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Giustizia: Pecorella (Pdl); situazione carceri prima emergenza
Apcom, 28 marzo 2009
Il Consiglio d’Europa che ieri ha ammonito l’Italia per i processi civili troppo lunghi e il carico eccessivo delle cause arretrate in realtà ha detto "un fatto noto". Per il giurista Gaetano Pecorella il rischio è che "fra poco richiamerà" il paese "per la situazione in cui vivono i detenuti" e per il sistema carcerario che è diventata la "prima emergenza della giustizia". "Il Consiglio d’Europa - dice Pecorella a margine del XVII Congresso nazionale di Magistratura democratica in corso a Modena - ha detto quello che sappiamo tutti e cioè che l’Italia è uno dei paesi che viene più frequentemente condannato per la irragionevole durata dei processi". Ma, continua "temo che il Consiglio ci richiamerà con severità fra poco anche per la situazione in cui vivono i detenuti che è poco umana". La condizione dei carcerati, secondo Pecorella "è una questione di grandissima urgenza". Per questo "occorre trovare una soluzione alternativa al carcere perché non è più in grado di ospitare oltre sessantamila persone col rischio che con l’arrivo dell’estate, come accadeva in passato, ci siano eventi di rivolta collettiva. Credo che sia la prima emergenza della giustizia". Giustizia: Fp-Cgil; situazione è peggiore di prima dell’indulto
Ansa, 28 marzo 2009
Nuovo allarme della Fp-Cgil per la "grave e preoccupante" situazione dei circa 206 istituti e servizi penitenziari del Paese. "Le cause sono note - scrive in una nota Francesco Quinti, responsabile nazionale del comparto sicurezza della Fp - i forti tagli economici imposti al sistema (solo con l’ultima manovra triennale sono 160 i milioni sottratti ai bilanci del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), il sovraffollamento spaventoso delle strutture, che ha ormai numericamente superato quello registrato nella fase pre-indulto del 2006 (ben oltre 61.000 le attuali presenze in carcere), la grande carenza di personale, sia della Polizia penitenziaria (- 5000 unità) che e delle altre importanti figure professionali, l’assenza di misure di sostegno al sistema, di prospettive chiare ed univoche". Secondo Quinti, "nella condizione in cui versa attualmente il carcere, continuare a indicare come panacea di tutti i mali solo l’edificazione di nuove strutture, padiglioni o sezioni penitenziarie, significhi negare l’evidenza di un settore che già oggi non è più in grado di rispondere al proprio mandato, alla sua mission". Per la Fp-Cgil al contrario servono "scelte politiche che accompagnino quel progetto, decisioni che oltre a saper garantire la certezza della pena, sappiano investire sul piano della prevenzione, del maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione potenziando l’esecuzione penale esterna, misure strutturali che favoriscano la riduzione delle attuali numerosissime presenze in carcere, che crescono al ritmo di 800/1000 al mese, perché fra qualche mese nessun istituto penitenziario sarà più in grado riceverne ancora". "E se, poi - conclude Quinti - vi fosse la necessità di reperire nuove risorse economiche per sostenere quelle scelte, si spendano meno soldi per le auto blu dei dirigenti dell’amministrazione e, soprattutto, si utilizzino i risparmi che si possono ottenere attraverso l’accorpamento delle procedure elettorali e referendarie (circa 400 milioni di euro)". Giustizia: lettera aperta a Lula; in Italia di ergastolo si muore di Paolo Persichetti
Liberazione, 28 marzo 2009
Lettera aperta di un gruppo di ergastolani italiani al presidente brasiliano: "In Italia l’ergastolo è reale. Non estradare Battisti". Un gruppo di ergastolani reduci dallo sciopero della fame contro l’ergastolo, che per tre mesi e mezzo ha coinvolto a staffetta tutte le prigioni italiane, ha indirizzato una lettera aperta al presidente del Brasile, Ignazio Lula da Silva. Lo rende noto l’associazione Liberarsi che ieri ne ha diffuso il contenuto. Con questo gesto quei detenuti che sul loro certificato penale trovano la dicitura "fine pena mai" hanno voluto esprimere apprezzamento per un Paese che ha abolito l’ergastolo dal proprio codice penale. Nel testo, gli autori criticano senza mezzi termini quei giornali e soprattutto quegli esponenti politici che, ignorando "la storia, le storie e persino gli atti processuali", hanno per settimane ingiustamente raffigurato il Brasile come un postribolo da "terzo mondo, privo di una solida cultura giuridica, terra che custodisce latitanti e criminali internazionali". Un Paese che all’uscita degli anni bui della dittatura militare ha saputo fare quel salto di civiltà giuridica che mancò all’Italia dopo il fascismo. Dopo aver letto che una delle ragioni che potrebbero condurre le autorità brasiliane a rifiutare l’estradizione verso l’Italia di Cesare Battisti, l’ex militante della sinistra armata degli anni 70 che ha ottenuto lo status di rifugiato politico dal ministro della Giustizia Genro, viene proprio dal fatto che il Brasile rifiuta l’ergastolo, e senza per questo "voler entrare nel merito della vicenda", gli autori del testo ringraziano Lula "per aver ribadito un principio giuridico internazionale che dovrebbe essere un atto politico essenziale nella storia sociale dei popoli". In Italia - spiegano ancora gli autori della lettera - uno sciopero della fame che ha coinvolto migliaia di persone contro una pena socialmente eliminativa, "figlia giuridica della pena di morte, non fa notizia come il fatto che siano stati depositati alla corte di Strasburgo ben 739 ricorsi contro l’ergastolo". Per tutta risposta, invece, si stanno approntando "leggi che prevedono carcere e pene severe per immigrati, tossicodipendenti, prostitute e persino giornalisti". Tanto che le condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane "come ha dichiarato in questi giorni lo stesso ministro della Giustizia, non rispettano il dettato costituzionale né il diritto alla dignità". Con questa iniziativa gli ergastolani vogliono far sapere alla comunità internazionale che in Italia la pena dell’ergastolo resta a tutti gli effetti una pena perpetua. La concessione della liberazione condizionale dopo il ventiseiesimo anno di reclusione, evocata ipocritamente dai nostri rappresentanti istituzionali, resta solo un’ipotesi sottomessa alla discrezionalità della magistratura e sempre più impraticabile a causa di una giurisprudenza restrittiva. Mentre la legge esclude, di fatto, tutti quelli che sono sottoposti al carcere duro. Di ergastolo si muore. Lula ora lo sa.
Lettera aperta al Presidente Brasiliano Lula
Signor Presidente, Le scriviamo ora che il clamore della vicenda Battisti si è assopito sulle pagine dei giornali e delle televisioni italiane. Per settimane i nostri media hanno dipinto il Suo paese come un paese da Terzo Mondo, privo di una solida cultura giuridica, terra che custodisce latitanti e criminali internazionali in spregio ad ogni principio del diritto. Per settimane persone che ignorano la storia, le storie e perfino gli atti processuali hanno dato giudizi severi, implacabili verso il suo Paese. Noi non vogliamo entrare nel merito della vicenda Battisti. Vogliamo esprimer le il nostro apprezzamento perché abbiamo letto che uno dei motivi per i quali il Brasile non è favorevole all’estradizione di Battisti è che in Italia vi è la pena dell’ergastolo, una pena che non è prevista dal codice penale brasiliano. Signor Presidente, nel nostro paese la Costituzione prevede che la pena non debba essere contraria al senso di umanità e debba tendere alla rieducazione del condannato. Per molti di noi questo vuole dire che l’ergastolo, che è il figlio giuridico della pena di morte, è incompatibile con i nostri principi costituzionali. Per questi motivi abbiamo promosso un dibattito, attraverso forme di lotta pacifica e non violenta. Abbiamo sollevato una campagna per l’abolizione dell’ergastolo con uno sciopero della fame, per il secondo anno consecutivo. Questa campagna, che porteremo avanti coi tempi ed i modi che ci saranno possibili, quest’anno è andata avanti per tre mesi e mezzo, dal primo dicembre scorso al sedici marzo, ma in questo nostro paese il fatto che migliaia di persone (agli ergastolani si sono uniti molti detenuti comuni con condanne lunghe) facciano uno sciopero della fame, più o meno prolungato, ...non fa notizia! Così come "non fa notizia" il fatto che abbiamo presentato alla Corte di Strasburgo 739 ricorsi contro la pena dell’ergastolo. Siamo consapevoli che non è una battaglia popolare e che possiamo essere facilmente strumentalizzati. Siamo consapevoli che ognuno deve pagare il prezzo delle proprie scelte. Ma siamo altrettanto certi che la vendetta non è giustizia e che è possibile offrire a tutti una speranza, anche a l termine della pena più lunga possibile. Signor Presidente, il primo atto del nostro governo appena eletto è stato di approvare una legge che sospendesse il processo per il presidente del Consiglio. Adesso, in questi giorni, sono in discussione proposte di legge che prevedono carcere e pene severe per immigrati, tossicodipendenti, prostitute e, pensi un po’, persino per i giornalisti. In questi giorni, lo stesso ministro della Giustizia ha dichiarato alla stampa che le prigioni italiane, tanto sono piene, non rispettano il dettato costituzionale né il diritto alla dignità. Non sappiamo se l’eco delle vicende italiane sia giunto nel suo Paese. Noi sappiamo che la storia del suo Paese è stata una storia difficile e che più di una volta la democrazia è stata messa in pericolo. Ma oggi, Lei ha dimostrato di quale civiltà sia capace il suo popolo e di quale ipocrisia sia composta la nostra classe politica. Lei ha dimostrato che la democrazia si misura anche dalla capacità di uno Stato di essere buon giudice e non cattivo vendicatore. Signor Presidente, Benjamin Constant ha scritto che l’ergastolo è "un consacrare la schiavitù, un degradare l’umana condizione". Noi potremmo condurre questa battaglia nel buio delle aule dei tribunali, singolarmente attraverso i nostri avvocati. Abbiamo deciso, invece, di farne discussione pubblica perché a noi sembra che la Giustizia non è un fatto privato quanto invece un atto politico essenziale nella storia sociale dei popoli. Noi La ringraziamo, signor Presidente, per aver ribadito un principio giuridico internazionale che dovrebbe essere proprio di ogni paese democratico e che, purtroppo, in Italia vale solo per i potenti! Noi crediamo che, per quanti errori abbia potuto commettere, ogni uomo ha diritto, una volta scontato il suo debito, a vivere e morire sotto un cielo di stelle. Perché non sia consacrata la schiavitù del "fine pena mai" contro la quale noi continueremo a lottare!
Alcuni ergastolani in lotta per la vita Giustizia: io, direttore dell’Asinara durante gli anni di piombo di Renzo Romano
Corriere di Como, 28 marzo 2009
Ebbe tra i suoi "ospiti" Renato Curcio e Alberto Franceschini, i fondatori delle Brigate Rosse. Al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa offrì un volo di gabbiani. Oggi, Luigi Cardullo, classe 1935, siciliano di nascita, comasco d’adozione, direttore del supercarcere dell’Asinara, racconta la sua vita trascorsa tra le sbarre dei penitenziari. Fu uno dei tanti "servi dello Stato" che, finiti nel mirino dei terroristi, continuarono a svolgere il loro dovere. Molti, per questo, vennero uccisi. La sua esperienza nelle carceri è iniziata a Firenze. "Divenni vicedirettore al complesso carcerario delle "Murate" - dice Cardullo - dove erano recluse Rina Fort e Leonarda Cianciulli, la prima condannata per avere ucciso la moglie e i tre bambini del suo amante, la seconda colpevole dell’assassinio di tre persone e di averle "fatte bollire" per far sparire i cadaveri. A Firenze sono stato fino al settembre del 1966. Credo di avere lasciato un buon ricordo. Quando fui trasferito ad Alghero, un maresciallo mi disse: "Adesso che lei va via, povere Murate". "Risposi, scherzosamente, "Dopo di me il diluvio" - ricorda ancora Cardullo - Fui davvero infausto profeta perché due mesi dopo la mia partenza il diluvio venne davvero con lo straripamento delle acque dell’Arno che sommersero Firenze".
Eccola quindi direttore del carcere di Alghero. "Aveva fama di carcere pericoloso perché nel 1945, durante un’evasione, furono assassinati 5 agenti di custodia. Pensi che il primo magistrato incaricato di condurre l’inchiesta fu Francesco Coco, uomo di squisita gentilezza e grande preparazione, che verrà poi assassinato dalle Br a Genova nel 1977. Con grande impegno e fatica sono riuscito a far perdere la nomea di Alghero come istituto gravato da quella funesta evasione. Il mio lavoro venne molto apprezzato, al punto che nel 1974 mi fu affidata ad interim la direzione del carcere dell’Asinara, sempre in Sardegna".
Siamo negli anni di piombo del terrorismo. "Quando arrivai all’Asinara, facendo tesoro dell’esperienza di Alghero, scrissi una relazione, che venne accolta favorevolmente, su ciò che si sarebbe dovuto fare per trasformarlo in un penitenziario sicuro. Fu così che l’Asinara divenne un carcere importante dove custodire i detenuti più pericolosi".
Perché era ritenuto un carcere di massima sicurezza? "La sicurezza si basava sull’estensione dell’isola che dava la possibilità di costruire carceri differenziati dove sistemare i detenuti in modo che non potessero comunicare tra loro e organizzarsi per eventuali evasioni. L’Asinara si guadagnò la fama anche attraverso "radio carcere". Sta di fatto che tale fama giunse all’orecchio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che decise di inserire l’Asinara come primo carcere fra gli istituti differenziati".
E arrivarono i brigatisti. "Sì, fu nel 1977. Arrivarono i capi storici delle Brigate Rosse, Curcio e Franceschini, poi Gallinari e tanti altri. Fu la fine della pace".
Lei è stato uno dei più ascoltati collaboratori del generale Dalla Chiesa. "L’Asinara era l’istituto che dava maggiori garanzie, pertanto il generale aveva una stima particolare nei miei confronti; mi chiedeva indicazioni sui vari detenuti e voleva sapere come erano distribuiti nei diversi settori. Voglio ricordare un episodio significativo della sua stima nei miei confronti. In occasione di una sua visita, gli dissi che "il suo vivere è balenare in burrasca" e gli regalai una poesia di Vincenzo Cardarelli. Tornato all’Asinara qualche tempo dopo, il generale mi confidò che la poesia gli era piaciuta, in particolare là dove dice: "I gabbiani non so dove abbiano il nido, dove trovino pace". Allora l’ho condotto con la jeep in un punto scosceso dell’isola, in alto, e ho gridato: "Oooh" da sotto vedemmo alzarsi in volo centinaia e centinaia di gabbiani. Lui rimase meravigliato e incantato dallo spettacolo dei gabbiani in volo sul mare e mi disse: "Venga a Palermo con me, anche là ci aspettano i gabbiani"".
Quali erano i suoi rapporti con i brigatisti? "Rapporti di reciproco rispetto. Non dimostravo di avere paura".
Davvero non ha mai temuto per la sua vita o per quella dei suoi familiari? Lei era considerato un "servo dello Stato" e sapeva di essere nel mirino dei terroristi. "Ero nell’elenco dei nemici da eliminare fin dal 1974, ma non mi pesava perché l’impegno per gestire il complesso carcerario era così pressante che non avevo neppure il tempo di preoccuparmi".
Lei era considerato una specie di padrone dell’isola. "Organizzavo giorno per giorno i colloqui con i detenuti, gestivo il personale, mi occupavo dell’azienda agricola. I detenuti mi avevano soprannominato "l’imperatore" e mia moglie era "la zarina".
È vero che portava a spasso per l’isola i brigatisti? "È verissimo, l’ho fatto con molti di loro, Curcio e tanti altri".
Lei aveva fama di "duro"... "Ogni detenuto che arrivava aveva un colloquio con me, una specie di duello verbale, di scontro intellettuale, personalità contro personalità. Era l’unica arma che potevo mettere in campo".
Qual era l’atteggiamento dei brigatisti? "Nei vari documenti che arrivavano nelle carceri ricorrevano sempre frasi ripetute in modo ossessivo, tipo: "Portare l’attacco al cuore dello Stato". E ancora: "I ribelli senza speranza noi ve li restituiremo con una coscienza rivoluzionaria. Voi condannate noi con estrema durezza, ma verrà il giorno in cui noi detenuti insieme al popolo saremo i vostri accusatori". Proprio per rompere l’organizzazione che si stava creando attorno a questi slogan, il generale Dalla Chiesa aveva voluto le carceri differenziate".
Fu per questo che "chiudere con ogni mezzo l’Asinara" divenne uno degli obiettivi dei brigatisti? "Certamente, perché impedendo il contatto tra i brigatisti detenuti si impediva che la rivoluzione dall’interno del carcere venisse portata all’esterno per la conduzione di quella che loro definivano "la guerra di popolo".
Il 1978 è l’anno del sequestro di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Come fu vissuta questa tragedia all’Asinara? "Non creò rumore né scalpore. Venne vissuta nella quotidianità anche dai detenuti. La vivemmo tutti con la stessa attenzione con cui nel 1974 avevamo seguito il sequestro del magistrato Mario Sossi, ma non abbiamo avuto la sensazione che fosse un fatto epocale".
Si è parlato di microspie per ascoltare le conversazioni dei brigatisti. "Sì, dopo l’assassinio di Moro e della sua scorta, in collaborazione fra me, il generale Dalla Chiesa e la direzione generale vennero piazzate alcune microspie in un settore particolare dell’isola, un settore di transito da cui dovevano passare i detenuti prima di essere avviati nelle rispettive celle. I terminali erano nella mia camera da letto, in modo che io potessi ascoltare le loro conversazioni. Le microspie non vennero piazzate nelle celle perché il settore differenziato era troppo lontano dalla direzione".
Dopo l’assassinio di Moro e della sua scorta, ci fu la cosiddetta "rivolta dei Fornelli". "I Fornelli erano un vecchio sanatorio trasformato in carcere, senza neppure un muro di cinta e con le pareti in mattoni traforati che potevano essere facilmente abbattute. La rivolta causò danni ingenti, tuttavia riuscimmo, con le nostre forze e con turni di lavoro massacranti, a ricostruire ogni cosa".
Nel ‘79 un’altra ribellione. "Noi sapevamo che qualcosa di eclatante sarebbe successo, vivevamo sempre nel duplice pericolo di un attacco all’isola o fuori dell’isola. All’attacco nell’isola eravamo preparati, a quelli esterni no. La seconda rivolta scoppiò quando il settore di massima sicurezza fu pronto. Durò fino all’alba. Finì solo quando sentii una voce dall’interno gridare: "Basta, Cardullo! Ci arrendiamo". Era la prima volta che le Br si arrendevano allo Stato. Citando il mio nome intendevano affidare la loro vita a me".
Sentì quella responsabilità? "L’istituto era devastato, l’atmosfera era tesissima. I detenuti dovevano essere accompagnati alle nuove celle e per farlo dovevano percorrere un corridoio di un centinaio di metri lungo il quale erano assiepati le guardie carcerarie e i carabinieri accorsi per sedare la ribellione. I nervi di molti avevano ceduto a causa dello stress della battaglia, durante il passaggio era concreto il rischio di qualche manganellata da parte degli agenti esasperati. Per preservare l’incolumità dei ribelli li ho accompagnati uno per uno, con l’aiuto di alcune guardie".
In seguito lei venne a conoscenza dei particolari previsti dal piano della rivolta. "Lo scopo era di "portare l’assalto al cuore dello Stato e chiudere l’Asinara con tutti i mezzi". Il piano prevedeva l’assassinio di trenta agenti di custodia, la liberazione dei brigatisti e la loro fuga per mare su diversi gommoni".
A seguito della rivolta, lei ebbe problemi con la giustizia. Quali? "Essendoci i detenuti da sistemare, perché vivevano in condizioni di estremo disagio, c’era fretta di ricostruire il carcere e per questo motivo i lavori vennero affidati a ditte esterne. Io fui accusato di truffa e corruzione e condannato a 5 anni di detenzione e alla restituzione di una ingente somma. Da allora combatto per la revisione del processo, ma non ho rancori contro nessuno".
Che cosa le è rimasto di queste esperienze? "L’amore per l’isola dell’Asinara alla quale ho dedicato una poesia: "Sei soltanto capace di dare, sei viva, sei forte perché solo col tempo ti misuri e con l’airone che passa desideroso di vento". L’avventura dell’Asinara mi ha fatto riscoprire la mia Sicilia. Le strade tortuose, il mare, la terra bruciata. Ritornando al mio paese, ho rivissuto l’isola dell’Asinara".
Oggi quale valutazione dà degli anni di piombo? "È stato un periodo di guerra in cui, su sponde diverse, si è combattuto".
Dell’atmosfera di quegli anni, che cosa le è rimasto nell’animo? "Dall’incontro tra persone c’è sempre da imparare qualcosa. Sono orgoglioso di non avere mai perso nessuno né fra i miei collaboratori e neppure fra i miei detenuti, per me è un vanto".
Che cosa significa Como oggi per lei? "È la città dove ho vissuto anni di cui ho ricordi bellissimi. Sono arrivato che avevo 3 anni; ho frequentato le elementari a Ponte Chiasso, poi le medie e il liceo al Collegio Gallio. Ho scelto di tornare e di abitare a Como perché è uno stupendo paese di serenità dove vivo circondato dall’amore e dall’amicizia di molti". Giustizia: un ex detenuto per stupro; così controllo il mostro di Tiziana Prezzo
http://tg24.sky.it, 28 marzo 2009
Storia di un uomo macchiatosi di reati orribili e che, dopo aver scontato la pena nel carcere di Bollate (dove ha luogo un progetto unico in Europa), ha imparato a "imbrigliare" le sue pulsioni. Stefano ha una passione per i fumetti. Quando parla dei "maestri spagnoli" piuttosto che di quelli italiani, si illumina tutto e comincia a gesticolare come un forsennato. A guardarlo così, sembra un trentenne come tanti altri. Eppure ha appena finito di rilasciare una lunga e sofferta intervista in cui ha dichiarato di essere stato condannato per violenza sessuale, rapina e sequestro di persona. Per lui le porte del carcere si sono aperte perché ha commesso atti terribili. Saliva sui treni, costringeva sconosciute a un rapporto orale minacciandole con un coltello e, dopo averle umiliate, le rapinava. Quanto di quello Stefano esiste ancora? È lui il primo a tenere i piedi saldi a terra. "C’è qualcosa che resta comunque latente - ammette - abbiamo degli aspetti del nostro carattere che resteranno sempre". Quell’ "abbiamo" è riferito a quelli come lui, ai cosiddetti "sex offender" che si sono macchiati di reati a sfondo sessuale. Ma il suo cammino, che ancora prosegue, è segnato da tanti passaggi che rendono la sua storia diversa da quella della maggioranza di stupratori e pedofili. Stefano ha infatti scontato la sua pena nel carcere di Bollate, dove ha luogo un progetto unico nel suo genere in tutta Europa e che si rifà alla scuola canadese: l’Unità di Trattamento Intensificato. Un’equipe di una ventina di specialisti tra criminologi, psicologi, psichiatri ed educatori ha in cura un gruppo di circa venti detenuti definitivi a modulo (della durata di 12 mesi) che hanno volontariamente sottoscritto una sorta di contratto. Nel documento si legge: "Accetto di partecipare al gruppo di prevenzione della recidiva per gli autori di reati a sfondo sessuale. L’obiettivo (…) è quello di cercare la soluzione ai miei comportamenti sessuali inadeguati, identificare i segnali precursori delle mie condotte sessuali devianti ed apprendere a gestire e controllare i miei desideri ed agiti sessuali, in modo da non ricadere in condotte sessuali illecite e dannose per gli altri". Il problema più grosso per i "sex offender" è infatti quello della recidiva. I partecipanti a questo progetto non solo imparano ad acquisire consapevolezza di quanto compiuto (la negazione e la minimizzazione del male commesso sono altri aspetti del problema), ma soprattutto imparano (o cercano di imparare) a riconoscere e a "imbrigliare" pulsioni, fantasie e desideri potenzialmente pericolosi per il prossimo. "Fino a che non sono arrivato al carcere non avevo mai messo in discussione la mia vita. Mai seriamente almeno. Perché tanto mi sentivo un perdente qualsiasi cosa facessi", spiega Stefano. Ora che è tornato uomo libero, continua a farsi seguire al Servizio di mediazione sociale e penale del Comune di Milano. Si tratta, in buona sostanza, della prosecuzione naturale di quanto sperimentato in carcere. Un percorso duro e difficile, di costante e inflessibile sorveglianza di sé. "E come se avessi sempre attivo - spiega - una sorta di allarme verso atteggiamenti o pensieri che possono venirmi". I suoi sforzi hanno fatto sì che ora sia diventato una sorta di anello di congiunzione tra l’equipe di specialisti e gli ex detenuti che frequentano volontariamente le sedute del centro. "Ti senti ancora un perdente?", gli chiediamo. Con sorpresa, abbozza un sorriso imbarazzato e risponde: "Ultimamente mi ci sto sentendo, perché mi sembra di combattere una guerra contro i mulini a vento… L’altro giorno ho acceso la televisione, ho sentito vari politici definirci animali. Ci sta: forse ho commesso un reato da animale, ma non mi sento un animale… Così rendono vano qualsiasi sforzo stia facendo. A questo punto mi domando quanto sia utile continuare un percorso, non smettere di faticare, venire qua a raccontare la violenza che ho subito, le mie fantasie… raccontare cose che non racconterei a nessuno per poi essere trattato allo stesso modo di come mi sarei trattato io tempo fa prima della galera… A questo punto, non so". Napoli: Antigone; un nuovo suicidio nel carcere di Poggioreale
Ansa, 28 marzo 2009
"Nuovo suicidio nel carcere di Poggioreale. Il terzo in tre mesi". Un detenuto di 27 anni si è tolto la vita, ieri, nell’istituto penitenziario di Poggioreale. Lo rende noto l’Associazione Antigone Campania. L’uomo, di origine napoletane, si è tolto la vita mentre i suoi compagni di cella erano andati ai colloqui. "Siamo di fronte ad un scenario di crisi - ha dichiarato Dario Stefano Dell’Aquila, presidente dell’ Associazione, - che interessa l’intero sistema penitenziario, ma in particolare il carcere di Poggioreale. È il terzo suicidio dall’inizio dell’anno in questo carcere, il secondo nel giro di soli dieci giorni.". "Le testimonianze dirette - ha proseguito Dell’Aquila - ci parlano di una struttura in forte difficoltà, con problemi di gestione, poco personale civile e con disagi nell’assistenza sanitaria. Sono del resto gli stessi dati a confermare che è una struttura oltre ogni limite di capienza Ad oggi sono presenti in questa struttura, in celle che arrivano sino a 14 persone, 2.700 detenuti. La capienza ufficiale è di 1.387 posti. Un tasso di affollamento del 200%". Secondo i dati dell’Associazione al 25 marzo 2009 risultano presenti in Campania 7.550 detenuti, rispetto ad una capienza di 5.348 posti (tasso di sovraffollamento del 41%). Complessivamente, si sono registrati, nei primi mesi del 2009, 4 suicidi. Durante tutto il 2008 ce ne sono stati 5. Venezia: suicidio in cella, 2 detenuti scrivono al pm che indaga di Michele Fullin
Il Gazzettino, 28 marzo 2009
Dopo il suicidio del ventiseienne marocchino, nel carcere di Santa Maria Maggiore si respira un’aria molto pesante. Tra i detenuti c’è chi ha molta voglia di parlare, di sfogarsi per denunciare le condizioni a loro dire inumane che si trovano a fronteggiare a Santa Maria Maggiore. Un detenuto in particolare ha già scritto due lettere in cui manifesta la sua disponibilità a collaborare con il sostituto procuratore Stefano Michelozzi, il quale sta cercando di venire a capo della vicenda. In queste lettere, ciò che salta più all’occhio è la voglia di denunciare il modo in cui sarebbe stato trattato il suicida. "Io conoscevo quel ragazzo - racconta il detenuto nella lettera - gli mancavano da quel che so due mesi prima di uscire e non aveva problemi psicologici. Era solo una persona riservata. Mi risulta che avesse fatto molte domande per essere visitato da medici e psicologi del carcere senza aver mai avuto una risposta. Ciò è molto comune tra noi stranieri. In carcere non si vive, non si è trattati da esseri umani: è una continua tortura psicologica". Tornando alla vicenda del suicidio, avvenuto venerdì 6 marzo, il detenuto racconta in quale cella fosse stato messo dopo che aveva già tentato di togliersi la vita ed era stato salvato dai suoi stessi compagni. "Dopo quell’atto - accusa la lettera - è stato portato in una cella di punizione che puzza tanto da far vomitare e che è buia più di una grotta. Lo so perché ci sono stato. Gli hanno prima tolto i vestiti e poi sarebbe stato spinto dentro solo con una coperta senza neppure farlo visitare da un medico o da uno psichiatra. Perché - si chiede il detenuto - nessuno ha controllato cosa faceva e come stava. Non era meglio lasciarlo con i compagni, che pure avevano chiesto di lasciarlo con loro?". Anche per questo motivo ci sono due indagati: il Pm Michelozzi ipotizza il reato di omicidio colposo nei confronti del responsabile delle guardie penitenziarie, nonché dell’ispettore in servizio nel settore in cui si trovava il detenuto, in relazione a possibili carenze e omissioni nella sua sorveglianza. Per il Pm i responsabili della vigilanza non avrebbero predisposto alcun tipo di sorveglianza preventiva, in particolare nei momenti immediatamente successivi al primo tentativo di suicidio. Su queste circostanze, secondo il detenuto che ci ha inviato le due lettere, ci sarebbero stati parecchi testimoni. "Vorrei sapere - scrive - perché 20 ragazzi che erano al terzo piano e che avevano manifestato dopo quel suicidio sono stati trasferiti in massa in altri istituti. E chiedo al Pm Michelozzi che faccia luce su questa vicenda". Inoltre, secondo "radio carcere" la stanza in cui si è verificato il suicidio sarebbe stata ripulita prima dell’arrivo degli inquirenti. "Vorrei anche chiedere se è vero come tutti dicono - conclude la seconda lettera - che la cella da me chiamata di punizione, che non dovrebbe esistere in nessun luogo al mondo, è stata ripulita prima dell’arrivo del Pm. Qui ormai c’è molta paura di parlare e sarebbe bello che un giornalista potesse entrare e parlare con noi". La situazione è dunque molto tesa, anche per via del sovraffollamento che per i sindacati di polizia penitenziaria ha raggiunto il limite. Oltre 300 i detenuti, più del doppio della capienza massima di Santa Maria Maggiore. Gli uomini di guardia sono pochi e sono anche quotidianamente impegnati a trasportare e scortare i detenuti nelle varie aule di tribunale dove si tengono i processi per direttissima o di riesame. Una situazione, anche per chi deve sorvegliare, molto dura alla quale i vari Governi che si sono succeduti almeno negli ultimi 15 anni non hanno mai dato ascolto né hanno cercato di risolvere. Modena: Maisto in visita al carcere di Sant’Anna sovraffollato
www.modena2000.com, 28 marzo 2009
"Il carcere di Sant’Anna è in situazione di grande difficoltà. Nella struttura costruita per ospitare 220 detenuti sono attualmente recluse 535 persone". È la denuncia che segue la visita alla Casa circondariale di questa mattina del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna Francesco Maisto, che ha competenza per la Regione Emilia Romagna per il controllo delle condizioni degli istituti di pena, giunto a Modena per un convegno e già passato, nella giornata di ieri alla Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano. L’incontro, durato circa 2 ore, ha visto presenti l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Modena Francesca Maletti, che ricopre anche il ruolo di presidente del Comitato locale carcere della provincia di Modena, il direttore del carcere Paolo Madonna, il Comandante delle guardie di Polizia penitenziaria Mauro Pellegrino e la responsabile delle educatrici Rosaria Scarpaci. "Durante l’incontro sono stati evidenziati notevoli disagi all’interno della struttura causa il sovraffollamento" afferma Francesca Maletti. "All’aumento degli ospiti corrisponde negli ultimi anni anche il calo del personale all’interno della struttura, sia per ciò che riguarda la Polizia penitenziaria, sia per quando concerne educatori, psicologi ed altre figure che operano nel carcere. A causa dell’esiguo numero di personale un insieme di attività già previste non hanno visto attuazione". Il direttore del Sant’Anna denuncia una "situazione molto a rischio, soprattutto in vista del periodo estivo, momento in cui potrebbe diventare esplosiva. Ci vorrebbe maggior attenzione da parte della classe politica". Secondo Madonna aumentare il numero di padiglioni detentivi non basta: "Non vediamo altra uscita se non con due tipi di intervento, quello legislativo, che dovrebbe rivedere alcune norme in vigore; e quello politico, che dovrebbe portare ad accordi bilaterali con i paesi di origine di buona parte dei detenuti, la qual cosa permetterebbe di svuotare per circa il 40% le carceri italiane e per il 71% il Sant’Anna. Se a Modena la crescita degli stranieri è del 13%, non c’è da stupirsi che anche nelle carceri cresca la percentuale di stranieri sul totale dei detenuti". Nell’incontro sono stati sottolineati i buoni rapporti di collaborazione con gli enti locali e con diverse associazioni di volontariato che prestano la loro opera all’interno del carcere. "Si auspica, comunque - prosegue Maletti - un ulteriore aumento della collaborazione con i soggetti esterni per il benessere degli ospiti e del personale che lavora al Sant’Anna". Parla di carenza di 50 unità di Polizia penitenziaria il direttore della Casa circondariale, "e per quanto riguarda il personale educativo abbiamo 2 sole unità, mentre per coprire le attività educative dei 161 detenuti definitivi ne servirebbero almeno altre 2". "Ci siamo impegnati a vari livelli - conclude Maletti - a segnalare agli organi preposti sia la necessità di trasferimento di detenuti presso altri istituti, con l’obiettivo di far calare il numero di ospiti, sia il bisogno di aumentare il personale e le risorse per garantire la gestione delle attività di sorveglianza ed educative nella struttura, che versa in situazione di criticità evidente, come la maggior parte degli istituti di pena in Emilia Romagna. Attività che hanno anche la finalità di evitare, o almeno limitare, la recidività dei reati". Grosseto: è arrivato il momento di realizzare il nuovo carcere di Gabriele Baldanzi
Il Tirreno, 28 marzo 2009
"È arrivato il momento di realizzare il nuovo carcere". La richiesta è stata formulata due giorni fa dalla segreteria provinciale di Grosseto della Fns-Cisl, la Federazione nazionale sicurezza. Francesco Barzagli (segretario generale) e Pierangelo Campolattano (coordinatore territoriale) hanno inviato una lettera al Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria toscana Maria Pia Giuffrida, al prefetto Francesca Cannizzo e al sindaco di Grosseto Emilio Bonifazi. Struttura obsoleta e inadeguata. Tutto nasce dal "degrado ambientale, lavorativo di sicurezza" in cui versa il carcere del capoluogo. "In questa struttura - scrive la Cisl - il concetto di sicurezza appare quanto mai lontano da quel minimo di standard che dovrebbe essere invece assolutamente garantito per il benessere, la protezione e la tutela di chi ci vive e ci lavora". La Casa circondariale di via Saffi, in effetti, presenta caratteristiche strutturali obsolete e inadeguate, basti pensare che i blindati delle celle sono ancora di legno; per la popolazione detenuta mancano i locali comuni per assicurare lo svolgimento di una qualsiasi attività, così come non esistono gli spazi aperti destinati all’esercizio fisico. Detenzione femminile e sorveglianza. Un capitolo a parte merita il problema della detenzione femminile (non esiste un’ala per le donne), che è causa di notevoli disservizi e costi; "basti pensare - scrivono Barzagli e Campolattano - che una qualsiasi disposizione di custodia cautelare, emanata dall’Autorità giudiziaria, determina - obbligatoriamente - di eseguire la traduzione delle arrestate a Livorno". Non solo. Nel carcere di Grosseto i dispositivi di video sorveglianza - antiscavalcamento e antincendio - non sono funzionanti; non esiste una caserma né tantomeno spogliatoi e ambienti adeguati per il personale di polizia. "Riteniamo quindi - prosegue la Cisl Federazione nazionale sicurezza - gravemente dannoso l’immobilismo del Provveditorato regionale che evidentemente sottovaluta l’importanza di questo penitenziario". Organico carente e norme non rispettate. In realtà la Maremma dimostra invece di avere estremamente bisogno di un carcere ad hoc. "Da troppo tempo - sono ancora parole di Barzagli e Campolattano - attendiamo iniziative tese a migliorare le condizioni di lavoro del personale di Polizia penitenziaria, intervenendo prima di tutto riguardo alla carenza dell’organico, che costringe ad impostare modelli operativi approssimativi, improvvisati, marcatamente emergenziale". Insomma, la vita interna alla casa circondariale sarebbe ormai non coerente con le norme vigenti. L’ultimo capitolo affrontato dai sindacalisti è la questione sicurezza all’interno del penitenziario, "ridotta ormai ai minimi termini, con conseguenti gravi rischi sia per gli operatori penitenziari che vi operano, sia per gli stessi detenuti". La Cisl, in conclusione, chiede al Prefetto, al sindaco e al Provveditore di accelerare sulla realizzazione del nuovo carcere di Grosseto. Il quadro attuale. Al momento nella nostra provincia esistono due istituti di pena che riescono ad ospitare circa cinquanta detenuti, con un costo di gestione elevatissimo per il cittadino-contribuente e un rapporto costi-benefici in passivo. Cagliari: dibattito sul carcere, la devianza e il conflitto sociale di Carlo Floris
La Nuova Sardegna, 28 marzo 2009
Domenica sera alle 18 nella sala dell’Hotel Eden, e non come previsto in precedenza nel palazzo municipale, la libreria "Cultura Popular" presenta il libro di Paolo Pisu, "Figli della società. Carcere devianza e conflitto sociale". Alla manifestazione interverranno insieme all’autore: Graziano Mesina, Marco Grecu, segretario della Camera del Lavoro, Paolo Laudicina, direttore della comunità "Giovanni XXIII", Mimi Sauro, collaboratore della stessa comunità, Flavia Bertinelli, dell’associazione "Albeschida". Il libro di Pisu, che è stato presidente della commissione del consiglio regionale che ha indagato nella passata legislatura sulla situazione carceraria in Sardegna, trae lo spunto proprio dal lavoro di inchiesta dell’assemblea personale e ragiona, insieme agli operatori, agli ex detenuti, ai dirigenti delle carceri e dell’amministrazione penitenziaria, agli operatori del volontariato, sulla realtà odierna del sistema carcerario della nostra regione. Sono passati 61 anni dal varo della Costituzione, ma lo Stato ha faticato a modificare la concezione del sistema penale legata al codice fascista. Si può anzi dire, soprattutto per i più deboli, che il carcere continua ad assolvere una funzione piuttosto punitiva e di cesura definitiva fra la società cosiddetta normale e coloro che delinquono. Mentre molti invocano pene sempre più dure e descrivono il carcere come grand hotel, dove i detenuti dispongono di camere singole, tv e aria condizionata. La realtà è ben diversa: celle sovraffollate, di personale carcerario insufficiente, di strutture inadeguate e persino di case circondariali inaugurate e mai aperte. La serata sarà un’occasione di riflessione su questi temi. Caserta: presentato Sportello di orientamento e informazione
Il Mattino, 28 marzo 2009
L’evento è stato organizzato dal settore dei Servizi Sociali del Comune per presentare il progetto del primo Sportello di orientamento e informazione della provincia di Caserta per i detenuti Si è tenuto ieri mattina presso il teatro Giuseppe Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere il convegno dal titolo Insieme oltre il carcere. L’evento è stato organizzato dal Settore dei Servizi sociali del Comune di Santa Maria Capua Vetere per presentare il progetto del primo Sportello di orientamento e informazione della provincia di Caserta per i detenuti. Gli interventi - Relatori dell’incontro il sindaco, Giancarlo Giudicianni, la dirigente del Settore, Erminia Cecere, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania, Tommaso Contestabile, e Paola Tarsitano, presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Santa Maria Capua Vetere. Grande l’affluenza di cittadini e dei rappresentanti delle associazioni della città che hanno accolto con favore il progetto. Le finalità - La finalità è favorire una maggiore conoscenza delle opportunità lavorative e di integrazione per promuovere l’integrazione e l’inclusione sociale di soggetti in difficoltà. In particolare i destinatari di questa iniziativa sono ex detenuti e loro familiari, persone sottoposte a misura alternativa, ma anche coloro che per motivi di studio o lavoro necessitino di informazioni inerenti l’esecuzione penale esterna. Le risorse umane saranno messe a disposizione dall’Ufficio di esecuzione penale che assicurerà la presenza di un assistente sociale una volta alla settimana. Lo sportello informativo interprofessionale di primo livello sarà ubicato presso la sede dei Servizi sociali.
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