Rassegna stampa 18 luglio

 

Giustizia: Corte dei Diritti umani; il sovraffollamento è tortura

di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone)

 

Il Manifesto, 18 luglio 2009

 

Il signor Kalashnikov è stato il primo cittadino-detenuto a ricorrere alla Corte europea dei diritti umani e a ottenere una condanna di uno stato (nel suo caso la Russia) per gli effetti tragici del sovraffollamento carcerario.

Il signor Izet Sulejmanovic è stato il secondo a ricorrere dinanzi ai giudici europei e a vincere, seppure soli mille euro. In questo caso a essere condannata per trattamenti inumani e degradanti simili a tortura non è stata la Russia ma la nostra Italia. Izet Sulejmanovic per alcuni mesi è stato costretto a vivere nel carcere romano di Rebibbia in soli 2,7 metri quadri.

Vivere in un ambiente così ristretto significa non avere spazio per scrivere, stare seduti, muoversi. Significa perdere la riservatezza quando si va in bagno. Significa di fatto stare sempre stesi a letto.

Il Comitato europeo per la prevenzione della Tortura - Cpt, organismo ufficiale del Consiglio d’Europa - ha affermato che lo spazio minimo per un detenuto in una cella singola non può essere inferiore a 7 metri quadri; in una cella multipla ogni detenuto deve avere invece almeno 4 metri quadri a disposizione.

La vergognosa condanna europea del nostro paese è avvenuta nonostante il dissenso - incomprensibile se non per una sorta di spirito di corpo nazionale - del giudice italiano Vladimiro Zagrebelsky. La capienza regolamentare del nostro sistema penitenziario è di 43mila posti Ietto. Una capienza definita in base agli standard minimi del Cpt di Strasburgo. Oggi i detenuti sono oltre 64mila. Con gli attuali ritmi di crescita saranno 100mila alla fine del 2012. Ogni detenuto in più oltre la capienza regolamentare quindi vive in spazi non legali e - a dire della Corte europea - inumani e degradanti al punto da configurare una ipotesi di maltrattamento risarcito con mille euro.

A Brescia o a Sassari in 8 metri quadri vivono sei o sette detenuti. Ci sono casi in cui si dorme in letti a quattro piani, dove il piano terra coincide proprio con il pavimento. A Bolzano in poco più di 10 metri quadri vivono dodici detenuti. All’Ucciardone di Palermo in 16 metri quadri dormono sedici detenuti. Uno al metro. Dormono, anche perché non possono fare altro. È difficile stare tutti in piedi contemporaneamente. A Poggioreale a Napoli i detenuti sono 2.700, stipati in una prigione con una capienza di 1.300 posti.

Di fronte a una situazione così drammatica, il parlamento italiano introduce nuovi reati creati dal nulla (immigrazione clandestina) e il ministero della Giustizia presenta un piano di edilizia penitenziaria inutile e privo di copertura finanziaria. E lo stesso Comitato di Strasburgo a sottolineare come nuove carceri non abbiano mai risolto il problema dell’affollamento e servono solo ad aumentare i tassi di carcerazione. Siamo in una condizione oggettiva di violazione dei diritti umani certificata da organismi sovranazionali.

Basterebbe un’unica norma per tornare alla normalità: depenalizzare del tutto il consumo di droghe. Libereremmo in questo modo circa 20mila posti inutilmente occupati da tossicodipendenti e piccoli spacciatori costretti al reato da una legge proibizionista. Oggi il nostro sistema carcerario è definito dagli organismi internazionali oggettivamente disumano e degradante, tanto da giustificare un risarcimento economico.

Speriamo che la Corte sia inondata di ricorsi che mettano in crisi (di immagine ed economica) il nostro sistema. Noi siamo a disposizione di quei detenuti che vogliano citare in giudizio lo stato italiano (difensorecivico@associazioneantigone.it). Un modo democratico per sovvertire uno stato ingiusto. (Vedi la sentenza della Corte Europea dei Diritti umani).

Giustizia: non basta dire "aboliamo carcere"; intanto che si fa?

di Sandro Padula

 

L’Altro, 18 luglio 2009

 

Ieri Piero Sansonetti ha criticato su L’Altro, nel pezzo intitolato "Linciare un poliziotto è di sinistra?", i due articoli pubblicati sullo stesso quotidiano il giorno prima in riferimento alla condanna a 6 anni per l’agente Spaccarotella.

Uno dei due articoli è mio e allora sento il dovere di fare alcune precisazioni sul perché l’ho scritto e sul suo significato. La sentenza a proposito dell’omicidio di Gabriele Sandri è secondo me un’ulteriore occasione, dopo quella ben più sconcertante relativa all’uccisione di Federico Aldovrandi, per discutere del garantismo e della necessaria riforma del codice penale.

Non mi pare coerente dal punto di vista del garantismo, il quale accetta il principio della proporzionalità delle pene rispetto ai delitti e quello dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, che un grave omicidio volontario sia derubricato in omicidio colposo solo perché il responsabile è un poliziotto, quindi una persona che tutela il "monopolio statuale della violenza".

La mia opinione, espressa a caldo su questo giornale il 16 luglio, non era comunque intesa come una sentenza. Non ritengo giusto linciare nessuna persona al mondo, neanche un antigarantista o un Rambo dell’ultima ora. Non ho mai augurato la galera neppure ai poliziotti che nel novembre del 1982 mi torturarono al momento dell’arresto e per ordine del governo dell’epoca!

Proprio perché, in base al secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana, ritengo che "l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva", ho fatto una riflessione sulla tragica vicenda della morte di Gabriele Sandri non allo scopo di mettere in croce l’imputato ma per criticare il vigente sistema penale e l’attuale modo a dir poco sproporzionato di fare giustizia in Italia.

Non a caso ho proposto una riforma nel campo del codice penale. Dimensione questa ben diversa da quella specifica di chi, come i giudici, dovrebbe applicare le leggi ed emettere sentenze. Il codice Rocco esiste dal 1930 e dalla seconda metà degli anni ‘70 è stato anche peggiorato. Vogliamo vederlo peggiorare di giorno in giorno oppure vogliamo proporre qualcosa che possa invertire questa tendenza?

Vogliamo continuare a proporre l’abolizione del carcere senza lanciare un programma immediato o intermedio? Ci rendiamo conto che difendere dei valori libertari significa soprattutto farli vivere dentro proposte concrete e già applicate nei paesi migliori del nostro?

Non credo sia qualcosa di libertario trasformare l’ergastolo in 38 anni di detenzione, come aveva proposto la Commissione Pisapia per la riforma del codice penale al tempo del governo Prodi. Da qualche anno a questa parte propongo infatti di abolire l’ergastolo e di fare in modo che il tetto massimo di pena sia uguale o simile a quello esistente nei paesi più garantisti dell’Unione Europea, il quale si aggira grosso modo attorno ai 14 anni.

Spesso anche il responsabile acclarato di un grave omicidio agisce al di fuori di una piena coscienza di sé e in maniera che in gran parte risulta sovra determinata da fattori socio-culturali storicamente determinati.

Questo ragionamento vale per tutti coloro che, con o senza divisa, compiono un grave omicidio. Se qualcuno uccide ragazzi come Federico Aldovrandi e Gabriele Sandri credo che la responsabilità principale sia connessa ad una cattiva educazione al rispetto della vita altrui e, in tali casi specifici, a norme che - dalla legge Reale a quelle attuali e peggiorative - tendono a garantire un surplus di autorità, con tanto di "licenza ad uccidere", per chi indossa una divisa.

Occorre dunque una prevenzione culturale e normativa. Insomma, bisognerebbe "educare gli educatori" e tutti al rispetto dei valori fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana.

In quest’ottica, la mia proposta di riforma del codice penale sarebbe già parte di un’autentica rivoluzione antropologica per un paese tradizionalmente forcaiolo, ipocrita e maramaldesco come l’Italia. Non mi interessa discutere troppo delle sentenze dei giudici. Mi interessa riflettere sul che fare per prevenire certi fatti tragici e quindi rendere il nostro paese garantista verso la vita di ognuno e di tutti.

Giustizia: la condanna non è un simbolo... riguarda la persona

di Piero Sansonetti

 

L’Altro, 18 luglio 2009

 

Resto della mia idea: se ci si indigna perché una condanna è troppo dolce, io non capisco. Mai. Di tutti gli argomenti usati in questa pagina - in polemica con la polemica che abbiamo sollevato ieri sull’affare Spaccarotella - uno solo mi è chiaro e mi trova perfettamente d’accordo: la richiesta che la giustizia sia uguale per tutti.

Per capirci: è assurdo rifilare 4 anni di prigione a un tifoso che dà un pugno a un altro tifoso e condannare a una pena appena superiore l’agente che ha ucciso un ragazzo con una revolverata. Chiaro. È anche assurdo condannare a tre anni di carcere un signore colpevole di aver rubato un pacco di wafer (in conseguenza della legge-Cirielli sulla recidiva), o no?

Però pochissimi si sono indignati per quella sentenza (è successo quattro giorni fa): nessun corteo di tifosi, nessun assalto ai tribunali, e di tutti i giornali di sinistra l’unico che se ne è occupato è stata Liberazione. Come mai? Io ho l’impressione che le caratteristiche del tutto particolari dell’imputato Spaccarotella - è un poliziotto, è una guardia, è il nemico - così come lo hanno, forse, aiutato a ricevere una pena un po’ più mite del previsto, così lo hanno esposto alla protesta indignata popolare. A me non piacciono le proteste indirizzate contro un "certo nemico" individuato come nemico per una sua caratteristica particolare. Per esempio essere poliziotto, per esempio essere zingaro, per esempio essere rumeno.

Quanto alle altre osservazioni, mi pare che essenzialmente siano due. La prima è quella di Graziella Mascia, la quale sostiene che l’aspetto fondamentale di una sentenza è il suo valore simbolico, e il valore simbolico della sentenza Spaccarotella è il messaggio che dice: "se è un poliziotto può". La seconda è quella di Gabriele Castoro, il quale sostiene che se uno spara in mezzo alla gente sa cosa sta facendo, cioè sa che forse uccide e quindi "vuole". Alla prima obiezione rispondo semplicemente che non la condivido, Neanche un po’. La mia idea, Graziella, è opposta. È che una sentenza non abbia nessun valore simbolico e non debba averlo.

La sentenza simbolica risponde alla giustizia esemplare. Io penso che la giustizia esemplare sia pericolosissima, sia da Stato etico. Secondo me la condanna, la sentenza, riguardano la persona e solo la persona, e sono un fatto giuridico e solo giuridico, non hanno nessun valore collettivo o morale e non devono averlo. Alla seconda obiezione rispondo nello stesso modo. Non condivido neanche questa. È vero che forse Spaccarotella poteva valutare la probabilità che la sua azione provocasse la morte di qualcuno.

È vero anche che il giovanotto che uccise due ragazzi sulla Nomentana (a Roma) guidando in stato di ebbrezza a velocità altissima, doveva immaginare che la sua azione potesse provocare la morte. Però non mi sembra sufficiente. La giustizia deve accertare se c’è o no volontà omicida. L’idea - che da un po’ di tempo si fa largo e travolge tutti noi - che invertire l’abitudine dei giudici a considerare certi delitti "colposi", e spingere i giudici a considerare quei delitti "volontari", è un’idea che a me non piace, Gabriele, e mi sembra interna alla spinta "securitaria" che tu giustamente denunci.

Io penso che - così come è successo per gli stupri - si finirà per usare anche questo episodio come spunto per inasprire le politiche giustizialiste. Infine condivido diverse argomentazioni di Sandro Padula. Però non posso non rilevare una contraddizione: nell’articolo dell’altro giorno, Sandro, chiedevi in sostanza una condanna a 14 anni per Spaccarotella. Oggi mi spieghi che vuoi portare l’ergastolo a 15 anni. Beh, anche qui c’è una sproporzione, no?

Giustizia: Alfano all’Ue; meno repressione, più difesa dei diritti

 

Ansa, 18 luglio 2009

 

In Europa servono "norme minime processuali a tutela dei diritti sia degli imputati, sia delle vittime, per riequilibrare a favore delle garanzie individuali un sistema che, con il mandato di arresto europeo, è apparso negli ultimi anni sbilanciato sul versante repressivo". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, illustrando ai 27 colleghi dei paesi dell’Unione europea, riuniti in Svezia, la posizione dell’Italia sul nuovo programma quinquennale in materia di Giustizia (il cosiddetto Programma di Stoccolma), che dovrà essere approvato entro la fine dell’anno.

Tra gli altri temi prioritari per l’Italia, Alfano ha, in particolare, evidenziato la necessità di una "codificazione" delle norme europee in materia di confisca e congelamento dei beni criminali e la lotta contro la cyber criminalità, in linea con quanto già convenuto in sede G8. Serve anche, secondo il Guardasigilli, "il rafforzamento delle iniziative dirette alla tutela dei minori e degli adulti vulnerabili". La Rete europea di formazione giudiziaria ha poi bisogno di "mezzi adeguati". Infine bisogna "aumentare l’accesso dei cittadini e delle imprese al sistema giustizia in linea e con la digitalizzazione avviata in Italia del nuovo modello di processo civile".

Giustizia: Alfano; contro il sovraffollamento, un piano europeo

 

Ansa, 18 luglio 2009

 

Per arginare il sovraffollamento delle carceri e migliorare le condizioni dei detenuti serve "un piano europeo". Così il Guardasigilli, Angelino Alfano, in occasione della riunione dei ministri della Giustizia dei Paesi dell’Ue. Il tema delle carceri e del loro miglioramento, ha detto Alfano "va affrontato sotto un triplice profilo: quello del trasferimento dei detenuti europei nei Paesi d’origine; quello dei detenuti provenienti da Paesi extra-europei, che generano, in alcuni Stati membri, situazioni di eccezionale sovraffollamento carcerario; quello, infine, dell’elaborazione di un piano europeo per le carceri, anche tramite l’uso di fondi dell’Unione". Per il ministro italiano "oltre a migliorare le condizioni delle carceri europee, un tale approccio consentirà di rafforzare le basi dello spazio comune europeo di giustizia, libertà e sicurezza".

Della proposta italiana, Alfano ha informato il vicepresidente della commissione Jacques Barrot e il neo-eletto presidente della commissione Giustizia del Parlamento europeo, l’ex ministro della Giustizia spagnolo Lopez Aguilar, ed ha discusso in un breve colloquio riservato con la presidente svedese, il ministro Ask. Nella sua replica finale, il vicepresidente Barrot ha notato "che occorrerà far passi avanti sulla questione delle carceri, considerando che la detenzione costituisce sovente l’epilogo del processo penale ed è un tema che non è possibile ignorare in sede di cooperazione giudiziaria europea".

Giustizia: Sappe; avvicendare Ionta, non sa gestire emergenza

 

Il Velino, 18 luglio 2009

 

"Avvicendare l’attuale capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta per manifesta incapacità a gestire l’emergenza penitenziaria". È la richiesta che il sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe rivolge al presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi e al ministro della Giustizia Angelino Alfano.

Spiega Donato Capece, segretario generale: "Ionta dimostra ogni giorno di più di non essere in grado di gestire le criticità penitenziarie. Avevamo in lui grosse aspettative, che ad oggi si sono dimostrate mal riposte. I detenuti aumentano a livello esponenziale (siamo a quota 64mila a fronte di circa 42mila posti letto), gli organici del Corpo sono carenti di ben cinquemila unità, e lui, che ha anche l’incarico di commissario straordinario per le carceri, non fa nulla di concreto per risolvere tali problematiche. Si chiude nella torre d’avorio di largo Luigi Daga a Roma, dove ha sede il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e non ha contezza della realtà penitenziaria nazionale. Dimostra di non essere in grado di gestire la grave emergenza carceraria".

"Basti pensare - spiega Capece - alle linee guida diramate ai provveditori regionali per contenere proprio l’emergenza nel periodo estivo: in estrema sintesi, il concetto di base di Ionta è sostanzialmente quello di fare di tutto per fare stare bravi i detenuti e quindi evitare problemi. Tanto nelle sezioni detentive 24 ore su 24 ci stanno gli agenti di Polizia penitenziaria, certo non lui, i provveditori regionali o i direttori.

Ionta ignora sistematicamente i contributi che pervengono dalle sigle sindacali della Polizia penitenziaria e ha una scarsissima conoscenza proprio delle relazioni sindacali. Si pensi che ha redatto da diversi mesi un ‘Piano Carceri’ che tiene a tutt’oggi nascosto ai sindacati! Segni il passo, dunque. E si assegni alla più alta carica dell’Amministrazione penitenziaria una personalità istituzionale con maggiore sensibilità alle criticità del settore e magari anche con una maggiore conoscenza del sistema carcere".

Giustizia: Osapp; Ionta non dialoga, non incontreremo più Dap

 

Ansa, 18 luglio 2009

 

Ai ferri corti l’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. "Le modalità in atto escludono il dialogo", avverte il presidente dell’Osapp.

"Continueremo a non rispondere alle convocazioni del Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, ancora quella prevista per il 20 luglio prossimo e riguardante la gestione dell’emergenza estiva, nel quadro dell’emergenza carceraria". Lo afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp). "Continueremo sulla linea che abbiamo tracciato", prosegue Beneduci, "fin quando lo stesso Ionta continuerà con modalità che precludono qualsiasi possibilità di dialogo con le stesse organizzazioni sindacali rappresentate.

Dopo gli annunci, poi smentiti, sull’impiego dei militari in compiti di vigilanza negli istituti penitenziari le vane promesse del ministro Alfano sulla definizione di nuovi posti letto e l’assunzione di nuova forza lavoro questa Amministrazione si permette ancora atteggiamenti tali da disconoscere ruoli, prerogative e strumenti che la vigente normativa riconosce contrattualmente". Oltre al sovraffollamento carcerario, Beneduci denuncia l’esistenza di altri "problemi concreti" come "gli stipendi non pagati, le mense che letteralmente affamano il personale, i turni di sorveglianza non più sostenibili".

Giustizia: per aprire nuovo reparto Perugia, si "raschia" fondo

 

Ansa, 18 luglio 2009

 

Quaranta unità di Polizia Penitenziaria, fino ad ora impiegate in compiti amministrativi a Roma, inviati in missione a Perugia.

Il "pacchetto sicurezza" è legge ma un po’ in tutta Italia, già prima che le nuove norme entrino in vigore, le carceri stanno scoppiando sia perché mancano gli spazi sia perché mancano gli agenti. A Capanne di Perugia ci sarà l’apertura di un nuovo padiglione detentivo nel mese di luglio e nel bel mezzo del piano ferie del personale della polizia penitenziaria.

"Una situazione d’emergenza al limite del collasso" secondo la Cgil Funzione pubblica della provincia di Perugia che ha proclamato lo steso di agitazione del personale a essa aderente.

Secondo il coordinatore polizia penitenziaria e segretario generale Fp-Cgil Perugia, "la già grave carenza di personale, continuamente denunciata" dal sindacato avrebbe il sollievo " di sole 35 unità dal mese di ottobre " non solo insufficiente a sanare la situazione attuale ma del tutto improponibile per la gestione di un padiglione con una capienza di oltre 200 detenuti .

"La Funzione pubblica Cgil - è detto in una sua nota - è fortemente preoccupata della situazione che verrà inevitabilmente a crearsi fin dai primi momenti dall’apertura del nuovo reparto, soprattutto per i vertiginosi aumentati carichi di lavoro a discapito del rispetto dei più elementari diritti di chi lavora, come quello di godere del riposo settimanale e delle ferie e di vedersi pagate le ore di lavoro straordinario, visto che già sono terminati i fondi per l’anno corrente.

La scelta del ministero di inviare in missione, fino al 15 ottobre, 40 unità di polizia penitenziaria proveniente dagli uffici del Dipartimento, se da un parte dimostra il livello di criticità in cui è giunto tutto il sistema penitenziario nel nostro Paese, dall’altra ci preoccupa pensando al grado di operatività e di gestione di eventi critici di quel personale che fino a poche ore prima era impiegato a trattare atti amministrativi e magari in procinto di recarsi in ferie".

La Fp-Cgil ha quindi rivolto un appello alle istituzioni per "scongiurare o almeno per ritardare l’apertura del reparto di Capanne fino all’assegnazione definitiva di ulteriore personale del comparto sicurezza e di quello amministrativo".

Giustizia: le "ronde della sicurezza"… seppellite da una risata

di Luigi Leone

 

Secolo XIX, 18 luglio 2009

 

Dal Giustiziere della notte di Charles Bronson a Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo. Strana parabola, quella delle ronde, che richiama sì la figura retorica dell’iperbole, ma per capovolgerla. Vennero concepite come il supporto che la società civile leghista offriva a forze dell’ordine giudicate sfibrate se non imbolsite, certo private di mezzi e comunque impossibilitate a reggere l’impatto della microcriminalità. Finiscono per nascere, invece, naufragando nel ridicolo del loro stesso liquido amniotico: non più di tre persone, rigorosamente over 25, vestite con le pettorine gialle fluorescenti che indossano i portalettere piuttosto che gli spazzini di nuova generazione (operatori ecologici), disarmati di tutto punto (neanche lo spray al peperoncino), però di sana e robusta costituzione e figli di un corso di formazione. Perché la formazione è diventata come la qualifica romanesca di dottore: non si nega a nessuno.

Le ronde sono un organismo geneticamente modificato e di questo bisogna dire grazie al presidente Giorgio Napolitano. Grazie davvero, perché le sue raccomandazioni sono servite a impedire la deriva di una giustizia fai-da-te, davvero alla Charles Bronson, della quale per primi i cittadini che chiedono più sicurezza non avvertono alcun bisogno. Semmai, pretendono sicurezza vera, quella che uno Stato degno di tal nome non affida anche a volontari che coltivano l’idea dell’anti-Stato romano-centrico (fra i più cari tormentoni della Lega), ma ai propri organismi costituzionalmente deputati, secondo le diverse declinazioni: carabinieri, polizia, finanza, vigili urbani, vigili del fuoco, polizia penitenziaria, forestale e via elencando.

Il Quirinale, però, ha finito con lo smascherare anche la comicità di tutta la vicenda, che solo l’improbabile politica italiana poteva prendere sul serio, fra i riti simil-tribali dell’ampolla e del dio Po. Un effetto collaterale probabilmente indesiderato da parte del Colle, ma inevitabile date le premesse. Che lo stesso Silvio Berlusconi sembra cogliere perfettamente: più che un’apertura politica, il "rifletteremo" pronunciato all’indomani del monito presidenziale sembra una sconsolata resa alle surreali pretese dell’ingombrante alleato.

Gianni Miraglia, scrittore genovese trapiantato a Milano, ne ha dato una interpretazione sublime, "scatenando" l’altra sera nel bel mezzo della movida meneghina le super-ronde: Batman, l’Uomo Ragno e Wonder Woman. Tre, per non violare i dettami del regolamento, ma almeno con costumi che nell’immaginario comune e collettivo richiamano l’antico fascino e il rigore delle divise. E con il supporto, all’occorrenza, di Superman e del Punitore, gente che se ne intende di pronto intervento.

La metafora miragliana ben s’acconcia all’evolversi di un provvedimento che delinea, in tutta la sua disarmante evidenza, l’approssimazione con cui un settore cruciale del governo, il Ministero dell’Interno, gestisce l’esigenza di rispondere alle aspettative degli italiani. Si gioca sulle reazioni di pancia e, soprattutto, si gioca su forme di "celodurismo" mirate non a risolvere il problema, bensì ad appagare l’ansia comiziesca della Lega, che sfiderà il ridicolo rivendicando il merito di aver acquisito alla legislazione di questo Paese anche le ronde.

Flavio Zanonato è il sindaco di Padova, sindaco Pd nella terra del Carroccio. L’una e l’altra circostanza potrebbero essere persino qualificate come "difetti", in questo momento, ma indossando il cappello di responsabile della sicurezza urbana per l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, scolpisce parole sacrosante: "Rispetto agli obiettivi, le attese andranno deluse". In fondo, è lo stesso film che abbiamo visto con il federalismo, tradottosi in provvedimenti pastrocchio come questo delle ronde. Ne è un esempio lo stesso primo passo compiuto nel riordino delle autonomie locali: tutti a promettere il taglio degli enti inutili, a cominciare dalle Province, invece le Province non si toccano. Così vuole la Lega, che al nord molte Province occupa.

È il potere d’interdizione - di ricatto, per chiamarlo con il suo nome - che il Carroccio oggi detiene perché questa sicurezza e questo federalismo sono frutti avvelenati della stessa superficialità con cui si è affrontato, anzi non s’è affrontato affatto, un tema istituzionalmente decisivo come la legge elettorale. E non per il fallimento del referendum, che se fosse riuscito non avrebbe probabilmente prodotto un risultato migliore, ma perché la regola d’oro della politica italiana rimane quella di navigare a vista, traendo il massimo profitto di bottega.

Come l’opposizione di oggi, che quando è stata governo di ieri nulla ha fatto di diverso e semmai ha seguito gli avversari sullo stesso terreno, la Lega è una mirabile interprete di questa filosofia: se occorre, rispolvera la secessione e minaccia di "imbracciare i fucili", poi s’accoccola sulle comode poltrone dello Stato di "Roma ladrona". Le ronde all’italiana finiranno seppellite da una risata. Ma per dirla con Franco Battiato, povera patria.

Giustizia: una "canotta" fosforescente; tanto rumore per nulla

di Associazione contro tutte le mafie

 

www.ilcapoluogo.com, 18 luglio 2009

 

Nel provvedimento sulla sicurezza trovano posto le ronde, fortemente volute dalla Lega: associazioni di cittadini potranno segnalare alle forze dell’ordine situazioni di disagio sociale o di pericolo. Saranno iscritte in elenchi, non potranno essere armate e prioritariamente dovranno essere formate da ex agenti.

Arriva l’identikit del "rondista": è quanto contenuto nella bozza del regolamento attuativo del Viminale. Chi ha a cuore la sicurezza dei cittadini e vorrà far parte delle ronde dovrà avere non meno di 25 anni, godere di buona salute fisica e mentale, nessuna dipendenza da droga o alcol, non aver avuto denunce o condanne per delitti non colposi, non aver aderito a movimenti o associazioni o gruppi organizzati. Solo chi rispetterà questi canoni potrà diventare "osservatore volontario"‘, come stabilisce la bozza del ministero dell’Interno.

Certo che chi non si ritrova nell’essere rondista, inquadrato e canottato, può certamente continuare a fare il cittadino modello. Le sue armi sono gli artt. 333 e 383 del codice di procedura penale. Ogni cittadino, solo o in compagnia, che ha notizia di un reato perseguibile d’ufficio, può fare denuncia agli organi di polizia giudiziaria e, quando il reato è grave, è, addirittura, autorizzato a procedere all’arresto in flagranza. Ma perché si ha necessità dell’intervento del cittadino, modello o rondista, per la sicurezza comune?

Per quanto riguarda gli orari di lavoro delle forze di polizia, il dpr 11 settembre 2007, n. 170, prevede il turno di lavoro: 36 ore settimanali. Sono molto di meno, se si considera che per ogni giorno vi è la fase montante e la fase smontante dal servizio. È un tempo morto, perché inibisce ogni intervento.

Per quanto riguarda le forze di polizia sul campo: hanno più compiti e mansioni ed organico insufficiente. Svolgono mansioni di polizia giudiziaria, di polizia amministrativa, di polizia di pubblica sicurezza. Molto spesso si distraggono i compiti principali per mansioni meno importanti, quale può essere la scorta ai vip, ai politici e alle istituzioni di secondo livello. Ma non è solo questo che inibisce la percezione di sicurezza dei cittadini, alla faccia della obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 della Costituzione.

Le denunce e le querele che vengono presentate, di cui molte non hanno addirittura iscrizione a ruolo, perdendosi nei meandri degli uffici, sono prima filtrate dalle forze di polizia, con un intervento disincentivante di convincimento dell’inopportunità della denuncia o dell’infondatezza del reato, poi ricevono il vaglio del Pubblico Ministero di turno, che li iscrive al modello che più li aggrada: modello 21 (notizie di reato di persona nota), 44 (notizie di reato di persone ignote) e 45 (notizie non costituenti fatti di reato). Per cui sarà secondo sua arbitraria percezione far subire un processo ad un fatto denunciato.

Quanto detto è suffragato dai dati del Ministero della Giustizia. Dalle statistiche pubblicate per distretto sul sito del Ministero della Giustizia, si nota che a fronte di decine di migliaia di denunce solo il 13 % hanno un definizione. Per poche di queste, poi, consegue effettiva condanna. Va da sé che il cittadino, sfiduciato, denuncia solo il 70% dei reati e nonostante ciò ci sono 3 milioni di reati all’anno, 333 all’ora, 5 ogni 100 abitanti.

Certo non ristora la sete di sicurezza e giustizia il sapere che le carceri traboccano di detenuti, quasi tutti extracomunitari, se poi la maggior parte di loro è innocente: vuoi perché non condannati con sentenza definitiva, vuoi perché non hanno avuto adeguata difesa a causa della loro indigenza. Che i politici e i media parlino meno di canotte e più di impunità, meno mostri sbattuti in prima pagina e più colpevoli in carcere, forse così vale la pena essere un cittadino modello.

Giustizia: Maccarone; errore giudiziario che deve far riflettere

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 18 luglio 2009

 

16 luglio 2009. Il magistrato Vincenzo Maccarone è stato assolto. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula più ampia. Il fatto non sussiste. Vincenzo Maccarone è innocente.

8 maggio del 2007. È sera. Un gruppo di agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattano le manette. Il magistrato viene condotto nel carcere di Regina Coeli. È rinchiuso in una cella di isolamento. È la notte più difficile nella vita dell’alto magistrato. Un magistrato stimato da tutti. L’arresto nasce da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore Giombini. Lo scopo: aiutare Giombini a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia. Una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi agli arresti domiciliari. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Macccarone dalla Procura generale di Roma, alla Corte d’appello de L’Aquila. Passano 2 anni e un Giudice accerta che Maccarone, e gli altri imputati, sono innocenti. Sulle agenzie stampa di questo errore giudiziario ovviamente non c’è traccia.

Ma è questa una vicenda che comunque deve far riflettere. Una riflessione che deve riguardare la Giustizia di oggi. Una riflessione che deve essere però condotta con un approccio concreto, e non accademico. Riflettere sulla concreta efficacia di una regola. Riflettere sul modo in cui concretamente la regola viene applicata. Un approccio concreto che deve suggerire riforme concrete. Riforme che devono riguardare sia norme che magistrati.

Inutile girarci intorno. Maccarone, come tanti altri imputati ignoti, non doveva essere arrestato. La regola di diritto è stata violata. Senza una riflessione concreta su casi come questo, non si andrà lontani. La giustizia, sarà sempre più inefficiente e, con essa, la magistratura sarà facile bersaglio di riforme insensate fatte da un legislatore incapace. Occorre fermarsi e riflettere.

Giustizia: spot contro lo stalking "se perseguiti rischi il carcere"

 

Ansa, 18 luglio 2009

 

Il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, lancia oggi la campagna di comunicazione istituzionale "Contro lo stalking". Lo spot sarà veicolato su tutte le televisioni, le emittenti radiofoniche ed avrà una appendice sui manifesti e carta stampata. Scopo della campagna istituzionale è quello di far sapere agli italiani che, dallo scorso 25 febbraio, gli "atti persecutori" sono punibili con pene fino a quattro anni di reclusione e che esiste la possibilità di denunciare ogni forma di molestia. "Le moltissime denunce presentate fino ad oggi, oltre dieci al giorno di media dal giorno dall’entrata in vigore del decreto anti-stupri, dimostrano che lo stalking è un reato di cui c’era bisogno", ha detto il ministro. Lo spot è visibile cliccando sul link o sul sito del ministero per le Pari Opportunità.

Venezia: carcere sovraffollato, gli avvocati pronti allo sciopero

di Davide Calimani

 

Il Gazzettino, 18 luglio 2009

 

"Il carcere di Santa Maria Maggiore esplode: o s’interviene al più presto per risolvere la situazione, o gli avvocati penalisti veneziani, in autunno bloccheranno la giustizia cittadina". L’avvocato Antonio Franchini, presidente Camera Penale, non usa mezzi termini per descrivere la condizione carceraria lagunare. "La situazione è drammatica, incivile per un paese democratico - tuona Franchini - Siamo vicinissimi alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo sui trattamenti inumani.

Per ogni cella, ci sono otto, nove detenuti, che hanno a disposizione un solo servizio igienico". "Il carcere è omologato per ospitare 160 detenuti, con una soglia di tollerabilità di 240. Attualmente sono ben 330. Una cosa inaudita. Alcuni detenuti dormono sopra materassi appoggiati per terra. "Ci sono due piani d’intervento, per alleggerire il problema - ha proseguito Franchini - bisogna utilizzare di più le camere di sicurezza a disposizione di polizia e carabinieri.

Lì gli arrestati devono aspettare di andare davanti al giudice che deciderà la loro futura collocazione. Infatti, dei 536 detenuti entrati a Santa Maria Maggiore negli ultimi sei mesi, più della metà sono rimasti in carcere due o tre giorni perché poi il magistrato ha ordinato all’udienza di convalida, la libertà. In secondo luogo vanno usate maggiormente le forme detentive alternative. Se si interviene su questi numeri, la situazione può migliorare".

Davanti al carcere, oltre una decina di avvocati penalisti hanno esibito cartelli e protestato contro la situazione di Santa Maria Maggiore. Difficoltà che riguardano anche la nuova direttrice del carcere, Irene Iannucci. Per lei, arrivata da pochi giorni a sostituire Gabriella Straffi, un compito delicato. Quello di non far precipitare una situazione già precaria. "Uno dei problemi più gravi - ha detto Iannucci - è quello rappresentato da quei detenuti che di fatto restano in carcere per due, tre giorni. Negli ultimi tre mesi, ad esempio, a fronte di 168 ingressi, 107 sono le persone che sono uscite entro tre giorni".

Sul carcere è intervenuto anche il sindaco Cacciari: "Abissi di inciviltà che abitano nella nostra città e che occorre affrontare". E su Santa Maria Maggiore è intervenuto anche il consigliere comunale, Beppe Caccia (Verdi), che ha auspicato un rapido intervento del ministro della Giustizia Angelino Alfano, che lunedì sarà a Venezia per parlare dell’innovazione nella giustizia.

Civitavecchia: reparto ristrutturato con 3 mln di € resta chiuso

 

Ansa, 18 luglio 2009

 

In una interrogazione al Ministro di Giustizia On. Angelino Alfano l’onorevole Pietro Tidei denuncia lo stato di sovraffollamento del carcere di Aurelia e chiede per quale motivo non venga utilizzata la struttura carceraria di via Tarquinia. L’onorevole Tidei ricorda come nel nuovo penitenziario, programmato per ospitare 250 detenuti, ve ne siano attualmente circa 400 con immaginabili disagi, soprattutto nella stagione calda, per i reclusi e per gli agenti di custodia, che sono in numero inferiore rispetto a quello previsto dagli organici. Di qui la richiesta di utilizzare il carcere storico, nel quale di recente è stato ristrutturato con la spesa di 3 milioni e mezzo un intero reparto che può ospitare 50 detenuti.

Napoli: Uil; martedì sit-in protesta agenti davanti Poggioreale

 

Adnkronos, 18 luglio 2009

 

Sit in di protesta, martedì a Napoli, a partire dalle 10 davanti al carcere di Poggioreale, degli agenti di Polizia penitenziaria aderenti alla Uil. "La protesta si inserisce nel quadro di manifestazioni indette dalle Segreterie nazionali che culminerà con una grande manifestazione a Roma il prossimo 22 settembre", spiega il segretario regionale della Uil Pa Penitenziari, Domenico De Benedictis. "A Napoli porteremo in piazza il disagio, la rabbia, la frustrazione e la demotivazione dei poliziotti penitenziari della Campania - continua De Benedictis - in un quadro sostanziale di difficoltà dovute soprattutto al sovraffollamento delle strutture. È chiaro che in queste situazioni le tensioni interne montino ogni giorno. Oramai abbiamo superato l’allarme rosso".

Il segretario regionale della Uil Pa Penitenziari, spiega anche che il sovraffollamento non è l’unico motivo della protesta."Noi manifestiamo anche per ottenere una implementazione degli organici della polizia penitenziaria deficitari di 5.000 unità. Nella sola Campania - rileva - sono circa 450 le unità mancanti rispetto agli organici previsti. È chiaro che le condizioni di lavoro, spesso svolte senza i necessari presupposti di salubrità e sicurezza, si aggravino e diventino particolarmente disagiate e penalizzanti".

"Anche dal punto di vista economico - aggiunge De Benedictis - abbiamo più di una qualche ragione per gridare la nostra rabbia. Dagli straordinari e le missioni non pagati da gennaio, al mancato adeguamento dei trattamenti economici dopo che le organizzazioni sindacali e il governo hanno firmato una intesa lo scorso marzo. Dal 1 luglio - sottolinea De Benedictis - è stato riappaltato il servizio mensa . Rispetto al passato c’è stato una evidente regressione in termini di quantità e qualità. D’altronde se l’Amministrazione appalta un pasto completo a poco più di 4 euro non si possono pretendere champagne e caviale. E non li pretendiamo. Ma nemmeno possiamo accettare un servizio mensa che offende la dignità umana".

Bollate (Mi): cambia look "Carte bollate", giornale del carcere

 

Corriere della Sera, 18 luglio 2009

 

Ha da poco cambiato look "Carte bollate", periodico di informazione del carcere di Bollate (www.carcerebollate.it). "La buona grafica non è un valore aggiunto per rendere solo più piacevole il giornale, un’operazione di cosmesi fine a se stessa, ma un mezzo per rendere più chiari, più forti, più evidenti quei contenuti che un’impaginazione monocroma nasconde e impoverisce", ha scritto l’art director Federica Neeff nell’editoriale del numero di marzo/aprile. Partendo da questa premessa, la rivista si è rinnovata: il colore clou è diventato il rosso, la qualità delle fotografie è migliorata, si è cercato di agevolare la fruizione degli articoli da parte del lettore.

"L’abbiamo ridisegnata completamente: si inizia con una sezione dedicata all’attualità giudiziaria e politica, si prosegue con un dossier monotematico, mentre alla fine abbiamo disposto le notizie "locali", legate al carcere stesso", spiega la direttrice responsabile Susanna Ripamonti. Tra i temi affrontati di recente, il sovraffollamento negli istituti penitenziari, arrivato al punto che in alcune carceri italiane ci sono detenuti costretti a dormire in 10 in stanze da 5 e, a turno, a passare le notti su materassi per terra. O ancora, il dramma dei suicidi in prigione: 1410 i detenuti che si sono tolti la vita dal 1980 ad oggi, stando alle cifre fornite dal Ministero della Giustizia.

Le belle notizie riguardano le tante iniziative che hanno fatto della casa circondariale di Bollate un esempio quasi unico di luogo in cui i concetti di reclusione e di pena sono intrinsecamente legati a quelli di accoglienza e di recupero. A Bollate la multinazionale informatica Cisco System offre corsi di formazione. A Bollate molti detenuti lavorano. A Bollate ci sono una sala prove per gli appassionati di musica, una palestra, una falegnameria, un laboratorio del vetro, un orto, una biblioteca, una "stanza dell’affettività" arredata come un appartamento dove alcuni detenuti possono usufruire di colloqui "straordinari" con la loro famiglia e in particolare con i figli più piccoli. A Bollate si può anche diventare redattori di un giornale.

La redazione di "Carte Bollate" è composta da alcuni giornalisti professionisti e, al momento, da 26 detenuti. "Tanti altri vorrebbero farne parte, c’è la coda: si fa quel che si può", racconta la Ripamonti. "Il giornale esiste dal 2002, io sono arrivata due anni fa: non mi sarei mai aspettata tanto entusiasmo. I detenuti sono incredibilmente propositivi, affidabili, prendono questo impegno con molta serietà. Sono davvero loro che fanno il giornale". E sono proprio i loro interventi - articoli e poesie - quelli che colpiscono di più. "Ormai dopo vari mesi di detenzione mi sono resa conto con assoluta lucidità che alla fine della mia detenzione avrò pagato il mio debito con la giustizia, ma con la mia famiglia non riuscirò mai a pagarlo", scrive Erminia su uno degli ultimi numeri. In un’altra pagina Michele ricorda la sensazione di felicità provata lo scorso inverno, quando, dopo una lunga nevicata, gli fu offerta l’opportunità, dopo tanti anni di reclusione e molti ancora da scontare, di andare a ripulire le strade per l’Amsa: "Sarei andato avanti tutta la notte, era da troppo tempo che non assaporavo la vera vita". Il prossimo passo è lo sbarco su Internet. "Stiamo costruendo un sito, vorremmo essere online entro la fine dell’anno", dice la Ripamonti. "Un obiettivo importante, per regalare ai detenuti una maggiore visibilità".

Voghera (Pv): la scuola superiore in carcere "batte" altri istituti

 

La Provincia Pavese, 18 luglio 2009

 

Maturità: la scuola in carcere "batte" gli altri istituti. Gli 11 detenuti candidati all’esame di Stato per il diploma da ragionieri l’hanno superato brillantemente ottenendo esiti superiori alla media cittadina. Grande soddisfazione anche per gli insegnanti e i dirigenti dell’istituto per ragionieri "Maserati" all’"inaugurazione" delle maturità in carcere.

"È da qualche anno che ci occupiamo delle superiori in carcere - racconta Anna Bobba, insegnante d’inglese e responsabile delle classi carcerarie del Maserati - e quest’anno abbiamo avuto la prima quinta ed è stata un’enorme soddisfazione". Il corso seguito dai detenuti faceva parte del progetto nazionale Sirio di educazione per adulti, che si svolge anche come corso serale al Maserati: "Gli alunni hanno seguito gli orari scolastici regolari - prosegue Bobba - si tratta di un progetto di life long learning di reinserimento dell’adulto nella scolarizzazione: gli studenti che si sono diplomati in carcere hanno un’età compresa tra i 30 e i 52 anni".

E sono anche le età eterogenee a rendere più problematico l’insegnamento in carcere: "Nel biennio - continua la responsabile - noi insegnanti cerchiamo di amalgamare la classe anche se non è semplice". Ma quel che più dà soddisfazione agli insegnanti è il dialogo che si è instaurato con gli alunni: "L’obiettivo perseguito - spiegano - oltre alla semplice istruzione è quello educativo e di reinserimento: a Voghera molti sono costretti a pene detentive molto lunghe, è bellissimo che si rimettano in discussione e il loro enorme impegno profuso è ammirevole".

Porto Azzurro (Li): i detenuti si trasformano in guide turistiche

 

Il Tirreno, 18 luglio 2009

 

I detenuti si trasformano, quest’estate, in guide e si offrono ad accompagnare ospiti e turisti nella tenuta agricola di Forte San Giacomo. Il progetto non è nuovo e va inserito nel programma a più vasto raggio che prevede, fra i suoi obiettivi, quello del recupero e del reinserimento del ristretto nella società. La proposta è stata formalizzata in seguito alle iniziative promosse durante il Festival del Camminare.

In quell’occasione la cooperativa sociale San Giacomo, in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria di Porto Azzurro, il comune di Porto Azzurro e l’ente parco nazionale arcipelago toscano, organizzò una serie di iniziative volte alla conoscenza della realtà penitenziaria, del contesto storico-sociale e degli aspetti naturalistici che caratterizzano la Fortezza Spagnola di Porto Azzurro nel suo insieme.

Costruita infatti dagli Spagnoli nei primi anni del Seicento sulla sommità del colle che sovrasta l’ingresso al golfo di Mola, aveva il compito di aveva il compito di potenziare "il sistema difensivo costiero dello Stato dei Presidi. È con la seconda metà dell’Ottocento che la struttura perse la funzione militare per cui era stata costruita per trasformarsi a poco a poco in carcere. Quest’estate si potranno visitare i vecchi bastioni e le mura perimetrali e quindi anche la tenuta agricola. I detenuti coadiuvati da consulenti nel settore, saranno coinvolti in un percorso formativo e lavorativo inerente il settore dell’accoglienza turistica.

Immigrazione: "Nirva", Rete per rimpatrio volontario assistito

 

Redattore Sociale - Dire, 18 luglio 2009

 

Si chiama "Nirva" ed è finanziata con 2 milioni di euro dal Fondo Europeo per il rimpatrio e dal ministero dell’Interno. Prevede progetti di inserimento lavorativo nei paesi di origine.

Dal 1991 ad oggi sono circa 7mila i migranti assistiti dall’Italia a tornare nei paesi d"origine, ma negli ultimi 5 anni non si registrano incrementi di richieste: sono circa 200 ogni anno. È il quadro sui rimpatri volontari assistiti delineato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni in occasione della presentazione del progetto "Nirva", Networking italiano per il rimpatrio volontario assistito. Proprio l’esperienza dell’Oim sarà alla base del progetto voluto da Aiccre (Associazione italiana per il consiglio dei Comuni e Regioni d’Europa), dalle Acli, dalla Caritas italiana, dal Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) e naturalmente dalla stessa Oim. Tra gli obiettivi, strutturare una rete di realtà pubbliche e del privato sociale al fine di promuovere l’opzione del ritorno volontario assistito e la reintegrazione nei paesi di provenienza nel rispetto della volontà e della dignità dei migranti.

Per la realizzazione del progetto sono stati stanziati circa 2 milioni di euro dal Fondo Europeo per il rimpatrio e dal Ministero dell’Interno, - ha spiegato Giuseppe Forlani, prefetto direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo del Ministero dell’Interno -, parte dei 10 milioni del fondo per i rimpatri complessivo messo in campo dall’Unione europea (6 milioni) e dall’Italia. "Sappiamo quanto è stato difficile per gli organismi che seguono le vicende e forniscono assistenza proporre anche questo tipo di opzione - ha detto Forlani -. Crediamo che il fondo per i rimpatri debba in modo chiaro prospettare il rimpatrio assistito. Non è soltanto il trasferimento, ma anche la possibilità di ricostruire un futuro anche nei paesi di arrivo di rimpatrio in modo che possa esserci una continuità e aiutare a costruire un progetto che possa durare nel tempo".

Il progetto avrà come destinatari diretti i richiedenti asilo, denegati o i rinunciatari, chi beneficia di forme di protezione internazionale, con permesso i soggiorno per motivi umanitari, di vittime di tratta e persone in condizioni di vulnerabilità e grave disagio, disabili, donne sole con bambini, anziani e con problemi di salute. "Il ritorno è un tema delicato perché facilmente strumentalizzabile - ha spiegato Peter Schatzer, direttore ufficio regionale per il Mediterraneo e capo missione in Italia e a Malta dell’Oim -, per questo occorre fare chiarezza sul tema. Lo scopo dei programmi di ritorno è quello di aiutare persone con storie difficili che hanno scelto volontariamente e autonomamente di tornare nei propri paesi e che non hanno i mezzi materiali per realizzare questo desiderio". Per Christopher Hein, direttore Cir, il progetto "richiede una sensibilizzazione degli attori coinvolti affinché sia fatto un lavoro con la persona non per convincere al rimpatrio, ma per spiegare i vantaggi e le possibilità. Non basta dare un biglietto per il ritorno. Per molti la situazione più complessa è quella di tornare nel paese di origine con le tasche vuote. Per questo è importante l’inserimento in un progetto di integrazione lavorativa".

Il network verrà realizzato grazie ai destinatari intermedi del progetto, cioè le realtà pubbliche e private coinvolte nell’attuazione del Rimpatrio volontario assistito. Realizzare la rete, spiegano gli organizzatori, richiederà diversi passaggi. Il primo è quello di una mappatura delle organizzazioni. Poi sarà il tempo della campagna informativa con la pubblicazione per fine 2009 di materiali informativi in più lingue per gli immigrati, un sito internet www.retenirva.it che sarà attivo fra una decina di giorni e le linee guida per gli operatori. Intanto lo scorso venerdì 10 luglio si è concluso il primo corso di formazione che ha coinvolto 66 realtà pubbliche e private. Per Francesco Marsico, vice direttore Caritas, il rimpatrio volontario resta un’uscita d’emergenza e non è la risposta al fenomeno migratorio, ma "un grande segno di civiltà, proprio perché dobbiamo sempre tenere presente che se da una parte ci sono le grandi politiche del fenomeno e una necessità di regolarlo, dall’altra la persona e i suoi diritti, la sua storia e la sua dignità. Se non si tengono insieme sempre questi due aspetti il rischio è che la dimensione del diritto schiacci la dimensione delle persone".

Immigrazione: Cir; non esiste il monitoraggio dei respingimenti

 

Redattore Sociale - Dire, 18 luglio 2009

 

Cambiano le modalità dei respingimenti e la nazionalità dei migranti che attraversano il Mediterraneo, ma nessuno monitora. Hein: "Pochissime le partenze dalla Libia. Lampedusa è ritornata un’isola di turismo e di pescatori".

Non esiste un monitoraggio in acque internazionali capace di descrivere quel che sta succedendo in questi periodi in tema sui flussi di migranti e sui respingimenti. È quanto sostiene Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, intervenuto questa mattina a Roma per la presentazione del Network di organizzazioni Nirva per il rimpatrio volontario e assistito degli immigrati. Per Hein il fatto che non ci siano notizie sui giornali di respingimenti non è giustificabile necessariamente con la loro assenza.

"All’inizio di maggio - afferma Hein -, la prima operazione di respingimento è stata celebrata come un cambio della politica italiana, in tema di immigrazione irregolare, negli ultimi casi non c’è stato più alcun annuncio ufficiale". Per avere notizie, bisogna cercarle sui giornali, ma non quelli italiani "A volte si è saputo dalla stampa maltese, neanche dalla stampa italiana. Questo perché non esiste un monitoraggio nelle acque internazionali che può indicare effettivamente cosa sta succedendo". Anche sul primo respingimento, il direttore del Cir esprime dubbi. "Sembra che qualcosa sia successo nella seconda parte di aprile di quest’anno - continua -, però in quel periodo venivano portati con le navi italiane in vari porti libici, non solo Tripoli".

Nonostante tutto, spiega il direttore del Cir, le partenze dalle sponde libiche sembrano essersi drasticamente ridotte. "Non ci risultano aumenti di numeri - spiega Hein -, ma ci risultano pochissime partenze, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, dalla Libia. Le persone non partono più per il momento. Lampedusa è ritornata un’isola di turismo e di pescatori. Pochi arrivano sulle coste siciliane o in Sardegna, ma sono pochissimi. Pochi escono ormai dalla Libia". Cambia anche se di poco anche la provenienza degli immigrati. Se la maggioranza delle persone all’inizio di maggio erano nigeriani, uomini e donne, "nelle ultime operazioni di respingimento - continua Hein - la maggioranza erano eritrei e somali. Sono persone che di prima vista non possono tornare nel proprio paese, di prima vista sono rifugiati. Come dimostrano anche le statistiche italiane sul riconoscimento dei somali e degli eritrei dell’anno scorso".

Sono cambiate anche le modalità dei respingimenti. "Nelle ultime due o tre occasioni i migranti non sono stati riportati con una nave italiana in Libia, ma consegnati alle navi libiche, in mare, anche se bisogna ancora capire come si svolge questa operazione della consegna nelle mani delle autorità libiche". Arrivati in Libia, per i migranti la storia non è diversa da quella di tanti altri finiti nei centri di detenzione. "Quelli respinti dall’Italia, per quello che sappiamo - spiega Hein -, vengono messi in circa cinque centri nella zona nord occidentale della Libia, non molto lontano da Tripoli, e lì rimangono. Senza limiti di tempo, senza ordine di un giudice, senza controllo giurisdizionale e aspettano che qualcosa succeda. Se non c’è la collaborazione con il consolato di appartenenza per il rimpatrio, restano lì".

 

 

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