Rassegna stampa 15 maggio

 

Giustizia: "sicurezza" l’ultima illusione consegnata agli italiani

di Luca Ricolfi

 

La Stampa, 15 maggio 2009

 

Un maledetto irrisolvibile problema idraulico. È triste dirlo, ma al 90% il problema della sicurezza non è un problema politico, ma un problema di flussi e di stock, di capienze e di velocità. Per capire come mai, bisogna mettere da parte il 10% politico del problema, su cui ovviamente ognuno ha le sue preferenze e le sue sensibilità (a me, ad esempio, non piacciono le ronde). E occorre munirsi di santa pazienza e ripassare qualche numero, senza pretese di precisione ma giusto per farci un’idea degli ordini di grandezza.

Le persone denunciate in Italia sono oltre 500 mila all’anno, ossia circa 1 cittadino su 100. Un quarto circa, quasi interamente costituito da persone con precedenti penali, viene condannato da un giudice a una pena detentiva. Ma le probabilità di scontare la pena in carcere sono minime, per un complesso di ragioni istituzionali ben spiegato dal procuratore Bruno Tinti in un suo fortunato libro (Toghe rotte, Chiarelettere). La ragione più importante, però, è di natura materiale: non ci sono abbastanza posti nelle carceri. A meno di tre anni dall’indulto (estate 2006), i detenuti sono già 20 mila più di quanti le carceri potrebbero contenerne: 62 mila persone per 43 mila posti.

E quasi 2 posti su 3 non sono occupati da persone condannate, ma da imputati in attesa di giudizio o sottoposti a misure cautelari. La conseguenza è che i pochi detenuti che effettivamente scontano una pena liberano pochissimi posti all’anno, proprio perché la loro pena è lunga (chi ha una pena breve di norma non la sconta in carcere). In poche parole: le condanne a pene detentive sono più di 100 mila all’anno, ma i posti che si liberano effettivamente sono poche migliaia.

Si potrebbe pensare che, almeno per quanto riguarda gli immigrati, una soluzione potrebbero essere i centri di permanenza temporanea (Cpt), ora ridenominati Cie (Centri di identificazione ed espulsione). A parte il fatto che un Cie non è un luogo deputato a scontare una pena, è di nuovo l’idraulica a lasciare senza speranze: con meno di 2000 posti disponibili, le persone che possono transitare nei Cie sono meno di 10 mila all’anno, e diminuiranno drasticamente con l’allungamento dei tempi massimi di permanenza da 2 a 6 mesi deciso in questi giorni.

È strano che il ministro Maroni, che pure da molto tempo sta progettando di allungare i tempi di permanenza nei Cie per rendere possibili le operazioni di identificazione ed espulsione, non abbia provveduto - prima - ad almeno triplicare la loro capienza. Lì per lì non ci si pensa, ma la regola idraulica è implacabile: se il tempo di permanenza in una struttura aumenta di N volte, la sua capacità annua di accoglienza si riduce nella stessa proporzione. Se prima potevi ricevere 300 nuove persone al mese tenendole 2 mesi ciascuna, adesso puoi immetterne solo 100 al mese, perché ciascuna di esse si fermerà il triplo del tempo, ossia 6 mesi anziché 2. Insomma le stanze restano 300, ma più a lungo le si occupa meno nuove persone potranno transitarvi in un dato intervallo di tempo: se vuoi che il transito resti costante, allora devi triplicare la capienza della struttura. L’aritmetica dei flussi non lascia scampo.

Si potrebbe pensare che, comunque, un passo avanti sia stato fatto con l’accordo con la Libia, grazie al quale gli sbarchi in Italia dovrebbero diminuire drasticamente. Questo è vero, ma ancora una volta sono gli ordini di grandezza che fanno riflettere. Gli immigrati, specie se clandestini, sono indubbiamente più pericolosi degli italiani, ma occupano solo 1/3 dei posti in carcere, e soprattutto non vengono dal mare: gli ingressi con i barconi sono circa 1/7 del totale degli ingressi (o permanenze) irregolari. Il "respingimento in mare" degli stranieri è senz’altro utile, ma è solo una piccola frazione del problema della criminalità in Italia, diciamo un 5 per cento. Ricordo queste cifre non certo per svalutare l’azione del governo, o per minimizzare il ruolo della criminalità straniera in Italia.

Contrastare gli sbarchi illegali e rendere possibili le identificazioni sono provvedimenti ragionevoli, anche per il loro potere deterrente, e secondo me Maroni ha fatto bene a tenere duro su entrambi. Quello di cui dovremmo renderci conto, tuttavia, è che alla lotta contro il crimine mancano ancora i due tasselli fondamentali: una giustizia molto più efficiente, un piano di edilizia carceraria ben più incisivo di quello prospettato dal governo alcuni mesi fa (13 mila posti entro il 2012). Un calcolo prudente suggerisce che tra ristrutturazioni delle carceri esistenti (spesso indegne di un Paese civile) e costruzione di nuove carceri occorra prevedere almeno 50 mila posti aggiuntivi, con un costo che è dell’ordine di 5 miliardi di euro. Finché ciò non avverrà - ed è difficile pensare che, anche con la migliore volontà politica, occorrano meno di una decina d’anni - nessun inasprimento di pena, nessun nuovo reato, nessun giro di vite potrà produrre risultati apprezzabili. Meno che mai possiamo aspettarci miracoli dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina, giusto ieri sancita dal voto della Camera. Anzi, il rischio è che proprio i continui annunci di misure drastiche ma materialmente inattuabili rendano ancora meno credibili le nostre istituzioni.

Ma di tutto questo ci renderemo conto, probabilmente, solo fra qualche anno. Solo allora, quando avremo assistito a un’ennesima rivolta nelle carceri, quando saremo stati costretti a varare l’ennesimo indulto o amnistia, quando avremo constatato che l’idraulica del circuito della sicurezza non permette a nessun governo, di qualsivoglia colore politico, di ottenere risultati tangibili in pochi anni, solo allora questa stagione ci apparirà in tutta la sua paradossalità. Perché quello di questi giorni, il "respingimento" dei barconi e l’approvazione del disegno di legge sulla sicurezza, è probabilmente il massimo successo mediatico del governo Berlusconi, ma potrebbe rivelarsi anche, alla lunga, la più grande illusione (l’ultima?) che il Cavaliere ha consegnato agli italiani.

Giustizia: Piano carceri; tra "civiltà della pena" e "pene certe"

di Roberto Martinelli

 

Il Mattino, 15 maggio 2009

 

Al momento è solo un progetto tutto da studiare. Per risolvere l’emergenza del sovraffollamento degli istituti di pena si sta vagliando l’idea di realizzare delle carceri galleggianti. E cioè vere e proprie piattaforme, o navi particolarmente attrezzate, da ormeggiare in alcuni porti italiani. Ma poiché da sole, queste "navi prigione" non basterebbero a risolvere il problema, il ministero della Giustizia procederà comunque alla già annunciata costruzione di ventidue nuovi istituti di pena costruiti con criteri assolutamente moderni. Sono anni che il sovrannumero dei detenuti è una delle piaghe irrisolte del nostro sistema giudiziario e non v’è dubbio che è tempo di porvi rimedio. E subito.

Si è tentato di farlo approvando un sconto generalizzato di pene che non solo non ha portato ad alcun risultato pratico, ma ha addirittura peggiorato le cose. Dopo una prima ondata di scarcerazioni dovute al tanto discusso indulto, il numero dei detenuti è di nuovo risalito e anzi ha superato la soglia precedente già di per sé inammissibile per uno stato di diritto quale il nostro paese vanta di essere. I carcerati oggi, tra condannati, imputati e indagati in attesa di giudizio sono ventimila. Più di quelli che i nostri penitenziari, alcuni dei quali fatiscenti e non idonei alla funzioni che dovrebbero svolgere, dovrebbero ospitare.

Non è un mistero che molte delle 207 strutture carcerarie sono situate in edifici costruiti alcuni secoli fa e fatti per essere monasteri, conventi, seminari, e complessi religiosi di vario tipo e, non si sa perché, finiti per diventare dimore dei detenuti. Forse nella speranza e nella prospettiva che la religiosità di quei luoghi potesse in qualche modo influire sulla rieducazione e sul recupero dei colpevoli o presunti tali. Le celle sono state via via ricavate con lavori di ristrutturazione improvvisata e non rispondenti certo alla caratteristiche proprie di istituti adatti alla riabilitazione del detenuto né tanto meno al suo reinserimento nella società. Secondo una recente ricerca l’80 per cento delle prigioni sono prive di doccia, il 70 per cento dei detenuti non dispone di acqua calda, il 60 per cento delle detenute non ha il bidet. E infine il 12 per cento dei carcerati vive in edifici nei quali il bagno non è situato in un vano separato, ma collocato addirittura vicino al letto. In celle da due detenuti, vivono in tre e anche in quattro persone.

Per non parlare di tante altre carenze che allo stato non è possibile tecnicamente eliminare perché la struttura stessa degli edifici non lo consente. Ben vengano quindi i nuovi istituti di pena e, forse, se essi risponderanno a caratteristiche di modernità ed efficienza, i risultati non si faranno attendere. Soprattutto per quanto riguarda il fenomeno della reiterazione dei reati che molti esperti attribuiscono alle condizioni nelle quali vivono oggi i detenuti nelle nostre carceri. Il piano prevede anche che per ampliare o ristrutturare quelle vecchie, saranno impiegati i detenuti.

A coloro che saranno in grado di farlo sarà affidato il compito di imbiancare le pareti, abbattere muri ed effettuare piccole migliorie per rendere più vivibile lo stato dei luoghi. Ma questo che appare come un suggerimento condivisibile e apprezzabile è applicabile solo negli istituti di più recente costruzione e non nei vecchi e fatiscenti conventi dei secoli passati. Edifici che lo Stato vorrebbe dare in permuta a imprenditori interessati a farne alberghi o centri commerciali.

Il passaggio da istituti vecchi, obsoleti e inadatti alla loro funzione a strutture penitenziarie galleggianti, non può che incuriosire gli addenti ai lavori per quella che si presenta non solo come una rivoluzione a trecento sessanta gradi, ma un vero e proprio progetto dal contenuto futurista e per certi versi rivoluzionario. Esperimenti analoghi sono stati fatti negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Olanda, ove però i sistemi giudiziari sono diversi dal nostro anche se la recente riforma del processo penale aveva tentato inutilmente di ispirarsi al rito anglosassone.

A parte queste differente non è dato conoscere quali risultati concreti sono stati conseguiti e se davvero nel nostro paese è davvero pensabile ormeggiare nei pressi di porti turistici e commerciali delle navi prigione. Né è possibile prevedere quali tipi di scelte verranno fatte tra i diversi tipi di reclusi che vivono nei nostri istituti di pena.

La variegata popolazione carceraria italiana è fatta di detenuti sottoposti a particolari misure restrittive, a detenuti non ancora condannati e in attesa di giudizio, a migliaia di extracomunitari, a un numero considerevole di tossicodipendenti e portatori di Hiv. E non sarà un problema facile da risolvere per i magistrati di sorveglianza quando si tratterà di scegliere chi mandare su una "nave prigione" e chi lasciare sulla terra ferma.

Giustizia: sulle carceri incontro tra Marcegaglia, Ance e Alfano

di Alessandro Galimberti

 

Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2009

 

Tra le "soluzioni alternative" dell’edilizia penitenziaria, contenute nel piano che il direttore del Dap Franco Ionta ha presentato al ministro Angelino Alfano spunta anche l’ipotesi di carceri galleggianti, in senso letterale. Intanto ieri sera nella sede del ministero di via Arenula il guardasigilli Angelino Alfano ha ricevuto la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance, per discutere del coinvolgimento dei privati nel piano di rinnovamento del sistema carcerario. È stato poi costituito un gruppo di lavoro per seguire la realizzazione del piano carceri.

La relazione del Dap, ora al vaglio del Governo, ipotizza "strutture modulari" che permetterebbero di superare l’emergenza: tra poco più di un mese, infatti, il sistema carceri entrerà in crisi, quando il sovraffollamento delle celle (ieri 62.473 posti occupati, a fronte di una soglia regolamentare di 43.201) sfonderà anche il limite di tollerabilità massima (63.702).

L’idea di Ionta, nelle more della realizzazione della prima franche di nuovi penitenziari - 4mila posti nel prossimo biennio - passa anche dal palliativo transitorio di piattaforme o navi, ormeggiate in prossimità dei grandi porti italiani, con funzioni di carcere. Se l’idea del direttore del Dap venisse avallata dal Governo, l’Italia adotterebbe una soluzione già messa in pratica negli ultimi 20 anni in Gran Bretagna (un ex-traghetto della Sealink, ormeggiato nel 1987 nel porto di Harwich, come centro di detenzione galleggiante per immigrati irregolari), negli Stati Uniti (la prima chiatta-prigione fu ormeggiata a New York nel 1989, lungo il fiume Hudson), e più recentemente in Olanda.

Nelle 19 pagine di relazione al ministro, il Dap sottolinea che la nuova edilizia penitenziaria terrà conto di "soluzioni alternative" a quelle finora adottate, anche attraverso "strutture modulari", più economiche nella manutenzione e gestione, oltre che più rapide da costruire.

E proprio per la realizzazione materiale di nuovi istituti, oltre che per ampliare o ristrutturare quelli vecchi, saranno impiegati i detenuti, seppure soltanto per "interventi edilizi complementari" come per esempio imbiancare le pareti, abbattere un muro, trasportare le brande.

Il piano ipotizza la realizzazione complessiva, tassativamente entro dicembre 2012, di 46 nuovi padiglioni in altrettanti carceri già esistenti e la costruzione di 22 nuove carceri (di cui 9 già in costruzione) per un totale di 1 miliardo e 590 milioni di euro: l’obiettivo è la creazione di 17.129 posti letto. Di questi, 4.605 saranno pronti entro un paio d’anni attraverso l’ampliamento di carceri esistenti con nuovi padiglioni o ristrutturazioni, e la realizzazione di nuovi penitenziari già finanziati (costo complessivo 205.730.000 di euro); altri 6.201 posti, per un costo di 405 milioni, con fondi già individuati nella Cassa delle Ammende (circa 120-130milioni di euro ai quale il commissario straordinario Ionta può ora attingere, mentre fino a due mesi fa la Cassa era solo per il reinserimento dei detenuti), o nei fondi Fas per le aree sottosviluppate; infine 6.323 posti che costeranno 980 milioni con fondi ancora da individuare.

"Considerate le limitate risorse finanziarie disponibili" il piano del Dap apre ai privati consentendo "la locazione finanziaria, la finanza di progetto e la permuta". La permuta prevede che le vecchie carceri nel centro delle città vengano trasformate in alberghi o in centri commerciali dai privati

che, in cambio, costruiscono nuovi penitenziari in periferia: l’idea era stata un cavallo di battaglia dell’ex ministro Roberto Castelli, fautore nel 2001-2002 della Dike Aedifica Spa, società interamente partecipata dall’Economia che avrebbe dovuto gestire l’operazione, ma che fu sciolta dal successore di Castelli, Clemente Mastella.

Giustizia: carceri inutilizzate, ecco come sprecano i nostri soldi

di Primo Mastrantoni (Segretario Aduc)

 

www.imgpress.it, 15 maggio 2009

 

Le carceri scoppiano, dice il Ministero di Giustizia: ogni mese 1.000 detenuti in più, siamo arrivati a quota 62mila circa quando le strutture penitenziarie potrebbero ospitarne circa 43mila. Si pensa di costruire nuove carceri o di predisporre navi ad hoc. Nel frattempo, però, non si attivano quelle esistenti. Ieri la trasmissione "Striscia la notizia" di Mediaset denunciava il caso di un carcere nella provincia di Lecce che non ha detenuti ma solo il personale. Analoga situazione era stata denunciata, dalla medesima trasmissione, due anni fa per un carcere nuovo di zecca in Basilicata, quello di Irsina, costato 3,5 miliardi di lire e non operativo. Nel 2007 il senatore Gustavo Selva, in una interrogazione al ministro della Giustizia, citava una indagine de "Il Giornale" nel quale si denunciavano sprechi e disservizi nella gestione del patrimonio carcerario.

Sarebbe interessante sapere quali provvedimenti siano stati messi in atto per sanare la situazione. Insomma, mentre si stanziano fondi per nuove strutture, non si attivano quelle esistenti e il cittadino contribuente continua a pagare tasse salate per mantenere in piedi uno Stato inefficiente e spendaccione. Una interrogazione in tal senso è stata preannunciata dalla senatrice Donatella Poretti.

Giustizia: Ionta; improcrastinabile aumento di agenti e risorse

 

Ansa, 15 maggio 2009

 

Se il sovraffollamento delle carceri italiane costringe il governo a realizzare un piano straordinario di edilizia penitenziaria, allora è sempre più improcrastinabile un aumento di organico degli agenti (che già soffrono di ‘una carenza di 5mila unità) ed è indispensabile adottare tempestivamente le misure necessarie a garantire le risorse economiche per la gestione dei nuovi istituti. A sottolinearlo è il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, nel piano carceri consegnato al ministro della Giustizia Angelino Alfano.

Attualmente i poliziotti penitenziari in servizio sono circa 42mila. Ma - fa notare Ionta - diversamente dagli altri paesi europei la polizia penitenziaria non si occupa solo della sorveglianza ma anche di tutti i servizi connessi alla detenzione tra cui le traduzioni (nei paesi Ue gestite quasi interamente dalle altre forze di polizia) che solo nel 2008 hanno riguardato oltre 300mila detenuti e richiesto l’impiego di circa 6mila unità di polizia penitenziaria.

Ionta chiede anche più risorse, considerando il fatto che già oggi il Dap ha seria difficoltà ad assicurare la copertura alle spese correnti di gestione. In assenza di tali interventi, volti ad incrementare le risorse umane e finanziarie, non sarà possibile - conclude il capo del Dap - una incisiva opera di cambiamento e di miglioramento organizzativo nelle carceri italiane.

Giustizia: Gonnella (Antigone); Piano non risolve l'emergenza

 

Ansa, 15 maggio 2009

 

Il piano carceri non risolve il problema del sovraffollamento perché i tassi d’ingresso sono ormai di mille unità al mese. Ciò vuol dire che in sei mesi, da qui a dicembre servirebbero 30 mila nuovi posti letto’. Lo afferma Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri.

Gonnella si dice contrario anche alla gestione dei privati per le carceri che mette a rischio i diritti fondamentali dei detenuti e trasforma il sistema penitenziario in un grosso business. Gli Stati Uniti - prosegue - dopo aver largamente sperimentato negli anni 90 questa organizzazione oggi stanno facendo un passo indietro verso il ritorno al gestione pubblica. Gonnella giudica poi solo uno spot l’introduzione delle "carceri galleggianti", dove sarebbe assolutamente difficile garantire i diritti minimi dei detenuti, ad esempio, quello del colloquio con gli avvocati.

Questo piano inoltre - dice ancora Gonnella - non affronta il vero nodo dell’emergenza carceri: chi gestisce il sistema penitenziario, infatti, in onestà intellettuale dovrebbe chiedere al legislatore di mettere un freno alle norme che continuano a far aumentare i nuovi ingressi in carcere, come il ddl sicurezza e i provvedimenti anti prostituzione. È noto infine - conclude - che laddove si nomina un commissario straordinario significa che il sistema è già fallito.

Giustizia: Genova si ribella ad una "nave-prigione" nel porto

di Guido Ruotolo

 

La Stampa, 15 maggio 2009

 

Genova, piuttosto che Livorno. Area portuale. Banchina inutilizzata. Un carcere galleggiante, che ospita quattrocento detenuti, è ormeggiato. Celle da 15 metri quadrati, un campetto sportivo, una chiesa, un laboratorio artigianale. E naturalmente mensa e cucine. È una idea, per il momento. Che però potrebbe, in un futuro non tanto lontano, diventare realtà. Infatti, è una delle ipotesi inserite nel piano per le carceri presentato al Guardasigilli Angelino Alfano dal commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Franco Ionta, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap).

Nel piano, si ipotizzano esplicitamente "strutture penitenziarie galleggianti". Carceri galleggianti già esistono in Olanda, hanno funzionato (male) in Inghilterra: quella di Weare è stata chiusa perché si stava "stretti", si soffriva di "claustrofobia", l’ora d’aria era un sogno da inseguire, il lavoro per i detenuti una testimonianza per pochi. Alcune cabine dell’unità navale americana "Uss Lewis and Clark", nelle settimane scorse, sono state trasformate in celle per detenere presunti pirati somali che infestano le acque del Golfo di Aden, e che sono stati trasferiti in Kenya.

Lo scenario appena delineato riporta a quello dei film catastrofici del post-nucleare. Eppure, l’idea di fronteggiare l’emergenza carceri anche attraverso "soluzioni alternative" è molto concreta. Al Dap assicurano che, per il momento, è soltanto una possibilità. Una idea che può diventare "ottima" nel momento in cui saranno presentati i progetti e, soprattutto, i preventivi di spesa. Poi sarà il ministero delle Infrastrutture a valutare le proposte, a indire le gare, a esaminare i progetti. "Fino adesso - spiegano al Dap -, questa idea è stata avanzata da una impresa collegata alla Fincantieri e da un’altra società che ha contattato telefonicamente il Dipartimento". Sarà.

Ma intanto ieri in via Arenula si è tenuta una riunione operativa per procedere allo studio per le modalità di costruzione delle nuove carceri. Con il ministro Alfano hanno partecipato all’incontro anche Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, il responsabile infrastrutture dell’associazione, il presidente dei costruttori dell’Ance, Paolo Buzzetti, e poi il commissario Ionta. Proprio ieri, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha assicurato che per il piano carceri sono stati stanziati un miliardo e mezzo di euro (500 milioni per la manutenzione, un miliardo per le nuove strutture penitenziarie).

È una corsa contro il tempo. Le carceri sono già superaffollate, i numeri sono desolanti: 62.473 detenuti, dovrebbero essere 43.201. I sindacati della polizia penitenziaria denunciano che "i detenuti crescono di 800-1000 al mese". A fronte di questa situazione, il governo ha nominato Franco Ionta commissario straordinario per l’edilizia carceraria. Tre le linee guida del suo piano: ultimare le nove strutture i cui lavori sono stati bloccati per mancanza di fondi (4 in Sardegna, poi Savona, Trento, Reggio Calabria, Rovigo e Forlì); costruire nuovi padiglioni nelle (46) carceri che hanno spazi disponibili.

E, infine, le nuove carceri. Dovrebbero essere 18. E qui, per far quadrare i conti, il piano prevede "soluzioni alternative". Intanto, con l’ingresso dei privati (e il vertice di ieri sera a via Arenula dà seguito a questa indicazione) che potrebbero essere coinvolti attraverso il meccanismo del "project finance".

I criteri di valutazione delle tante possibili opzioni naturalmente seguono alcune priorità: tempi di realizzazione, costi, sicurezza, standard di vivibilità. Le carceri galleggianti saranno valutate rispettando questi criteri. Spiegano al Dap: "Se dovessimo decidere di costruire un nuovo carcere a Genova, la soluzione della struttura galleggiante potrebbe essere conveniente. Genova non ha spazi liberi. Per crearli si dovrebbe sbancare una collina".

 

Il Sindaco: una misura che ci riporta al Medioevo

 

"Forse hanno già pensato di risolvere così il problema della Tirrenia". La sindaco di Genova, Marta Vincenzi, commenta con una battuta al vetriolo l’ipotesi di una Alcatraz artificiale per Genova, un carcere galleggiante nel porto.

 

Il suo è quindi un rifiuto netto?

"Dobbiamo ricordare a tutti che questa non è una simpatica cittadina con un po’ di mare attorno, ma una città portuale che deve essere resa funzionale alle sfide dei traffici. Esiste un piano regolatore portuale, si discute di dislocazione e ricollocazione di aziende e concessionari, la presenza di un istituto di pena è incompatibile con l’attività economica".

 

Una proposta da bocciare in assoluto?

"Questo no, non si può fare di tutta un’erba un fascio. Probabilmente in altre situazioni, se ci sono porti parzialmente dismessi o in fase di ripensamento come scalo commerciale il progetto potrebbe essere fattibile, ma Genova è ancora, nonostante la crisi, lo scalo più importante del Mediterraneo. Che fai, togli spazio alla Maersk, o al Vte? La necessità di aumentare i traffici andrebbe a collidere con la cessione di una "servitù". E poi ho qualche dubbio sulla possibilità di garantire davvero una vita decente ai detenuti a bordo di una nave: gli fai prendere l’ora d’aria sul ponte? Nell’antica Repubblica di Genova queste si chiamavano galere, erano appunto le galee, dove un "agozzino" dava il ritmo della vogata. Vogliamo forse finire di nuovo all’Onu?"

 

Però il problema del sovraffollamento carcerario è reale e l’istituto circondariale di Marassi è uno dei casi più eclatanti di inadeguatezza, a partire dalla collocazione stessa della struttura nel cuore di un quartiere popoloso, praticamente accanto allo stadio Ferraris: che fare?

"Si può invece pensare a una ricollocazione parziale in zona più decentrata, con un adeguamento funzionale per eliminare gli effetti del sovraffollamento. C’era stata una disponibilità da parte dell’adora ministro Clemente Mastella nei confronti della nostra ipotesi, peraltro compresa nel mio programma elettorale, e quindi già prevista nel piano regolatore attuale: l’utilizzo di Forte Ratti, struttura sulle alture di Genova, da convertire in istituto di pena con opportuni adeguamenti strutturali. Il quartiere di Marassi è ora spesso invivibile e verrebbe liberato così da una pesante servitù. I detenuti avrebbero spazi più ampi in una struttura di concezione innovativa, pur pensata e collocata in un sito storico".

 

Qualcuno potrebbe obiettare che un forte sulle alture potrà essere adeguato alle esigenze di spazio dei detenuti, ma costituirebbe un grave ostacolo alla possibilità dei contatti con i familiari. Come risponde?

"Certamente il progetto del carcere comporta una revisione della viabilità, con la realizzazione di strade adeguate e collegamenti di mezzi pubblici".

 

Quale messaggio invia al governo?

"Rilancerei con la disponibilità a collaborare e ragionare su un piano serio di finanziamento per la realizzazione di nuove carceri in grado di garantire la sicurezza ma anche la dignità dei detenuti".

Giustizia: Polizia Penitenziaria; "agitazione a livello nazionale"

 

Agi, 15 maggio 2009

 

Le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria Sappe, Osapp, Uil Pa Pen., Cisl Fsn, Cgil Fp, in una lettera inviata al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, hanno annunciato lo stato di agitazione del personale sull’intero territorio nazionale e una manifestazione nazionale di protesta da tenersi a Roma il 17 giugno, in concomitanza con la celebrazione della Festa del Corpo. Le organizzazioni sindacali denunciano "la sostanziale scorrettezza del Capo del Dap, Franco Ionta" che "sta determinando, con sistematica premeditazione, l’azzeramento delle relazioni sindacali tra Dap e OO.SS. rappresentative del Corpo di Polizia Penitenziaria". I sindacati chiedono un urgente incontro il ministro Alfano "perché in tale sede si possa determinare un progetto ad ampio respiro utile a deflazionare le attuali, gravissime criticità che attanagliano il sistema penitenziario e il personale di Polizia Penitenziaria".

Giustizia: Osapp; per Piano carceri servirebbero 10mila agenti

 

Comunicato stampa, 15 maggio 2009

 

Per quanto di ulteriore si apprende, nel Piano che il Capo del Dap, Commissario Straordinario nonché Capo della Polizia Penitenziaria Franco Ionta, esiste anche (peraltro di ciò lo ringraziamo) un accenno al fatto che sia "sempre più improcrastinabile" un aumento dell’organico degli agenti di Polizia Penitenziaria che già soffrono di una carenza di 5.000 unità, tenuto anche conto che la Polizia Penitenziari non si occupa solo della sorveglianza ma anche di tutti i servizi connessi alla detenzione quali le traduzioni.

E di ulteriore viene anche fatto l’esempio che nel 2008 le movimentazioni hanno riguardato 300.000 (trecentomila) detenuti e hanno richiesto l’impiego di 6.000 unità di Polizia Penitenziaria. Solo che non dice in alcun modo quante unità in più servirebbero... e questo è un limite ben strano e forse l’unico in 19 pagine di cifre e previsioni. Proviamo a fare noi due conti:

1) 46 padiglioni per 200 detenuti cadauno, considerando 4 turni di servizio per 4 sezioni più le "rotonde" dalle 60 alle 80 unità cadauno per un totale di 46 X 60/80 = almeno 3.000 unità in più. 2) 22 istituti per 400 detenuti cadauno, dalle 150 alle 200 unità di Polizia Penitenziaria pari a circa 4.000 unità in più. 3) servizi di traduzioni connessi ai trasferimenti di 18.000 detenuti in più (che in realtà già ci sono e parliamo dei prossimi entro dicembre 2012) non meno di 1.500 unità. Il Totale di incremento necessario a realizzare il Piano Carceri proposto dal Commissario straordinario Franco Ionta è pari almeno a 9.000/10.000 unità di Polizia Penitenziaria in più. Se poi lo stesso Ionta sostiene che la momento attuale già ne mancano 5.000

Inoltre il Piano carceri del Capo del Dap Ionta prevede che i detenuti probabilmente siano impiegati ai sensi dell’articolo 21 o.p. per opere secondarie e non principali che nel piano stesso riguardano essenzialmente 46 padiglioni e 22 nuovi istituti entro dicembre 2012. Interessanti i costi complessivi dell’operazione che si aggirerebbero intorno al miliardo e seicento milioni di euro di cui solo 335 milioni di fatto attualmente disponibili. 4.605 invece i posti da realizzare entro il 2010. Ma il capitolo delle mercedi non è pressoché esaurito?

Giustizia: la Comunità "Papa Giovanni XXIII" contro l’ergastolo

 

Ristretti Orizzonti, 15 maggio 2009

 

Giovanni Paolo Ramonda, Responsabile Generale della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da Don Oreste Benzi, entra oggi nel carcere di Spoleto per incontrare una parte di quegli ergastolani delle cui recenti lotte tante volte abbiamo dato notizia da queste colonne.

Carmelo Musumeci e gli altri ergastolani senza diritto a benefici che vivono nell’istituto avevano chiesto da tempo un confronto su questi temi con la società esterna. In parte c’è stato attraverso lettere, articoli di giornali, assemblee organizzate da associazioni, prima fra tutti Liberarsi, che dall’esterno ha coordinato in questi mesi la campagna Mai dire mai per l’abolizione dell’ergastolo e delle carceri di massima sicurezza. La Papa Giovanni XXIII propone l’abolizione dell’ergastolo ostativo, quello appunto senza benefici di legge, che "non permette il reinserimento sociale del detenuto e lo esclude da qualsiasi speranza di cambiamento" e che "non permette di dimostrare che la persona detenuta ha fatto il suo cammino di rieducazione".

La Comunità Papa Giovanni XXIII sostiene l’abolizione dell’ergastolo ostativo, affinché ogni detenuto possa avere la possibilità di dimostrare il proprio cambiamento e possa svolgere un progetto personalizzato che gli dia la possibilità di essere reinserito nella società. Si sostiene che l’ergastolo senza benefici per il reinserimento sociale (art. 4 bis O.P.) è incostituzionale, perché l’art. 27 della nostra Costituzione recita: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Invece le persone condannate all’ergastolo ostativo con la motivazione di avere agevolato l’attività dell’associazione criminosa (Divieto di concessione di benefici: art. 4 bis O.P.) non potranno uscire veramente mai dal carcere e, dunque, non si può parlare del fine rieducativo della pena.

L’ordinamento penitenziario, si legge nel comunicato, afferma che: "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi".

Quale reinserimento sociale è possibile senza speranza di uscire? "Noi crediamo che la rieducazione contiene in sé il principio di reinserimento sociale della persona. Senza reinserimento non c’è rieducazione".

Giustizia: dissero i Costituenti "nessuna pena superi i 15 anni"

di Sandro Padula

 

L’Altro, 15 maggio 2009

 

La mattina del 25 gennaio 1947, durante la seduta plenaria della commissione per la Costituzione, si discusse dell’articolo 27 (allora in realtà art. 20) ed in tale circostanza, benché la sua versione fosse molto simile a quella poi approvata, gli onorevoli Terracini e Nobile - entrambi del Pci - proposero di inserire nel terzo comma la frase: "Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di 15 anni".

Umberto Terracini, avendo conosciuto direttamente sia il carcere (dal 1926 al luglio del 1937) che il confino (dal luglio del 1937 al settembre del 1943), sapeva bene che due decenni di pena detentiva abbrutiscono il condannato e non svolgono una funzione neanche lontanamente rieducativa. Ecco perché propose che il massimo delle pene restrittive della libertà personale non dovesse superare la durata di 15 anni.

La maggior parte dei partecipanti a quella seduta ritenne però che la Costituzione poteva dare soltanto una indicazione di massima e quindi solo nuove leggi avrebbero dovuto e potuto definire un limite alla durata delle pene detentive.

Tanto per fare un esempio, l’onorevole Giuseppe Grassi (Unione democratica nazionale) si mostrò favorevole a "rinviare l’argomento alla legislazione penale, tenendo conto delle osservazioni fatte" da Terracini e Nobile.

Per non perdere tempo in discussioni infinite, la commissione ritenne opportuno delineare il quadro generale entro cui, in seguito, si sarebbe dovuto far nascere un nuovo codice penale e nuove leggi, quindi abolire non solo la pena dell’ergastolo ma anche tutte le lunghissime pene detentive. Venne così approvato un testo simile a quello del vigente articolo 27.

Un fatto particolarmente significativo, a testimonianza di tale indirizzo comune, fu l’intervento effettuato prima dell’approvazione dell’articolo discusso alla fine della mattina del 25 gennaio 1947.

Lo svolse Umberto Tupini, della Democrazia cristiana, ricordando che nella prima sottocommissione si era discussa la proposta di Togliatti relativa all’abrogazione dell’ergastolo e "si ritenne che non fosse materia da definire in sede costituzionale e che fosse sufficiente stabilire il concetto generale che le pene tendono alla rieducazione del reo ed escludono trattamenti inumani e crudeli".

A differenza di quanto si legge nella sentenza n° 264 del 1974 della Corte costituzionale, sentenza molto datata e poco richiamata in seguito dalla giurisprudenza, non è vero quindi che l’articolo 27 della Costituzione "non ha proscritto la pena dell’ergastolo (come avrebbe potuto fare)".

L’articolo 27 della Costituzione non ha proscritto esplicitamente l’ergastolo per il semplice motivo che l’ha aborrito implicitamente nella misura in cui ha espresso il principio che, in ogni caso, le pene debbano tendere alla rieducazione.

Con la sentenza 264 del 1974, basata sull’incomprensione degli intendimenti degli estensori della carta costituzionale, si arriva poi al paradosso che l’ergastolo sarebbe compatibile con la Costituzione perché la possibilità della libertà condizionale lo renderebbe una pena non più sostanzialmente perpetua.

La verità è ben altra: una possibilità non è mai un criterio automatico valido per tutti. In Italia, nel 2006 (rilevazione parziale fino al 23.10.06) e rispetto a tutte le pene, le liberazioni condizionali concesse sono state 21, quelle respinte 373 e le richieste dichiarate inammissibili 294.

Molte sono le persone condannate a cui, in base al reato commesso (come prevede l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario), vengono spesso negate in modo preventivo le misure trattamentali come permessi, semilibertà e libertà condizionale. Per questa ragione recentemente due ergastolani nel presentare una domanda di permesso hanno richiesto la verifica della costituzionalità dell’ergastolo (cf. www.informacarcere.it).

Anche l’interpretazione contraddittoria dei requisiti richiesti per accedere alla libertà condizionale, diversi nel tempo e nello spazio, perché ogni tribunale stabilisce dei propri autonomi criteri, dimostra l’infondatezza di quanto affermato nella sentenza del 1974. Motivo della non univocità degli indirizzi dei Tribunali di Sorveglianza è soprattutto la diversa valutazione del concetto di "sicuro ravvedimento", richiesto dall’articolo 176 del codice penale.

Il "ravvedimento" attiene alla sfera intima del condannato, per questo la sua verifica da parte dell’autorità giudiziaria è suscettibile di diverse e anche opposte valutazioni a causa di un metro di giudizio inevitabilmente soggettivo.

Alcuni giudici si attengono al comportamento, rilevabile fattivamente nel corso del percorso rieducativo, e non chiedono ulteriori prove. Altri, invece, ritengono necessari dei criteri aggiuntivi, estranei allo stesso dettato legislativo e costituzionale, cioè - come testimonia un esempio recente - l’esistenza di contatti diretti o indiretti con i parenti delle vittime e, affinché questi assumano "valenza determinante", l’ "esternazione sincera e disinteressata" di una "concreta resipiscenza" verso le parti offese.

Per contrastare questa seconda interpretazione, che per altro non è affatto gradita da sempre più numerosi parenti delle vittime (come scritto da Benedetta Tobagi su Il Sole 24 Ore del 16 aprile e Mario Calabresi nel suo libro, Spingendo la notte più in là), Sabina Rossa, Olga D’Antona, Giovanni Battista Bachelet e un gruppo di deputati di diverse forze politiche hanno presentato un disegno di legge per la modifica dell’articolo 176 del codice penale che prevede la sostituzione del criterio del "sicuro ravvedimento" con quanto espressamente indicato nell’articolo 27 della Costituzione: la conclusione positiva del percorso rieducativo.

Lo stesso l’articolo di cui si discusse nella seduta plenaria della commissione per la Costituzione del 25 gennaio 1947 e la cui genesi, oggi più che mai, meriterebbe di essere ben compresa.

Giustizia: "Il buon giudice"… e Alessandro Margara risponde

 

www.innocentievasioni.net, 15 maggio 2009

 

Caro Presidente, da ex operatore carcerario e da modesto "cultore della materia", mi sembra di aver colto un fenomeno assai preoccupante all’interno del sistema penitenziario: la Magistratura di sorveglianza sembra aver assunto, in numerose città italiane (almeno quelle di cui ho notizia), un atteggiamento estremamente chiuso rispetto alla concessione dei benefici. Temo, addirittura, che si tratti della conseguenza di una sorta di regressione culturale, a seguito della quale la Magistratura di sorveglianza sembra condizionata dal prevalere di una ideologia securitaria. Che ne pensa?

 

Leonardo Carraro

 

Caro Carraro, la tua domanda esige una risposta lunga e complessa. In primo luogo, c’è un problema - grave di autolimitazione. Ovvero di autolimitazione, da parte dei giudici di sorveglianza, nel ricorso agli spazi, pur ridotti, consentiti da leggi e regolamenti. Sono aspetti emersi negli ultimi anni - quindi, fra leggi ingiuste e accettazione delle stesse da parte dei giudici - che si sono saldati fra loro, purtroppo in un periodo di entusiasmi calanti per tutti quegli impegni sociali dei giudici, che, con molta approssimazione, si potrebbero chiamare umanitari, ma sono, a mio avviso, per la verità, semplicemente umani. Intanto registro un dato: negli ultimi tempi prima del condono, le misure alternative in Toscana, avevano superato le 1500; oggi sono poco più di 200.

 

La "mission" istituzionale

 

Il quesito di fondo è questo: la funzione del magistrato di sorveglianza è quella di gestire la dinamica della esecuzione della pena in osservanza dell’art. 27, comma 3, Cost., o lo stesso deve anche preoccuparsi di difendere la pena nella sua misura statica, conservare la carica punitiva della stessa come da sentenza? Si potrebbe subito osservare che, fra le due soluzioni, c’è una evidente contraddizione: o la funzione è dinamica o è statica: non può essere l’una e l’altra. Ma andiamo avanti per spiegare meglio quello che voglio dire.

Scendendo nel particolare, si è fatta strada l’idea che la pena vada difesa da certe interpretazioni troppo larghe del sistema delle misure alternative: ad esempio, quando la più ampia delle misure alternative, l’affidamento in prova al servizio sociale, viene concessa senza passaggio dal carcere a chi risponde di un reato - più grave o meno grave, secondo le valutazioni - per il quale o sia stata inflitta una pena entro i tre anni o sia rimasto un residuo pena della stessa misura. È una idea che tenta alcuni magistrati di sorveglianza e che porta a una sensibile riduzione della applicazione delle misure. Che cosa dire? Che non mi sembra rientri fra le funzioni della magistratura di sorveglianza quella di difendere la pena, di impedire che il contenuto di questa venga vanificato dall’intervento penitenziario: e qui bisognerebbe puntualizzare che non c’è vanificazione della pena nelle misure alternative, ma che le stesse servono, in conformità delle previsioni normative, a raggiungere le finalità della pena attraverso regimi di esecuzione, restrittivi della libertà personale, più adeguati a tali finalità. Ovviamente, con riferimento alla pena inflitta e al reato commesso, ci possono essere specifiche ragioni contrarie che riguardano la persona e la sua affidabilità (che comprende tutte le condizioni che l’art. 47, comma 2, indica), ma non si possono, io credo, addurre, invece, ragioni che contrastino con le previsioni della legge: come quella secondo cui, con la misura alternativa, vengono sanzionati troppo leggermente una certa condotta o certi tipi di individui e di autori. La difesa della pena è affidata alla legge e vanno rispettate le opzioni della stessa, che prevede certe pene per certi reati, ma prevede anche, per tali pene, regimi di esecuzione alternativi alla detenzione. Né si può dire, come è stato detto, che certe misure alternative sono amnistiali e senza contenuto affittivo proporzionato alla pena, perché, così dicendo, si rifiuta di capire la sostanza della misura, che è quella di produrre e seguire il percorso di reinserimento sociale della persona secondo le indicazioni e le prescrizioni, limitative della sua libertà, previste dalla ordinanza di concessione. La mancata comprensione (o la mancata fiducia) in questa sostanza della misura alternativa (quando ci sono - incomprensione o sfiducia - rappresentano una notevole limitazione all’esercizio della funzione) può indurre l’autonominato custode della pena a considerare, in certi casi, poco "penosa" la misura alternativa: ma, secondo me, in tale caso il custode della legge non applica la legge. In una recente ricerca del Dap, la recidiva, dopo 7 anni dalla conclusione della esecuzione della misura alternativa, si verifica nel 19% dei casi; nello stesso tempo, dopo la esecuzione della pena in carcere, la recidiva è del 68 e mezzo per cento. Questo evidentemente non interessa.

 

La "mission" sociale

 

È una preoccupazione diffusa nella magistratura di sorveglianza l’accettazione sociale della propria attività. La reazione sociale agli interventi di tale magistratura è oggi assai critica verso la stessa e subisce costantemente le amplificazioni mediatiche, che innescano una spirale ulteriormente riduttiva.

Provo ad analizzare questo discorso. Soprattutto in considerazione dei ritorni autolimitativi che produce sulla attività della magistratura di sorveglianza.

Direi intanto che nel discorso ci sono due discorsi distinti. Il primo è il richiamo sulla scena del reato della parte offesa, della vittima. Il secondo è il coinvolgimento allargato e costante del pubblico all’area della criminalità e alle decisioni dei giudici sulle stesse: e inoltre è diffusa l’attenzione della magistratura di sorveglianza a tutto questo e il condizionamento che ne deriva alla attività della stessa. Entrambi i discorsi sono lanciati e rilanciati da stampa e televisione. Vediamoli.

Il primo. Molte delle aree criminalizzate più di recente sono senza vittima, ma nell’area che rappresenta il penale classico - reati contro la persona, reati contro il patrimonio, etc. - la vittima esiste ed ha, per vero, anche una voce nel processo, ma certamente in un quadro di garanzie che riguarda essenzialmente l’imputato. Poi c’è l’esecuzione delle pene e qui, secondo molti, la vittima, quando c’è, ha uno spazio indubbiamente modesto. La frase biblica, fatta propria da una associazione, "Nessuno tocchi Caino", che riguarda la protezione del colpevole, ha trovato, negli anni più recenti, espressioni opposte, altrettanto bibliche: "Dalla parte di Abele", a indicare la necessità della protezione della vittima.

Ora, che si debba tenere conto dei problemi della vittima, dell’aiuto alla stessa per affrontarli, si può ritenere pacifico. Il testo originario dell’Ordinamento penitenziario prevedeva, all’art. 76 "il soccorso e la assistenza alle vittime del delitto", gestiti dal Consiglio di aiuto sociale, che era l’organo, istituito presso ogni tribunale, che si occupava anche della assistenza alle famiglie dei detenuti e della assistenza post penitenziaria ai liberati dal carcere. In queste competenze sono poi subentrati, dal 1977, gli enti locali, che hanno fornito assistenza in questi settori nel quadro dei loro interventi assistenziali generali. All’origine le risorse utilizzabili derivavano anche dalla trattenuta dei tre decimi praticata sulle retribuzioni dei detenuti: tale trattenuta è stata soppressa. Comunque, le vittime del delitto, in presenza di una previsione normativo, come il citato art. 76, dovrebbero ricevere aiuto e assistenza necessaria dagli organi che devono essere ritenuti competenti rispetto a tale previsione. Va dato atto che il sistema non funziona e che comunque dovrebbe, invece, funzionare. Non dimentichiamo che, presso il Dap esiste la Cassa delle Ammende con notevoli risorse finanziarie, molto parzialmente utilizzate, cui sarebbe logico fare riferimento anche per le vittime (era dalla Cassa Ammende che provenivano le risorse per il funzionamento dei Consigli di aiuto sociale). È di questi giorni la notizia che buona parte di quelle risorse, 150.000.000 di euro, saranno impiegati per la costruzione di nuovi carceri (con un’apposita modifica legislativa). L’interesse per l’assistenza post penitenziaria ai detenuti e anche quella per le vittime del delitto può aspettare.

E allora: le vittime del reato devono essere aiutate e assistite. Quello che accade, però, non è questo. Anzi, a prescindere dagli aiuti forniti alle vittime di particolari reati, non funziona, come si è detto, un sistema di aiuto generale: per tutte le vittime, quale che sia il reato. Nell’assenza di tale aiuto (e, per vero, anche nei casi in cui l’aiuto c’è, ma evidentemente senza continuità e attenzione sufficienti), si identifica come aiuto alle vittime la limitazione o la esclusione o, in genere, la contestazione alle concessioni di benefici penitenziari ai responsabili dei reati. Questo non può essere accettato. Il percorso riabilitativo attraverso la esecuzione penale è un diritto soggettivo del condannato, se ne ricorrono determinati presupposti di legge (sentenza Corte Costituzionale n. 204/74), fra i quali non c’è sicuramente l’assenso delle parti lese. Là dove, come nel caso della liberazione condizionale, è previsto l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal reato, è anche stabilito che l’obbligo viene meno se il condannato non è in grado di adempierle. Il che conferma che la decisione sulla concessione del beneficio non deve essere influenzata dalla accettazione delle parti lese, ovviamente e comprensibilmente poco frequente.

Il che non vuol dire che, come sempre è stato fatto, non ci si debba preoccupare, nel programmare l’inserimento sociale di un condannato, dei problemi legati alla commissione del reato, evitando, ove occorra, che lo stesso rientri nel luogo in cui il reato è stato commesso e dove vivono tuttora le parti lese (è stato sempre un punto da accertare nelle procedure di sorveglianza quando la pena riguardi fatti rilevanti). Così che si può programmare un inserimento in luoghi diversi e lontani. Ma, ripeto, le possibilità del percorso penitenziario di recupero sociale di una persona non devono essere subordinate alla accettazione delle vittime. Si voglia o non si voglia, sarebbe un ritorno alle prime teorie della pena, secondo cui la vittima aveva propri poteri diretti sul responsabile.

Vengo al secondo discorso. C’è una partecipazione sociale, rilanciata, come si è detto, da stampa e televisione, alla esecuzione delle pene inflitte ai colpevoli e alla loro esecuzione. Il risultato è la costante insoddisfazione del pubblico rispetto alle pene e il rifiuto di qualsiasi temperamento delle stesse, in particolare in direzione di quelli che si dicono benefici penitenziari, per i quali si segnala un robustissimo calo(vedi sopra). Come si è già rilevato c’è tutta una legislazione che cerca di somministrare carcere per ogni dove e cerca di limitare i benefici penitenziari e una politica di recupero sociale dei condannati. Questa politica, che crede solo nel carcere e non nella possibilità del recupero delle persone, provoca e risponde ad una analoga richiesta sociale. Ma, se analizziamo la politica governativa e la richiesta sociale di carcere e di severità, dove ci troviamo se non in quella china che sta svuotando la Costituzione e azzerando i suoi principi, individuata da Zagrebelski e ricordata in molti articoli da lui scritti per la stampa (particolarmente per "La Repubblica")? Che il sistema penale presenti larghe zone di irrazionalità è vero, ma il modo di risanarlo non è certo quello di estendere la criminalizzazione, di scegliere il carcere come unico modo di punire, di rifiutare percorsi di riabilitazione dei condannati attraverso alternative alla detenzione, misure alternative che hanno fra l’altro dimostrato di essere assai più efficaci del carcere per contenere la recidiva. In questo modo si introduce soltanto ulteriore irrazionalità. Di più: la via che si sta seguendo è quella di una legislazione ingiusta, che brucia i principi costituzionali di rispetto degli altri (contano gli interessi propri, non quelli di tutti) e quindi di eguaglianza, di solidarietà fra tutti, integrati o non integrati, di ricerca di costruzione di un futuro migliore e non di risposte immediate e ossessive ai problemi del nostro presente, indifferente al presente altrui.

La "mission sociale" echeggia questa china e come tale è molto rischiosa rispetto ai principi che devono sostenere la funzione della Magistratura di sorveglianza.

 

Sandro Margara

Firenze: Garante; digiunerò se Sollicciano supera mille detenuti

 

Ansa, 15 maggio 2009

 

"Se il carcere fiorentino di Sollicciano raggiungerà quota mille detenuti, oggi siamo a 953, comincerò lo sciopero della fame". Ad annunciarlo è Franco Corleone, garante dei detenuti del Comune di Firenze, in segno di protesta contro le politiche penitenziarie "sia del Dap che del Governo". Corleone ha anche spiegato che ad oggi in Italia i detenuti sono circa 62.000. "Se non ci fosse stato l’indulto - ha chiarito - avremmo oltre 80.000 detenuti. L’aumento è causato soprattutto dalla legge sull’immigrazione e da quella sulle droghe".

"A Sollicciano - ha proseguito Corleone - si sta ballando sul Titanic: il carcere ha una capienza di 483 detenuti, ma al momento ve ne sono il doppio. Il sovraffollamento produce soltanto incattivimento. In Toscana il numero complessivo dei detenuti è arrivato a 4.085, di cui 3.914 uomini. La capienza tollerabile - ha continuato - è pari a 4.611, sarebbe quindi al di sotto; ma io dico tollerabile per chi?".

Il garante dei detenuti ha spiegato di aver inviato il 19 marzo una lettera al presidente della Regione Claudio Martini, al momento senza risposta, per attivare un gruppo che lavori "a definire un piano carcere per la Toscana di fronte all’inerzia dell’ Amministrazione penitenziaria". Ha poi lanciato un appello a Enrico Rossi, assessore toscano per il diritto alla salute, affinché, in 2 o 3 anni, si possa arrivare alla chiusura definitiva dell’Opg di Montelupo.

Milano: San Vittore; 250 tossicodipendenti, violati i diritti umani 

 

Notiziario Aduc, 15 maggio 2009

 

In una interrogazione al ministro della Giustizia i deputati radicali Zamparutti, Bernardini, Beltrandi, Farina Coscioni, Mecacci e Turco descrivono, dopo una visita ispettiva avvenuta lo scorso 11 maggio nel carcere di San Vittore, delle condizioni carcerarie che non assicurano il rispetto dei diritti umani dei detenuti, delle norme igienico-sanitarie e della privacy e non adempiono al principio costituzionale per cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Inoltre in un’altra interrogazione sempre al ministro Alfano, sempre a seguito di una ispezione avvenuta lo stesso 11 maggio nella casa circondariale di Lecco, riferiscono di tagli a tutti i capitoli di bilancio - azzerate le risorse per la manutenzione, nessun psicologo, retribuzione garantita per un solo lavorante-detenuto sui 14 attuali -, che "pregiudichino la possibilità, per uno dei carceri che poteva essere definito tra i migliori del nostro Paese, di continuare ad operare assicurando condizioni di detenzione dignitose".

I deputati segnalano che nel carcere milanese vivono 1427 detenuti maschi - dei quali tra il 70 e il 75 per cento stranieri e circa 250 tossicodipendenti - per una capienza effettiva di 900 posti, tenuto conto della chiusura di tre sezioni, una perché crollata e le altre perché in fase di ristrutturazione.

Quindi descrivono le allucinanti condizioni in cui si ritrovano a vivere i detenuti comuni: celle di circa 10 metri quadrati fatiscenti - con parassiti, muri cadenti e finestre che non si chiudono - in cui 9 persone dormono in letti a castello a due o tre piani con materassi sporchi e rotti e coperte e lenzuola altrettanto sporche, usando un lavandino largo 25 cm - posto tra un tavolino con fornelli da campo e un water - che serve contemporaneamente alla pulizia personale, della cella e degli indumenti, creando "una situazione di uso promiscuo degli spazi del lavaggio personale". Si riferisce che "manca una fornitura minima di piatti, carta igienica e sapone in contrasto con la quantità di pacchi ricevuti dall’esterno" e che la distribuzione dei pasti non ha protezione igienica.

Messina: dalla Provincia percorsi di reinserimento per i detenuti

 

La Sicilia, 15 maggio 2009

 

Si è concretizzato il primo passo del percorso intrapreso dalla Provincia regionale di Messina in favore della rieducazione attraverso percorsi di reinserimento dei detenuti. Nei giorni scorsi una Commissione dell’Ente si è recata nel carcere di Messina Gazzi per un sopralluogo, alla presenza del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sicilia, Orazio Faramo e del direttore della struttura, Calogero Tessitore.

La parte politica era rappresentata dall’assessore al lavoro Renato Fichera e dai consiglieri Lalla Parisi, Tonino Calabrò e Maurizio Palermo. "Dall’incontro - ha dichiarato al termine Lalla Parisi - è emerso che il carcere di Messina necessita sicuramente di appositi interventi di ristrutturazione. Abbiamo però constatato che all’interno si trova un nuovissimo teatro con un centinaio di posti e, cosa più importante, che da circa un anno è attiva una eccellente sala operatoria con annessi locali di degenza, funzionante e garantita da una equipe di medici del policlinico di Messina.

Si tratta di una struttura - evidenzia Lalla Parisi - unica nel suo genere nel Centro-sud". Il sopralluogo si è concluso con un impegno della Provincia, di contribuire economicamente alla realizzazione di una struttura prefabbricata con adeguati servizi igienici, da ubicare in un’area adiacente alla "zona colloqui". Un’opera mirata all’accoglienza dei parenti dei detenuti che "servirebbe - spiega il consigliere Parisi - ad eliminare l’inconveniente determinato dalla precaria tettoia posta sul marciapiede di fronte al muro di cinta del carcere". La Commissione ha concluso la visita nell’area riservata al settore femminile.

Lì il Provveditore Faramo ha comunicato all’assessore Fichera e ai consiglieri Parisi, Calabrò e Palermo che è sua volontà adibire un immobile confiscato alla mafia in Sicilia per accogliere le detenute in carcere con bambini al seguito, affinché le stesse possano scontare la loro pena senza provocare il trauma delle inferriate ai minori, in strutture adeguate.

Torino: l’Osapp denuncia; già 5 agenti aggrediti in soli 10 giorni

 

Comunicato Osapp, 15 maggio 2009

 

Alle ore 18,40 di oggi presso il Carcere di Torino, Lo Russo-Cutugno, un detenuto classificato A.S. (Alta Sicurezza) per reati connessi alla criminalità organizzata e proveniente dal carcere di Napoli-Secondigliano, e allocato presso la IV Sezione, Padiglione C della Struttura, ha aggredito senza apparente motivo con calci e pugni un Assistente Capo di Polizia Penitenziaria che è stato prontamente trasportato presso l’Ospedale Maria Vittoria, lo riferisce Leo Beneduci - segretario generale dell’Osapp - per le lesioni riportate dal nostro collega, continua Beneduci, c’è la probabile lesione del timpano.

Si tratta della terza aggressione negli ultimi dieci giorni spiega Beneduci - che con questa ha già fatto il quinto ferito Nell’istituto penitenziario la situazione rischia di peggiorare ulteriormente, dove la media dei detenuti presenti negli ultimi mesi gravita tra le 1.600 e le 1.700 unità (oggi 1.638) a fronte di una capienza regolamentare di 930.

Il Carcere torinese è un inferno chiosa il leader sindacale - gli agenti sono allo stremo con doppi turni massacranti, e quest’estate dovranno rinunciare anche alle ferie, qui come negli altri istituti. Come avevamo denunciato qualche mese fa i detenuti che dormono per terra in palestra sono sempre non meno di 30, anche oggi qui a Torino, determinando questo una situazione igienica insostenibile.

Foggia: nel carcere di Lucera, un detenuto salvato dal suicidio

 

www.luceraweb.it, 15 maggio 2009

 

"Grazie alla tempestività e alla professionalità degli agenti, possiamo dire che una vita è stata salvata. Un vero e proprio miracolo nel silenzio della notte".

Così il direttore della Casa Circondariale di Lucera, Davide Di Florio, dopo il tentativo di suicidio di un detenuto del carcere avvenuto martedì sera, ma sventato dal personale della polizia penitenziaria intervenuto prima che non ci fosse più nulla da fare.

L’uomo, neanche quarantenne, aveva deciso di farla finita cercando di impiccarsi nella cella dove era rinchiuso in isolamento, ma evidentemente sorvegliato a vista dagli agenti, diretti dal comandante Mario Zammetta, che di fatto gli hanno salvato la vita. Subito dopo, infatti, è stato trasportato con un’ambulanza del 118 al pronto soccorso dell’ospedale Lastaria di Lucera dove è stato medicato e subito dimesso per essere riaccompagnato in Piazza Tribunali.

"La situazione a livello nazionale è già difficile di suo - ha aggiunto di Florio - ma a Lucera forse è ancora peggio, visto che il numero dei detenuti è aumentato ancora fino agli attuali 260, a fronte di una capienza standard di 170. Per fare un riscontro, basti pensare che il massimo precedente era stato raggiunto prima dell’indulto con "sole" 190 presenze. Questa situazione viene poi aggravata dalla carenza di personale in servizio che rende il tutto ancora più problematico".

La casa circondariale di Lucera, dallo stesso Di Florio definita "un’agenzia del territorio", in effetti è una vera e propria cittadella vivace, variegata, multietnica e immersa nel cuore della città, in cui agiscono anche 130 agenti di polizia penitenziaria e 40 operatori del personale civile. E nonostante l’affollamento, sono diverse le iniziative mirate al recupero dei detenuti ai quali vengono offerti veri e propri corsi di formazione. L’ultimo in ordine di tempo si è concluso un mese fa, con una dozzina di detenuti che hanno preso parte a un corso per aiuto cuoco, pizzaiolo e pasticcere, nell’ambito di un progetto finanziato dal ministero della Giustizia e denominato "Tra sbarre e fornelli".

Alessandria: dalla rivolta del "Don Soria" sono passati 35 anni 

 

www.ilpiccolo.net, 15 maggio 2009

 

Sono passati 35 anni dalla sanguinosa rivolta del carcere Don Soria. Era il 9 maggio 1974. Alessandria ora ricorda. Domani, sabato 16 maggio, alle 10, presso l’istituto carcerario verranno commemorate le vittime di quel sanguinoso fatto di cronaca. La cerimonia, su proposta dei consiglieri comunali Mario Bocchio e Maurizio Sciaudone, subito accolta dal sindaco Piercarlo Fabbio, prevede la deposizione di una corona d’alloro. Sarà presente il sindaco. Iniziativa appoggiata dall’Anppe, l’Associazione Nazionale Pensionati della Polizia Penitenziaria, ad Alessandria presieduta da Antonio Aloia.

 

La cronaca della strage

 

Giovedì 9 maggio 1974, per Alessandria fu una giornata drammatica: i detenuti Concu, Levrero e Di Bona misero in atto il loro progetto di evasione e non ci pensarono due volte a farsi scudo degli ostaggi che incontrarono sul loro cammino. Per riuscire nel loro intento sequestrarono insegnanti della scuola penitenziaria, agenti dell’allora Corpo degli Agenti di Custodia, il medico e si rinchiusero nell’infermeria. Le armi che impugnavano erano vere e le intenzioni dei tre altrettanto serie. Un colpo a scopo dimostrativo sparato da uno di loro tolse ogni dubbio a tutti quanti. Fu il preludio ai passi successivi. Alle 19.30 partì un primo assalto dei carabinieri, un fronte di gas lacrimogeno per stanare i banditi e un fuoco continuo per abbatterli senza mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Risultato: le prime vittime, il dottor Gandolfi e il dottor Campi (che morirà alcuni giorni dopo. Alle 17 di venerdì 10 maggio partì l’assalto finale, un attacco improvviso e inaspettato, condotto in simultanea dall’interno e dall’esterno del carcere, con candelotti lacrimogeni e solito fronte di fuoco. Questa volta le vittime furono tre: l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, il brigadiere Gennaro Cantiello e l’appuntato Sebastiano Gaeta. Oltre ai due detenuti Concu e Di Bona. Il brigadiere Gennaro Cantiello, catturato tra gli ostaggi presi dai detenuti in rivolta, riuscì a trasportare il medico dell’istituto fuori della portata dei rivoltosi. Tornò poi volontariamente tra gli ostaggi per placare gli animi. Nell’epilogo della vicenda perse la vita. Riconosciuto "vittima del dovere" il 24 febbraio 1975 il Ministero della Difesa gli conferì la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Alla sua stessa memoria venne anche chiamata una motonave della Polizia Penitenziaria adibita al collegamento tra Porto Torres e l’isola dell’Asinara, dov’era ubicato un carcere di massima sicurezza. L’appuntato Sebastiano Gaeta nell’intento di evitare una strage, fece scudo col proprio corpo agli altri ostaggi sacrificando così la propria vita. Anche lui fu riconosciuto "vittima del dovere" e il 24 febbraio 1975 il Ministero della Difesa gli conferì la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria.

Reggio Calabria: reato, recupero sociale e giustizia riparativa

 

www.strill.it, 15 maggio 2009

 

"Tutti noi abbiamo un dovere, laddove possibile riportare alla legalità e "recuperare"quei soggetti che hanno commesso un reato". Incontro all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Reggio Calabria.

Con questo concetto, il direttore dell’Uepe di Reggio Calabria, Mario Nasone ha dato inizio all’incontro di riflessione sul tema della Giustizia Riparativa tenutosi presso l’aula didattica dell’Ufficio Esecuzione penale Esterna di Reggio Calabria, in collaborazione con il Centro Servizi al Volontariato Dei Due Mari di Reggio Calabria.

L’iniziativa ha segnato un momento importante: per la prima volta nella nostra realtà regionale si è avviata una riflessione tra gli operatori del Ministero della Giustizia, il volontariato ed una ventina di familiari delle vittime di mafia della provincia di Reggio Calabria.

L’incontro si è aperto con gli interventi del Presidente del Centro Servizi al Volontariato " Due Mari" Luciano Squillaci che ha sottolineato l’importanza della giustizia riparativa come strumento che può permettere di realizzare una sorta di restituzione del danno arrecato alla società. Nello stesso tempo consentire a dei soggetti in esecuzione penale di partecipare alla attività di volontariato significa di fatto offrirgli un nuovo punto di vista ed un’alternativa alla delinquenza ed all’illegalità.

L’Assistente Sociale dell’Uepe di Reggio Calabria Anna Maria Italiano, componente del gruppo lavoro che ha dato vita al progetto Giustizia Riparativa, ha presentato nel suo intervento il progetto si è soffermata sul lavoro svolto in questi ultimi dall’Uepe di Reggio Calabria ed in particolare, sul percorso seguito da 200 soggetti ammessi alle misure alternative alla detenzione che hanno svolto servizi di volontariato presso associazioni e parrocchie nella provincia di Reggio Calabria.

L’intervento del rappresentante di "Libera" Mimmo Nasone si è rivolto principalmente alle vittime del reato presenti all’incontro invitandole a "pretendere di ottenere la giustizia ordinaria ancor prima di quella riparativa,facendo riferimento alle lungaggini burocratiche che spesso i familiari delle vittime incontrano per vedere riconosciuti i loro diritti. Egli ha affermato inoltre che il perdono è possibile ma solamente dopo lungo percorso interiore e personale.

Debora Cartisano, la figlia del fotografo di Bovanino sequestrato ed ucciso dalla mafia. Debora ha raccontato il suo attuale impegno sociale presso l’associazione "Libera" e come, dopo lungo percorso personale, sia riuscita a perdonare i sequestratori di suo padre.

"Il perdono - dice Debora - non si può estorcere ma è un percorso personale e lungo che si può raggiungere solamente dopo aver elaborato il lutto". A suo giudizio le persone possono cambiare.

La sua è stata una scelta coraggiosa quando, nell’ultimo incontro del laboratorio "Se Caino Aiuta Abele " (percorso formativo svolto dall’Uepe presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria) ha deciso di raccontare la sua storia ai detenuti. In quest’incontro, per la prima volta alcuni reclusi, hanno avuto la possibilità di ascoltare quali e quante sofferenze e ferite profonde provoca la cultura violenta della "‘ndrangheta".

Tutto ciò ha avuto lo scopo di scuotere le coscienze dei detenuti che alla fine hanno donato un manufatto floreale, realizzato da loro stessi, invitandola a portarlo sulla tomba del padre. Nel corso dell’incontro altri familiari delle vittime del reato hanno raccontato le loro esperienze. Non solo perché per la prima volta queste persone hanno potuto confrontarsi sull’esperienze vissute ma anche è soprattutto perché hanno fatto sentire il loro dolore e quanto la loro vita è cambiata.

Rispetto alla possibilità di individuare dei percorsi riparativi ritiene che i familiari delle vittime possano dare un loro contributo per la definizione di nuove forme di dialogo attraverso cui sollecitare nel reo una spinta al cambiamento. Su questo tema si è aperto un dibattito nel quale i partecipanti hanno avuto modo di esprimere la loro opinione.

Secondo i familiari di Vincenzo Grasso, imprenditore di Locri ucciso dalla ndrangheta per essersi ribellato al racket"questo discorso è comprensibile solamente per quei giovani che si trovano sulla strada della delinquenza ma non ne hanno fatto un sistema di vita. Forse per questi si può aprire uno spiraglio verso il cambiamento". Il figlio del Maresciallo di polizia penitenziaria Filippo Salsone, ha ricordato l’attentato in cui 23 anni fa è stato ucciso il padre ed in cui egli stesso ha riportato gravi ferite. Si ritiene fortunato per essere sopravvissuto anche se la ferita più grande la porta nel cuore.

La moglie del Maresciallo Salsone afferma "forse perché ho lavorato nelle carceri per diversi anni credo che questo progetto è fattibile solo per quei detenuti che hanno commesso dei reati minori. Pertanto si può fare un discorso di riparazione del danno e di recupero sociale solamente per alcuni ma non certamente per tutti".

Il padre di Gianluca Congiusta, altro giovane ucciso nella Locride, aggiunge: "Mi batto per la certezza dell’espiazione della pena. La mia posizione non è una porta chiusa al progetto, ma trafficanti e mafiosi non si recuperano né si perdonano, anche se penso che si possa prendere in considerazione di poter raccontare la propria dolorosa vicenda proprio come ha fatto Debora". Sono d’accordo per avviare un percorso di giustizia riparativa per quei ragazzi che hanno commesso un reato d’impulso e non per chi invece "lo fa per mestiere".

La vedova Piromalli: "Ho fatto un percorso verso il perdono grazie ad una comunità religiosa ma non so ancora chi ha ucciso mio marito. Ritengo sia difficile perdonare un assassino e non so ancora se riuscirò mai a perdonare chi ha portato via mio marito".

Sullo stesso tenore la vedova Galluccio: "Mio marito ha visto o sentito qualcosa che non doveva ed a quel tempo avevamo un bimbo di due anni ed io ero in cinta. Non sono ancora pronta ad intraprendere un percorso di perdono ma la Giustizia Riparativa si può pensare solo per quei ragazzi minori e per quei giovani che ancora hanno la possibilità di cambiare strada".

Per la vedova Correale è giusto proporre e realizzare progetti di giustizia riparativa". Stefania Grasso aggiunge: "Il percorso che oggi è stato presentato non vuole spingere al perdono ma cerca piuttosto di offrire la possibilità, a noi vittime di mafia, di incontrarci ed organizzarci per aprire un confronto. Il percorso interiore del perdono lo può fare ognuno per proprio conto, ma insieme si può fare altro come raccontare la nostra esperienza per ribadire che stiamo dall’altra parte e far sentire la nostra voce, il nostro dolore.

Oggi, tutto ciò per noi rappresenta un’occasione da sfruttare per cui ragionando su questo tema bisogna fare qualcosa insieme di concreto perché da tutto ciò che abbiamo subito può nascere qualcosa di positivo per la nostra vita e per gli altri".

Il referente di "Libera Locride", Francesco Riggitano, ha parlato della sua esperienza personale e dei percorsi difficili ma non impossibili di uscita da situazioni devianza e illegalità citando il suo impegno sociale con i bambini appartenenti a famiglie della criminalità al fine di indirizzarli su un’altra strada e raccontare loro cosa la violenza produce.

Riprende la parola il Presidente Squillaci del Csv "Due Mari" che interviene per sottolineare quanto sia stato importante quest’incontro non solo per le vittime di mafia che hanno avuto la possibilità di ascoltare e di confrontarsi in un contesto diverso da quello che di solito avviene tra familiari negli incontri organizzati da "Libera", ma anche per tutti i presenti: "Il mondo del volontariato ed il Ministero di Giustizia hanno sentito per la prima volta la voce delle vittime". Per l’educatore del carcere di Reggio Calabria Emilio Campolo è importante che tutti diano un contributo affinché la pena sia realmente rieducativa ed in questa ottica ha sottolineato quanto sia stato importante per i detenuti l’incontro avuto con la Cartisano.

Chiude l’incontro il direttore Mario Nasone affermando che "bisogna costruire insieme un percorso per avviare un cambiamento. Non bisogna cadere nel buonismo ed è giusto che chi commette un reato ed ha scelto la strada dell’illegalità debba pagare i conti con la giustizia.

Quest’incontro voleva essere un primo momento di riflessione di un percorso difficile che abbiamo voluto avviare - al quale ne seguiranno altri - sul tema della Giustizia Riparativa ma anche su quello dei diritti delle vittime. Ha comunicato che prossimamente si avvieranno a Locri ed a Reggio Calabria due Agenzie di Inclusione Sociale che saranno rivolte sia agli autori dei reati che alla vittime della criminalità con la previsione di attivare sportelli per l’assistenza e la consulenza.

Con questo primo incontro si è cercato di avviare un dialogo per fare comprendere alle vittime di reato che da quest’esperienze traumatiche può anche nascere un impegno sociale, evitando di rimanere chiusi nel proprio dolore. Così come ha fatto Deborah Cartisano fare sentire la propria voce, smuovere le coscienze può contribuire affinché questi eventi dolorosi non si ripetano più. Questo è importante sia per chi ha sbagliato, sia soprattutto per chi rischia di essere coinvolto nel giogo della mafia e della devianza.

Bologna: domani varo di barca costruita da 4 detenuti dell’Ipm

 

Ristretti Orizzonti, 15 maggio 2009

 

Il progetto di costruire una barca all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Bologna è stato proposto alla Uisp dalla Direzione dell’Ipm. È stata la stretta collaborazione fra Uisp, l’Associazione Oltre e grazie al finanziamento della Fondazione Carisbo, che i volontari dell’Associazione I Compagni di Ulisse, affiliata Uisp, hanno potuto progettare la costruzione della barca.

I 3 volontari dei Compagni di Ulisse che vi hanno materialmente lavorato, hanno procurato il materiale pre-tagliato in kit e con l’attiva partecipazione e coinvolgimento di 4 ragazzi dell’istituto penale lo hanno assemblato e verniciato all’interno dell’Ipm. Dall’inizio di gennaio fino alla fine di febbraio - inizi di marzo 2009, è stata così costruita una barca classe Dingy 12, che sarà varata sabato 16 maggio ai Laghetti del Rosario a Bologna e che, una volta in acqua, resterà a disposizione dei ragazzi per lezioni di vela.

Al varo della barca parteciperà un ragazzo che ha partecipato alla costruzione usufruendo di un permesso premio, e sarà accompagnato da operatori dell’Istituto penale e delle Associazioni che hanno collaborato alla realizzazione del progetto. Al termine del varo la barca parteciperà al "2° trofeo di vela Usip Cup" che avrà luogo nei laghetti del Rosario.

Torino: Fiera Internazionale del Libro; "Un libro ti fa evadere"

 

Ansa, 15 maggio 2009

 

Dopo il grande successo dell’iniziativa alla Fiera della Piccola e Media Editoria di Roma, la Round Robin Editrice, alla sua prima presenza alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, rilancia presso il suo stand (Stand L-178 - padiglione 2) la raccolta di libri da destinare alle biblioteche delle carceri. "Un libro ti fa evadere", grazie a questa iniziativa qualunque libro portato nei giorni della fiera allo stand della Round Robin (o successivamente inviato presso la sede della casa editrice: Via Malaga 14, 00144, Roma, RM) verrà spedito in omaggio dalla casa editrice stessa alle biblioteche degli istituti penitenziari. Inoltre, chiunque intenda in questa maniera donare un libro ai detenuti avrà diritto presso la Fiera a uno sconto del 50% sui titoli della casa editrice.

Immigrazione: allarme di Napolitano; c’è retorica e xenofobia

 

La Repubblica, 15 maggio 2009

 

Rischio intolleranza, in Italia, perfino di xenofobia. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lancia un nuovo allarme. E chi ne conosce la cautela può immaginare quanto il passo sia stato ponderato. Parole pronunciate pochi giorni dopo i respingimenti dei barconi sul Mediterraneo, le accuse dell’Onu e della Cei al governo italiano, ma soprattutto nelle stesse ore in cui a Montecitorio ottiene il via libera il decreto sicurezza del governo.

Quel testo carico di polemiche per misure quali il reato di clandestinità e la "detenzione" degli extracomunitari nei centri per sei mesi. Dal premier ai ministri, tuttavia, nessuno nell’esecutivo si sente chiamato in causa dal monito del Quirinale. Il presidente Napolitano non fa riferimenti specifici, ma i toni di questi giorni, alcuni slogan, improbabili proposte, lo preoccupano.

"In Italia si va diffondendo una retorica pubblica che non esita ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia" dice intervenendo alla conferenza annuale del Centro europeo delle fondazioni. "Nei nostri paesi le differenze in termini di origini etniche, religiose e culturali sono aumentate" e c’è "il rischio che queste differenze si traducano in un fattore di esclusione", mentre l’Unione europea ci invita a promuovere "politiche di inclusione sociale dei nuovi poveri". Guai a rispondere con la mera conservazione e la difesa degli interessi nazionali". Applausi dalla platea del convegno.

"Non possiamo permetterci di dimenticare che siamo la parte ricca di questo pianeta" avverte il presidente. L’altra preoccupazione dell’inquilino del Quirinale è rivolta alla "dura crisi economica mondiale", il timore è che "non abbia ancora generato sfortunatamente tutti i suoi effetti in termini di povertà".

Napolitano ha finito da poco di parlare al convegno quando il premier Silvio Berlusconi esce soddisfatto dall’aula della Camera che ha appena approvato il pacchetto sicurezza. Le parole del presidente? "Noi siamo contro la xenofobia da sempre" taglia corto. E a chi gli chiede se il capo dello Stato si riferisca alla politica del suo governo, Berlusconi si schermisce: "Non so, chiedetelo a lui".

Un raggiante Umberto Bossi, pure lui in Transatlantico a margine del voto, è più tranchant. "Napolitano? Io ascolto la gente". Popolo, elettori, gente. È il refrain difensivo del Carroccio, anche il ministro Roberto Calderoli allontana dal partito il sospetto di xenofobia: "La retorica pubblica non ci appartiene. Le scelte effettuate dal ministro Maroni e dalla maggioranza sono la sola risposta possibile alle richieste che arrivano dal popolo".

Il presidente del Senato Renato Schifani getta acqua sul fuoco, "i toni accesi a volte fanno parte della politica, il capo dello Stato ha parlato di toni non di un paese xenofobo, naturalmente". Naturalmente. Invece la xenofobia c’è ma "è stata causata da decenni di lassismo" non dalle politiche del governo, secondo il repubblicano del centrodestra Francesco Nucara.

Il Pd invece si schiera senza incertezze col Quirinale. Il rischio xenofobia in Italia è "una preoccupazione giusta" per Massimo D’Alema, che rispolvera la proposta leghista del metrò per soli milanesi. Anna Finocchiaro parla di parole "sagge" del presidente, lei vede nel ddl appena approvato "germi di razzismo e xenofobia",

mentre dopo le parole di Napolitano, secondo Rosy Bindi, "il governo è in penoso imbarazzo". Il presidente ha ragione e "Bossi aizza la gente, come nazisti e fascisti facevano nel secolo scorso" accusa il segretario Prc Paolo Ferrerò. Grazia Francescato di Sinistra e Libertà invita il Quirinale a non firmare il pacchetto sicurezza quando passerà anche al Senato.

Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria, in condizioni disumane

 

Redattore Sociale - Dire, 15 maggio 2009

 

"La gente deve sapere cosa succede qui dentro: abbiamo trovato condizioni disumane". Sono le prime parole con le quali questa mattina un gruppo di consiglieri regionali del Lazio ha descritto le condizioni di vita all’interno del Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria, a Roma, al termine di una visita istituzionale.

"Casi di tubercolosi, condizioni igienico-sanitarie pessime, un recente tentato suicidio, carenza di organico, presenza di tossicodipendenti e infestazione di zanzare. Il tutto in un quadro alienante dove vivono circa 250 persone", riferisce il consigliere regionale Luisa Laurelli al termine della visita, condotta insieme ai colleghi Peppe Mariani, promotore dell’iniziativa, Enrico Fontana, Anna Pizzo, Augusto Battaglia e a Stefano Galieni, responsabile nazionale immigrazione del Prc.

I consiglieri hanno voluto visitare il Cie di Ponte Galeria per testimoniare ai giornalisti le drammatiche condizioni di vita interne, con un’improvvisata conferenza stampa in strada. "I reclusi che abbiamo incontrato - spiega Laurelli - ci hanno detto che preferirebbero il carcere a questa situazione. Almeno in prigione esistono programmi di recupero sociale. Questo è un limbo sospeso dove i diritti sono calpestati".

"Le condizioni sono disumane - aggiunge Mariani - si respira un clima angoscioso e ai reclusi viene dato da mangiare solo riso e pasta, con la conseguenza che tutti hanno problemi intestinali, e gli vengono date da bere solo due bottigliette d’acqua la mattina e due la sera".

"Nessuno lo sa ma qui dentro c’è anche il marito di Nabruka Minuni, la donna che si è suicidata giorni fa. Anche lui ha tentato il suicidio e ora ha una gamba rotta", sottolinea la consigliera Anna Pizzo, mentre Galieni avverte "che se passa la norma del Governo sull’estensione a sei mesi del tempo di permanenza nei Cie voi giornalisti dovrete venire spesso qui, visto che abbiamo incontrato diversi immigrati che ci hanno giurato di essere pronti al suicidio se dovranno restare qui dentro così a lungo". Il consigliere Augusto Battaglia denuncia come all’interno del Cie ci siano diversi reclusi italiani, "ragazzi nati da una famiglia di immigrati in Italia che una volta divenuti maggiorenni si ritrovano a diventare clandestini. Una cosa inaccettabile".

"Gli immigrati incontrati - conclude il consigliere Enrico Fontana - vivono in gabbie sovraffollate e senza aver commesso reati. Sono qui per essere solo identificati ed espulsi ma questi luoghi non hanno ragione d’essere: i Cie sono solo costosi prolungamenti delle carceri italiane". Nel Cie di Ponte Galeria erano presenti fino a questa mattina 149 uomini e 94 donne per un totale di 243 persone su una disponibilità di 364 posti. Ma al termine della visita di oggi, ecco arrivare un lungo pullman della polizia con a bordo una quindicina di immigrati visibilmente scossi. Di fronte alle telecamere che li riprendono si coprono il viso per la vergogna. E le statistiche dovranno essere aggiornate già dal pomeriggio.

 

 

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