente. Lo fanno perché non hanno testa e vogliono diventare ricchi subito. Io, come tanti altri africani, non vendo droga, ma voglio sistemarmi poco a poco. Però il guadagno è davvero piccolo". L’utile, a quanto pare, non è molto come dimostra Gossigban rivelando quanto guadagna giornalmente. "18-20 euro al giorno andrebbero anche bene: 10 li metto da parte per l’affitto e gli altri li uso per mangiare. Ma se un giorno ne guadagno solo 7, come qualche giorno fa, allora riesco a malapena a nutrirmi e non mi resta niente". Se con le mance e le vendite riesce a tirare avanti, non si può dire altrettanto dell’accoglienza dei cittadini. "Quando sono arrivato, la gente era buonissima con me, ero l’unico nero in giro e tutti erano molto gentili. 4 o 5 anni fa, la situazione ha iniziato a peggiorare. Sono arrivati tanti africani, e molti di essi volevano fare i soldi in fretta. Così, "loro" si sono messi a vendere coca, hashish, marijuana, etc. Lo fanno in tanti posti, soprattutto da mezzanotte alle due del mattino". Loro, come li chiama ripetutamente Gossigban, hanno caratteristiche specifiche. "Sono giovani africani, dai venti ai ventisei anni al massimo. Non hanno pistole e i regolamenti di conto li fanno con dei colli di bottiglia rotti. Mettono la droga in borsettine a tracollo, piccole piccole, o in bocca, nascosta fra i denti e le guance, spesso li si vede girare in bicicletta. Gli adulti non lo fanno. Per quanto mi riguarda, non mi piace l’idea di far del male a qualcuno, di vendere quella brutta roba a ragazzi che su di loro può avere conseguenze devastanti. Io, la droga, nemmeno l’ho mai vista". E i clienti? "Per il 70% sono studenti delle superiori o universitari, poi persone ricche che girano con grosse macchine". Ecco la sua proposta. "Voglio aiutare la Polizia, i Carabinieri e la Guardia di Finanza a ripulire la città. Io conosco le facce di tutti gli africani che spacciano, offro il mio aiuto. Le forze dell’ordine fanno già un ottimo lavoro: sono molto brave, molto intelligenti e sanno tutti i loro movimenti. Purtroppo, quando qualcuno viene arrestato sta in prigione pochi mesi, poi torna a fare quello che faceva prima, anche peggio. Dovrebbe essere rispedito al suo paese, allora gli altri prenderebbero paura. Nelle carceri italiane si mangia, ma in quelle nigeriane è tutta un’altra storia". C’è un altro desiderio. "Sono venuto in Italia per lavorare: come muratore, in fabbrica o qualsiasi altra cosa, ma senza documenti nessuno ti offre un posto. Mi piacerebbe sistemarmi". A dargli manforte c’è Sambaebi Usi, venditore ambulante nigeriano anch’esso, circa coetaneo. "Il governo italiano è troppo flessibile - aggiunge in tono serioso - da noi, ci si becca 3 anni solo per aver fumato uno spinello e 21 se si viene sorpresi a vendere droga. A Ferrara ci sono diversi posti dove viene venduta". È della stessa idea dell’amico. "Quando qualcuno viene preso, deve essere rispedito a casa. Sono solo i ragazzi che spacciano, non gli adulti". La sua storia è leggermente diversa dalla precedente, ma i presupposti sono identici. "Il nostro desiderio è di lavorare. Questo lavoro (quello di venditore ambulante, ndr.) non è buono, è schifo. Senza documenti è impossibile farsi assumere per un impiego che servirebbe per sistemare i figli. Nei miei primi cinque anni in Italia, ho avuto l’asilo politico, ma quando sono andato a Roma per rinnovarlo, me l’hanno negato, adesso lo negano a tutti. Ora voglio aiutare gli agenti a ripulire questa città. So chi vende droga e fa tutto il resto". Infine, lancia un appello ai genitori italiani. "Impedite ai vostri figli di usare i soldi della merenda per comprare droga. I genitori devono essere intransigenti su questo fronte".
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