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Giustizia: ddl sicurezza al Senato; testo "blindato" dalla Lega
Redattore Sociale - Dire, 24 giugno 2009
Si profila veloce il passaggio in terza lettura al Senato per il ddl sicurezza. Oggi nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia si è avviata e subito conclusa la discussione generale (l’esame è stato rapido perché riguarda solo le parti modificate dalla Camera). Domani pomeriggio inizia il voto sui circa 130 emendamenti (praticamente tutti dell’opposizione) che però dovrebbero essere respinti. Quindi il ddl dovrebbe arrivare in aula martedì (dove è già stato calendarizzato) senza modifiche rispetto al testo licenziato da Montecitorio. Sorprese comunque non dovrebbero arrivare neanche in assemblea (dove il termine per gli emendamenti è fissato martedì alle 11) visto che la Lega ha blindato il testo. "Se sarà necessario - spiega il capogruppo in commissione Affari costituzionali, Lorenzo Bodega - ricorreremo anche alla fiducia. Dipende da che atteggiamento avrà domani l’opposizione. Se tenteranno di fare ostruzionismo, la fiducia diventa una possibilità effettiva". E segnali di ostruzionismo, osserva Bodega, "già oggi ci sono stati" in discussione generale. "Per il Pd si sono segnati in tre - sottolinea il leghista - e hanno parlato ciascuno per 20 minuti, bruciando così tutto il tempo del dibattito. Vedremo domani se ci sarà un atteggiamento diverso". Sembra comunque difficile che il Pd rinunci alla sua battaglia sul ddl sicurezza, visto che il gruppo ha presentato in commissione al Senato 96 emendamenti. Tra le varie proposte di modifiche, alcune di Felice Casson contro quelle che lui chiama "le ronde esterne e le ronde interne", ossia i volontari per la sicurezza in città e l’albo che istituzionalizza la figura dei buttafuori per la vigilanza nei locali pubblici o aperti al pubblico. E poi un emendamento di Emanuela Baio per regolarizzare le colf e le badanti straniere "in nero", che possono dimostrare un effettivo lavoro, contro il rischio di espulsione a causa del nuovo reato di immigrazione clandestina. Marilena Adamo ha invece presentato un emendamento contro "il rischio di discriminazioni" nelle richieste di residenza, che con il ddl verrebbe concessa solo dopo un controllo sulla rispondenza delle case alle norme igienico-sanitario. "La norma - spiega Adamo - lascia ai Comuni la discrezionalità dei controlli, ma così succederà che la residenza si concederà ad alcuni, mentre a chi è ritenuto indesiderabile, e penso agli stranieri, no".
Pd: per i bambini dell’asilo manca speciale tutela
Aggravanti per i reati commessi all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o formazione. È una norma di buon senso introdotta nel ddl sicurezza per una maggiore tutela dei minori che frequentano le scuole ma che potrebbe creare una disparità di "garanzie" a causa di una modifica introdotta alla Camera. Nel testo uscito da Montecitorio, infatti, e ora all’esame in terza lettura del Senato, scompare il riferimento esplicito agli asili nido tra i luoghi nei pressi dei quali alcuni delitti contro i minori, come gli abusi e le violenze, sono oggetto di circostanze aggravanti. Il Pd, spiegano i senatori Antonio Rusconi e Mariapia Garavaglia, chiederà al governo di intervenire con un emendamento per evitare "ambiguità" nell’interpretazione della legge. Nell’articolato approvato in prima lettura a Palazzo Madama si prevedeva infatti l’aumento di un terzo della pena se il reato veniva commesso "ai danni di soggetti minori all’interno o nelle immediate vicinanze di scuole per l’infanzia e istituti di istruzione e formazione di ogni ordine e grado". Nel passaggio alla Camera, la norma è stata così modificata: costituisce aggravante di pena "l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione e formazione". Secondo l’opposizione, con l’attuale formulazione, che elimina il riferimento a tipologie specifiche di scuola, "si rischia di tagliare fuori" da queste nuove e maggiori tutele i bambini che frequentano le scuole materne, ossia quelli più indifesi e ingenui. Il caso di Rignano Flaminio, sottolinea Garavaglia, deve essere "con tutte le cautele del caso, da monito". Il riferimento di Mariapia Garavaglia è alla vicenda (tuttora non chiarita) dei presunti abusi su alcuni bambini della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio, vicino Roma, finito alla ribalta delle cronache come "l’asilo degli orrori". La senatrice del Pd spiega che si tratta di casi che destano "molta preoccupazione" e che "se c’è un ambito dove avere più attenzione è quello dell’infanzia". La norma del ddl sicurezza modificata dalla Camera che esclude le scuole materne dai luoghi presso i quali l’aver commesso un delitto contro un minore costituisce un’aggravante di pena, per Garavaglia rischia quindi di provocare "disparità di tutela tra i bambini" perché "se non c’è scritto chiaramente scuole dell’infanzia si dà adito a libere interpretazioni" dei giudici. Invece, ribadisce la senatrice, "i bambini e gli adolescenti devono essere tutelati tutti, indipendentemente dalla tipologia di scuola che frequentano". Antonio Rusconi aggiunge che il sottosegretario all’Istruzione, Giuseppe Pizza, "ha riferito in commissione Istruzione del Senato che, con l’attuale formulazione, tra i luoghi che portano ad un aggravante di pena, se lì si è commesso un delitto contro un minore, si intendono anche le scuole dell’infanzia". Per il Pd non è però sufficiente come spiegazione. "Noi - dice Rusconi - vogliamo che questa deduzione diventi una dichiarazione esplicita del governo attraverso un emendamento perché, con tutto il rispetto per il sottosegretario Pizza, una norma deve essere certa e quando si è di fronte a reati gravi, sopratutto contro minori, non ci possono essere malintesi". Rusconi conclude: "Crediamo che si tratti di un errore, ma il governo deve impegnarsi a correggerlo immediatamente".
Pdl: la norma che tutela i minori non è ambigua
La norma del ddl sicurezza, che prevede aggravanti di pena per i reati commessi "all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o formazione" e che viene contestata dal Pd perché non c’è un esplicito riferimento alle scuole dell’infanzia, "non è ambigua". È quanto assicura Francesco Paolo Sisto (Pdl), relatore del ddl alla Camera e autore della modifica avvenuta a Montecitorio rispetto al testo licenziato dal Senato (dove ora è tornato per la terza lettura). "Sì, l’emendamento che ha introdotto la modifica eliminando la dicitura scuole dell’infanzia è mio, ma è stato approvato in commissione con il consenso di tutti - spiega Sisto, che è avvocato penalista e docente universitario originario di Bari - il motivo era dare alla norma una formulazione più asciutta e essenziale in modo che fosse adeguata al linguaggio del diritto penale. E poi cosa vuol dire che non si tutelano i minori che frequentano gli asili? Mi sembra chiaro che le scuole dell’infanzia rientrano nel concetto di istituti di formazione o istruzione, altrimenti che cosa sono? Chi sostiene il contrario fa del diritto penale un ricettacolo di opinioni politiche". La modifica, aggiunge il deputato del Pdl, "è stata fatta con l’obiettivo di lasciare aperte tutte le strade alla massima applicabilità dell’aggravante. Sarebbe irragionevole pensare che si tutelano i bambini e i ragazzi delle scuole elementari e medie e non quelli degli asili". Giustizia: il ddl intercettazioni tra diritto di cronaca e indagini di Paolo Ielo
www.radiocarcere.com, 24 giugno 2009
Tema caldo, irrisolto, è da più di 15 anni, quello delle intercettazioni telefoniche. Reso incandescente dal suo collocarsi in un territorio di confine attraversato dagli itinerari del diritto di cronaca, del diritto alla riservatezza, del diritto di difesa, del dovere di garanzia della sicurezza e da un impianto normativo che ha prodotto ampie aree di problematicità. Non di rado spiegate, talvolta con un indecente mélange d’ignoranza e malafede, con la neghittosità dei magistrati o, peggio, con la loro insaziabile voglia di pubblicità. Sono note le criticità del vigente impianto normativo, sia sul versante processuale che su quello sostanziale: il venir meno del segreto sulle conversazioni intercettate nel momento in cui esse sono poste a disposizione dei difensori; la necessità che tutte le conversazioni siano messe a disposizione dei difensori, anche quelle irrilevanti o inutilizzabili; la facoltatività dell’udienza che dovrebbe eliminare le conversazioni irrilevanti o inutilizzabili; l’irrisoria sanzione penale che presidia il divieto di pubblicazione di conversazioni non più coperte dal segreto. Capisaldi di un sistema che consente la circolazione di conversazioni non più segrete ma neppure pubblicabili, anche relative a fatti irrilevanti e personalissimi, nel quale il diritto di cronaca balza sulle spalle delle indagini, ne utilizza le potenzialità conoscitive e, pure esercitato in violazione della legge penale, si fa grande fratello - quello di Orwell - rendendo pubblici fatti che solo privati dovrebbero rimanere. Una ragionevole exit strategy consentirebbe le intercettazioni, strumento d’indagine irrinunciabile in una seria prospettiva investigativa - e chi sostiene il contrario non sa di cosa parla-, impedirebbe la circolazione di private e personalissime conversazioni irrilevanti sul piano penalistico, sanzionerebbe in modo pregnante la violazione dei divieti. Gli strumenti idonei a realizzare tali finalità non intaccherebbero l’architettura del sistema e sarebbero davvero poca cosa: rendere obbligatoria l’udienza che elimini le conversazioni irrilevanti o inutilizzabili prima della loro circolazione; imporre l’obbligo del segreto a chi - polizia giudiziaria, magistrati, personale di cancelleria, avvocati e consulenti di parte - per ragioni del suo ufficio abbia accesso a materiale sensibile e mantenere tale condizione di segretezza per tutte le conversazioni irrilevanti o inutilizzabili; sanzionare pesantemente sul piano penale la violazione di tale obbligo e la violazione dei divieti di pubblicazione. E tuttavia, l’analisi delle prospettive di riforma suggerisce ulteriori considerazioni: muovendo dalla condivisibile necessità di impedire la divulgazione di fatti assolutamente privati, si fa anche altro. Molto altro. Si limita pesantemente l’uso delle intercettazioni per reati anche molto gravi, sia per le condizioni che le consentono sia per i limiti temporali; si complica il procedimento autorizzativo, rendendo il difficile ulteriormente difficile attraverso l’inutile; s’impongono alla già asmatica organizzazione giudiziaria adempimenti ulteriori. Nel nome della tutela della privacy, si legano le mani agli investigatori e si slegano quelle dei criminali. Giustizia: per la morte di Federico, richiesti "spiccioli di pena" di Susanna Marietti
www.linkontro.info, 24 giugno 2009
Il pubblico ministero ha chiesto la condanna a tre anni e otto mesi di reclusione per i quattro agenti accusati di aver picchiato a morte Federico Aldrovandi. I genitori sono stati contenti. "Oggi ho capito che avremo giustizia", ha detto la madre. "Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così", gli ha addirittura fatto eco il padre. Certo, siamo abituati a che spesso le cose vadano diversamente. Certo, al primo procedimento per la morte di Marcello Lonzi il pm chiese l’archiviazione. Il cadavere fu trovato coperto di lividi nel carcere di Livorno, ma lui era convinto che Marcello fosse morto per cause naturali. Certo. Però anche la storia di Aldrovandi fa riflettere. Federico tornava a casa, una notte del settembre 2005, dopo una serata in discoteca. Lo fermarono quattro agenti, tre uomini e una donna. Il pubblico ministero ha raccontato in aula cosa successe dopo, secondo le indagini da lui portate avanti. E non è stato un bel racconto. "Federico aveva solo diciotto anni", ha detto, "e se non avesse incontrato i quattro imputati oggi ne avrebbe ventidue. C’era proprio bisogno di picchiarlo in quattro con i manganelli, mentre diceva basta e aiutatemi? Era necessario colpirlo anche quando si trovava a terra, e poi prenderlo a calci, e immobilizzarlo in posizione prona mentre non riusciva a respirare?". Vedo una grande differenza tra le storie processuali per Lonzi e Aldrovandi. A differenza della scandalosa fine del primo procedimento aperto per Marcello Lonzi, il magistrato è qui dichiaratamente convinto della colpevolezza degli imputati. E quale colpevolezza, e per quale crimine orrendo. "Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono". Pur di fronte a questa sua ferma convinzione, tuttavia, il pm - e noi con lui - non osa pretendere più di tanto. L’omicidio preterintenzionale è punito in Italia con la reclusione da dieci a diciotto anni. È evidente come questo omicidio, nella ricostruzione dell’accusa, lo sia. Ma il delitto è rubricato come omicidio colposo, e il magistrato non ha chiesto neanche il massimo della pena prevista (cinque anni). Tutti noi siamo stati contenti di sapere che comunque una pena, quale che sia, è stata chiesta per i quattro. I poveri genitori, che avevano un figlio e ora non ce l’hanno più per la bravata di quattro poliziotti, sono stati messi in condizione perfino di commuoversi. Perché? Possibile che siano riusciti a farci dare per scontato che i reati commessi da funzionari dello Stato restano impuniti? Possibile che ci paia ovvio che sia una buona notizia che per chi ha massacrato a manganellate un ragazzo indifeso di diciotto anni vengano chiesti, nel quasi silenzio dei media, spiccioli di pena? Giustizia: quasi 64mila detenuti, è necessario un nuovo indulto di Maurizio Regosa
Vita, 24 giugno 2009
Le carceri italiane scoppiano. I detenuti nelle patrie galere hanno superato, e di diverse migliaia, quota 60mila, quella per intenderci che spinse, nel 2006, il Parlamento ad approvare in maniera bipartisan (unici voti contro, quelli di Lega e Idv) il "famigerato" indulto. Siamo ormai ben oltre la capienza regolamentare (43.262 posti, dai quali andrebbero però tolti i circa 3500 dichiarati inagibili il 1 aprile 2009) e quasi oltre il limite di tollerabilità fissato in 63.568 posti. Stando a una rilevazione condotta dal centro studi di Ristretti Orizzonti il 16 giugno si è arrivati a contare 63.460 carcerati, 23.530 dei quali sono stranieri (quasi il 40%).
Una situazione sempre più difficile
Ristretti Orizzonti fornisce anche alcuni dati che sono da considerare (anche per rispondere al nostro sondaggio). Oltre la metà dei detenuti - esattamente 31.306 - sono imputati in attesa di giudizio mentre i condannati sono 30.186, un terzo dei quali, 9.786, hanno subito una condanna con pene inferiori ad un anno condannati hanno pene inferiori ad un anno. Un segnale ulteriore che conferma come la strada delle pene cosiddette alternative sia assai poco praticata. Come pure il numero dei condannati a pene inferiori a 3 anni: sono 19.604 persone che potrebbero essere affidate ai servizi sociali e che invece sono custodite. Interessante pure la graduatoria regionale: l’Emilia Romagna è la regione con il maggior tasso di sovraffollamento (198%), la Lombardia è quella con più detenuti in eccesso (ne ha 8.648 in 5.423 posti e quindi supera la capienza di 3.226 persone; seguono la Sicilia che supera il limite consentito con 2.854 carcerati, la Campania con 2400, il Veneto che si "ferma" a quota 1268 e il Lazio che conta 1185 detenuti in più). Quali siano le conseguenze di questo affollamento è facile immaginare anche in termini sanitari. Per esempio, secondo un’indagine epidemiologica, condotta nel 2007 in 14 delle 205 carceri italiane e resa nota di recente, il 38% dei detenuti risulta affetto da infezione da epatite C.
Che fare?
Nel corso della cerimonia per la Festa della polizia penitenziaria, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha confermato che il suo dicastero pensa di affrontare il problema con un "piano carceri per fronteggiare il sovraffollamento degli istituti penitenziari". "A breve", ha aggiunto, "sarà sottoposto all’attenzione del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e poi del Consiglio dei ministri". Un orientamento che però non convince ad esempio gli operatori. "Nuove carceri ma con quali tempi? Con quali soldi? Con quale personale?" si chiedono quelli di Ristretti Orizzonti, assai scettici sull’ipotesi che sia lo Stato abbia le risorse sufficienti per "garantire la detenzione di 70-80-100mila detenuti". Tutto ciò, aggiungono, "sta avvenendo in nome della "sicurezza", partendo dal falso presupposto che mettendo in carcere sempre più persone la società sia sempre più sicura: invece tutti gli studi in materia hanno provato che la "vera sicurezza" è garantita dalle misure alternative alla detenzione, le sole capaci di ridurre al minimo il rischio della recidiva.
Oltre il tollerabile
Dello stesso parere Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone (il 30 giugno prossimo presenterà, a Roma, la prima Relazione del difensore civico e il Sesto rapporto sulle carceri). "Di fronte alla condizione drammatica di vita nelle carceri italiane, alla incarcerazione di massa di persone con problemi di droga, di adattamento sociale, di integrazione", argomenta Gonnella, "il ministro Alfano si erge a duro repressore della criminalità sostenendo che non si tornerà indietro a inutili perdonismi. In un Paese cattolico speriamo che insorgano le coscienze di fronte a queste gravi dichiarazioni. Il Piano carceri è una bufala visto che in tre anni e mezzo prevede di creare 18mila posti letto mentre ne servirebbero ben 57mila". "I detenuti", prosegue la nota di Gonnella, "crescono di mille unità mensili: si arriverà a 100.000 detenuti entro la fine del 2012. Inoltre il Piano per quasi i due terzi è privo di copertura finanziaria. La soluzione è un’altra. Il 38% dei carcerati è dentro per aver violato una sola norma penale: quella che vieta la detenzione e lo spaccio di droghe. Basterebbe avere il coraggio - come stanno facendo molti paesi occidentali, ultima l’Inghilterra - di avviare politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione dei tossicodipendenti. Basterebbe inoltre non punire con la galera quegli stranieri che non ottemperano all’obbligo di espulsione". Giustizia: Sappe scrive a Berlusconi; servono misure deflattive
Agi, 24 giugno 2009
"L’allarmante situazione delle carceri italiane sta determinando in molti istituti penitenziari tensioni tra i detenuti e inevitabili problemi di sicurezza interna che ricadono sulle donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Da più istituti di pena ci pervengono segnali preoccupanti di manifestazioni di protesta di detenuti. E la situazione rischia di degenerare. Non si può perdere ulteriore tempo". È l’allarme lanciato dal sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe in un telegramma inviato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ed al ministro della Giustizia Angelino Alfano. "Considerato che la capienza regolamentare dei penitenziari italiani è pari a 43.177 posti - ricorda il segretario del Sappe, Donato Capece - i detenuti in eccesso sono 20.283. E si pensi che il Corpo di Polizia penitenziaria è carente di più di 5mila unità. Servono dunque provvedimenti urgenti e concreti. Non c’è tempo di attendere il fantomatico e sconosciuto Piano Carceri del Commissario straordinario Franco Ionta". Il Governo, continua Capece, "abbia il coraggio di far scontare agli arresti domiciliari, che è detenzione a tutti gli effetti, il residuo pena agli oltre 19mila detenuti con pene inferiori ai 3 anni. Avremmo così anche un risparmio di circa 4 milioni di euro al giorno, costando un detenuto in media circa 200 euro al giorno, soldi che potrebbero essere destinati alla riorganizzazione del sistema carcere del Paese e alla ricostruzione dell’Abruzzo". Il Sappe rinnova anche un paio di proposte al Governo: "serve una nuova politica della pena, necessaria e indifferibile - afferma Capece - ed è necessario un ripensamento organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria, prevedendo un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici, come il braccialetto elettronico, che hanno finora fornito in molti Paesi europei una prova indubbiamente positiva". Giustizia: nelle carceri ritornano la tubercolosi e le epatiti virali
Ansa, 24 giugno 2009
Tubercolosi ed epatiti virali tornano nelle carceri. A dirlo è il direttore dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti, Aldo Morrone, in occasione del Sanit, il VI Forum Internazionale della Salute in corso a Roma. "Quella delle carceri è una situazione complessa, dal punto di vista della salute e soprattutto delle malattie infettive", ha spiegato Morrone, "Abbiamo il ritorno della tubercolosi e il grande problema delle epatiti virali che si diffondono in maniera subdola all’interno degli istituti penitenziari". Difficoltà a cui si aggiunge la condizione sociale della maggioranza dei detenuti: "In carcere finiscono soprattutto le persone a maggior rischio di marginalità e di esclusione sociale", ha continuato Morrone, "Si pensi che solo lo 0,1 dei detenuti è laureato. Inoltre si tratta di persone che non hanno la possibilità di ottenere arresti domiciliari perché si trovano, di fatto, a non avere domicilio". Una situazione preoccupante per la quale occorre trovare una soluzione. Per questo, "i garanti dei detenuti di tutte le regioni italiane si incontreranno per mettere a punto un impegno strutturale del servizio sanitario nazionale, all’indomani della riforma della medicina penitenziaria (che prevede la diagnosi e la cura dei detenuti a carico del servizio sanitario nazionale) così da avere continuità terapeutica e garantire ai detenuti di essere accolti nelle varie Asl di appartenenza una volta usciti dal carcere". Giustizia: Cgil; nelle carceri serve più prevenzione alle malattie
www.rassegna.it, 24 giugno 2009
"Apprendiamo con piacere che il prossimo piano di prevenzione nazionale per il triennio 2010-2012 porrà al centro delle sue priorità l’importanza delle persone, dei cittadini, almeno a quanto leggiamo dalle dichiarazioni del Vice Ministro On. Ferruccio Fazio". Lo afferma in una nota la segretaria nazionale della Fp Cgil, Rossana Dettori. "Anche la sua dichiarazione sulla centralità della prevenzione universale per tutti i cittadini trova la Fp Cgil pienamente d’accordo: abbiamo sempre sostenuto che un Servizio Sanitario Nazionale universalista e solidale dovesse rivolgere la sua primaria attenzione alla prevenzione delle malattie ed alla promozione della salute". In questo senso il sindacato ribadisce la richiesta di prevedere un’apposita sezione che riguardi le attività di prevenzione nelle carceri italiane. "Il nostro sistema carcerario - dice - ha urgentemente bisogno di un piano che sappia offrire, attraverso un suo sviluppo articolato ed innovativo, opportunità concrete di attivazione di percorsi per attività di prevenzione e promozione della salute sui rischi cardiovascolare e sulle recidive, sulle patologie epatiche, osteoarticolari e gastrointestinali". "I 64.000 detenuti hanno bisogno di un piano che prefiguri attività di prevenzione anche per le patologie infettive e dell’apparato masticatorio e, più in generale di quelle legate allo stato di tossicodipendenza, così come v’è necessità che la questione delle condizioni di vita e della salubrità degli ambienti sia rimessa al centro delle attività dei servizi sanitari regionali". "Non si può parlare di prevenzione universale per tutti i cittadini - conclude Dettori -, né di prevenzione secondaria per le popolazioni a rischio senza un intervento specifico, di programma e di finanziamento, anche per quella parte di cittadini momentaneamente privati della libertà personale". Giustizia: non solo il lavoro; serve più "mediazione culturale"
Redattore Sociale - Dire, 24 giugno 2009
Oltre 63 mila detenuti in Italia, 5 mila solo nel Lazio e il loro numero "tende ad aumentare di giorno in giorno": una situazione che rispecchia quella che si aveva poco tempo prima dell’indulto e che rende evidente che in carcere non c’è bisogno solo di inserimento lavorativo, ma anche di mediazione culturale. Del resto, "a che serve la pena se è solo la pena"? Così Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio nel corso dell’incontro promosso da Italia Lavoro per presentare i risultati del progetto "Indulto" e fare un primo bilancio degli interventi per il reinserimento lavorativo degli ex detenuti. Per Marroni "l’inserimento lavorativo va bene quando la pena finisce, ma è necessario anche un investimento culturale e una formazione alla legalità, insieme ad una forte mediazione culturale; tutte cose particolarmente difficili" in un contesto in cui "le carceri sono già sovraffollate come prima dell’indulto ed esiste il problema della popolazione straniera". All’appuntamento hanno preso parte le istituzioni, in primis la Provincia di Roma e il Comune, firmatari nel 2007 del protocollo d’intesa che diede il via agli interventi del Progetto Indulto a Roma; ma anche la Regione Lazio, l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna), il Prap (Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria), il ministero del Lavoro e il Garante regionale dei diritti dei detenuti. Tra gli invitati, anche i rappresentanti dei Servizi per l’impiego e del Col (centri orientamento lavoro) carceri del comune di Roma, ed esponenti delle cooperative sociali e dell’imprenditoria privata locale che sono state parte attiva del progetto nel Lazio. Un’occasione per confrontarsi sulla possibilità di dare una risposta non emergenziale ma sistematica e strutturata al problema dell’inclusione socio-lavorativa degli ex-detenuti. "Le azioni svolte sul territorio nell’ambito del progetto - afferma invece Massimiliano Smeriglio, assessore alle politiche del Lavoro e della Formazione professionale della provincia di Roma - hanno permesso di creare una rete attiva e una governance dell’intervento che ha favorito la creazione di un modello efficace nel campo del reinserimento lavorativo dei detenuti. Con 265 beneficiari avviati a tirocinio e il 36% di assunzioni a tirocinio concluso, credo si sia dimostrata la validità di un progetto che ha puntato a migliorare l’occupabilità di persone altrimenti escluse dal mercato del lavoro. Contemporaneamente si è dimostrata la fattibilità di interventi strutturali e sistematici che quindi vogliono andare oltre la risposta emergenziale, con l’ambizione di inibire e limitare il fenomeno della recidività". Giustizia: la morte annunciata di Khaled... detenuto a 79 anni di Paolo Persichetti
Liberazione, 24 giugno 2009
Khaled Husseini, 79 anni, il più anziano prigioniero politico palestinese rinchiuso nelle carceri italiane, è morto lunedì scorso in una cella del carcere di Benevento. Verso le quattro del mattino aveva accusato un primo malore. Intorno alle sei ha nuovamente lamentato dolori, ma all’arrivo dell’ambulanza era già morto. Il medico legale ha ipotizzato un infarto. Ora sarà l’autopsia, disposta dalla magistratura, a stabilire le cause esatte del decesso. Sembra palesarsi tuttavia l’ennesimo caso d’incuria carceraria. La situazione di Husseini era nota da tempo, denunciata più volte da avvocati, associazioni e parlamentari che l’avevano visitato. Quasi ottantenne e in condizioni di salute precarie, subiva un ottuso accanimento punitivo. Una morte annunciata la sua. La magistratura di sorveglianza è rimasta sempre sorda alle richieste di permessi per facilitarne le cure in strutture specializzate. Era in carcere da 18 anni per una condanna in contumacia all’ergastolo, inflitta nel processo d’appello per il sequestro della nave Achille Lauro e l’uccisione di un passeggero. Fatti per i quali non aveva nemmeno una responsabilità indiretta. Estradato dalla Grecia nel 1996, dopo l’attentato alle Torri gemelle e la paranoia islamofoba, era finito in un reparto di carcere duro per detenuti politici islamici. Lui che islamista non era, ma laico e combattente per la libertà del suo popolo. Segno di un’epoca che ha bisogno di mascherare sempre il volto di chi considera nemico. Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 24 giugno 2009
A Potenza, in 5 dentro una cella. Caro Arena, mi trovo qui nel piccolo carcere di Potenza, dove più volte mi hanno messo in isolamento. Ho passato giorni e giorni in una cella da solo, senza televisione, senza rasoio o specchio e cose del genere. È un regime disumano che distruggere psicologicamente il detenuto. Nelle celle comuni non va molto meglio, visto che a causa del sovraffollamento siamo costretti a vivere in 5 detenuti dentro una piccola cella. Inoltre, non riusciamo a ricevere con regolarità le lettere scritte dai nostri familiari. Nel mese di febbraio per esempio, mia sorella mi ha scritto una lettera che mi informava della morte di mia madre. Beh, io quella lettera non l’ho mai ricevuta. Ma non basta. Qui nel carcere di Potenza c’è anche violenza. Qualche tempo fa un detenuto straniero chiedeva una medicina per il mal di testa. È arrivato un ispettore con altri 4 agenti. Lo hanno fatto uscire dalla cella e l’ispettore gli ha dato uno schiaffo. A qual punto il detenuto a risposto con un altro schiaffo e tutti e 5 gli agenti hanno iniziato a menarlo in tutto il corpo. Noi che stavamo lì abbiamo iniziato a protestare, chiedendogli di fermarsi... ma loro hanno continuato a picchiarlo. Questo ed altro accade nel carcere di Potenza. Con stima e rispetto.
Giuseppe, dal carcere di Potenza
Ad Arezzo, tra le zecche e i topi. Cara Radiocarcere, Ti scrivo dal piccolo e vecchio carcere di Arezzo. Un carcere dove viviamo come animali. Le nostre celle sono tutte buie e rovinate. I muri sono scrostati oppure neri perché pieni di sporcizia. Una sporcizia antica quella del carcere di Arezzo, datata 1929. Il carcere di Arezzo potrebbe contenere 65 detenuti. Oggi siamo in 150. Questo vuol dire che nelle celle piccole siamo in 4 detenuti e in quelle più grandi stiamo in 10. Una vita difficile, che ci costringe a stare in cella per 21 ore al giorno. Pensa che la scorsa settimana abbiamo addirittura trovato una zecca nel bagno della cella, e poi altre zecche nei materassi. Ma non solo, nel carcere di Arezzo si iniziano a vedere i topi. Topi che sono sempre più numerosi. I bagni delle nostre celle sono distrutti e fanno veramente schifo, così l’altra settimana abbiamo chiesto la possibilità di riparali e di poterli riverniciare, ma la risposta è stata negativa… non possiamo farlo. Per noi qui nel carcere di Arezzo c’è solo il degrado e nient’altro. Non c’è lavoro né possibilità di studiare. Nulla. Anche quando facciamo l’ora d’aria è un’umiliazione. Infatti, il cortile è talmente piccolo che siamo costretti a girare in tondo come dei pazzi. Ma davvero noi dobbiamo scontare la nostra pena in questo degrado?
Gianluca, dal carcere di Arezzo Emilia Romagna: Sappe; in regione c’è l'affollamento massimo
Ansa, 24 giugno 2009
La situazione delle carceri in Italia è davvero preoccupante, ma ciò che preoccupa maggiormente è l’assenza di idonee e immediate iniziative politico-amministrative volte a fronteggiare tale grave situazione. L’Emilia Romagna, tra tutte le Regioni d’Italia, è quella che preoccupa maggiormente, soprattutto in relazione al sovraffollamento e alla carenza di personale. Infatti, l’Emilia Romagna è la Regione che ha il maggior sovraffollamento e la maggiore carenza di personale di polizia penitenziaria. Per quanto riguarda i detenuti, a fronte di una capienza di 2.308 detenuti, attualmente ne abbiamo 4.496, con una sovrabbondanza di 2.188 unità. Per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria, a fronte di un organico previsto di 2401 unità, attualmente ce ne sono 1.739, con una carenza di 662 unità. È per questa ragione - sostiene Giovanni Battista Durante, Segretario Generale Aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria - che le parole pronunciate dal Provveditore regionale, nell’occasione della diffusione della relazione annuale da parte del garante (di Bologna) dei diritti delle persone private della libertà, circa l’intenzione di distaccare personale di polizia penitenziaria all’ufficio di sorveglianza della stessa città, ci lasciano a dir poco perplessi e ci inducono a ritenere che se sono vere sono parole in libertà, dal senno fuggite. Il Provveditore regionale, a fronte della carenza di personale in Regione di 662 unità, a Bologna ne mancano 171, dovrebbe spiegare dove prende gli agenti da mandare all’ufficio di sorveglianza. Il Sappe sta chiedendo da tempo un’assunzione straordinaria di 5.000 agenti in modo da ripianare l’attuale carenza di personale esistente in tutti gli istituti del Paese, oltre ad una inversione di tendenza sulla politica penitenziaria. Non è sufficiente costruire solo carceri, atteso che negli istituti si verifica un trend di crescita di oltre 1.000 detenuti al mese. Dall’indulto ad oggi i detenuti sono passati da circa 34.000 a oltre 63.000, con un aumento di circa trentamila in meno di tre anni. È opportuno ricorrere alle misure alternative ed ai lavori socialmente utili, per i condannati a pene inferiori ai tre anni. Inoltre, bisogna fare in modo che si giunga ad un accordo con i magistrati, in modo che gli stessi si facciano carico, come peraltro previsto dal codice di procedura penale, di venire in carcere a fare le udienze di convalida. Ciò comporterebbe un notevole risparmio di risorse che potrebbero essere impiegate in altre attività. Basti pensare che solo nel corso del 2008 la polizia penitenziaria ha svolto 57.000 traduzioni dal carcere alle aule di giustizia.
Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Lazio: detenuti tossicodipendenti; un manuale per gli operatori
Redattore Sociale - Dire, 24 giugno 2009
I detenuti presenti nei 18 penitenziari del Lazio sono 5.634, di cui 3.622 italiani e 2.012 stranieri. Un terzo della popolazione carceraria è tossicodipendente, con una netta prevalenza di uomini (1.655) rispetto alle donne (74), e circa la metà appartiene alla cosiddetta "area del consumo problematico" di sostanze stupefacenti, con un’incidenza notevolmente superiore alla popolazione non reclusa. Questa, secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati a ieri, la fotografia dei detenuti tossicodipendenti che affollano le carceri laziali. Agli operatori dei Sert che li assistono quotidianamente tra le mura dei penitenziari è dedicato il manuale redatto dall’area di programmazione dei servizi per i soggetti deboli della Regione Lazio, in collaborazione con un gruppo di lavoro tecnico composto da esperti del settore, e presentato questa mattina durante un convegno che si è svolto alla Regione Lazio al quale ha partecipato, fra gli altri, il vice presidente della giunta, Esterino Montino. Il volume, pubblicato come supplemento del Burl numero 21 del 6 giugno scorso, definisce gli obiettivi e le politiche in favore dei detenuti tossicodipendenti, le risorse necessarie ad attuare gli interventi, il metodo e gli strumenti operativi messi in campo per assistere gli utenti, e il sistema di monitoraggio e di verifica dei risultati raggiunti. Con questo manuale, primo in Italia, si stabiliscono criteri, standard e protocolli operativi condivisi tra tutti i Sert penitenziari. (Scarica il manuale completo - in pdf) Genova: Uil; a Marassi detenuti in rivolta, la situazione è grave
Adnkronos, 24 giugno 2009
"Ieri sera intorno alle ore 23 circa i detenuti della Casa Circondariale Genova Marassi hanno dato vita ad una vera e propria rivolta. Con l’incendio di materassi, schiamazzi, urla e battitura delle stoviglie". A darne notizia è Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil Pa Penitenziari sottolineando come "nonostante le poche unità in servizio la Polizia Penitenziaria in servizio a Genova Marassi sia riuscita, comunque, a gestire la protesta e mantenere l’istituto in sicurezza". Proprio nelle scorse ore la Uil Pa Penitenziari aveva chiesto al Dap il trasferimento del Provveditore Regionale che più volte ha manifestato l’intenzione di essere destinato ad altra sede. "Ormai - evidenzia Pagani - è anche un problema di ordine pubblico, di ciò sia consapevole chi ha diretta responsabilità nella gestione. A cominciare dal provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria a finire al Prefetto di Genova. Stanotte è andata bene, per così dire. Non si registrano feriti o contusi. Ma potrebbe non essere sempre così". "È pur vero - aggiunge Pagani - che quando si ammassano esseri umani in pochi centimetri quadrati dove manca pure l’aria per respirare occorre mettere nel conto questo tipo di reazione. A Genova il quadro è ancora più drammatico considerata la grave carenza organica del personale di polizia penitenziaria e amministrativo". Fa eco da Catania dov’è in corso la riunione della Direzione Nazionale, Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari. "Non c’è peggio sordo di chi non vuol sentire. Avevamo lanciato per tempo l’allarme. Eravamo consapevoli che prima o poi sarebbero scoppiate le rivolte. Genova non è che l’ultimo episodio di una scia di tensioni che non si sono ancora manifestate nella loro completezza ed in tutta la loro violenza". "D’altro canto - aggiunge - il Ministro Alfano e il Governo intero ancora si ostinano a determinare quale unica soluzione la costruzione di nuove carceri. Invece bisogna determinare politiche deflattive del sovrappopolamento e implementare urgentemente il personale. Quello in servizio è ormai sfiancato, sfiduciato, depresso, demotivato. La situazione sta precipitando di minuto in minuto e abbiamo piena consapevolezza che potrebbe divenire ingestibile, con le nefaste conseguenze che ciò significa. Speriamo - conclude - che nei palazzi romani qualcuno si svegli, prima che sia troppo tardi". Roma: la protesta parte da Rebibbia e i giornali non ne parlano
Adnkronos, 24 giugno 2009
I benefici dell’indulto sono svaniti già da tempo e ora che l’estate avanza, il caldo peggiora la situazione nelle carceri italiane. I detenuti insorgono per il sovraffollamento dei penitenziari e secondo quanto riferisce il quotidiano genovese Secolo XIX, il seme della protesta si nasconde a Roma nel carcere di Rebibbia. I giornali romani però non ne parlano, la notizia è arrivata fino a Genova, dove nel carcere di Marassi i detenuti sono in rivolta da martedì sera a causa dell’invivibilità delle celle. Marassi, a differenza di Rebibbia, si trova in una zona molto abitata e la protesta delle gamelle è stata sentita dai residenti che vivono nelle case circostanti. I detenuti infatti hanno cominciato dalle 22.30 a sbattere contro le sbarre delle finestre che si affacciano su via Clavarezza, come unico modo per far sentire la propria voce all’esterno. Inizialmente le guardie penitenziarie pensavano che, come ogni estate, le celle fossero in fermento a causa del caldo: in realtà era la risposta dei detenuti all’appello di Rebibbia. I problemi di sovraffollamento erano già emersi nei giorni scorsi in tutto il Paese; in particolare, a Lecce, anche la polizia penitenziaria aveva protestato per le condizioni lavorative. Reggio Emilia: Sappe; situazione esplosiva, si rischia una rivolta
La Gazzetta di Reggio, 24 giugno 2009
Le considerazioni più leggere sono: "Un livello di disumanità da non ritorno, il pianeta carcere continua ad affondare, una situazione esplosiva". È la sintesi di una condizione di vita e di lavoro che si registra da mesi all’interno del carcere reggiano della Pulce e della struttura dell’Opg. E poi l’affondo del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria: "C’è il rischio di una rivolta dei detenuti". "La Casa Circondariale e l’Opg di Reggio versano in condizioni di assoluta e piena emergenza, riscontrate da tutte le autorità che hanno visitato le strutture di via Settembrini". Così afferma Michele Malorni, segretario provinciale del Sappe, il sindacato autonomo degli agenti di polizia penitenziaria, che da mesi sta agitando l’allarme nelle carceri reggiane. I principali problemi delle strutture carcerarie sono tre: la gravissima carenza di personale della polizia penitenziaria, il sovraffollamento delle strutture di pena e i tagli finanziari. "Ma a noi - riprende Malorni - fanno paura soprattutto l’indifferenza o la poca attenzione prestata dalle istituzioni ai nostri problemi". E continua, affondando la lama: "Le carceri di via Settembrini hanno raggiunto un livello di disumanità da non ritorno. Mai in precedenza nella casa circondariale di Reggio vi erano stati rinchiusi 376 detenuti, accatastati come polli in batteria senza avere a loro disposizione spazi adatti per il pernottamento e il personale appartenente all’area educativa che possa garantire il necessario sostegno psicologico per attutire lo stress psichico". La situazione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario non è migliore: "Mai prima - continua Malorni - l’Opg aveva ricevuto 335 internati, in spazi ridotti e non conformi alle particolari patologie psichiche". Dunque gli istituti penitenziari di Reggio oggi ospitano circa 700 detenuti, tutti ristretti in piccoli spazi: le due strutture dovrebbero ospitare circa 300 persone (160 la Pulce e 140 l’Opg), cioè il 50 per cento in meno. "L’attuale situazione penitenziaria è davvero preoccupante ed esplosiva". Poi le prime richieste, soprattutto per evitare il caos: "Per ridurre il continuo turnover pari a circa 120 detenuti al mese - propone Malorni - chiediamo che le persone fermate e arrestate che saranno sottoposte ad una udienza per direttissima non facciano ingresso in istituto e che permangano nelle camere di sicurezza delle forze di polizia". E infine: "In considerazione che il personale di polizia penitenziaria operante nei turni notturni è ridotto al minimo, per ovvie ragioni di opportunità e sicurezza, si chiede che gli istituti penitenziari restino chiusi dalle 24 alle 8". E sono già in programma pesanti forme di protesta da parte degli agenti. Napoli: aumento minori detenuti si abbassa età di primo reato
Redattore Sociale - Dire, 24 giugno 2009
Nel primo semestre del 2009 reclusi al minorile di Nisida 117 ragazzi (176 in tutto il 2008), una "vera e propria emergenza". Cresce il numero di chi commette reati penali gravi, il più diffuso è lo spaccio di droga. A Napoli aumentano i minori che finiscono in carcere, mentre si abbassa ad ogni nuova generazione l’età del primo reato. Solo nel primo semestre del 2009 sono stati 117 i ragazzi che hanno fatto ingresso all’istituto di pena minorile di Nisida, contro i 176 dell’intero anno precedente. A lanciare l’allarme sono proprio i responsabili del penitenziario minorile che, nel corso della festa della Polizia penitenziaria settore minori che si è svolta lo scorso 19 giugno nell’isola napoletana, hanno parlato di "vera e propria emergenza". Dal rapporto diffuso nei giorni scorsi a Napoli, emerge con chiarezza come stiano cambiando sempre più la tipologia e il grado di responsabilità dei reati in cui vengono coinvolti i minori. Lo scippo, il borseggio, l’oltraggio al patrimonio sembrano essere ormai ricordi del passato. Cresce il numero di giovani che commette reati penali gravi, il più diffuso è lo spaccio di droga. Con il compito di vedette o di piccoli tutori della lunga fila di tossicodipendenti, i giovanissimi, arruolati dalla camorra, possono arrivare a guadagnare cifre da capogiro. La direzione di Nisida si è anche detta "particolarmente preoccupata per la situazione di grave sovraffollamento dell’istituto". La struttura, infatti, ha già ampiamente superato il numero massimo di ospiti, alloggiando il doppio dei ragazzi per i quali è prevista e garantita l’accoglienza, facendo registrare una percentuale di popolazione per chilometro quadrato di poco inferiore a quella del carcere di Poggioreale. "Oggi la struttura assicura una recettività che è molto al di sotto del parametro di idoneità previsto dal ministero della Sanità - denunciano dall’istituto - e non è in grado di garantire opportunità formative ed educative qualificate a tutti i reclusi. I ragazzi in uscita per il sovraffollamento sono stati 30 e 35 quelli trasferiti in comunità. Ogni progetto prosegue nella mancanza di fondi e solo grazie alle associazioni o ai singoli cittadini". Intanto, nel primo semestre dell’anno, due ragazzi hanno cominciato un tirocinio in alcune aziende del territorio, dieci hanno conseguito la licenza media e quattro quella elementare, mentre sono state 99 le uscite per attività culturali fuori dall’istituto. Gli ospiti di Nisida hanno partecipato a diverse attività rieducative, tra cui un progetto di educazione ad una genitorialità responsabile, coordinato dalla cooperativa sociale L’Orsa Maggiore, e uno di recupero dell’asparago selvatico sostenuto dal Rotary Club Napoli sud ovest, mentre è in partenza "Nisida come parco letterario", un progetto per la valorizzazione del patrimonio storico-culturale dell’isola. Bologna: Garante; rischio "materassi a terra" per nuovi entrati
Ansa, 24 giugno 2009
1.168 persone detenute nel carcere della Dozza di Bologna, e si parla di materassi per terra per fare posto ai nuovi entrati. Una situazione che secondo la denuncia del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Bologna, avv. Desi Bruno, parla in maniera netta di un carcere "i cui numeri sono ormai insostenibili". "A Bologna - osserva il Garante - se da una parte i numeri delle persone ristrette continuano a crescere in modo inarrestabile, dall’altra perdura la cronica carenza di personale di Polizia penitenziaria". Pisa: Polo Universitario in carcere; seminario sulle prospettive
Il Tirreno, 24 giugno 2009
Domani, dalle 9 nell’aula magna della facoltà di scienze politiche, si svolgerà un seminario sulle attività del Polo universitario penitenziario "Renzo Corticelli" di Pisa, dal titolo "L’Università nel Don Bosco: prospettive sul polo penitenziario, oggi". Il seminario, organizzato dal dipartimento di scienze politiche e sociali e dal dottorato in storia e sociologia della modernità, vedrà la partecipazione di autorità accademiche, rappresentanti delle istituzioni, operatori del settore, delegati per il Polo delle varie facoltà e studenti del Polo. Sulla base delle esperienze accumulate in questi anni e delle problematiche emerse, i soggetti coinvolti saranno chiamati a tracciare un primo bilancio e indicare le prospettive. Dal 2003, a seguito della stipula di un protocollo d’intesa con il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e la Regione Toscana, l’ateneo pisano ha fatto il suo ingresso all’interno del "Don Bosco". L’accordo ha rappresentato la formalizzazione di una serie di attività articolate in lezioni, tutoring e organizzazione di seminari: vi sono impegnati docenti, ricercatori e dottorandi a sostegno dei detenuti iscritti, quali studenti dell’Università stessa. Verona: "Evasioni… poetiche", giornata letteraria a Montorio
Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2009
"Tra gli esami di scuola media e quelli delle superiori il Ctp Carducci ha individuato nel 19 giugno il giorno più adatto alla festa di conclusione dell’anno scolastico; è un giorno buono per la consegna dei diplomi di terza media e dei corsi dell’istituto agrario "Stefani" e alberghiero "Berti" di Verona. Anche per gli allievi e le allieve dei corsi di alfabetizzazione in lingua italiana è un giorno importante, è la soddisfazione di aver frequentato la scuola, di aver imparato a capire e a parlare, ma anche, per gli analfabeti, di saper scrivere e leggere, ancorché in lingua straniera. L’occasione pressoché unica di vedere la partecipazione anche della sezione femminile fa declinare in festa questo giorno che assume, da sei anni ormai, caratteristiche di evento con diverse sfaccettature: chi ha frequentato corsi in partenariato con la scuola ha spazio per rendere partecipi i circa novanta invitati dal mondo delle istituzioni e della cittadinanza. Nella mattinata, scandita da momenti di musica e canto del corso di chitarra della sezione femminile, con animazione delle donne nigeriane, si è dato riconoscimento ai corsi di cinofilia per addestramento finalizzato all’utilizzo nel mondo della disabilità e al progetto H-Argo per il superamento delle discriminazioni e delle barriere culturali che imprigionano persone con differenti handicap ma anche persone detenute o che sono state in carcere. Di questi progetti viene data testimonianza nel nuovo numero di Micro Cosmo che esce in allegato a Ristretti Orizzonti. Infine, con grande attesa di tutti, sono stati premiati i vincitori, ai cui premi ha contribuito il Banco Popolare di Verona e Novara, del quinto concorso letterario indetto sempre dal Ctp Carducci per la casa circondariale di Montorio, avente come tema, in questa edizione, "Attese". I testi pervenuti sono stati pubblicati a cura della Mondadori Printing Gruppo Pozzoni spa Verona, andando ad arricchire una piccola collana ora composta di cinque raccolte."
Paola Tacchella Lodi: il carcere si "apre" alla città con musica Benny Goodman
Il Cittadino, 24 giugno 2009
Il carcere si apre alla città. Trait d’union la buona musica. Oggi pomeriggio, dalle 18.30, si svolgerà nel cortile Passeggi del carcere, il concerto jazz "Omaggio a Benny Goodman", organizzato dall’istituto penitenziario all’interno del progetto "Viviamo il nostro quartiere". "È una serata tutta dedicata al jazz, dalla musica, alla cena e soprattutto all’atmosfera - spiega la direttrice Stefania Mussio -. La scelta degli artisti, musicisti di grande bravura, il menù scelto con attenzione per una cena a tema e l’allestimento del cortile del passeggio sono tutti finalizzati a creare una situazione accogliente e suggestiva. Il quartetto propone originali versioni di brani tratti dal repertorio swing e main-stream ed è formato da professionisti esperti e appassionati: Alfredo Ferrario, clarinetto, Paolo Alderighi, pianoforte, Roberto Piccolo, contrabbasso, Gianni Cazzola, batteria. La serata è inserita all’interno di una serie di eventi che avranno luogo in estate sempre all’interno della casa circondariale. Ogni iniziativa è curata perché vuole essere l’espressione di un momento di confronto e scambio con la comunità esterna". Le porte del carcere si aprono alla città. "L’occasione è fornita dal concerto - ribadisce Mussio -, ma il vero intento è che la comunità condivida questa serata con i detenuti: così si creano dei momenti di normale reciprocità. Non a caso questa ed altre iniziative volute dal carcere sono inserite in Lodi al sole. Questa partecipazione è l’espressione di un sempre più reale collegamento tra il carcere e la città: sensibilizza il territorio e favorisce il reinserimento delle persone al momento della scarcerazione. La sicurezza si può fare in molti modi, uno senza dubbio è con la solidarietà e la partecipazione". Immigrazione: Europa; la disinformazione alimenta il razzismo
Redattore Sociale - Dire, 24 giugno 2009
Rapporto dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali. Kjaerum: "La maggioranza delle vittime non si rende conto che ciò che viene fatto loro è illegale. Altri non sanno a chi rivolgersi per sporgere denuncia". "La grande maggioranza delle vittime di discriminazione non si rende conto che ciò che viene fatto loro è illegale. Contemporaneamente, sono in altrettanti a non sapere a chi rivolgersi per sporgere denuncia in caso di abusi e violazioni. La conseguenza è un’incidenza molto diffusa di discriminazioni e razzismo": questo il commento di Morten Kjaerum al rapporto annuale che l’Agenzia europea per i diritti fondamentali (Fra), da lui diretta, ha pubblicato oggi. "Ognuno ha il diritto di essere informato sui propri diritti e avere accesso alla giustizia, e spetta ai governi garantirlo, non solo sulla carta ma anche nei fatti", conclude Kjaerum. Il rapporto della Fra raccoglie i risultati di un intero anno di studi, relazioni e altre attività dell’Agenzia riguardanti i diritti fondamentali in Europa. Il quadro che ne emerge non è roseo: la discriminazione (come mostrano ad esempio i due rapporti Midis su rom e musulmani pubblicati nel corso dell’anno) è ancora un fenomeno ampiamente diffuso, così come la pochissima consapevolezza dei propri diritti da parte delle vittime. Uno degli elementi indispensabili per migliorare le politiche esistenti al fine di correggere la situazione è, nell’opinione degli esperti della Fra, una raccolta di dati il più possibile precisa. Ciò risulta essere ben distante dalla situazione reale: di 27 Stati membri, 15 non hanno datti pubblici disponibili sui crimini razzisti o legati all’odio (come l’omofobia o l’islamofobia), 9 ne hanno parziali, e solo 3 rispondono ai criteri più rigorosi. L’Italia, dal canto suo, rispetto al 2008, ha perso posizioni in graduatoria, passando assieme a Malta e Portogallo, nella categoria peggiore, ovvero dei paesi che non hanno alcun dato disponibile. La presidente del consiglio d’amministrazione dell’Agenzia, Anastasia Crickley, invita infine gli Stati membri ad approvare al più presto la direttiva orizzontale per coprire anche fuori dall’ambito lavorativo i fattori di discriminazione diversi da razza e genere, ovvero disabilità, credo religioso, orientamento sessuale ed età. Droghe: manca un approccio politico per "riduzione del danno"
Redattore Sociale - Dire, 24 giugno 2009
Pochi e disomogenei i servizi sul territorio, dalle unità di strada ai drop in: lo rileva una ricerca del Cnca Umbria discussa oggi a Perugia. Serpelloni, Dipartimento Politiche Antidroga: "Il primo passo? Inserire questi servizi nei Lea". Le politiche di riduzione del danno in Italia non hanno fatto ancora passi significativi. È la constatazione da cui è partito il convegno " Chi ha paura di zia Carolina?", nell’ambito dell’iniziativa "In-dipendenze culturali", giunta alla sua terza edizione e in programma oggi a Perugia. Una giornata di studio e dibattito promossa e organizzata dal Cnca Umbria, in collaborazione con la regione ed il comune di Perugia. Le strategie di riduzione del danno sono rivolte essenzialmente ai tossicodipendenti "in fase attiva", per i quali non è ancora tempo di trattamenti di recupero che risolvano in maniera stabile le problematiche legate al consumo di droga. Ma, dopo oltre 15 anni di sperimentazione di questo servizio in Italia, il panorama degli interventi continua ad essere quanto mai eterogeneo e diversificato. A confermarlo è una ricerca realizzata dal Cnca Umbria su "Tossicodipendenze. Servizi a bassa soglia e accesso al sistema dei servizi", presentata oggi nell’ambito del convegno. "Una indagine difficile e complessa che non ci ha permesso di avere dati certi sul numero e la tipologia dei servizi di riduzione del danno presenti sul territorio - afferma Riccardo De Facci, referente dipendenze del Cnca Umbria e coordinatore della ricerca - la prima fase dell’indagine, svolta da luglio a dicembre 2008, è stata dedicata al censimento in tutte le regioni italiane dei servizi di riduzione del danno e riduzione dei rischi. Sono stati censiti 240 servizi, definiti di bassa soglia, ma questa rilevazione non ci ha soddisfatto e abbiamo utilizzato una griglia più strutturata. Alla fine, il censimento ha individuato 156 servizi con caratteristiche più precise di riduzione del danno e da questi è stato estratto un campione di 57". I dati finali del censimento mostrano una grande disomogeneità sul territorio, con regioni come l’Abruzzo, il Molise e la Valle d’Aosta in cui non ve ne è traccia, e il Sud ancora lontano dai livelli di organizzazione che invece si osservano al Centro- nord. "Abbiamo comunque rilevato - continua De Facci - che i servizi presenti si stanno specializzando: le unità di strada lavorano soprattutto sul piano sanitario, contribuendo a ridurre i rischi di infezione delle patologie correlate all’uso di droga, mentre i "drop in" diventano fondamentali per fornire agli utenti più problematici quel minimo di servizio sociale, come mensa, doccia, lavanderia, utile per la loro sussistenza. Tutto questo grazie anche al lavoro del privato sociale e delle strutture, come il Cnca, che hanno creato negli anni una rete virtuosa di competenze e vigilanza". Quello di cui si sente ancora la mancanza è un approccio globale e "politico" alle strategie di riduzione del danno. Considerazione che, seppure declinata sotto diverse voci, viene condivisa dai rappresentanti di molte associazioni e comunità e che è arrivata dritta al tavolo della discussione sulle Linee guida, redatte dal Dipartimento Politiche Antidroga della presidenza del consiglio dei ministri. "È necessario uscire dalla logica della discussione astratta e rendere invece le strategie di riduzione del danno invasive e permanenti - ha sottolineato il direttore del Dipartimento, Giovanni Serpelloni - un primo passo è quello di inserire questi servizi nell’ambito dei Lea, creando nel contempo una struttura centrale stabile, all’interno del Dipartimento, che coordini gli interventi, distribuisca le risorse secondo criteri di sostenibilità ed efficacia e, infine, svolga un monitoraggio costante sull’effettiva utilità dei servizi". Le priorità da individuare prima di avviare le azioni concrete sono, secondo Serpelloni, la precocità di contatto, la riduzione della mortalità e dell’invalidità ed il miglioramento della qualità della vita delle persone coinvolte. "Obiettivi finali - ribadisce il direttore del Dipartimento - sono la progressiva uscita dalla dipendenza e il reinserimento sociale e lavorativo". Proprio l’abbandono della dipendenza è stato stigmatizzato da Beppe Vaccari di Itaca Italia, il quale ha messo in evidenza come "si continui ad associare la riduzione del danno con la prevenzione delle patologie correlate e con l’abbandono della dipendenza. Se si continua a mettere insieme così i piani di programmazione e di intervento non si va da nessuna parte e l’approccio al problema rimarrà sempre ideologico e politico". "La riduzione del danno - conclude polemicamente Vaccari - va vista in una visione molto più ampia che tenga conto dei nuovi consumi, delle nuove droghe e dei nuovi rischi per la salute". Guardare all’Europa e alle politiche attuate in paesi come la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia, può aiutare. È il richiamo fatto da Hugo Luck, rappresentante dell’International Drug policy Consortium. Luck parla di riduzione del danno "non come una semplice serie di attività, ma come un insieme omogeneo di principi e di politiche che si muovono entro uno spirito di collaborazione e sinergia tra istituzioni e associazioni". Luck ha delineato la cosiddetta "strategia dei quattro pilastri": la prevenzione, la riduzione del rischio, il contrasto e la terapia. "Una strategia adottata già in Canada e Australia - spiega Luck - con buoni risultati e approvata in linea di principio anche dall’Unione Europea". Spetta ad ogni singolo stato trovare le giuste partnership e modulare interventi e risorse in modo bilanciato". Politiche attive, dunque, e slegate da preconcetti ideologici. Perché quello che c’è in gioco come sottolinea ancora Vaccari "è la domanda pressante di salute pubblica, ma anche di intervento sociale nell’ottica di un welfare moderno e sempre più lungimirante". Afghanistan: ex detenuti carcere di Bagram denunciano torture
Asca, 24 giugno 2009
Ex detenuti del carcere di Bagram, la più importante base militare americana in Afghanistan, hanno denunciato di aver subito numerose sevizie. È quanto emerge da un’inchiesta pubblicata oggi dalla Bbc. Incarcerati a Bagram tra il 2002 e il 2008, questi ex detenuti hanno raccontato alla Bbc di essere stati picchiati, privati del sonno o minacciati con dei cani. L’organo di informazione radiotelevisiva britannico ha interrogato 27 ex prigionieri che vivono in Afghanistan in un periodo di due mesi. Secondo la Bbc, questi ex prigionieri erano sospettati di appartenere ad Al-Qaeda o di essere dei talebani, o di sostenerli. Nessuno è mai stato incriminato, né processato, e alcuni non hanno nemmeno ricevuto delle scuse dopo la loro liberazione. Il Pentagono ha respinto le accuse e ha assicurato che tutti i detenuti di Bagram sono trattati in modo umano.
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