Rassegna stampa 11 maggio

 

Giustizia: le novità previste nel disegno di legge sulla sicurezza

 

Ansa, 11 maggio 2009

 

Chi entra in Italia o vi soggiorna clandestinamente commette un reato, anche se non rischia il carcere. Per avere la cittadinanza si dovrà pagare una tassa di 200 euro. Le ronde diventeranno legali. Le straniere irregolari senza passaporto non potranno riconoscere i propri figli che diventeranno così adottabili. Sono queste alcune delle misure anti-stranieri contenute nel ddl sicurezza per approvare il quale il governo ha annunciato che chiederà domani tre voti di fiducia alla Camera, dividendo il testo in tre maxi-emendamenti.

Nei Cie fino a 180 giorni - L’extracomunitario potrà rimanere nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) fino a 180 giorni. Ora il periodo è di due mesi.

La tassa per avere la cittadinanza - Per avere la cittadinanza si dovranno pagare 200 euro. Per il permesso di soggiorno invece la tassa 00 euro per avere sarà fissata dai ministeri dell’ Interno e dell’Economia tra gli 80 e i 200 euro.

Carcere se si affitta a clandestini - Si rischia il carcere fino a tre anni se si dà in alloggio o si affitta anche una stanza a stranieri che risultino irregolari al momento della stipula o del rinnovo del contratto di locazione. Ma ci deve essere un ingiusto profitto.

Più facile matrimonio con musulmane - Per sposare una donna musulmana l’italiano dovrebbe convertirsi. Con la norma introdotta basterà che, con quelle provenienti da alcuni Paesi con i quali si è raggiunta un’intesa, ci sia una dichiarazione anche dell’ambasciata che non risultino casi ostativi per riuscire a contrarre matrimonio. Senza bisogno di conversione.

Registro dei clochard - I senza fissa dimora saranno schedati in apposito registro istituito presso il Viminale.

Sì alle ronde - Associazioni di cittadini potranno segnalare alle forze dell’ordine situazioni di disagio sociale o di pericolo. Saranno iscritte in elenchi e prioritariamente dovranno essere formate da ex agenti.

Fino a tre anni per l’oltraggio a pubblico ufficiale - Chi insulta un pubblico ufficiale rischia fino a 3 anni di carcere. Ma se si risarciscono agente ed Ente a cui questo appartiene, il reato si estingue. Nessuna condanna se è il pubblico ufficiale ad aver commesso atti arbitrari.

Intatti i poteri del procuratore antimafia - Li avevano limitati, ma ora si è tornati alla legge attuale. Pietro Grasso aveva chiesto che la norma del ddl cambiasse e c’é riuscito.

Inasprito il 41 bis - Detenzione più lunga di altri 4 anni. Si prevedono carceri "ad hoc" per i boss preferibilmente sulle isole. Più difficile per loro comunicare anche con l’esterno.

Albo per buttafuori e amministratori giudiziari - Anche i "gorilla" che vigilano sulla "pace" fuori dai locali dovranno avere particolari requisiti (li deciderà il Viminale) e avranno avere presto un loro albo. E un Albo ad hoc lo avranno anche gli amministratori giudiziari.

Più difficili le nozze con le badanti - Lo straniero che sposa un cittadino italiano dovrà restare in Italia per almeno due anni prima di ottenere la cittadinanza. I tempi si dimezzano se nascono o se si adottano figli.

No al riconoscimento per i figli di irregolari - Per accedere ai pubblici esercizi gli stranieri dovranno esibire re il permesso di soggiorno (tranne che per l’iscrizione dei figli alla scuola dell’obbligo). Altrimenti, essendo la clandestinità un reato, scatterà l’obbligo della denuncia. Le madri irregolari non potranno iscrivere i propri figli all’anagrafe e quelle sprovviste di passaporto non potranno neanche riconoscerli rendendoli così subito adottabili.

Obbligo di denuncia del pizzo per i costruttori - Per partecipare alle gare d’appalto i costruttori dovranno denunciare ogni tentativo di estorsione ai propri danni. Basterà anche una semplice dichiarazione di un pentito in un altro procedimento per estrometterli dalla gara. Avevano provato a cambiare la norma prevedendo che l’imprenditore dovesse diventare imputato prima di poter essere "fatto fuori" dall’appalto, ma poi è tornata alla versione originaria su richiesta della Lega.

Giustizia: disegno di legge sulla sicurezza apertamente razzista

di Piero Soldini (Responsabile Immigrazione Cgil Nazionale)

 

Aprile on-line, 11 maggio 2009

 

Il paradosso grottesco è che s’insiste con l’istituzione del reato di clandestinità, che rappresenta la madre di tutte le aberrazioni, di trasformare in "spie" tutti i pubblici ufficiali e non si vuole fare invece una cosa semplice per sanare la piaga della clandestinità: cioè "spiare" pardon "denunciare" dove gli immigrati irregolari lavorano in nero e offrire un’opportunità di regolarizzazione

Il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha manifestato il suo dissenso rispetto al pacchetto sicurezza mettendo l’accento sulle norme che riguardano i medici-spia e i presidi- spia mettendo in guardia il governo anche da probabili profili d’incostituzionalità di queste norme. Sembrerebbe che il governo e tutta la maggioranza compresa la Lega, abbiano accolto queste obiezioni e si apprestano a modificare queste specifiche norme, ma se non è una pantomima, oltre che una telenovela come ha dichiarato il Ministro Maroni, ci si dovrebbe spiegare perché le stesse obiezioni non riguardano i funzionari dello stato civile-spia che sono ancora contenuti nel Ddl sicurezza e che impediranno il matrimonio (diritto umano sancito dalla carta dell’Onu - art. 16) e la registrazione delle nascite e delle morti ed il riconoscimento di figli naturali. È evidente che anche per questa fattispecie valgano i fondanti motivi d’incostituzionalità di cui sopra.

Il paradosso grottesco è che s’insiste con l’istituzione del reato di clandestinità, che rappresenta la madre di tutte le aberrazioni, di trasformare in "spie" tutti i pubblici ufficiali e non si vuole fare invece una cosa semplice per sanare la piaga della clandestinità: cioè "spiare" pardon "denunciare" dove gli immigrati irregolari lavorano in nero e offrire un’opportunità di regolarizzazione. In questo modo la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari diventerebbero legali e la clandestinità patologica e criminale sarebbe isolata e più facilmente perseguibile.

Non si vuole fare perché le norme al di la del pretesto della clandestinità e della sicurezza, vogliono colpire gli immigrati e dare sfogo propagandistico ed elettorale ad una ondata di razzismo pericolosamente dilagante. In questo impianto legislativo s’incontrano come ulteriore materiale esplosivo le norme sulle ronde e sulla detenzione prolungata nei CIE che sembrava fossero cancellate ed invece sono state di nuovo inserite.

L’ispirazione razziale è confermata anche da altre norme che se analizzate razionalmente non hanno nulla a che vedere con l’immigrazione illegale e la sicurezza. Mi riferisco alla tassa di 200 euro per rinnovare il permesso di soggiorno o chi fa richiesta della cittadinanza, o la restrizione dei ricongiungimenti familiari, l’istituzione del permesso a punti, l’innalzamento della idoneità alloggiativa, tutte restrizioni e vessazioni persecutorie che riguardano lavoratori e cittadini immigrati regolari che pagano le tasse e rispettano le leggi di questo Stato.

Questo Ddl se approvato, rappresenta un vulnus gravissimo della nostra civiltà giuridica e dei valori di uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione ed avrà ripercussioni negative dirompenti sulla sicurezza, sulla coesione sociale e sulla convivenza civile della nostra comunità nazionale, nel breve, medio e lungo periodo.

Che il governo abbia posto la fiducia su questo provvedimento è un atto di arroganza nei confronti del Parlamento e di tutti quei deputati compresi molti della maggioranza che avevano rivendicato giustamente un voto di responsabilità e coscienza. Se questa legge sarà approvata senza significativi cambiamenti dovremo valutare tutte le possibili impugnazioni davanti alla Corte Costituzionale, e di Giustizia Europea non escludendo anche il ricorso al referendum abrogativo.

Giustizia: l’appello delle Associazioni cattoliche; rivedere il ddl

 

www.unimondo.org, 11 maggio 2009

 

"Viva apprensione" per le norme proposte e un nuovo appello al Governo e ai parlamentari per "soluzioni legislative che sappiano coniugare la tutela degli interessi dello Stato con il rispetto della dignità umana". Lo esprimono riguardo al "pacchetto sicurezza", a nome di numerose associazioni e organismi cattolici, le Acli, Caritas, Centro Astalli, Comunità di S. Egidio e Fondazione Migrantes. Con un comunicato le associazioni criticano diverse norme del Disegno di legge sulla sicurezza" (Ddl 2180) - che è prossimo al voto alla Camera e sul quale il Governo intende porre la fiducia - norme che "se approvate, influiranno negativamente sulla vita e la dignità delle persone e persino sul bene della sicurezza che pure esse intenderebbero tutelare".

"Durante il recente dibattito parlamentare - scrivono le associazioni - si è assistito con soddisfazione allo stralcio, dal disegno di legge, di previsioni come quelle che limitavano fortemente, per gli stranieri non in regola col permesso di soggiorno, l’accesso a servizi fondamentali come la salute e l’istruzione, attraverso le figure dei cosiddetti presidi-spia o medici spia.

"Tuttavia - avvertono - nel testo ancora all’esame della Camera continuano a permanere previsioni che suscitano perplessità, come, fra le altre, l’introduzione del reato di clandestinità, inidoneo di per sé a sconfiggere il fenomeno dell’immigrazione clandestina e solo gravoso per l’andamento della giustizia, ovvero per le vite di tante persone, che troppo spesso scontano l’estrema rigidità dei canali d’ingresso nel nostro paese ovvero gli eccessivi ritardi nei rilasci e nei rinnovi dei permessi di soggiorno".

"Tale reato - sottolineano le associazioni cattoliche - riproporrà la controversa questione già emersa per medici e presidi, in quanto potrebbe obbligare tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio (fra cui impiegati pubblici, vigili urbani, insegnanti, infermieri, etc.) a denunciare uno straniero irregolare".

Le associazioni giudicano inoltre "preoccupante" anche il divieto, per gli stranieri privi di permesso di soggiorno residenti in Italia, di effettuare atti di stato civile. "Tra le prime conseguenze di questa previsione ci sarebbe l’impossibilità di contrarre matrimonio ovvero di dichiarare la nascita e di riconoscere i propri figli.

Quest’ultima norma, in particolare, oltre a poter indurre le madri a gravi pratiche e rischi abortivi, esporrebbe i bimbi, privi di identità, al pericolo di essere tolti ai genitori naturali, dichiarati in stato di abbandono e quindi avviati all’adozione". Infine le organizzazioni cattoliche non condividono "la reintroduzione nel disegno di legge delle norme sull’allungamento della detenzione amministrativa all’interno dei Cie e sulle ronde cittadine che - sottolineano - opportunamente erano state stralciate dal decreto legge sicurezza".

Pur non criticando in questo appello la fiducia con la quale il Governo intenderebbe blindare il provvedimento legislativo, le associazioni chiedono un "ascolto attento" e una "riflessione paziente" da parte del legislatore e di "far seguire al dibattito parlamentare il suo iter naturale, rispondendo alle necessità attuali con fermezza, ma anche con lungimiranza e civiltà". "La nostra società - concludono - avverte la necessità di avviare un processo di integrazione, ricostruzione e rafforzamento, ma richiede tuttavia che questo avvenga attraverso un confronto sereno, aperto e paziente, che riguarda il futuro di tutti, senza sacrificare i diritti fondamentali delle persone".

La scorsa settimana le associazioni cattoliche e numerose altre organizzazioni della società civile avevano fortemente criticato la decisione del Governo di porre la fiducia per l’approvazione del "pacchetto sicurezza". In precedenza il presidente delle Acli aveva invitato i cento parlamentari che avevano chiesto al Presidente del Consiglio, per ragioni di coscienza, di non porre la fiducia sul ddl sicurezza e presentato proposte di emendamenti solo in parte accolte a "far valere le proprie ragioni anche di fronte a un voto di fiducia, facendo se necessario ricorso, di fronte all’impossibilità di una discussione in aula, allo strumento dell’obiezione di coscienza".

Giustizia: Berlusconi; ok ai rimpatri, "l'Italia non è multietnica"

di Liana Milella

 

La Repubblica, 11 maggio 2009

 

Altri 162 clandestini rispediti in Libia. E Berlusconi che sposa totalmente la linea del leghista Roberto Maroni, con un "non vedo alcuno scandalo nei rimpatri" detto a palazzo Chigi e subito seguito dall’annuncio di una prossima visita di Gheddafi in Italia, anche se giusto a ridosso del G8. E Frattini che legge i respingimenti come perfettamente "in linea con il patto europeo siglato a dicembre". E Maroni che, ignorando la condanna della Chiesa, ribadisce che andrà "avanti per questa strada", per cui "chi non è ancora entrato nelle nostre acque territoriali viene rimandato nei paesi di provenienza, mentre chi ci entra continuerà a essere accolto com’è sempre stato, valutando poi se ha o meno i diritti per restare in Italia". Sono ormai cinque i barconi ributtati sulle coste libiche, ma le critiche del Vaticano, dell’Onu, dell’opposizione sulla mancata identificazione che ignora qualsiasi possibilità di richiesta di asilo non smuovono il governo di centrodestra.

Il ministro dell’Interno va avanti, il premier lo sostiene. E ci mette anche una pezza d’appoggio politica. "La sinistra aveva aperto le porte, la sinistra era ed è quella di un’Italia multietnica: la nostra idea non è così, è quella di accogliere solo chi ha le condizioni per ottenere l’asilo politico" dice il Cavaliere mentre presenta il bilancio della sua politica estera a palazzo Chigi con il titolare della Farnesina Franco Frattini seduto alla sua destra. Nessuna modifica della Bossi-Fini, che pure il ddl sicurezza rimaneggia pesantemente in chiave restrittiva. Grande intesa con la Libia con cui, propaganda Berlusconi, "abbiamo chiuso un contenzioso che si trascinava da 40 anni con eccellenti possibilità per le nostre imprese che saranno in prima fila negli appalti". Ecco l’annuncio della prossima visita del leader libico che, in realtà, è quella stessa preannunciata per il G8 di luglio.

Nel governo nessun dissenso. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che l’aveva fatto a caldo, insiste nel dire che "è contrario ai respingimenti solo chi vuole contrastare le leggi e le regole italiane". L’invito alla cautela del presidente della Camera Gianfranco Fini ("Si potrebbe identificare chi ha diritto all’asilo") cade nel vuoto e fa pure infuriare Maroni perché "la lotta all’immigrazione clandestina o si fa o non si fa". "Trovo francamente incomprensibili alcune sue dichiarazioni e confesso di faticare a capire il suo disegno" chiosa polemico il ministro dell’Interno. Con lui sta il Guardasigilli Angelino Alfano perché "bisogna far comprendere che le nostre frontiere non sono una groviera".

Scontato l’appoggio pieno della Lega, in cui il ministro anti-immigrati per eccellenza Roberto Calderoli, agli Stati generali del Carroccio a Vicenza, se la piglia perfino con l’Onu che "parla male della Libia". E pure quello di Francesco Storace, il segretario della Destra, soddisfatto di una linea che non fa apparire l’Italia "come il paese di Bengodi". A sinistra è un coro di critiche, quelle di Antonio Di Pietro ("Sono provvedimenti razzisti e xenofobi") e quelle del governatore della Puglia Nichi Vendola ("Siamo di fronte a una vergogna internazionale"). Ma l’ex segretario dei Ds Piero Fassino per il secondo giorno insiste: "Il respingimento è negli accordi internazionali".

Giustizia: ma il futuro del Paese non ammette giochi di parole

di Cesare Martinetti

 

La Stampa, 11 maggio 2009

 

Ricominciamo daccapo e partiamo dalle parole. Che significa multietnicità? Risponde il vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli: "Il riconoscimento e la valorizzazione di differenti componenti etniche all’interno di una comunità". E che cos’è un’etnia? "Un aggruppamento umano fondato sulla forte affinità di caratteri fisico-somatici, culturali, linguistici, ecc.". Dunque, alla lettera, affermare che non si vuole un’Italia multietnica, come ha detto Silvio Berlusconi, significa non voler riconoscere né valorizzare le differenti etnie. È un programma politico. E difatti la Lega applaude.

Ma l’Italia è già davvero una società multietnica come ha detto ieri il segretario della Conferenza episcopale italiana in polemica con il capo del governo? Lo dicono, banalmente, i numeri degli stranieri presenti: grosso modo quattro milioni di regolari più un milione di clandestini. I più numerosi sono i romeni, oltre seicentomila persone. In una città come Torino, per esempio, appartiene a loro la maggior parte delle nuove imprese che si iscrivono alla Camera di Commercio. Interi settori del mercato dei servizi sono coperti da romeni: colf, badanti, infermiere, muratori, lattonieri, traslocatori, ecc.

Questa comunità, in altre parole, è ormai indispensabile al funzionamento della società italiana. Benché provenienti da un paese appartenente all’Unione europea anche i romeni sono un’"etnia". Dire che l’Italia non sarà multietnica significa che i romeni (e tutti gli altri) non saranno riconosciuti come una componente della nostra società? Tra meno di un mese si voterà per il Parlamento europeo e i romeni (ma anche polacchi, bulgari, slovacchi, sloveni...) potranno votare in Italia esattamente come capita agli italiani che sono residenti in Francia, o in Germania, o in Gran Bretagna.

A proposito di elezioni europee, proprio ieri il ministro degli Esteri inglese David Miliband, laburista, alla prima uscita in campagna all’Irish Centre di Hammersmith, non ha avuto esitazione a chiedere il voto per il Labour ai "milioni di stranieri residenti nella multietnica Gran Bretagna contro la minaccia fascista rappresentata dal British National Party". Ha detto proprio così, "fascista", per definire gli estremisti di destra che giocano sui sentimenti antistranieri e che in elezioni a sistema proporzionale rischiamo di mandare qualche deputato a Strasburgo. E Miliband non è un pericoloso estremista di sinistra ma un quarantenne blairiano che se la giocherà nella prossima battaglia per la leadership.

In Francia Nicolas Sarkozy ha cominciato a costruire la sua conquista dell’Eliseo da ministro dell’Interno nel 2002, all’indomani di quelle elezioni presidenziali segnate dallo choc del 21 aprile, quando fu il fascista Le Pen e non il socialista Jospin a guadagnare il ballottaggio con Chirac cavalcando le paure e gli slogan anti-immigrati. Sarkozy ha cominciato subito il confronto con Le Pen, ma l’ha combattuto, non si è alleato. Con una politica "musclé", dura, spigolosa, dai toni talvolta sgradevoli (i teppisti di banlieue chiamati "racaille", la promessa di ripulire i quartieri con il "karcher", la pompa degli spazzini) ma mai ha pensato di mettere in dubbio il carattere multietnico di una società che ha il dieci per cento di musulmani. Anzi ha creato le istituzioni per il dialogo con i "barbuti" nel paese che ha vissuto per anni la favola della sua nazionale di calcio black-blanc-beur, nera-bianca-araba.

Allora: multietniche sono la Francia e la Gran Bretagna, più di noi e prima di noi grazie al loro passato coloniale e di potenze globali ante-globalizzazione. Multietnici sono gli Stati Uniti di Barack Obama. Multietnica è e sarà l’Italia dove secondo uno studio di Caritas e Unioncamere nel 2050 gli stranieri potrebbero rappresentare il 20 per cento della popolazione e i figli degli immigrati saranno in maggioranza nelle nostre scuole.

Il punto vero non è una battaglia sulle parole - multietnici sì, multietnici no - ma è come governare questo processo. Con le vetture differenziate per soli milanesi nel metrò? Con i proclami che non arrestano la pressione biblica che dal cuore dell’Africa si riversa sulle sponde del Mediterraneo? Tutti sappiamo quanto sia difficile la convivenza, quanto sia giustificabile nei quartieri popolari il senso di ingiustizia che si prova si fronte all’impunità delle bande "etniche" che rivaleggiano con quelle italiane per la conquista dei territori dove lo Stato arretra. Non succede solo in Italia. In Francia il ministero dell’Interno ha censito una cinquantina di quartieri di banlieue che si ammettono "perdu", perduti, per la République. Noi abbiamo zone di mafia e di camorra che non sono mai nemmeno stati conquistate. Ma bisogna sapere che bisognerà attrezzarsi a gestire una società multietnica e non a giocare con le parole per banali ragioni elettorali.

Giustizia: l'amnistia ai terroristi? Cossiga e il dibattito tra i Poli

 

Adnkronos, 11 maggio 2009

 

Il presidente emerito chiede di fare un passo decisivo per chiudere con gli anni di piombo. Freddezza negli schieramenti politici. Olga D’Antona: "i tempi non sono maturi. Finché ci sono irriducibili nelle carceri, la pacificazione è impossibile". Pecorella: "Amnistia per reati politici non di sangue".

"Io capisco il senso della proposta del presidente Cossiga ma, fino a che ci sono irriducibili nelle carceri, una pacificazione non è possibile". Così Olga D’Antona, parlamentare del Pd e moglie del professor Massimo D’Antona ucciso dalle Br, commenta all’Adnkronos la proposta del presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, sull’amnistia per i terroristi, dopo l’incontro tra le vedove di Luigi Calabresi e Giuseppe Pinelli.

"Credo che i tempi, per un atto del genere, non siano maturi e - osserva Olga D’Antona - credo che anche la famiglia Biagi, la famiglia Petri siano d’accordo con me. Perché, ripeto, finché ci sono gli irriducibili, che dalle carceri portano avanti le loro ideologie distruttive, non ci sono le condizioni per una pacificazione".

"Per arrivare a una pacificazione - aggiunge - non basta solo una parte, occorre che entrambi le parti siano consapevoli. Per non parlare dell’esigenza che si arrivi prima a una verità sui tanti misteri degli Anni Piombo prima di passare, per così dire, un colpo di spugna e chiudere quella pagina".

"I tempi non sono maturi per dire: chi ha sbagliato non deve pagare. E chi non è stato in galera, chi è fuggito non può sperare in un colpo di spugna", afferma da parte sua il ministro della Difesa Ignazio La Russa .

Dice no alla proposta rilanciata dal senatore a vita Cossiga anche il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli: "Sono contrario alle amnistie e agli indulti - spiega - Io sono per la certezza della pena, non possiamo vivere passando da indulti e amnistie". "Chi ha commesso reati ed è stato giudicato - rimarca l’esponente del Pdl - deve scontare la pena, se ritiene può chiedere la grazia. Ma le amnistie ad personam o ad stragem non mi trovano d’accordo".

"Pur comprendendo lo spirito con cui il presidente Cossiga ha avanzato la proposta di amnistia, non posso che dichiararmi del tutto contrario alla stessa. I cittadini da troppo tempo vogliono certezza della pena. Altro che provvedimenti di clemenza". È la posizione di Giuseppe Consolo, del Pdl, vicepresidente della Giunta delle Autorizzazioni di Montecitorio.

"Come ebbi ad affermare in occasione del varo dello sciagurato provvedimento di indulto - aggiunge - questi provvedimenti di clemenza servono solo ad indebolire la già scarsa credibilità che i cittadini hanno verso la giustizia italiana. Una giustizia da troppo tempo malata, che solo la certezza della pena e non certo il perdono può contribuire ad avviare verso la guarigione".

Sì all’amnistia per i reati associativi politici, non per quelli di sangue: è la linea di Gaetano Pecorella, penalista, deputato del Pdl. "Se c’è ancora qualcosa in piedi - spiega - l’amnistia potrebbe essere un modo per chiudere il conto, ma solo per i reati politici, associativi, che trovavano collocazione in un contesto di utopia politica. Diverso il discorso per i reati di sangue, omicidio, tentato omicidio: in questo caso l’amnistia non mi trova favorevole, perché si tratta di delitti che non si giustificano in un quadro democratico, perché non c’era in corso una lotta per la rivoluzione".

"A Mario Calabresi e agli esponenti torinesi del Pd va la solidarietà forte e affettuosa per le scritte insultanti, opera di una manica di imbecilli. A tutti, però, sento di rivolgere un appello altrettanto sincero: la riconciliazione è un passo importante ma prima di pensare all’amnistia per i delitti di quegli anni si rende necessario un supplemento di riflessione", sottolinea il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli.

Giustizia: Cassazione; sì liberazione anticipata e "condizionale"

 

Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2009

 

La liberazione condizionale pesa sula liberazione anticipata. L’importante principio della Cassazione penale con la sentenza n. 17342/09 chiarisce meglio il calcolo del beneficio penitenziario della liberazione anticipata. Secondo le norme, si devono detrarre, dalla pena complessivamente applicata, 45 giorni per ogni semestre di pena scontata.

Purché il condannato abbia dato prova di partecipare all’opera di rieducazione. La questione posta dalla cassazione è allora la seguente: la detrazione può essere concessa per i periodi trascorsi in liberazione condizionale? Secondo la pria sezione la risposta è positiva, nonostante l’art. 54 dell’ordinamento penitenziario sia stato interpretata in maniera più restrittiva, si è ritenuto cioè che condizione per concedere il premio fosse uno stato detenzione.

Giustizia: un’interrogazione parlamentare per Niki Aprile Gatti

 

Asca, 11 maggio 2009

 

Un’interrogazione parlamentare per fare luce sul caso Niki Aprile Gatti è stata presentata lo scorso 20 aprile in Commissione Giustizia dalla parlamentare del Pd, di origini Avezzanesi, Anna Paola Concia.

Niki venne arrestato il 19 giugno 2008, a Cattolica, giovane informatico di 26 anni originario di Avezzano, con l"accusa di associazione per delinquere, truffa informatica e riciclaggio; 4 giorni dopo il giovane muore, impiccato, nel bagno della sua cella con una corda formata da stringhe e jeans. Per i genitori, sono oscuri i motivi che avrebbero portato al gesto estremo del ragazzo, a soli quattro giorni dall’arresto; un ragazzo pieno di vita, che la sera prima, come hanno riferito gli agenti del carcere, aveva conversato con loro e pareva tranquillo. Da mesi la madre lotta per conoscere la verità sul proprio figlio ed è giunta finalmente in parlamento una prima voce che si spera possa cominciare a far luce ad una vicenda dai lati oscuri.

Concia. - Al Ministro della giustizia.- Per sapere - premesso che:

il 19 giugno 2008, a Cattolica, viene arrestato Niki Aprile Gatti, giovane informatico di 26 anni originario di Avezzano, con l’accusa di associazione per delinquere, truffa informatica e riciclaggio; 4 giorni dopo il giovane Niki, muore, impiccato, nel bagno della sua cella con una corda formata da stringhe e jeans;

il giovane viene arrestato insieme ad altre 18 persone, alcune facenti parte dell’azienda di cui non risulta essere titolare, ma socio, con una partecipazione al capitale sociale pari 7.900 euro;

il 19 giugno 2008 al momento dell’arresto il ragazzo, a differenza di quanto riferito alla madre, viene immediatamente portato al carcere di Sollicciano, mentre ai familiari viene spiegato che Niki è stato inizialmente portato al carcere di Rimini e poi trasferito a Firenze; i parenti, ed in particolare la madre, non vengono comunque mai avvertiti dei presunti trasferimenti del ragazzo;

in occasione dell’interrogatorio di garanzia, tutti gli imputati ricusano l’avvocato, e Niki, è l’unico che accetta di parlare con il magistrato proprio per manifestare l’intenzione di spiegare la propria posizione a differenza degli altri coimputati che si avvalgono della facoltà di non rispondere; al termine, mentre per tutti gli altri indiziati vengono disposti gli arresti domiciliari, Niki è l’unico al quale viene confermato il carcere;

il giovane, inoltre, chiede di essere cambiato di cella, in quanto nella sua vi erano due detenuti uno dei quali, in passato, nel corso di una discussione, aveva puntato il coltello alla gola di un suo compagno;

inutilmente i genitori aveva cercato di rientrare in possesso dei beni del ragazzo, che risiedeva a San Marino, ma alcuni giorni dopo l’appartamento viene trovato completamente svuotato non solo dei computer, che sarebbero stati utili alle indagini, ma anche dei suppellettili e degli effetti personali del giovane;

per i genitori, sono oscuri i motivi che avrebbero portato al gesto estremo del ragazzo, a soli quattro giorni dall’arresto; un ragazzo pieno di vita, che la sera prima, come hanno riferito gli agenti del carcere, aveva conversato con loro e pareva tranquillo -:

quali iniziative intenda adottare, nell’ambito delle sue competenze, al fine di fare piena luce sulla morte di Niki Aprile Gatti, un giovane ragazzo di 26 anni trovato senza vita nel bagno della sua cella del carcere di Sollicciano a soli quattro giorni dall’arresto.

Giustizia: Osapp protesta per affollamento in Puglia e Basilicata

 

Ristretti Orizzonti, 11 maggio 2009

 

Nota del vicesegretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp), Domenico Mastrulli. Il vicesegretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp), Domenico Mastrulli, in una nota annuncia manifestazioni in Puglia e in Basilicata per protestare contro la mancanza di risposte al problema del sovraffollamento esistente nelle carceri. "Il sovraffollamento in Puglia - sostiene Mastrulli - ha raggiunto punte storiche e si accinge a superare la soglia delle quattro mila persone: uomini e donne accatastati in angusti e ridimensionati spazi sotto il controllo di una polizia penitenziaria sempre più striminzita nelle sue dotazioni organiche".

In Italia ci sono circa 62.000 detenuti "a fronte di una Polizia Penitenziaria di 42.000 uomini e donne". Il sindacato "denuncia e contesta le dotazioni organiche del 2001. Servirebbe - si sottolinea - un incremento di 10.000 uomini e donne in aggiunta a quelli esistenti" e negli istituti di pena i poliziotti sono costretti "a turni massacranti". La denuncia riguarda anche le strutture penitenziarie "ormai fatiscenti".

Porto Azzurro: un detenuto albanese tenta il suicidio, lo salvano

 

Il Tirreno, 11 maggio 2009

 

Aveva pianificato tutto, l’ora (quando in cella con lui non c’era nessuno e le guardie erano lontane), le modalità. Non aveva, però, fatto i conti con il senso di professionalità degli agenti e il suo intento di darsi la morte col gas della bomboletta che si usa per fare il caffè è fallito. Fallito al punto da suscitare una tremenda reazione che ha scaricato addosso a coloro che invece lo avevano salvato e, come hanno raccontato gli stessi protagonisti, sono riusciti a "prenderlo per i capelli" e riportarlo in questo mondo, lui che era quasi aldilà.

Ma si vede che, in questo mondo, proprio non aveva più intenzione di restarci, così che se l’è presa con i suoi soccorritori cominciando a menare calci, spinte e pugni non appena ha preso coscienza che non si trovava davanti a San Pietro, bensì al solito agente che quotidianamente lo visita per l’appello e il contrappello serale.

Così G.P., 47enne di nazionalità albanese, ha fallito il suo tentato suicidio e ora si trova in infermeria del forte San Giacomo per le cure del caso.

Raccontano gli agenti di custodia. "A insospettirci che qualcosa non andava per il verso giusto - dicono - è stato il forte odore di gas che si respirava nel corridoio. Fatta una verifica, abbiamo capito da quale cella proveniva. Quando siamo entrati - aggiungono - abbiamo trovato G.P. riverso sul pavimento e già cianotico.

Abbiamo chiuso la bomboletta del gas e provveduto a togliere dalla finestra e dalla fessura della porta gli stracci che aveva messo, areato l’ambiente mentre alcuni di noi provvedevano a far riprendere conoscenza al detenuto. Quando poi ha capito come stessero le cose, ha cominciato a menare calci e pugni a chi gli si faceva sotto".

Cagliari: il vertice sulle carceri sarde, con il Capo del Dap Ionta

 

La Nuova Sardegna, 11 maggio 2009

 

Il direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta sabato mattina ha reso visita ai direttori delle carceri sarde e al direttore regionale Massidda in un incontro programmato da tempo. Durante l’incontro è stato fatto il punto della situazione carceraria nell’isola. Si è trattato di una riunione di tipo istituzionale che viene ripetuta a scadenze regolari. Ionta è stato pubblico ministero a Palermo.

È arrivato alle 10, si è recato subito in via Tuveri 22 sede dell’amministrazione penitenziaria regionale, ad attenderlo c’erano i direttori degli istituti di pena sardi e il responsabile regionale. Il colloquio è durato fino all’una, poi l’alto dirigente ha lasciato la città. Non sono state rilasciate dichiarazioni, ma non sarebbe stato trattato l’argomento che si credeva fosse la ragione della visita di Ionta: un’ipotizzata riapertura del carcere dell’Asinara.

Poco probabile forse, ma di recente era riaffiorata l’idea di un nuovo insediamento penitenziario a regime leggero nell’isola-parco, che era stata contestata da tutti i partiti, così come la possibilità che l’Asinara venisse riaperto come carcere di massima sicurezza per i mafiosi. Ionta quindi sarebbe arrivato in Sardegna per discutere sui motivi delle proteste degli agenti di polizia penitenziaria che in questi ultimi mesi hanno resi noti i motivi del profondo malessere vissuto ormai in tutti gli istituti di pena sardi dove è quasi impossibile applicare le leggi sul reintegro sociale dei detenuti per le gravi carenze di organico.

Gli agenti sono sempre più penalizzati nei giorni di riposo e di ferie, ormai impossibili da fare, e anche le attività interne alle carceri subiscono stop non rimediabili per la mancanza di personale. In questo modo si accumulano numerose giornate di assenza che rischiano di creare gravi problemi per l’organizzazione del lavoro e la garanzia della sicurezza.

Nuoro: le ferie impossibili… la protesta degli agenti penitenziari

 

La Nuova Sardegna, 11 maggio 2009

 

Ferie impossibili la prossima estate per gli agenti penitenziari del carcere nuorese di Badu ‘e Carros, che hanno deciso di farsi sentire.

Ferie impossibili la prossima estate per gli agenti penitenziari del carcere nuorese di Badu ‘e Carros. Lo sostengono i sindacati in un appello alle varie autorità competenti dove, in previsione dell’aumento del carico di lavoro che si registra sempre nel periodo delle vacanze, si sottolinea come per la mancanza di personale nel penitenziario già oggi sia impossibile garantire i turni di riposo ordinari. Per rafforzare la denuncia stamattina i sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil insieme a Sinape, Osapp, Cnpp, Uspp e Sappe, hanno tenuto un sit-in di protesta davanti all’istituto di pena. Secondo i dati diffusi dai sindacati, nel 2001 l’organico di polizia penitenziaria ideale per Badu ‘e Carros era stato prima fissato nel 2001 in 264 unità ridotti poi a 212, mentre.

Attualmente nel carcere sono in servizio 179 agenti, ma per assicurare i livelli minimi di servizio occorrono, giornalmente 146 unità. Una situazione definita da tutti i sindacati insostenibile che rischia di aggravarsi nello scenario provinciale "visto - hanno scritto i rappresentanti dei lavoratori nel documento diffuso durante il sit-in - il recente ed improvviso inserimento di un altro carcere della provincia nel circuito nazionale detentivo denominato Eiv (Elevato Indice di Vigilanza) che prevede la custodia di detenuti particolarmente pericolosi in un istituto non pronto sotto l’aspetto del numero del personale a far fronte a quell’emergenza ha sottratto ulteriore personale a questa sede già gravemente in difficoltà pertanto è evidente che le problematiche descritte si allargano a tutto il territorio provinciale".

Modena: sì alla prevenzione, no ai finanziamenti per il carcere

 

La Gazzetta di Modena, 11 maggio 2009

 

"Siamo pronti a sostenere concretamente e anche a ospitare l’Osservatorio sulla criminalità a Modena proposto dal procuratore della Repubblica Vito Zincani. Il confronto può iniziare immediatamente, fin da ora il Comune si sente impegnato in un intervento che risponde pienamente alla nostre politiche ed alle nostre funzioni nel campo della prevenzione". Lo sostiene il sindaco Giorgio Pighi, concordando con l’idea lanciata dal pm Vito Zincani.

"Le politiche integrate di sicurezza del Comune di Modena, infatti, si muovono in più direzioni - ha detto ancora Pighi - ma tutte convergono verso l’obiettivo, appunto, della prevenzione dei fenomeni: controllo del territorio con l’aumento dei vigili e la videosorveglianza; risanamento e recupero delle aree più a rischio; attenzione e vigilanza sull’evoluzione dei fenomeni criminosi; educazione alla legalità.

La proposta del procuratore Zincani, quindi, rientra a pieno titolo tra gli interventi che l’amministrazione comunale può e deve sostenere nell’interesse dei cittadini modenesi. Siamo pronti a partecipare finanziariamente ed anche a mettere a disposizione il patrimonio di dati e conoscenza che abbiamo accumulato in 10 anni di ricerche sul campo".

Ieri, invece, esponenti del centro destra hanno chiesto ad amministrazione e fondazioni bancarie di intervenire per cercare di risolvere il problema del carcere Sant’Anna, dove la situazione è eslosiva: sovraffollamento, carenza di organico fra le guardie penitenziarie, anche tre detenuti in una cella da uno costretti a volte a dormire per terra. La richiesta di intervento - lanciata da Isabella Bertolini al termine di una visita insieme al presidente della Commissione giustizia del Senato Filippo Berselli - viene definita "ipotesi a dir poco fantasiosa" da Pighi.

"Il Comune di Modena non è certo indifferente o assente rispetto ai problemi del carcere - dice il sindaco - ma agisce nell’ambito della proprie competenze che sono soprattutto di natura sociale, come abbiamo fatto e continueremo a fare. Noi, però, abbiamo il compito primario di far funzionare asili nido, scuole materne, strutture per anziani e servizi per i cittadini, mentre il funzionamento del carcere è indiscutibilmente compito diretto dello Stato e del Governo: scaricare tale responsabilità sulle comunità locali è un’operazione scorretta, al limite del cinismo politico".

"Detto questo - prosegue Pighi - non escludiamo la possibilità di un confronto anche su questi temi, ma a condizione che lo stato restituisca al Comune quanto anticipato negli ultimi anni per il funzionamento della giustizia: sono almeno quattro milioni di euro che potremmo reinvestire immediatamente sempre a favore della giustizia, della lotta alla criminalità e del sostegno a quanti operano in questi settori. Questo è un obiettivo concreto".

Anche il senatore Pd Giuliano Barbolini boccia la richiesta di intervento di Comune e fondazioni bancarie per risolvere i problemi del carcere: "Giusto sollevare il problema del sovraffollamento e delle condizioni insopportabili in cui sono costretti a vivere sia i detenuti che le guardie carcerarie. Il problema esiste, è grave ed è stato denunciato più volte in passato da esponenti di tutte le forze politiche.

Ma proprio per questo trovo singolare che su una questione di tale rilevanza per il territorio modenese siano stati coinvolti solo esponenti del centrodestra i quali, peraltro, hanno colto l’occasione per fare ancora una volta propaganda muovendo accuse del tutto gratuite agli enti locali. Va bene il federalismo e il principio di sussidiarietà, ma esistono prerogative dello Stato che non possono essere surrogate dagli enti locali né tantomeno dalle fondazioni bancarie. Non si possono attuare politiche di tagli indiscriminati e poi scaricare sugli enti locali le inefficienze dello Stato".

Finita sulla graticola per la sua proposta, l’onorevole Isabella Bertolini del Pdl contrattacca Barbolini e il Pd: "Prendo atto che il Pd, attraverso il sen. Barbolini, non si adopererà con gli enti locali e le fondazioni bancarie per cercare di rendere più agevole il lavoro della polizia penitenziaria di Modena. È un vero peccato, oltre che una grave scelta politica. Io invece, a differenza della sinistra, continuerò la battaglia perché le condizioni del carcere di Modena siano rese accettabili. Ho chiesto agli enti locali e alle fondazioni un contributo tangibile, perché spesso hanno finanziato progetti utili per la collettività e questo è uno di questi casi. Gli esempi si sprecano".

"Perché non farsi carico dell’adeguamento dell’impianto di videosorveglianza del carcere, oppure del potenziamento della dotazione tecnologica, strumentale e strutturale della polizia penitenziaria di Modena? Sono delle possibilità di aiuto concreto, che devono essere perseguite se pensiamo che la sicurezza sia importante. Fino ad oggi l’impegno degli enti locali è stato inesistente. Ora la scelta è tra fare funzionare le cose o lasciare tutto come è oggi".

Mantova: nel carcere di Revere sabato sopralluogo dei Radicali

 

La Gazzetta di Mantova, 11 maggio 2009

 

Un sopralluogo per mettere l’accento sullo stato di degrado del carcere di Revere. C’erano una decina di simpatizzanti e iscritti ai Radicali, ieri, ad accompagnare i due parlamentari Maria Antonietta Farina Coscioni e Maurizio Turco, con i candidati Michele Rana e Sergio Ravelli, alla visita alla struttura carceraria incompiuta da 19 anni.

Un’ispezione di protesta contro il piano Alfano, che secondo i Radicali non risolve il problema del sovraffollamento. "È una truffa ai danni degli italiani - dice Michele Rana, candidato per il Nord ovest alle Europee - tante strutture non sono nemmeno state attivate. Questo è il sintomo di un regime che dice di voler perseguire obiettivi di miglioramento delle carceri e invece non fa nulla". Rana ricorda che in Italia ci sono 21mila detenuti in più rispetto alla capienza delle strutture, "oltre a violare i diritti sanciti dalla Costituzione italiana crea una situazione di disagio anche tra la polizia penitenziaria. Gli stessi agenti sono in pericolo: l’anno scorso ci sono stati 650 feriti in collutazioni".

Per accelerare la costruzione di nuove carceri si dovrebbe fare ricorso, secondo il ministro Alfano, ai privati e i tempi delle autorizzazioni saranno dimezzati. Per il carcere di Revere i lavori erano iniziati nel 1988 e mai finiti. Sospesi dal 2000 e mai più ricominciati. I penitenziario doveva costituire prima una casa di detenzione circondariale, poi un istituto per la custodia attenuata dei tossicodipendenti. In realtà è da anni un ammasso d’erbacce, muri scrostati, controsoffittature cadenti. Nelle intenzioni dell’allora governo avrebbe dovuto avere 60 posti.

Milano: detenute di Bollate confezionano toghe per i magistrati

 

Ansa, 11 maggio 2009

 

Singolare iniziativa nel carcere milanese di Bollate. Sei detenute hanno infatti confezionato e venduto le toghe al giudice Paolo Ielo e ad altri 15 neo magistrati. Ad ideare il tutto, Giovanna Di Rosa, Magistrato di Sorveglianza di Milano, su proposta della Cooperativa Alice, che gestisce i laboratori di sartoria di Bollate e S. Vittore.

I magistrati si sono recati nel laboratorio della cooperativa per ordinare le toghe. Le responsabili della cooperativa e le detenute si sono quindi intrattenute con loro per raccontare come l"apprendimento della pratica sartoriale costituisca un valido strumento di inserimento nella società", mostrando subito la loro competenza. "Un"occasione questa - e" stato commentato - che e" servita anche ad avvicinare sul piano umano sia i giudici che i giudicati. Si tratta della prima iniziativa del genere in Italia e forse nel mondo". A ricevere la prima toga e" stato il giudice Ielo, prima del suo trasferimento a Roma.

Catanzaro: in carcere da innocente e 5mila euro di risarcimento

 

Agi, 11 maggio 2009

 

Ventidue giorni in carcere da innocente valgono un risarcimento di poco più di 5mila euro. È l’indennizzo per l’ingiusta detenzione che la Cassazione ha riconosciuto a un 60enne di Catanzaro, Giorgio F., per avere patito 22 giorni di ingiusta detenzione. E le ripercussioni sui familiari? "L’indennizzo - dicono i supremi giudici - è destinato a riparare il pregiudizio subito da colui che ha subito la detenzione e non quello dei suoi familiari".

In questo modo, la Quarta sezione penale ha bocciato il ricorso di Giorgio F. che lamentava come la Corte d"appello di Catanzaro, nel gennaio 2008, nel riconoscergli lo scarso indennizzo non avesse tenuto conto del fatto che "il figlio, due mesi dopo l’arresto, per la vergogna aveva abbandonato gli studi" e che "la moglie in concomitanza del periodo di detenzione era peggiorata di salute".

Nel bocciare il ricorso, piazza Cavour ha pure condannato Giorgio F. a rifondere 500 euro al ministero delle Finanze per le spese processuali sostenute. Nel dettaglio, la Suprema Corte ha evidenziato come "la Corte di appello ha ritenuto privi di rilevanza l"abbandono scolastico del figlio e la diminuita capacità patrimoniale in quanto privi di prova che li riconducesse alla detenzione subita". Quanto al "peggioramento delle condizioni di salute della moglie", la Cassazione ha insistito sul fatto che "l’indennizzo" per l’ingiusta detenzione patita "è destinato a riparare il pregiudizio subito da colui che ha patito la detenzione e non già quello dei suoi familiari".

Torino: l'Osapp; detenuto aggredisce due agenti con una sedia

 

La Repubblica, 11 maggio 2009

 

Nuova aggressione nel carcere delle Vallette. Due assistenti della polizia penitenziaria sono stati colpiti con una sedia da un detenuto di 49 anni, all’ergastolo per avere ucciso in Sicilia una bambina di 6 anni, nel 1990. A denunciare l’ episodio è Gerardo Romano, segretario dell’Osapp, uno dei sindacati autonomi di categoria. "È l’ennesimo fatto grave - ripete Romano - e gli agenti sono esasperati: la situazione nei nostri istituti non è affatto sotto controllo come si vuole far credere. Chiediamo maggiori tutele per preservare la sicurezza di tutto il personale".

Immigrati: Consiglio Europa; fermate politica dei respingimenti

 

Adnkronos, 11 maggio 2009

 

Il commissario per i Diritti umani Hammarberg: "L’iniziativa italiana mina totalmente il diritto di ogni essere umano di ottenere asilo". Malta non autorizza l’ingresso nel porto della nave Spica, della Marina Militare, che portava 69 migranti salvati stamane nel canale di Sicilia. Non si esclude un nuovo respingimento in Libia. D’Alema contro le frasi di Berlusconi sul no all’Italia multietnica: "Hanno ragione i vescovi". Bossi: "Le idee della Lega fanno proseliti".

Il respingimento degli immigrati clandestini verso la Libia "è un’iniziativa molto triste", che "mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza, ricorrendo al diritto d’asilo". Questo il messaggio lanciato dal commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, interpellato da Adnkronos International. "L’iniziativa italiana mina totalmente il diritto di ogni essere umano di ottenere asilo", afferma Hammarberg, che aggiunge: "Spero che l’Italia non vada avanti con questa politica". Insomma, quella trovata dal governo italiano per rispondere all’emergenza sbarchi "non è una buona soluzione", ha sottolineato ancora Hammarberg dicendosi "totalmente in linea con le posizioni espresse dal Vaticano".

"Queste persone - ha avvertito Hammarberg contattato telefonicamente nel corso di una sua missione a Madrid - devono avere una chance per ottenere asilo. Ora in Italia tutto questo diventa impossibile". Il commissario per i diritti umani ha tuttavia spezzato una lancia in favore del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, invitando l’Unione europea a fare di più per sostenere il nostro Paese a rispondere all’emergenza sbarchi. "Credo che il ministro Maroni agisca in questo modo perché a Bruxelles ha trovato soltanto il silenzio dell’Ue" ha detto Hammarberg.

In questo contesto, ha avvertito ancora, "anche l’Unione europea deve essere più responsabile e seria, mettendosi all’ascolto di quei Paesi come l’Italia o Malta che a nome di tutta l’Unione devono affrontare questa sfida". "Spero davvero che l’Unione europea aiuti maggiormente l’Italia", ha concluso il commissario.

Intanto sono sorte nuove tensioni fra Malta e Italia dopo la vicenda della Pinar. Le autorità maltesi non hanno dato alla fregata militare italiana Spica il permesso di sbarcare 69 migranti, fra cui 16 donne, salvati in mare alle prime ore di stamane. Lo riferisce il sito del quotidiano Times of Malta, precisando che la nave è attualmente ancorata nelle acque territoriali maltesi, in attesa di ordini.

L’equipaggio della Spica ha tratto in salvo i migranti che si trovavano su un’imbarcazione a 70 miglia da Lampedusa, in acque nelle quali le operazioni di ricerca e soccorso sono di competenza di Malta. La valletta insiste che i migranti devono essere portati nel porto più vicino, ovvero Lampedusa. Non si esclude a questo punto un nuovo respingimento dei migranti in Libia.

Immigrazione: Maroni; la nostra linea di "fermezza" continuerà

di Francesco Viviano

 

La Repubblica, 11 maggio 2009

 

Alle 8,15 di ieri mattina il capo della Polizia, Antonio Manganelli telefona al ministro degli Interni Maroni avvertendolo che qualche minuto prima nel porto di Tripoli sono stati sbarcati 240 extracomunitari, gli ultimi della lunga lista di migranti soccorsi in questi giorni nel Canale di Sicilia, vicinissimi alle coste di Lampedusa.

E Maroni è soddisfattissimo di questa "svolta storica" ribadendo che la linea, da ora in poi, è una sola: "Chi non entra nelle acque territoriali italiane sarà rispedito da dove è venuto e si continuerà così finché gli sbarchi non cesseranno del tutto". E a chi critica la decisione del governo di seguire la linea dura, Maroni ribadisce che "noi applichiamo rigorosamente i trattati internazionali e se noi riusciamo a invertire il corso chiudiamo la falla, l’emorragia dalla Libia, e almeno possiamo dire che la piaga dell’immigrazione clandestina potrà essere risolta così come abbiamo promesso in campagna elettorale.

La linea della fermezza continuerà". Ma Maroni si spinge oltre. "Noi stiamo facendo da garanti per tutta l’Europa riguardo all’ingresso dei migranti, ma non è giusto che ce ne occupiamo solo noi sia perché gli immigrati devono essere distribuiti in tutti i paesi sia perché non possono restare totalmente a nostro carico le spese per i rimpatri. I voli per riportarli nei paesi d’origine devono essere pagati dall’Unione europea, il governo e i nostri parlamentari si batteranno per questo".

Il ministro poi passa alle cifre dei "respingimenti": "Abbiamo cominciato cinque giorni fa - dice a Vicenza, agli stati generali della Lega - sino a oggi abbiamo respinto oltre sei barconi per oltre 500 clandestini che sarebbero dovuti essere ospitati da noi". Il ministro Maroni ha anche ricordato gli attacchi e le accuse rivolti ai leghisti.

"Siamo stati accusati violentemente perché l’accordo con la Libia non funzionava, adesso che funziona continuano ad attaccarci. Posso garantire che le critiche e le accuse mosse da qualche rappresentante Onu, che non è l’Onu, o da organizzazioni cattoliche, che non è il Vaticano, mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro".

Tra i 240 extracomunitari rispediti ieri in Libia c’erano 42 donne e due neonati che sono stati trasferiti nella prigione di Zawia, a 35 chilometri da Tripoli, mentre altri sono stati spediti in altri centri di accoglienza del territorio libico. Prigioni o centri che sono sovraffollati come hanno potuto constatare ieri i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie che finalmente, dopo giorni di attesa, sono stati ammessi all’interno delle prigioni. In quella di Zawia.

La situazione è incandescente, "radio carcere" fa sapere che sono più di 700 i rinchiusi in quella prigione, anche dei bambini. "Siamo in più di 70 per ogni camerata che ne può ospitare non più di venti, non c’è posto neanche per dormire a terra - dice uno di loro - ci sono tre donne incinte senza i mariti mentre una terza che è con il suo uomo è al quarto mese di gravidanza e non sta molto bene perché rischia di abortire dopo questi giorni di inferno". Sono in maggioranza nigeriani, eritrei e somali. Questi ultimi rifiutano di rientrare nei loro Paesi, afflitti dalla guerra e dalla povertà e preferiscono rimanere nelle "prigioni" libiche anche per alcuni anni.

Immigrazione: dobbiamo dire grazie allo straniero che è tra noi

di Dionigi Tettamanzi (Arcivescovo di Milano)

 

La Repubblica, 11 maggio 2009

 

Mi verrebbe d’iniziare con l’antica citazione biblica: "Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto" (Deuteronomio 10,19). Come a dire, che il fenomeno migratorio, sia pure in modalità e intensità diverse, accompagna sempre la storia dei popoli. E che esso deve suscitare, come prima e più immediata forma di solidarietà, la condivisione obiettiva di una medesima situazione.

(...) Ma qual è la situazione da noi oggi, nelle nostre città e nei nostri paesi? Potrei rispondere in termini quanto mai sintetici dicendo, anzitutto, che troppe volte e con troppa insistenza negli ultimi tempi si è pensato agli stranieri soltanto come a una minaccia per la nostra sicurezza, per il nostro benessere. Con l’immediata conseguenza che il peso dei pregiudizi e degli stereotipi hanno impedito un dialogo autentico con queste persone, finendo per causare spesso il loro isolamento, relegandole così in condizioni che hanno provocato e provocano illegalità e fenomeni di delinquenza. Ma la realtà presenta anche un’altra faccia: noncuranti delle tante e, troppe, eccessive polemiche, molte persone - in modo silenzioso e nel nome della propria fede e di un alto senso umanitario - hanno operato e continuano ad operare per assistere questi "nuovi venuti " nei loro bisogni elementari: il cibo, un riparo o, degli indumenti, la cura dei più piccoli. In concreto, penso alla Caritas e alle sue molteplici emanazioni, alla "Casa della Carità " in Milano, a quegli interventi delle amministrazioni locali che hanno saputo distinguersi per intelligenza, umanità e creatività. Penso al "buon cuore" anche di tanti semplici cittadini e ai loro piccoli ma sinceri gesti di aiuto. Siamo così di fronte a una solidarietà in atto, che si fa "dialogo" concreto: un dialogo forse ancora troppo flebile - e per questo da incoraggiare e da sostenere - ma che dice il riconoscimento della comune condizione umana cui tutti, italiani e stranieri di qualsiasi etnia, apparteniamo. Cade qui una riflessione elementare, la cui forza razionale invincibile conduce all’adesione, anche se poi la prassi, purtroppo, può divenirne una smentita. Ci sono così tante "etnie" e "popoli" diversi, ma tutte le etnie hanno la loro radice e il loro sviluppo nell’unica etnia umana, così come tutti i popoli si ritrovano all’interno del tessuto vivo e unita - rio dell’unica famiglia umana.

(...) Troviamo qui l’approccio culturale nuovo che deve caratterizzare la nostra valutazione e il nostro comportamento - certo nel segno della solidarietà ora affermata - nei riguardi dei migranti. Lo indicavo così nel Discorso alla Città per la Vigilia di sant’Ambrogio 2008: "Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità".

Riprendendo ora la riflessione generale, vorrei riproporre qualche spunto nel segno di una concretezza quotidiana e con un riferimento più specifico alle due realtà della famiglia del lavoro. Il primo passo da compiere dovrebbe condurci a superare una paura: quella che ci impedisce di riconoscere in pienezza l’uguale dignità sul lavoro degli immigrati. In realtà, per non pochi di noi essi sono visti come una minaccia, non solo perché considerati come uomini e donne che disturbano la tranquillità del nostro quieto vivere e del nostro paese, ma anche perché a noi "rubano" il lavoro. E se invece vengono accolti, rischiano di essere trattati come una forza lavoro a buon mercato, in particolare per quelle attività che noi ci rifiutiamo di compiere perché ritenute troppo faticose o poco dignitose. Ma, anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni, diverse forze sociali danno prova di solidarietà attiva con i migranti, creando nuove forme di accoglienza e di inclusione sociale, a cominciare dal lavoro. Si tratta di una testimonianza cristiana e civile forte in un contesto di fin troppo facile contrapposizione. Una testimonianza non astratta e fuori della storia, ma in grado di avviare una integrazione all’insegna della solidarietà e della legalità, che diventa dono per tutti e risposta non secondaria alla domanda di sicurezza legittimamente posta da città spaventate e non poco preoccupate, anche per i segnali sconfortanti che vengono dalla cronaca quotidiana. Una testimonianza che deve interpellare tutti e ciascuno.

(....) Non è spontaneo per nessuno in queste occasioni rifarsi e ispirarsi allo spirito più radicale del Vangelo e c’è per tutti il rischio di chiudersi in una eccessiva preoccupazione di se stessi, che ci fa scoprire sovente la nostra più grande miseria morale. È importante allora acquisire innanzitutto una reale conoscenza della situazione e delle persone, nelle loro qualità positive, nei loro limiti e nelle loro differenze. Solo così riscopriremo gli aspetti positivi della loro nuova presenza, le risorse culturali e religiose di cui sono portatori, la loro capacità di essere protagonisti in diversi ambiti, non appena offriamo loro l’opportunità di farlo.

(..) È onesto - ed è bello - riconoscere l’apporto che tanti immigrati danno alla vita delle nostre città e, in termini certo più ristretti ma quanto mai concreti ed efficaci, alla vita delle nostre famiglie. Tanti - in assoluta prevalenza donne - appena giunti in Italia da paesi stranieri si fanno carico - nelle case degli italiani d’origine - dei servizi della casa, della cura dei bambini, dell’assistenza agli anziani e malati. Ed è con spirito di ammirazione e di gratitudine che dobbiamo riconoscere che queste stesse donne - le chiamiamo "badanti" - con i loro figli sono le prime persone che pagano il costo di una separazione forzata, dell’esclusione dai diritti, della privazione per se stesse e per i propri familiari. Di conseguenza, come non chiedere che - insieme ai vantaggi che vengono a noi dalla loro presenza e attività - si giunga presto a riconoscere i loro giusti diritti e a migliorare le loro condizioni di lavoro?

Dal nuovo libro del cardinale, arcivescovo di Milano, "Non c’è futuro senza solidarietà. La crisi economica e l’aiuto della Chiesa", edizioni San Paolo, in libreria dal 15 maggio (pp.143, 14 euro).

Corea del Nord: tre i giustiziati per "cattiva amministrazione"

 

Ansa, 11 maggio 2009

 

A Pyongyang negli ultimi due mesi sono state eseguite pene capitali di tre uomini per "cattiva amministrazione". Lo riporta una organizzazione per i diritti umani in Corea del Nord (NKnet), che riferisce di tre diversi casi avvenuti a febbraio e marzo di quest’anno. Un comandante dell’esercito è stato ucciso per aver sottratto 1,8 milioni di dollari a un uomo d’affari cinese, vicino alla famiglia di Kim Jong-il. L’esecuzione è avvenuta davanti a 170mila persone. E altri due funzionari ministeriali sono stati uccisi per aver eseguito un comando - sbagliato - del Caro leader.

Il primo caso riguarda il capo di un reparto speciale dell’esercito nord-coreano nella guarnigione di Haeju. L’uomo, responsabile del Comando per la sicurezza interna, è stato condannato a morte ufficialmente per "adulterio". Fonti locali riferiscono però che il vero capo di accusa è appropriazione indebita.

Il secondo episodio è avvenuto a febbraio: due funzionari del Ministero dell’industria elettrica sono stati giustiziati per aver "interrotto le forniture di energia" all’acciaieria Sunjin a Kimchaek, nella provincia di North Hamkyung. La fabbrica è uno dei punti di forza nel commercio fra Cina e Corea del Nord. Le fonti locali riferiscono che è stato Kim Jong-il in persona a deviare il rifornimento di elettricità dall’acciaieria alla capitale, a corto di energia. Dopo un bando di oltre sette anni a causa delle pressioni internazionali, nel 2007 la Corea del Nord ha ripreso le esecuzione pubbliche; fra i primi giustiziati il direttore di una fabbrica, ammazzato perché "ha telefonato all’estero". In Corea del Nord la pena di morte è sancita dalla dittatura comunista al potere ed è applicata per diversi reati. Pyongyang afferma di "non aver mai violato i diritti umani", ma nelle carceri del Paese vivono in condizioni disumane circa 150mila detenuti.

Bolivia: Vera; il mio lavoro nel carcere "più pazzo del mondo"

di Vera Masenello

 

Il Giornale di Vicenza, 11 maggio 2009

 

Brevemente mi presento, mi chiamo Vera Masenello, sono di Vicenza e dallo scorso novembre 2008 mi trovo in Bolivia, a La Paz dove svolgo servizio civile nell’ambito del programma "Caschi Bianchi, interventi umanitari in aree di Crisi 2008/9".

In particolare il mio servizio di volontariato si svolge proprio all’interno del Carcere San Pedro di La Paz, definito dal giornalista di Repubblica "Il carcere più pazzo del mondo". Rispetto questo articolo mi piacerebbe riportare, vista che si è presentata l’occasione, anche la mia esperienza di volontaria, magari vissuta da un aspetto meno scenico e più umano, nel caso lei ritenesse che questa potrebbe interessare i lettori del giornale della nostra città.

Come emerge dall’articolo pubblicato da Repubblica, il San Pedro è una realtà penitenziaria ben al di fuori delle regole. È un carcere antico, costruito nel 1826 che si trova al centro della città di La Paz. Un altissimo muro circonda l’istituto penitenziario, all’interno del quale vivono i reclusi. La struttura, oltre ad essere antica, è disastrosamente fatiscente ed inadeguata ad ospitare una popolazione che negli ultimi anni è aumentata spropositatamente.

L’assenza di un controllo interno da parte della polizia, la corruzione, la legge che il più forte o ricco vince sul più debole, il traffico di droga all’interno delle mura, il San Pedro tour (viaggio turistico dietro le sbarre), la promiscuità tra detenuti, donne e figli di detenuti che li vivono, la prostituzione sono tutti elementi che sicuramente caratterizzano questo carcere e lo fanno apparire a detta del giornalista "il carcere più pazzo del mondo"; un’attrazione turistica per i viaggiatori che vengono a La Paz, con tanto di macchine fotografiche per immortalare la disperazione e il dramma di questi detenuti che per 4 soldi si danno come bestie da zoo agli obiettivi di questi turisti e ora pare si sia scomodato persino Brad Pitt che ha messo in cantiere per l’anno prossimo un film sul San Pedro.

Bene, mi sembra che con il porre in rilievo queste caratteristiche il giornalista di Repubblica abbia centrato il suo obiettivo, ossia stupire, impressionare e destare quella curiosità morbosa che poi pare faccia notizia e spargere la voce. Da parte mia, che dallo scorso novembre passo le mie giornate al San Pedro e posso azzardare a dire che conosco questa realtà abbastanza bene, trovo che si potrebbe sprecare qualche parola in più, soprattutto verso i reclusi, di cui nell’articolo nemmeno si parla, i quali credo siano i veri protagonisti di questo luogo.

Mi chiedo infatti che posto vogliamo dare al prigioniero? Cosa ne è della sua persona, della sua dignità, del suo dramma personale? Perché non vogliamo parlare anche di questo aspetto? Forse che la solitudine, la depressione, la privata libertà, la sopravvivenza di un essere umano al giorno d’oggi è meno importante o fa meno notizia rispetto al fatto che qui la coca per esempio costi meno che sulla piazza?

Il mio lavoro come volontaria in questo carcere è iniziato quasi per caso, grazie ad una bella amicizia stretta con Padre Filippo Clementi, cappellano penitenziario del carcere di San Pedro, un trentino fuori dalle regole che si dedica da molti anni a los esclavos de la carcel, che un giorno mi ha fatto conoscere questa realtà. Per me è stato impossibile non affezionarmi a questo luogo che, per quante contraddizioni ed elementi fuori dalle regole possa avere, mi sta insegnando tanto e mi ha fatto riflettere su pregiudizi e convinzioni che davo per certe e scontate fino a prima della mia partenza, che mi ha obbligato a mettermi in gioco e resa felice di stare a disposizione del prossimo, qualunque esso sia.

Le problematiche dei prigionieri sono svariate, e peggiorano se si considera il grado di libertà di cui godono i detenuti all’interno delle mura, che permette che assassini stiano a contatto e comunichino con narcotrafficanti, ladri ecc.. si va quindi da problemi di alcolismo e consumo di droga, il più comune e evidente appena si varca il portone del carcere, a drammi marcatamente psicologici come il senso di abbandono, di solitudine e di depressione che non raramente vengono espressi con ideazioni suicidarie.

In particolare vorrei però mettere in risalto la realtà drammatica dei bambini del San Pedro, che sono circa 250 dai 0 ai 15 anni e che vivono con i loro padri all’interno del carcere e ai quali è dedicato principalmente il mio servizio. Può sembrare assurdo, ma la presenza dei bambini all’interno del carcere porta con sé degli aspetti positivi: innanzitutto spesso sono proprio i bambini che fanno in modo di mantenere i legami con la famiglia all’esterno, contribuendo ad un possibile ricongiungimento del detenuto con la compagna o con il nucleo familiare; poi essi stessi rappresentano uno stimolo per i loro padri, che devono attivarsi nella ricerca di un lavoro all’interno della struttura carceraria, per poter dare ai figli qualcosa da mangiare e dei vestiti;come ultimo i bambini "umanizzano" il carcere, in quanto la loro presenza stimola un atteggiamento di cura e di attenzione verso il più debole, che fa dei detenuti non solo dei "criminali" ma degli esseri umani che riscoprono la loro paternità e la mettono in pratica.

In generale godono di molta libertà: a parte la perquisizione in entrata e in uscita, non sono soggetti ad alcun controllo, escono e rientrano come e quando vogliono, possono girare liberamente per il carcere. Non essendo soggetti a particolari controlli, i bambini sono spesso usati come "corrieri" (dall’esterno all’interno e viceversa) di notizie, droga, denaro e quant’altro sia richiesto dal proprio genitore o da altri detenuti, in cambio di denaro, favori o beni di prima necessità. La situazione di questi bambini è pertanto molto grave: corrono rischi nel loro servizio di corrieri, a volte sono oggetto di gravi maltrattamenti, abusi fisici e psicologici, sia da parte del genitore che degli altri detenuti e non è infrequente che vengono abusati sessualmente.

La polizia, ovviamente, non essendo presente all’interno del carcere, non può controllare che ciò non avvenga ed interviene solo quando tali fatti vengono denunciati. Molti di questi bambini sono abbandonati a se stessi, non sempre infatti hanno la fortuna di vivere accanto alla loro mamma all’interno del carcere, (molte donne abbandonano i mariti appena dopo la sentenza e scelgono di vivere al di fuori del penale magari con un nuovo compagno e si dimenticano dei figli). Questo si esprime nei bambini, che seguo personalmente, in una tremenda solitudine, in una silenziosa ma costante ricerca di affetto, di coccole e di abbracci. Manca in essi quasi totalmente il senso di autostima, hanno paura ad esprimersi, si sentono emarginati dagli altri ragazzini del quartiere e nelle scuole sono oggetto di insulti e discriminazioni.

A volte magari alcuni a scuola proprio non ci vanno perché non hanno la cartella, o le scarpe o i soldi per prendersi l’uniforme e dei quaderni. Il loro modo di esprimersi è ben diverso dai ragazzini della loro età, hanno atteggiamenti violenti, da grandi, esperienze devastanti che racchiudono in piccoli corpi. Sanno attaccarti, fare a pugni, vengono picchiati dai più grandi o dagli stessi genitori, ma sanno sempre rialzarsi senza versare lacrime perché dimostrare debolezza in questo ambiente non va bene. Però ancora, nonostante tutto, sanno stupirsi, emozionarsi di fronte un giocattolo nuovo, un disegno, un cartone di Walt Disney, una carezza e in quel momento ho come l’impressione che si ricordano di essere bambini e si godono la loro rubata infanzia.

Con il fine di evitare il più possibile il contatto bambino-detenuto e per cercare di ricreare all’interno del carcere uno spazio protetto, dedicato solo ed esclusivamente al bambino, Padre Filippo Clementi, decise nel 2002 di aprire un centro di attività ludiche, educative e di laboratorio, nel quale si potesse ricreare un momento di incontro e di interazione sereno, e diverso dalla tragica routine. La fondazione di questo Centro Educativo, "Il Kinder" è stato un grande passo, una innovazione e assolutamente il primo esempio in Bolivia di una cura educativa indirizzata verso la popolazione infantile residente all’interno di un carcere.

Presso il Kinder proponiamo ogni giorno differenti attività ludiche (giochi di gruppo, giochi didattici, ecc.) e di laboratorio (pittura, lavorazione di creta, pasta di sale, utilizzo di materiale riciclabile ecc.), uscite collettive in particolari occasioni, si organizzano spettacoli per bambini (con l’ingaggio di clown, giocolieri o prestigiatori durante le festività) ed inoltre viene distribuita quotidianamente una sostanziosa merenda (visto che i bambini, come i loro padri, hanno diritto ad un solo pasto al giorno).

Oltre all’importanza sul piano educativo che il Centro sicuramente riveste, la presenza costante dei volontari e del personale responsabile, rappresenta per i bambini una presenza che dà loro calore umano e quella vicinanza emotiva che li fa sentire accettati, amati, oggetto di quell’attenzione affettuosa alla quale hanno diritto.

Egregio Direttore, questa pagina, scritta in maniera molto informale, forse non racconta una storia degna dell’interesse di un produttore del calibro di Brad Pitt o di un giornalista a caccia dello scoop dell’ultimo momento, forse infatti non è abbastanza shoccante, tuttavia è la mia esperienza di volontaria, in una realtà che esiste, che tocco con mano ogni giorno e che mi piacerebbe trasmettere a chi ha la curiosità di conoscere e voglia di dare voce a quella parte di umanità che è immersa nell’ingiustizia, nella solitudine, nell’indifferenza. Penso quindi e mi scuso se posso sembrare polemica che invece di focalizzare l’attenzione su quelle caratteristiche che fanno del San Pedro "il carcere più pazzo del mondo", si potrebbe far conoscere anche l’altra faccia della medaglia, quelle storie di ordinaria ingiustizia alle quali forse potremmo cercare di approcciarci in punta dei piedi, senza giudicare, senza far notizia, accontentandoci di ascoltare, osservare e aiutare queste persone a sentirsi vive, amate e non dimenticate dalla società.

Stati Uniti: i detenuti da Cia sottoposti alla privazione del sonno

 

Ansa, 11 maggio 2009

 

Oltre 25 presunti terroristi detenuti dalla Cia sono stati sottoposti alla privazione del sonno fino ad un massimo di undici giorni, durante la presidenza di George W. Bush. Lo rivela il Los Angeles Times citando rapporti del ministero della giustizia Usa resi noti per volontà del presidente Barack Obama il mese scorso.

La tecnica messa in campo dalla Cia all’indomani dell’11 settembre, ora proibita dalla nuova presidenza insieme con altri metodi di interrogatorio ritenuti eccessivamente violenti, prevedeva che il prigioniero fosse costretto a stare in piedi, con le caviglie bloccate e le mani ammanettate vicino al mento. Non aveva la possibilità di nutrirsi, scrive ancora il Los Angeles Times, ed era obbligato a fare i suoi bisogni in un pannolino.

Quando non riusciva più a stare in piedi, il detenuto veniva steso sul pavimento ma "con il corpo bloccato in una posizione così scomoda che era impossibile prendere sonno", rivela il rapporto del 10 maggio 2005 citato dal quotidiano. A un certo punto i funzionari della Cia furono autorizzati a tenere i prigionieri svegli anche per 11 giorni, periodo di tempo ridotto poi ad una settimana.

Secondo i rapporti, personale medico si trovava sul posto per evitare che i detenuti non fossero feriti, ma una ricerca della Croce Rossa del 2007 sui programmi della Cia ha rivelato che polsi e caviglie di chi era stato sottoposto a quel tipo di trattamento portavano le cicatrici delle catene. Dai memo emerge inoltre che i funzionari della Cia consideravano la privazione di sonno come una "fase iniziale" dell’interrogatorio, considerata meno dura dei metodi "correttivi" e "coercitivi".

 

 

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